Amianto: 115 vittime fra gli ex dipendenti della Sacelit

Il decesso di un ex operaio, dopo quarant’anni di malattia, porta a 115 il numero delle vittime della fabbrica siciliana di San Filippo del Mela: il 52% degli ex dipendenti146635841-586x390

Anche la Sicilia ha la sua “fabbrica della morte”, come l’Eternit di Casale Monferrato. Con la scomparsa di F.D.P., ottantenne, salgono a 115 le vittime dell’amianto tra i dipendenti della società Sacelit. Salvatore Nania, ex dipendente della Sacelit di San Filippo del Mela e presidente del comitato Ex esposti amianto, è il testimone della storia dell’anziano operaio ammalatosi dieci anni fa e deceduto ieri, dopo le sofferenze procurategli dall’asbestosi pleuro-polmonare e dai sempre più frequenti attacchi di insufficienza respiratoria. L’anziano aveva lavorato per oltre 15 anni con mansioni di scarico sacchi di amianto dai carri ferroviari, come addetto alla produzione di tubi Eternit, al rotolamento , pulizia e sbavatura tubi. Già nel 1973, quarant’anni fa, gli era stata riconosciuta dall’Inail di Milazzo la malattia professionale per“asbestosi e discreta insufficienza respiratoria pari al 28 per cento”. Negli ultimi dieci anni di vita F.D.P. era stato costretto a muoversi con le bombole di ossigeno. Con il decesso di ieri la percentuale di morti asbesto-correlate fra gli ex lavoratori della fabbrica di San Filippo del Mela sale al 52,5%, una cifra che non lascia adito a dubbi, sui rapporti di causa-effetto fra esposizione e malattia.

Le fibre killer colpiscono ancora e, non esiste un tempo di latenza, non esiste un tempo di esposizione,

ha concluso laconico Nania. Lo scorso aprile, undici imprenditori erano stati iscritti nel registro degli indagati per avere distribuito, fra il 2007 e il 2009, prodotti contaminati da amianto in tre discariche non idonee allo stoccaggio di rifiuti pericolosi: quelle di Gavignano, Priolo e Lamezia Terme. I rifiuti provenivano proprio dal cantiere dell’ex Sacelit di San Filippo del Mela e l’accusa mossa agli undici indagati è di “reato di traffico illecito di rifiuti pericolosi in concorso”.

Fonte: Live Sicilia

Sorgenti irpine minacciate dal raddoppio della galleria

Principale risorsa idrica del meridione, le sorgenti irpine dei monti Picentini sono oggi minacciate anche dal raddoppio della Galleria Pavoncelli. Al fine di fermare la realizzazione di quest’opera che metterebbe ulteriormente a rischio l’ecosistema fluviale irpino è stata lanciata una petizione online.sorgenti_monti_piacentini

Acquedotti con perdite mediamente superiori al 50%, depuratori mal funzionanti, deflusso minimo vitale dei fiumi non rispettato, crisi idriche, sovrasfruttamento delle sorgenti, ecosistema fluviale a rischio, mancato ristoro ambientale, miriadi di microdiscariche e sversamenti abusivi in montagna, bonifiche inesistenti, minaccia di trivellazioni petrolifere e una grande opera dalla storia tormentata, il raddoppio della Galleria Pavoncelli, a complicare ancora di più il quadro generale. Stiamo parlando delle sorgenti irpine dei monti Picentini, la principale, e sconosciuta, risorsa idrica del meridione peninsulare. È un’informazione poco nota, infatti, che il massiccio carbonatico del Terminio Cervialto, grazie alla sua particolare conformazione calcarea, è un vero e proprio gigantesco serbatoio, una naturale “fabbrica dell’acqua” che, con il suo immenso reticolo di gallerie sotterranee, alimenta le sorgenti di queste montagne con benefici straordinari, soprattutto per i territori circostanti. A Caposele l’acqua dei Picentini orientali dà vita alla sorgente Sanità, 4000 litri al secondo mentre a Cassano Irpino un importante gruppo sorgivo produce tra i 2500 e i 4000 litri al secondo. Tranne che per una quota minima e insufficiente destinata all’acquedotto Alto Calore, che rifornisce Sannio e Irpinia, queste sorgenti approvvigionano, tramite la SPA Acquedotto Pugliese, le popolazioni lucane e soprattutto pugliesi, mentre le rinomate acque di Serino vanno a Napoli e le sorgenti di Calabritto e Senerchia nel Cilento. Milioni di cittadini italiani dipendono dalle sorgenti irpine per la loro acqua potabile e la Puglia riesce a sostenere la sua agricoltura grazie agli importanti apporti della diga di Conza – 60 milioni di metri cubi grazie alle sorgenti dell’Ofanto – e, in misura minore, della diga di San Pietro, tra Aquilonia e Monteverde, che raccoglie l’acqua dell’Osento. Eppure la questione della salvaguardia e tutela ambientale di questo territorio, di importanza strategica a livello nazionale, non riesce a varcare i confini dell’Irpinia, né a conquistare e ad appassionare i suoi abitanti.sorgenti_irpine

