Centrali nucleari europee: catorci atomici

Scrive Dario Tamburrano, vicepresidente dell’Intergruppo del Parlamento Europeo “Common Goods and Public Services”: «Le centrali nucleari dell’UE hanno un’età media di 30,6 anni. Praticamente, sono dei catorci atomici che vengono mantenuti accesi alla faccia del buonsenso».9576-10338

Riprendiamo l’intervento di Dario Tamburrano, vicepresidente dell’Intergruppo del Parlamento Europeo “Common Goods and Public Services”, comparso QUI

Questo dato e quelli seguenti, salvo se diversamente indicato, sono tratti da “The world nuclear industry status report” redatto nel 2015 da esperti indipendenti. Valgono le considerazioni che faceva Giuseppe Onufrio, direttore di Greenpeace ed ex ricercatore dell’Enea, all’indomani di Fukushima:  più un reattore nucleare è vecchio, più è distante dagli standard di sicurezza attuali. E a proposito di Fukushima: le migliaia e migliaia di crepe nei reattori nucleari del Belgio sono state scoperte durante i controlli effettuati in seguito all’incidente nucleare in Giappone. Eppure quei reattori (insieme ad altri decisamente stagionati) sono stati recentemente riaccesi. E’ proprio il caso di dire che da Fukushima l’UE non ha imparato nulla, per parafrasare il titolo del convegno cui abbiamo partecipato la scorsa settimana a Bruxelles e contemporaneamente riassumere tutti i discorsi. Il grafico qui sotto mostra l’età dei 128 reattori nucleari in funzione nell’UE. Come quelli seguenti, fotografa la situazione al mese di luglio del 2015.

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I 128 reattori accesi nell’UE costituiscono circa un terzo di quelli attivi in tutto il mondo. Ecco la loro distribuzione per classi di etàdt_cattura-2

Il picco del nucleare UE è stato toccato nel 1989, quando erano accesi 177 reattori: circa un quarto in più di quelli attuali.dt_cattura-1

Ci sono state tre “ondate” di costruzione di centrali nucleari: due piccole negli Anni 60 e 70 ed una grande negli Anni 80, che ha interessato soprattutto la Francia. Attorno al 1990, oltre al picco dei reattori, si è registrata la svolta: i reattori sono stati più spesso spenti che inaugurati.dt_cattura-3

L’85% dei reattori nucleari europei è concentrato in otto Paesi dell’Europa occidentale; solo 19 reattori sono distribuiti fra gli Stati che facevano parte dei satelliti URSS e che recentemente sono entrati nell’UE. La cartina che mostra la loro distribuzione nello spazio è stata pubblicata dall’European Nuclear Society.dt_cattura-4

Sarebbe saggio spegnere i 128 catorci atomici dell’UE. Ma l’atomo è una maledizione che si proietta sempre nel futuro: secondo un documento di lavoro della Commissione Europea visto dalla prestigiosa agenzia di stampa Reuters all’inizio di febbraio, per smantellare il vetusto parco nucleare e per gestire le scorie servirebbero 286 miliardi di euro. Attualmente, per coprire questi costi, sono disponibili solo 105,1 miliardi di euro. Mancano 118 miliardi. Bisognerà pur trovarli e imparare la lezione: mai spendere un centesimo per il nucleare, che – oltre ad essere pericoloso – inghiotte soldi come una voragine senza fondo. Al momento sembra che l’UE – come non ha imparato da Fukushima – non voglia imparare nemmeno questa lezione e tende a considerare praticabile la costruzione di nuove centrali. Ma è un’altra storia. Cercheremo di raccontarla nel giro di pochi giorni.

Fonte: ilcambiamento.it

Sostenibilità energetica: Copenaghen esempio di eccellenza in Europa e nel mondo

Tra le città europee che stanno facendo scuola nell’attuazione di buone pratiche sui temi della sostenibilità ambientale ed energetica, la capitale danese senz’altro svolge un ruolo di primo piano. Vediamo insieme cosa sta accadendo a Copenaghen.9476-10217

Le sensazioni di coloro che hanno visitato la città trovano riscontro nei fatti: Copenaghen è stata nominata nel 2014 “capitale verde europea”, nel 2015 “migliore città al mondo per i ciclisti”, nel 2016 “migliore città al mondo in cui vivere”. In quest’ultimo riconoscimento, i temi sui quali si valutava la performance delle città concorrenti erano i trasporti, le abitazioni, la sostenibilità e la cultura, proprio quelli che rivestono un ruolo determinante nel Piano Clima che Copenaghen ha adottato alcuni anni fa e che punta a far diventare la capitale danese la prima città al mondo carbon neutral entro il 2025.