Lo sa bene il Comitato Tutela fiume Calore che nei giorni scorsi – sull’onda dell’interesse suscitato dall’azione parlamentare dei rappresentanti irpini Carlo Sibilia ma anche Giuseppe De Mita, Valentina Paris e Rocco Palese – ha lanciato on line una petizione per fermare la Galleria Pavoncelli bis e sollevare nuovamente la questione delle acque irpine. “Il problema – afferma il Comitato nella petizione – non è la sottrazione delle acque irpine ma l’insostenibilità delle captazioni. Le curve di deflusso delle sorgenti indicano chiaramente che le riserve di alimentazione stanno diminuendo. Bisogna rivisitare le concessioni di derivazione delle acque e adeguare le aliquote di distribuzione per garantire la vita negli ecosistemi dei fiumi e scongiurare le cicliche crisi idriche”.

La galleria Pavoncelli bis

Le acque di Caposele e di Cassano Irpino arrivano in Puglia attraverso l’Acquedotto Pugliese che tra Caposele e Conza della Campania, agli inizi del ‘900, costruì la Galleria Pavoncelli captando prima le acque di Caposele e poi, dagli anni ’60, anche le sorgenti del Calore. La galleria di valico “Pavoncelli Bis” è un by-pass progettato per venire incontro alle difficoltà degli interventi di manutenzione e ai danni alla vecchia galleria seguiti al sisma del 1980. Ed è su questa galleria che si sollevano i punti critici nella petizione prendendo spunto anche dalle molteplici osservazioni alla realizzazione dell’opera presentate nel corso degli anni in primis da Sabino Aquino, idrogeologo dell’Alto Calore, ex Presidente del Parco regionale dei Picentini, punto di riferimento per chi si è opposto negli anni alla costruzione dell’opera. Dopo che nel 1992 il primo cantiere della galleria fu sospeso per il rinvenimento di una falda acquifera di 700 l/s le vicende giudiziarie tra imprese aggiudicatarie e Aqp contribuirono a rimandare i lavori fino ad arrivare al 2007, quando l’ordinanza del Commissario Straordinario validò il nuovo progetto esecutivo. Ordinanza che fu annullata dal Tribunale Superiore delle Acque Pubbliche, a seguito dei ricorsi presentati dal Parco dei Monti Picentini e dall’Alto Calore Irpino.piana_dragone

La battaglia continuò, anche in sede europea, fino alla sentenza definitiva della Suprema Corte di Cassazione che confermò le ragioni degli enti irpini. Nel 2009 il Consiglio dei Ministri dichiarò lo stato di emergenza per la vulnerabilità sismica della galleria Pavoncelli aggirando le sentenze citate. Nella nuova Conferenza dei Servizi convocata tutti gli enti competenti, tra i quali Parco Regionale dei Monti Picentini, Provincia di Avellino, A.T.O 1 Calore Irpino, hanno espresso parere sfavorevole per la realizzazione dell’opera, dinieghi superati dal parere favorevole di compatibilità ambientale, emesso da una Commissione del Ministero dell’Ambiente la quale si limita ad affermare che “al termine della fase realizzativa dell’intervento, prima dell’entrata in esercizio, […] saranno effettuati gli studi afferenti il rilascio minimo vitale e la redazione del bilancio idrico”. Sarà quindi prima realizzata l’opera, finanziata per 150 milioni di euro, e poi verificata, a lavori compiuti, la compatibilità ambientale effettuando il bilancio idrico a posteriori. Gli enti hanno quindi nuovamente presentato ricorso presso il Tribunale Superiore delle Acque sostenendo che il Commissario Straordinario non può derogare dalla normativa ambientale che interessa un’area protetta all’interno del Parco regionale dei Monti Picentini. Attualmente si è di nuovo in attesa del parere del Tribunale mentre i lavori nel cantiere sono nella fase iniziale. I dubbi sollevati sono molteplici a partire dalla maggiorazione della portata della nuova galleria che metterebbe ulteriormente a rischio l’ecosistema fluviale irpino. L’intervento avviene in un’area fortemente sismica e il Comitato ricorda che potrebbe anche alterare, in modo serio, l’attuale equilibrio idrogeologico dell’acquifero come è già avvenuto negli anni ’90. Perché, si chiede il Comitato, non intervenire riparando la galleria esistente? È una posizione già espressa da Sabino Aquino il quale, al termine delle osservazioni che ha rilasciato per Il Cambiamento ricorda che “come già evidenziato nel corso della conferenza dei servizi del 15 Luglio 2010, si ritiene che invece di procedere alla costruzione di una nuova galleria si potrebbe sicuramente riparare quella esistente”. “Nel periodo occorrente per la riparazione della predetta galleria, – continua Aquino – l’approvvigionamento idropotabile di parte del territorio pugliese potrebbe essere garantito con il ricorso a fondi idriche alternative in primis l’invaso di Conza della Campania (capacità idrica invasata 58.000.000 di mc.) attraverso la costruzione di una condotta ed un potabilizzatore che, tra l’altro, è già stato previsto per la derivazione dal citato bacino idrico artificiale di una portata idrica pari a 1000 l/sec. da destinare sempre per l’approvvigionamento idropotabile di parte della Regione Puglia”.diga_conza