Il Piano Clima 2025

Il Piano adottato da Copenaghen viene definito “olistico” con obiettivi che vanno ben al di là di quanto richiesto dal Patto dei Sindaci. Una strategia chiara che riguarda il consumo e la produzione di energia sul territorio municipale, la mobilità e le azioni dirette del Comune, con l’obiettivo ultimo di rendere la città di Copenaghen carbon neutral entro il 2025. Le prerogative ci sono: dal 2005 (anno base di riferimento) al 2014 le emissioni climalteranti si sono ridotte del 31% (un miglioramento del 10% rispetto all’anno precedente, 2013) ed in questo senso si è, ancora una volta, dimostrato che il disaccoppiamento tra la “crescita” della città e le emissioni è possibile: la riduzione delle emissioni del 31% è avvenuta in un periodo nel quale la popolazione della città è cresciuta del 15% e la sua economia del 18%. Tale livello di riduzione è stato possibile grazie principalmente all’aumento dell’uso della biomassa (al posto del carbone) nel sistema di teleriscaldamento della città e ad una quota sempre crescente dell’elettricità generata dall’eolico. Per mantenere però l’obiettivo carbon neutral[1] al 2025 mancano all’appello circa 300.000 tonnellate di CO2 che devono essere recuperate in base all’ultimo rapporto di monitoraggio eseguito. Proprio un efficace sistema di monitoraggio permette alla città di seguire costantemente l’andamento dell’attuazione delle azioni previste nel Piano ed adottare le necessarie correzioni. Ad esempio, il miglioramento dell’efficienza energetica negli edifici esistenti non ha dato finora i risultati desiderati, così come la riduzione delle emissioni nella centrale cogenerativa a biomassa di Amagerværket è risultata più bassa delle aspettative e, infine, l’introduzione della congestion charge intorno a Copenaghen non ha visto la luce a causa del mancato supporto da parte del governo nazionale. Tutte queste difficoltà sono state ben evidenziate (non minimizzate, o peggio ancora nascoste) al fine di agire in maniera organica e mantenere gli impegni assunti con la cittadinanza. L’approccio scelto per il Piano Clima di Copenaghen – che pone la qualità della vita, l’innovazione, la creazione di posti di lavoro e gli investimenti, oltre che una stretta sinergia tra i diversi portatori di interesse, quali elementi portanti per gli obiettivi preposti – fornisce anche delle garanzie per il passo successivo, che è quello di ridurre le emissioni dell’80-90% entro il 2050, al fine di accelerare la transizione verso una società carbon free. In tal modo Copenaghen intende svolgere un ruolo di esempio per tutto il paese, come se l’essere la capitale l’investisse di maggiori responsabilità. Ma forse è proprio così, la politica della capitale, nonché grande città, ovviamente in linea con le ambizioni dello Stato, stimolerà le altre città più piccole a prendere parte nella lotta ai cambiamenti climatici, dimostrando che è possibile combinare lo sviluppo con la riduzione delle emissioni di CO2. E non è un obiettivo di poco conto se si considera che entro il 2025 si attende un aumento della popolazione residente nel Comune di Copenaghen di circa 100.000 unità (+ 20%) con la creazione di oltre 20.000 nuovi posti di lavoro. Nel 2014 è stata registrata un’emissione di 1,6 milioni di tonnellate di CO2 (MtCO2) e l’obiettivo da raggiungere nel 2025 è di 1,2 MtCO2 (si partiva da un livello base pari a poco più di 2,5 MtCO2 nel 2005). Il consumo elettrico è responsabile del 40% delle emissioni, i trasporti su gomma del 30% e il riscaldamento del 23%. Sempre nel 2014, in media, un abitante di Copenaghen emetteva il 40% in meno di CO2 rispetto al 2005, cioè 2,8 tonnellate pro-capite, uno dei livelli più bassi tra le capitali europee. In generale, le emissioni sono calate ma il consumo elettrico è aumentato del 2% tra il 2013 e il 2014. Per quanto riguarda il riscaldamento distrettuale (teleriscaldamento), esso è drasticamente calato di oltre il 20% rispetto al 2010, anche se risulta leggermente in crescita se il dato è armonizzato secondo i gradi-giorno. Infine, le emissioni dal settore dei trasporti risultano aumentate del 2% tra il 2013 e il 2014. Nonostante alcune difficoltà emerse, il raggiungimento degli ambiziosi obiettivi al 2025 non viene messo in dubbio. L’evidente volontà e capacità politica nel perseguirli è una chiara garanzia. Ad esempio, per migliorare l’efficienza energetica negli edifici esistenti (una delle criticità emerse dall’analisi di monitoraggio), è stato stipulato un accordo con i proprietari di case, le cooperative immobiliari e i grandi manager immobiliari (in totale oltre 40.000 appartamenti, pari a oltre 3 milioni di m2, equivalenti ad oltre l’8% del totale del costruito a Copenaghen) al fine di ottimizzare e, quindi, ridurre il consumo energetico nei rispettivi immobili. L’esperienza mostra come il consumo energetico negli edifici possa essere facilmente ridotto del 5-10% attraverso una migliore regolazione del sistema di riscaldamento e una maggiore consapevolezza sui consumi da parte dell’utente finale. Il fatto che sia il settore privato a mettere in evidenza che un basso consumo energetico e un profilo “green” siano importanti parametri per le proprietà residenziali e commerciali, ovviamente ai fini della vendita, dell’affitto o in generale per un accresciuto valore dell’immobile, risulta emblematico. E’ il mercato che sta dando un valore agli immobili più efficienti dal punto di vista energetico e questo aiuterà ad attrarre altre imprese ed investitori dall’estero. Il risparmio energetico negli edifici premierà quindi sia i proprietari, per l’accresciuto valore dell’immobile, che i gestori, per i più bassi livelli delle bollette energetiche.

Nello specifico, gli obiettivi che si è posta la città di Copenaghen in termini di consumi energetici sono i seguenti:

  •    20 % di riduzione dei consumi termici;
  • 20 % di riduzione dei consumi elettrici nel settore terziario (10% nel settore residenziale e 40% negli edifici comunali);
  • installazione di celle solari pari all’1% del consumo elettrico nel 2025.

Tra le azioni che vedranno la piena attuazione nei prossimi anni, stupirà che nonostante ad oggi oltre il 60% dei cittadini di Copenaghen utilizzi la bicicletta per andare al lavoro, si programmi un ulteriore investimento sulle infrastrutture ciclabili. In alcune strade, le corsie dedicate alle biciclette saranno raddoppiate a scapito delle carreggiate per le auto che saranno diminuite. Inoltre, la maggior parte della flotta comunale è stata già sostituita con veicoli elettrici e a breve i camion che raccolgono i rifiuti saranno alimentati a biogas. L’obiettivo è comunque quello di accelerare la sostituzione dei mezzi funzionanti a fonte fossile con quelli alimentati a idrogeno, biogas o energia elettrica. Per quanto riguarda la produzione di energia rinnovabile, Copenaghen ha pianificato l’installazione di 360 MW di eolico entro il 2025 e l’azienda partecipata del Comune (HOFOR) parteciperà a bandi nazionali per la costruzione di impianti eolici offshore. Interessante la decisione di ridurre la plastica nei rifiuti attraverso una maggiore raccolta differenziata e un più spinto riciclaggio chiamando in causa cittadini ed aziende ad un ruolo attivo. Evidentemente, si è capito che bruciare la plastica negli inceneritori non è conveniente, sotto tutti i punti di vista. In effetti, l’utilizzo degli inceneritori (termovalorizzazione dei rifiuti) è forse l’unico aspetto sul quale chi scrive si permette di stimolare la città di Copenaghen a pensare a soluzioni alternative. L’obiettivo veramente sostenibile che tutte le città dovrebbero porsi è quello di ridurre il più possibile a monte l’uso dei materiali che poi diventeranno rifiuto, così come attuare una politica atta alla gestione dei materiali post-consumo. Diverse città, seppur in verità nessuna grande capitale, si sono poste l’obiettivo “zero rifiuti” da qui al 2020-2030.