Rischi e minacce: dalle esplorazioni petrolifere alla mancata bonifica montana

Ma la questione dell’acqua in Irpinia si arricchisce continuamente di nuove problematiche. A partire dal Progetto Nusco, la concessione per le esplorazioni petrolifere concessa dallo Stato italiano in un’area che si sovrappone parzialmente agli acquiferi dei Picentini e interessa i territori limitrofi. I comitati No Petrolio in Alta irpinia eNo Trivellazioni petrolifere in Irpinia, che hanno avuto il merito di sollevare la questione e di portarla all’attenzione delle istituzioni, stanno ancora aspettando il parere sulla Valutazione di impatto ambientale dalla Regione Campania sull’inizio delle trivellazioni nel pozzo Gesualdo 1, a pochi chilometri dalle Mefiti della Valle d’Ansanto e dal complesso termale di Villamaina, in un’area notoriamente ad altissimo rischio sismico. Come ha dichiarato Massimo Civita, idrogeologo di fama internazionale, i rischi del Progetto Nusco sono sia di tipo primario, ma anche di tipo secondario visto che un incidente nell’attraversamento dei Picentini per raggiungere i punti di trattamento sul Tirreno potrebbe mettere a rischio gli acquiferi. Le semplici implicazioni di eventi simili – non improbabili come dimostrano le casistiche delle rotture di pipeline e i ribaltamenti di camion in Basilicata – dovrebbero bastare a sconsigliare il coinvolgimento anche solo delle aree limitrofe. Ma la questione è ancora aperta e c’è chi parla di affidare le decisioni ad un referendum sull’oro nero come occasione economica dimenticando le valenze ambientali, enogastronomiche di un territorio rurale e ricco di biodiversità e quello che, dati alla mano, è stato dimostrato in Basilicata da Rita D’Ottavio del WWF Basilicata sull’impatto economico del petrolio . C’è poi la spinosa questione del mancato ristoro ambientale e il ritardo nell’istituzione del Distretto idrografico dell’Appennino meridionale che pesa sulla compensazione ambientale tra Puglia e Irpinia grazie all’assenza di un comune orientamento tra i comuni di montagna nei quali sono presenti le aree di ricarica delle sorgenti e alla storica assenza della Regione Campania. Regione che, affetta da atavico napolicentrismo, si ritrova tra Napoli e Caserta debitrici di acqua da Lazio e Molise e la creditrice Irpinia per la quale non sono previste nemmeno le azioni di bonifica montana necessarie a preservare il territorio.diga_san_pietro