Copenaghen città resiliente

Il Piano Clima di Copenaghen merita attenzione anche perché, ben prima che venisse lanciato il nuovo Patto dei Sindaci per l’Energia e il Clima, la capitale danese ha identificato il tema dell’adattamento quale elemento vitale per la propria sostenibilità futura. Nell’area del territorio comunale, gli impatti previsti dei cambiamenti climatici al 2100 stimano un aumento delle precipitazioni del 30-40% (nello specifico, i meteorologi si aspettano un aumento delle precipitazioni del 25-55% durante l’inverno e una riduzione fino al 40% in estate, con un’intensificazione della potenza dei fenomeni) mentre il livello del mare si alzerà tra 33 e 61 centimetri. I cambiamenti avverranno lentamente ma inesorabilmente, con variazioni più evidenti dopo il 2050. Per questo Copenaghen intende lavorare seriamente sull’adattamento per garantire che la città sia pronta ad affrontare adeguatamente la situazione e non trovarsi impreparata. L’obiettivo fissato è quello di diventare la prima capitale resiliente agli effetti del cambiamento climatico. Per farlo, sono stati identificati più di 300 progetti di adattamento, i cui primi 16 sono partiti nel corso del 2016 al fine di proteggere la città principalmente da nubifragi e inondazioni. Inoltre, la già menzionata azienda partecipata HOFOR ha iniziato a sviluppare l’utilizzo di acqua marina per i sistemi di raffrescamento a servizio delle imprese locali per un valore corrispondente di risparmio energetico pari a 40 MW.

Tra i primi progetti partiti, quelli relativi alla gestione delle acque reflue ed in particolare una serie di azioni prioritarie per lo sviluppo di diverse modalità di deflusso dell’acqua risultante dalle grandi piogge, lo sviluppo di nuove aree verdi, sia micro parchi nella città sia tetti e facciate verdi che possano rallentare il deflusso idrico, riducendo così il rischio di inondazioni (e in estate attenuare gli effetti delle ondate di calore), migliorare la ventilazione, l’isolamento e l’ombreggiamento degli edifici e anche alzare il livello di sicurezza per le alluvioni e l’innalzamento del livello del mare. Da un punto di vista operativo, il Piano di adattamento si basa su tre livelli, sulla base della fattibilità tecnico-economica, con l’obiettivo prioritario di ridurre al minimo i potenziali danni. Il primo livello riguarda la costruzione di dighe e barriere più alte sul livello del mare, l’espansione della capacità della rete fognaria e la gestione locale delle acque meteoriche con la realizzazione di bacini di raccolta sotterranei e stazioni di pompaggio.

Il secondo livello prevede la gestione locale dell’acqua piovana invece che canalizzarla nel sistema fognario della città. Nella nostra società, l’acqua piovana viene considerata come un qualcosa di cui dobbiamo liberarci. L’acqua è però anche una risorsa, di cui non si può fare a meno e valorizzarla può essere utile per rendere la città un posto migliore per vivere. Per esempio, gestendo l’acqua piovana a livello locale (di quartiere) con l’utilizzo di soluzioni tecnologiche e ambientalmente corrette, la si può assorbire e recuperare. Queste soluzioni, denominate “sistemi di drenaggio urbano sostenibile” riescono a ridurre la quantità di acqua piovana apportata nella rete fognaria in modo da gestire con più tempo l’eventuale ingrandimento della stessa rete (livello 1). Associata a questa azione, anche un sistema di allerta piogge che prepari le aree individuate ad accogliere in sicurezza il surplus di acqua e i cittadini per le azioni da attuare nelle proprie abitazioni. Questa azione sarà attuata su tutto il territorio comunale e risulterà fondamentale il ruolo degli abitanti in quanto un cortile o un giardino sul retro della casa con erba e alberi invece che cemento o piastrelle possono, considerati nel loro insieme, contribuire ad aumentare il drenaggio e quindi creare meno problemi allorquando si presenteranno abbondanti precipitazioni in città.

Il terzo livello riguarda quelle azioni che consentano, nel caso non si riuscisse per ragioni tecniche o finanziarie a intervenire come indicato nei livelli 1 e 2, di ridurre al minimo i danni, per esempio facendo in modo che le inondazioni si verifichino solo in determinati luoghi o aree, dirottando l’acqua stessa in quei luoghi, per esempio parcheggi, campi da gioco e parchi, ove i danni potrebbero essere ridotti al minimo. Come anche azioni quali la dotazione di pompe idrovore nei locali a rischio. A seconda delle condizioni locali, una combinazione delle azioni previste nei tre livelli identificati consentirà di gestire in maniera ottimale le future emergenze.