Al danno, poi, si unisce la beffa. Attualmente oltre la metà della portata idrica dell’acquedotto Alto Calore, che rifornisce l’Irpinia e parte del Sannio, proviene dal sollevamento di falde idriche con considerevoli oneri energetici che si ripercuotono sulla tariffa idrica degli Irpini. Quindi le acque delle sorgenti, di qualità migliore, visto che il potere filtrante delle rocce le rende più pure, vanno fuori provincia mentre buona parte dei residenti beve acqua di pozzo ad un costo maggiore di chi si approvvigiona dalle sorgenti in territorio irpino. Inoltre gli innumerevoli pozzi privati, la modifica nelle precipitazioni meteoriche, il continuo prelievo da parte degli acquedotti che hanno preferito aumentare la portata dell’acqua costruendo sempre nuovi pozzi e aumentando la profondità degli scavi invece che intervenire nel rifacimento delle reti idriche, stanno causando, progressivamente, il depauperamento delle risorse idriche e le sorgenti sono a rischio. Senza dimenticare il mancato rispetto del deflusso minimo vitale dei fiumi irpini nei quali la salmonella si presenta ciclicamente e le morie di pesci sono una triste realtà. Infine l’inquinamento ambientale, che meriterebbe un approfondimento a parte, con la complessa situazione dei depuratori, l’inquinamento dei fiumi e la presenza sempre più consistente di sversamenti abusivi in montagna, spesso ignorata. È necessario avviare un dibattito condiviso, al di là delle appartenenze, a livello locale, ma ottenere anche l’attenzione a livello nazionale ed europeo sulle problematiche accennate, senza alcuna pretesa di esaustività. Questo per individuare fondi europei e nazionali per la messa in sicurezza del territorio, avviare la bonifica montana delle aree di ricarica delle sorgenti – la cui salvaguardia è prioritaria secondo lo stesso Codice ambientale – e definire interventi prioritari come il ripristino del delicato equilibrio nel bacino endoreico della Piana del Dragone. Inoltre bisogna rafforzare le iniziative già intraprese dagli enti competenti per il rifacimento delle reti idriche e avviare, finalmente, il Distretto Idrografico dell’Appennino meridionale che porrebbe le basi per la responsabilizzazione delle regioni coinvolte nelle azioni da intraprendere determinando il tipo di ristoro ambientale necessario. Compensazione che non si può risolvere in un semplice indennizzo economico a singoli comuni, ma in azioni di ripristino, bonifica e salvaguardia dell’intero territorio montano coinvolto. Diversamente il diritto di accesso all’acqua di milioni di meridionali, quasi il 10% della popolazione italiana, sarà seriamente compromesso.

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Fonte: il cambiamento

Benetton ammette subforniture dalla fabbrica della morte in Bangladesh

Il CEO di Benetton ammette che l’azienda ha avuto una subfornitura dalla fabbrica della morte in Bangladesh. Dopo il più grave incidente sul lavoro del 21° secolo le multinazionali non possono più fare finta di niente e devono iniziare a rispettare i di ritti dell’uomo e dell’ambiente.Benetton-morti-Bangladesh-586x412

Questa foto non fa parte dell’ennesima campagna eccentrica di Oliviero Toscani, ma è un’immagine di una manifestazione di protesta di attivisti del sindacato spagnolo UGT contro lo sfruttamento dei lavoratori tessili in Bangladesh. Tra gli altri marchi coinvolti (vedi gallery) anche Mango, C&A, El corte Ingles. La protesta nasce dal più grave incidente sul lavoro del 21° secolo: il crollo del Rana Plaza in Bangladesh che ha causato la morte di oltre 1000 lavoratori (912 vittime e 149 dspersi alla data di oggi). Non dimentichiamo che lo scorso novembre oltre 100 lavoratori sono morti nell’incendio della fabbrica tessile Tazreen, sempre in Bangladesh. Dopo aver inizialmente smentito di essere coinvolta in forniture dalla fabbrica della morte, ora Benetton fa marcia indietro. In un’intervista all’Huffington Post il CEO dell’azienda ammette che Benetton a dicembre 2012 ha avuto una subfornitura di 200 000 camicie dalla New Wave company, una delle cinque aziende ospitate nell’edificio crollato, tramite un altro fornitore indiano. La notizia è confermata anche dal Wall Street Journal.

Secondo il CEO la fornitura è stata poi interrotta perchè l’azienda non era in grado di fornire “standard di qualità ed efficienza”. E’ impressionante il livello di indifferenza e cinismo di questa affermazione. Per i grandi manager il problema è solo la qualità e l’efficienza; diritti e sicurezza del lavoro sono evidentemente degli optionals. Si aggiungono le solite considerazioni per cui “non è pensabile abbandonare i fornitori in Bangladesh”, visto che il modo migliore di aiutare i paesi più poveri è “fornendo lavoro”. E’ ora di porre termine a questa ipocrisia. Le multinazionali non possono più fare finta di non sapere che, se spingono in modo aggressivo per contratti al massimo ribasso, i fornitori e subfornitori locali possono soddisfare queste richieste solo con paghe basse, turni di lavoro massacranti, attività antisindacale, nessuno standard di sicurezza o di protezione ambientale. La ricerca del massimo profitto e del minor costo del lavoro ha ucciso il lavoro tessile in Italia e sta letteralmente uccidendo i lavoratori nei paesi più poveri. Forse è bene fermarsi, riflettere e cambiare strada, cominciando dal firmare la petizione on line che chiede alle multinazionali di rispettare gli standard di sicurezza.c-a-morti-bangladesh

Fonte: ecoblog