Conclusioni

Sempre di più risulta evidente il ruolo delle città nello sviluppo sostenibile globale. Attualmente, i sistemi urbani a livello mondiale sono responsabili del 70% delle emissioni di gas climalteranti e sarebbe impossibile, oltre che miope, immaginare soluzioni per la mitigazione e l’adattamento al cambiamento climatico senza il loro pieno coinvolgimento. Al di là delle indicazioni che provengono dall’alto, non ultimo l’obiettivo n. 11 degli Obiettivi sullo Sviluppo Sostenibile (Sustainable cities and communities: make cities inclusive, safe, resilient and sustainable) delle Nazioni Unite, è sempre più utile conoscere cosa alcune città hanno già fatto o intendano fare al fine di replicare, adattare o innovare quanto già è stato sperimentato o pianificato. L’esempio della città di Copenaghen può rappresentare uno stimolo per molti
[1] Una città carbon neutral é una città con un bilancio netto delle emissioni pari a zero. Ciò significa che l’energia che la città utilizzerà proverrà esclusivamente da fonti rinnovabili oppure le emissioni climalteranti derivanti dalla quota parte di energia fossile ancora utilizzata saranno compensate da altre azioni.

Fonte: ilcambiamento.it

 

 

Ghostland, il turismo al contrario dei boscimani in Europa

Il bel documentario dell’antropologo Simon Stadler porta un gruppo di boscimani nel cuore dell’Europa.

La vita nel vasto deserto del Kalahari dei boscimani Ju/’Hoansi, uno dei più antichi popoli del Pianeta, è radicalmente cambiata nel 1990, quando il governo della Namibia ha vietato per legge la caccia a scopo alimentare. Ora i boscimani vivono grazie alla raccolta nel bush (da qui bush-man, nome dato dai colonialisti), alle poche sovvenzioni governative e alla scarsa generosità dei turisti più avventurosi. Le terre un tempo libere e sconfinate della savana sono ora divise da recinzioni di filo spinato e il popolo una volta nomade dei Ju/’Hoansi è costretto a sopravvivere in riserve simili a quelle in cui sono stati relegati gli indiani d’America. Dopo avere mostrato il loro mondo, il regista di Ghostland Simon Stadler filma il viaggio che un gruppo di boscimani compie in altre regioni della Namibia e poi quello ancor più incredibile che porta quattro di loro fino in Germania e in Italia. Lo shock culturale dei boscimani immersi nella modernità teutonica (con lo spaesamento di fronte ai grandi fiumi, al verde delle città e delle campagne e ai grandi edifici) agisce su due livelli: da una parte suscita il sorriso, dall’altra stimola la reverse anthropology ricordata nel dibattito post-proiezione da Duccio Canestrini ovvero la capacità di riuscire a percepire se stessi attraverso lo scambio con gli altri. In quest’epoca di muri e di cialtroneria mediatica su “loro” e sugli “altri” un po’ di relativismo culturale – nel solco di una tradizione europea sorta con l’Illuminismo e con libri come Le lettere persiane di Montesquieu – è una buona medicina. E con il sorriso la si manda giù ancor meglio.

Guarda la Galleria “Ghostland”

Fonte: ecoblog.it

Dal TTIP al CETA: come uscire dalla “Gabbia dei trattati”?

Dal TTIP al TTP, al CETA. In via di approvazione in varie aree del mondo, i trattati globali costituiscono una delle principali minacce per il nostro futuro. Per cercare di fare luce sui loro aspetti più oscuri e meno noti, abbiamo intervistato Matteo Bortolon, autore del libro appena uscito per Dissensi “La gabbia dei trattati”.

Hanno nomi inoffensivi, semplici sigle, ma rappresentano una delle principali minacce per il nostro futuro, la nostra salute, il cibo che mangiamo e l’acqua che beviamo, la nostra sovranità. Sono i trattati globali, dal TTIP al TTP, al CETA, che in varie aree del mondo sono in via di approvazione spinti dalle multinazionali con l’aiuto delle loro istituzioni, il Fmi e la Banca mondiale. Riguardano quasi ogni aspetto della nostra vita, eppure non se ne parla molto. Abbiamo intervistato Matteo Bortolon, autore del libro appena uscito per Dissensi “La gabbia dei trattati”, per cercare di fare luce sui loro aspetti più oscuri e meno noti.

Matteo, da cosa nasce l’idea di scrivere un libro su un argomento che potrebbe apparire “tecnico” come una serie di trattati commerciali?

Dalla militanza e dalla necessità. Dalla militanza perché sono impegnato assieme ad altri amici e compagni in un’opera di divulgazione per far conoscere il più possibile il contenuto di questi trattati; la necessità è di divulgare cose che vengono decise sopra la testa dei cittadini e poi incidono nella loro vita! Il potere conserva la sua forza quando è nell’ombra, quando il processo decisionale è nell’opacità. Il TTIP come dice giustamente John Pilger, è la cosa più importante che stia succedendo in Europa attualmente, i tg dovrebbero aprire con le notizie che lo riguardano, invece se ne parla pochissimo…

Il tuo libro si chiama La gabbia dei trattati. In che senso questi nuovi trattati internazionali contribuiscono a metterci in gabbia?

Nel senso che orientano la politica degli Stati senza il consenso dei cittadini. Gli Stati hanno già numerosi obblighi di vario genere a cui dovrebbero sottostare: il rispetto dei diritti umani, protezione dell’infanzia e della maternità, ambiente ecc. Entro tali limiti gli Stati hanno la sovranità, cioè la possibilità di determinare le politiche nazionali con metodi democratici. Vuoi privatizzare l’acqua? Vuoi usare una forma di energia molto inquinante? Lo scrivi nel programma e vediamo se prendi la maggioranza! I trattati di libero commercio vincolano invece gli Stati nella direzione di portare acqua al mulino degli interessi costituiti, che ho chiamato il “blocco egemonico”: i super-ricchi, le multinazionali e i loro apparati. Così che se al potere andasse qualcuno con un programma a favore del bene comune, dei cittadini, dei poveri, scopre di poter fare ben poco perché è vincolato, è legato. Se non si mettono a fuoco questi meccanismi diventa futile votare, siamo in gabbia.

Parliamo del TTIP, quali sono i settori più a rischio? Quali le possibili conseguenze per l’Europa e l’Italia?
Il Trattato comprende un po’ tutti i settori della vita pubblica: servizi pubblici, ambiente, lavoro, finanza… tutto, tutto può rientrare. Sono esclusi in maniera definitiva solo i poteri governativi (esercito, polizia, magistratura, governo vero e proprio) e il settore degli audiovisivi per via dei francesi che su questo settore hanno una sensibilità specifica. Ogni paese ha molto da perdere: per l’Italia, ad esempio, l’alimentare è uno dei settori chiave e non mi sembra che ci siano rimasti molti settori economici particolarmente floridi! In questo campo peggiorerebbe sia la qualità dei cibi a cui le persone hanno accesso sia la forza economica delle aziende; quelle medie e piccole probabilmente verrebbero spianate senza scampo. Un altro settore importante è quello sanitario. Ci sarebbe una spinta forte ad una accelerazione della privatizzazione del sistema sanitario nazionale. Gli esempi precedenti di trattati simili mostrano conseguenze molto pesanti in tal senso.ttip_china_usa_transatlantische_beziehungen_freihandelsabkommen

Alcuni spunti e possibili scenari li possiamo forse prendere dal TTP, il gemello del TTIP ma relativo all’area del Pacifico. Che tipo di accordo è stato raggiunto?

Al momento in cui parliamo il TTP deve essere ancora approvato, è stato raggiunto un accordo su di un testo condiviso e adesso i singoli paesi devono ratificarlo. Nel libro riporto in merito le preoccupazioni di ambito medico e sanitario, Medici senza frontiere dice che su questo piano sarà il trattato più dannoso di sempre, perché rafforzando i diritti di proprietà intellettuale blinda il diritto delle case farmaceutiche di ottenere profitti. In generale il TPP è considerato, credo a ragione, funzionale a circondare la Cina, costruendo una rete di paesi amici. E’ anche uno dei trattati più ambiziosi e bizzarri, mette assieme 12 paesi di tre continenti differenti, con livelli di struttura produttiva, economia molto diversi. Trattati del genere si dicono “regionali” perché normalmente riguardavano paesi vicini o la stessa area geografica. L’area del Pacifico è una cosa che sfida la stessa nozione di “regione geografica” se pensiamo che ci mettono dentro USA, Vietnam, Cile…

E invece di cosa tratta il meno noto CETA?

Non ho studiato approfonditamente il CETA, nel libro ho dovuto fare una scelta; ma è noto che si tratta di un antecedente del TTIP: un accordo dell’UE con il Canada. In esso vediamo un pezzetto di futuro: in merito, per esempio alle denominazioni di indicazione geografica per i prodotti: prosciutto di Parma, Grana Padano per esempio. Dovremmo poter evitare che uno faccia del formaggio in California e poi ci metta l’etichetta con scritto “Grana padano”, no? In un’intervista il Commissario UE all’agricoltura ha garantito che ci saranno tutele, e chiama in causa proprio il CETA. Ma se guardiamo agli allegati tecnici vedendo realmente quanti prodotti italiani vengono tutelati, la lista è assai corta. Noi abbiamo in Italia svariate centinaia di prodotti del genere, di cui circa 270 con indicazione geografica protetta; nel CETA sono elencati circa 350 prodotti ma di tutta Europa! Quelli italiani sono solo 41 (li ho contati uno ad uno). Quindi beh non sembra un modello molto buono.

In generale qual è il disegno (ammesso che ce ne sia uno) dietro alla carica di questi nuovi trattati?
In parte il disegno è lo stesso: istituire un livello decisionale in cui contano solo le grandi aziende e le lobby, sovraordinato rispetto alle leggi per i comuni mortali! Anche a livello giuridico il progetto è quello di istituire una giurisdizione differenziata per le grandi imprese. Ma il contesto è molto diverso.Import_Export

Cosa li distingue dai vecchi trattati degli anni Novanta come il WTO e il NAFTA?

Ai tempi degli anni Novanta il lustro del libero mercato era di carattere espansivo: si fondava sulla egemonia USA con la Russia ridotta nell’angolo, la Cina isolata, e l’India e l’Europa in fasi di transizione. I vecchi trattati erano la trascrizione della vittoria del capitalismo USA sulla guerra fredda, che prometteva benefici a tutti; un’atmosfera di ottimismo incarnata dal democratico Clinton. Adesso siamo nella crisi economica mondiale e i trattati vengono negoziati alla chetichella segretando tutto. Inoltre sono sul terreno le potenze emergenti, e ognuno cerca di costruirsi un suo spazio di potere in aree geopolitiche in competizione. I nuovi trattati anziché espandere il dominio USA cercando di frenarne il declino, assorbendo l’UE e costruendo un network di paesi “amici”. Ed i rivali fanno lo stesso. Tecnicamente l’enfasi è un po’ di meno sulla apertura di nuovi mercati e più sulla uniformazione regolatoria, in modo che nella stessa area si costruiscano mercati omogenei.

Quali prospettive vedi per il futuro? Che azioni individuali e collettive possiamo intraprendere per uscire dalla “Gabbia dei trattati”?

Nello specifico, mentre il TPP sembra essere sulla via di entrare in vigore con molta probabilità, il TTIP ha molte più difficoltà. Una delle maggiori siamo noi: senza il consenso è tutto molto più difficile, pensa al successo della manifestazione di Berlino di ottobre scorso! Ma ci sono altre difficoltà più oggettive: le classi dirigenti sono divise, l’assetto dell’UE è abbastanza in crisi… e gli USA sono solitamente molto rigidi, non mollano su nulla. Quindi le controparti europee sono in imbarazzo! Sono tutti d’accordo nello schiacciare i cittadini sotto i dettami del mercato ma se non c’è un minimo di equilibrio sembrerebbe una capitolazione per gli stessi settori egemonici europei. Penso che abbiamo buone speranze che il TTIP venga abortito, perché fra qualche mese inizia la campagna elettorale per le presidenziali negli USA e lì si blocca tutto… Ma a prescindere da tali difficoltà dei nostri avversari sono solo azioni di difesa se non si rimette sul tavolo la costruzione di una sovranità pienamente democratica, cioè la ricollocazione delle decisioni in ambiti conoscibili e influenzabili dai cittadini, altrimenti possiamo solo bloccare a valle tali tentativi di dominio, ma alla fine qualcosa passa! Personalmente trovo illusorie le prospettive di democratizzazione dell’UE.

Perciò credo si debba procedere su due binari paralleli: da una parte bloccare il TTIP e le altre minacce simili, dall’altra discutere fra noi su come agire per riportare le decisioni nel perimetro di istituzioni veramente democratiche. E’ difficile attivare questo tipo di dibattito ma non c’è scelta, se non giocare eternamente in difesa! In questo si gioca il nostro futuro!

 

Fonte: http://www.italiachecambia.org/2015/11/ttip-ceta-gabbia-trattati/

Kerry: “Migrazioni una sfida per l’Europa? Peggio quando mancheranno acqua e cibo”

Il segretario di stato traccia un quadro a tinte fosche sul futuro del Pianetagettyimages-486229136

Gli echi dell’emergenza profughi che percorre l’Europa arrivano anche Oltreoceano e il Dipartimento di Stato degli Usa sta valutando quali passi intraprendere per aiutare l’Unione Europea a far fronte all’arrivo di migliaia di rifugiati politici. Proprio ieri, però, il segretario di Stato americano, John Kerry, ha tenuto a sottolineare che gli attuali flussi migratori non sono che l’inizio di un esodo di massa dovuto ai cambiamenti climatici:

“Pensate che le migrazioni oggi siano una sfida per l’Europa, ma aspettate di vedere cosa accadrà quando mancheranno acqua e cibo”

ha detto Kerry. Già nel 2013 il report The Arab Springs and Climate Change del Center for Climate Change and Security aveva posto l’accento sulla rapporto di causalità fra i cambiamenti climatici e la Primavera Araba e la guerra civile siriana. Ci sono voluti due anni e mezzo perché questo rapporto di casualità passasse dai report scientifici alla conferenza stampa del capo del Dipartimento di Stato Usa. La mancanza di risorse idriche è e sarà sempre di più uno dei principali problemi con cui dovrà fare i conti il Medio Oriente. Nel solco di quanto affermato dal report del 2013 il segretario di Stato Usa ha motivato la guerra civile siriana con cause climatiche:

“La Siria è stata destabilizzata da un milione e mezzo di persone che sono scappate dalle zone rurali a causa di una siccità durata tre anni, resa ancora più intensa dal cambiamento climatico a opera dell’uomo, una condizione che sta rendendo l’intero Medio Oriente e le regioni mediterranee ancora più aridi”

ha aggiunto Kerry. La popolazione mondiale continua a crescere e le risorse idriche continuano a diminuire. Oltre al Medio Oriente, una delle principali emergenze idriche da affrontare sarà quella del Corno d’Africa. Gli anni che ci attendono saranno quelli dell’idrodiplomazia come qualcuno chiama le negoziazioni tese a garantire che le risorse idriche non vengano accaparrate solamente da chi sta a monte dei grandi corsi d’acqua.

Fonte: ecoblog.it

Stop TTIP Italia: fermiamo il trattato transatlantico di partenariato Usa-Ue

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Cos’è il TTIP

Il TTIP è un trattato di liberalizzazione commerciale transatlantico con l’intento dichiarato di abbattere dazi e barriere non tariffarie tra Europa e Stati Uniti per la gran parte dei settori economici, rendendo il commercio più fluido tra le due sponde dell’oceano. Un trattato molto delicato, negoziato in segreto tra Commissione UE e Governo USA fino alla fine del 2014 quando la società civile ha richiesto sempre più trasparenza, che vuole costruire un mercato unico tra Europa e Stati Uniti le cui regole, caratteristiche e priorità attualmente determinate dai nostri Governi e sistemi democratici, verranno fortemente condizionate da organismi tecnici sovranazionali a partire dalle esigenze dei grandi gruppi transnazionali. Il Trattato infatti prevede l’introduzione di organismi tecnici potenzialmente molto potenti e fuori da ogni controllo da parte degli Stati e quindi dei cittadini. Il primo, un meccanismo di protezione degli investimenti: Investor-State Dispute Settlement (in sigla: ISDS; traducibile in italiano come Risoluzione delle controversie tra investitore e Stato) consentirebbe alle imprese europee o USA di chiedere compensazioni economiche agli opposti governi qualora democraticamente introducessero normative, anche importanti per i propri cittadini, che ledessero i loro interessi passati, presenti e futuri. Un meccanismo rischioso che, se accompagnato da una definizione degli standard meno stringente, potrebbe mettere in discussione diritti acquisiti nonostante le rassicurazioni delle istituzioni europee, secondo le quali gli stessi non verranno abbassati. Un esempio riguarda gli standard agroalimentari, considerato che nei testi negoziali europei viene ribadito il ruolo centrale del Codex Alimentarius, l’organismo che fissa gli standard di qualità alimentare, dai residui di pesticida nei piatti all’uso di Ogm. Spesso i criteri usati dal Codex per la qualità degli alimenti sono più permissivi di quelli europei, e ogni variazione più restrittiva potrebbe essere considerata “distorsiva del mercato” e per questo sanzionata. La mancanza poi nei documenti ufficiali di ogni riferimento esplicito al “Principio di precauzione” è un ulteriore elemento di preoccupazione. Un altro organismo di cui viene prevista l’introduzione è il Regulatory Cooperation Council: un organo dove esperti nominati della Commissione UE e del ministero USA competente valuterebbero l’impatto commerciale di regolamentazione nazionale, federale o comunitaria. A sua discrezione sarebbero ascoltati imprese, sindacati e società civile. A sua discrezione sarebbe valutato il rapporto costi/benefici di ogni misura e il livello di conciliazione e uniformità tra USA e UE da raggiungere, e quindi la loro effettiva introduzione o mantenimento. Un’assurdità antidemocratica che andrebbe bloccata il prima possibile.banner-ttip11-1024x324

Fermiamo il TTIP
Il TTIP è ad un passo dalla sua approvazione finale. Solo una forte pressione dal basso potrà far capire ai nostri governanti ed europarlamentari che le persone non lo vogliono. Ottobre sarà un mese cruciale. Cosa può fare ognuno di noi per fermare la stipula di questo trattato?

  1. Informarsi: le informazioni non mancano di certo in rete, sui giornali e sulle riviste. Non fermiamoci alla prima opinione, cerchiamo di capire con più letture cosa sta succedendo.
    2. Firmare la petizione. Potete farlo comodamente online su https://stop-ttip.org/it/firma/ma sullo stesso sito potete scaricare il modello cartaceo di raccolta firme da stampare. Se non siete pratici con il computer fatevi aiutare, non fermatevi alla prima difficoltà!
    3. Partecipare alla mobilitazione internazionale di ottobre 2015. Dal 10 al 16 ottobre in tutta Europa e negli Stati Uniti è stata indetta una settimana di mobilitazione, resta informato sulle manifestazioni che saranno annunciate a breve nella tua città.
    4. Discutere e diffondere con amici e conoscenti la tematica del TTIP.

Per approfondire
Ecco alcuni siti web dove approfondire la tematica:
http://stop-ttip-italia.net/
https://stop-ttip.org/it

Stop TTIP Italia

Fonte : italiachecambia.org

Romania: il centro di cura per gli orsi bruni più grande d’Europa

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In Romania vive la metà degli orsi bruni d’Europa: la zona dei Carpazi romeni in particolare ospita circa 6000 esemplari di orso bruno. Per questo, proprio nei Carpazi, a Zarnesti, è nato il rifugio per orsi più grande d’Europa, un centro di cura per i plantigradi che hanno subito violenze umane di ogni tipo. Molti esemplari infatti sono stati tenuti a lungo in cattività ed esposti ai turisti, tra gli anni ’90 e i 2000, come fenomeni da baraccone, una vera e propria crudeltà espositiva dell’uomo a danno dell’orso bruno. I plantigradi non hanno dovuto subire solo le angherie e le sevizie dei carcerieri, che spesso li tenevano in gabbie più piccole del dovuto e in condizioni di sofferenza e degrado, ma anche da parte degli stessi turisti, spesso divertiti dagli orsi in cattività al punto da gettare loro bottiglie in vetro piene di birra perchè ritenuto “divertente”. Grazie all’impegno di alcuni volontari oggi questi animali possono vivere un’esistenza più dignitosa, protetti e in condizioni di tutela e libertà.

Fonte: ecoblog.it

In Europa la metà dell’energia elettrica da fonti rinnovabili entro il 2030

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Secondo The Guardian, il prossimo 15 luglio la Commissione Europea pubblicherà un documento con il quale, per i Paesi dell’Unione, viene fissato l’obiettivo di avere entro il 2030 almeno la metà dell’energia elettrica proveniente da fonti rinnovabili. Questo significa che dovranno essere accelerati i piani relativi alle reti elettriche e in particolare dovranno essere velocizzati i processi di decarbonizzazione. L’obiettivo dell’UE è di tagliare le emissioni del 40% entro il 2030 rispetto al livelli del 1990. Attualmente circa un quarto dell’elettricità europea proviene da fonti rinnovabili e questa quota deve dunque essere raddoppiata entro i prossimi quindici anni. L’obiettivo principale cui aspira l’UE è una quota del 27% di energie rinnovabili nell’intero mix energetico di tutta l’Europa, che include i settori dei trasporti, dell’agricoltura e dell’edilizia che non necessariamente fanno affidamento sull’elettricità. Quest’ultimo proposito è stato particolarmente apprezzato da Joy Oliver, il portavoce della European Wind Energy Association, il quale però ha fatto notare che alcune nazioni come Paesi Bassi, Regno Unito e Francia stanno rischiando di non raggiungere l’obiettivo fissato per il 2020 ossia di avere almeno un quinto dell’energia proveniente da fonti rinnovabili e dunque serve un sistema di monitoraggio più attento per impedire agli “Stati scansafatiche” di nascondersi dietro quelli più virtuosi.

Fonte: ecoblog.it

Carta riciclata: Italia è leader nel Europa ma 7 italiani su 10 lo ignorano

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L’Italia si colloca ai primi posti in Europa nel riciclo di carta e cartone e ciò costituisce un vanto per i suoi cittadini che dimostrano di essere attenti all’ambiente. Tuttavia 7 italiani su 10 non sono al corrente di questo dato così importante, come emerge da un sondaggio condotto su campioni di popolazione nelle province di Rovigo, Vicenza, Verona , Salerno, Frosinone e Lucca. Lo scopo dello studio era quello di saggiare la percezione degli italiani sull’industria del riciclo e la posizione dell’Italia a livello europeo; il sondaggio a cui ci riferiamo è stato condotto da Ipsos per conto della Comieco; dai dati raccolti risulta palese che la maggior parte non ha contezza della posizione privilegiata dell’Italia nella classifica europea, addirittura nutre la convinzione che si trovi agli ultimi posti! Inoltre è emerso che soltanto per il 4% della popolazione l’Italia si colloca al primo posto in Europa, mentre per il 25% la nostra nazione è fra i primi posti. In ogni caso si evidenziano informazioni quasi vaghe ed un’insufficiente conoscenza dell’argomento. È quanto conferma, in sintesi, anche il noto sondaggista Nando Pagnoncelli, amministratore delegato di Ipsos, osservando inoltre che il maggiore livello di informazione in questo campo si registra a Lucca e provincia; tuttavia è emerso anche che tra gli intervistati manca una conoscenza approfondita delle attività che si svolgono nelle industrie cartarie per il riciclaggio. Questa assenza di consapevolezza fra gli italiani si spiega perché probabilmente, a livello comunicativo, risultano più sensazionali, e quindi veicolano con maggiore diffusione, le notizie che fanno scandalo, come ad esempio il problema dello smaltimento dei rifiuti in alcune grandi città, anziché quelle positive. Dai sondaggi condotti da Ipsos per conto di Comieco si evince che per la maggior parte degli intervistati, soprattutto fra Salerno e Frosinone, il consumo di carta in futuro è destinato a diminuire, ma, nel complesso, circa il 30% ritiene che possa aumentare. Ciò rappresenterebbe una vera minaccia per le foreste amazzoniche se si perseverasse nell’uso di carta vergine (ottenuta dalla cellulosa), quindi è importante sensibilizzare al consumo di quella riciclata con una forte campagna d’informazione sia da parte dei media che delle aziende interessateunnamed

. Molte aziende i cui prodotti sono costituiti principalmente da carta e cartone, sono già orientate verso l’utilizzo del prodotto ecologico; infatti sono tantissimi i libri i quaderni, i manuali, realizzati in carta riciclata anziché in carta vergine. Inoltre, le proposte delle aziende che offrono servizi di stampa online, come ad esempio questa, di prediligere la carta riciclata diventa un valido strumento di sensibilizzazione sul tema del riciclo della carta e sul mondo dell’industria che lo sostiene. In tal modo, non solo i rischi connessi alla deforestazione si riducono sensibilmente, ma si contribuisce a rendere i cittadini italiani consapevoli del loro status nella classifica del riciclo a livello europeo; a formare una coscienza ecologica che spinga alla raccolta differenziata e ad un nuovo e più corretto stile di vita. I primi costruttori di carta furono i Cinesi nel lontano 105 d. C. che la ottennero utilizzando materiale povero come stracci, corteccia e reti.  Da allora, attraverso lunghi secoli e splendide civiltà, la carta si è rivelata un materiale prezioso e ha trovato sempre maggiore impiego .Oggi, noi protagonisti del nostro tempo, continuiamo a usarla in modo responsabile.

L.P.

#Allarmenatura: le associazioni in Europa si mobilitano per difendere la biodiversità

Si è aperta la consultazione online cui possono partecipare tutti i cittadini europei: la natura sta morendo sotto i nostri occhi e così il pianeta, occorrono misure per fermare il disastro.naturadaproteggere

È stata attivata (e lo rimarrà fino al 24 luglio) sui siti di Lipu, Legambiente e Wwf la consultazione online aperta a tutti i cittadini europei. L’appello che viene lanciato alla Commissione europea è quello di «migliorare l’applicazione delle direttive e rinforzare la difesa di specie e habitat». In tutta Europa sono 100 le associazioni ambientaliste che si sono mobilitate. «Si tratta – dicono i promotori – di una grande campagna sul web per salvare la natura europea dai propositi di deregulation del presidente della Commissione europea Jean Claude Juncker». Protagonisti dell’iniziativa sono BirdLife Europa (Lipu in Italia), Wwf, EEB (European Environmental Bureau, di cui fanno parte Legambiente, Fai, Pronatura e Mamme antismog) e Friends of the earth Europa che in 28 Paesi offrono l’opportunità a centinaia di milioni di cittadini europei, in modo semplice e chiaro, di pronunciarsi contro le minacce che vengono portate alla protezione della natura e per ottenere dalla Commissione europea una migliore implementazione e rafforzamento delle leggi europee sulla biodiversità. Le firme di soci, sostenitori e semplici cittadini vengono raccolte in Italia grazie all’impegno di Lipu, Wwf e Legambiente che, con una campagna sui media, in particolare i social network, convoglieranno i consensi sulle pagine www.lipu.it/allarmenatura,http://www.wwf.it/keepnaturealive e  www.legambiente.eu. «La campagna fornisce le risposte ai quesiti posti dalla Commissione europea riguardo le direttive “Habitat” e “Uccelli” nel contesto della cosiddetta “Fitness Check” – aggiungono le associazioni coinvolte – il processo cioè tramite il quale la Commissione europea sta effettuando un’approfondita valutazione delle due direttive sulla natura per verificare se esse sono coerenti ed efficaci rispetto agli obiettivi di conservazione della biodiversità europea. Un processo che si tiene in un clima ostile alla conservazione della natura». Le direttive “Habitat” e “Uccelli” sono riconosciute come tra le più forti leggi al mondo per la difesa di animali selvatici, piante e habitat dall’estinzione. Grazie a queste normative, l’Europa ha il più grande network al mondo di aree protette, la rete Natura 2000, che copre circa il20% del territorio europeo e il 4% dei suoi siti marini. La campagna su Internet permette ai cittadini di prendere parte alla consultazione ed è l’unica opportunità per il pubblico di esprimere il proprio punto di vista durante questa fase di valutazione tecnica. «Abbiamo una grande mole di evidenze scientifiche che mostrano come queste direttive, quando implementate, funzionano – dichiara Angelo Caserta, direttore di BirdLife Europa – E anche numerosi esempi che dimostrano come queste normative non ostacolano lo sviluppo dell’economia». «Il Wwf sta combattendo da 30 anni affinché l’Europa avesse leggi per la protezione della natura che fungessero da modello per il mondo intero – afferma Tony Long, direttore dell’ufficio Policy del Wwf Europa – Nessuno può avere interesse a riportare le lancette dell’orologio, non la natura stessa e nemmeno noi umani che dipendiamo da essa per la nostra sopravvivenza». Per Jeremy Wates, segretario generale EEB (European Environmental Bureau), «invece di disfare le leggi europee, la Commissione europea e gli stati membri dovrebbero mettere più impegno nella loro implementazione, e assicurarsi che portino gli enormi benefici che possono portare alla natura così come a noi e alla nostra economia». Fino al 24 luglio Facebook e Twitter si arricchiranno di decine di contenuti che lanceranno l’ #allarmenatura e racconteranno le tante storie di successo sul salvataggio, grazie alle normative europee, di specie rare e di siti preziosi per la biodiversità; inoltre tante testimonianze di Vip e gente comune sulla natura da amare e salvare, veicolati sui social tramite l’hashtag #lamianatura.

Fonte: ilcambiamento.it