Lo dice un nuovo studio pubblicato da Copernicus Atmosphere Monitoring Service insieme alla London School of Hygiene and Tropical Medicine (LSHTM), che ha esaminato la correlazione tra le diverse misure governative adottate nella prima fase della pandemia, la diminuzione dei principali inquinanti in 47 grandi città europee e il tasso di mortalità associata. I risultati confermano le stime precedenti, secondo cui la diminuzione dell’inquinamento si è tradotta in centinaia di decessi evitati
Patrice Calatayu / Flickr cc
Secondo nuovo studio pubblicato da Copernicus Atmosphere Monitoring Service (CAMS) insieme alla London School of Hygiene and Tropical Medicine (LSHTM), durante la prima fase di lockdown in Europa per la pandemia da Covid_19, sono stati evitati oltre 800 morti grazie a un miglioramento della qualità dell’aria. Lo studio peer-reviewed ha esaminato gli effetti quantitativi della riduzione dei livelli di inquinamento e, per la prima volta, ha messo quantitativamente a confronto l’impatto delle diverse misure politiche adottate nei diversi paesi dell’Unione. I risultati confermano le stime precedenti, secondo cui la diminuzione dell’inquinamento si è tradotta in centinaia di decessi evitati in tutte le città.
I risultati più importanti dello studio:
L’impatto delle diverse misure politiche riscontrato sulla qualità dell’aria variava sensibilmente tra le misure adottate.
Le misure che hanno limitato la quotidianità, come la chiusura di scuole e luoghi di lavoro, hanno avuto l’impatto più significativo sui livelli di inquinamento dell’aria. Le restrizioni relative ai viaggi nazionali e internazionali, tuttavia, hanno evidenziato un minor impatto sui livelli di inquinamento locale.
Gli scienziati stimano un totale di oltre 800 decessi evitati grazie al miglioramento della qualità dell’aria derivante dalle misure governative adottate per limitare la diffusione del virus SARS-Cov-2.
Gli scienziati impegnati nello studio hanno esaminato la correlazione tra diverse misure governative, la diminuzione dei principali inquinanti normativi tra cui NO2, ozono, particolato fine PM2.5 e PM10 in 47 grandi città europee, e il tasso di mortalità associata durante il periodo iniziale della pandemia COVID-19 in Europa (dal mese di febbraio a luglio 2020).
I dati relativi alla prima fase di lockdown per COVID possono aiutare a progettare strategie di inquinamento atmosferico più efficaci
Il principale risultato della ricerca ha dimostrato che l’esito differiva notevolmente tra i vari interventi. Ad esempio, la chiusura di scuole e luoghi di lavoro, la cancellazione di eventi pubblici e l’obbligo di restare a casa hanno avuto l’impatto più significativo sulla riduzione dei livelli di NO2. Viceversa, le restrizioni relative a viaggi nazionali e internazionali hanno avuto un impatto minimo sui livelli di inquinamento dell’aria locale. È significativo notare che lo studio ha quantificato i cambiamenti nei decessi prematuri causati da cambiamenti dell’inquinamento a breve termine in tutte le città. Utilizzando i cambiamenti osservati nelle concentrazioni giornaliere degli inquinanti studiati, combinati con la valutazione dell’esposizione delle persone, gli scienziati stimano che un totale di oltre 800 decessi sono stati evitati grazie al miglioramento della qualità dell’aria derivante dalle misure governative adottate al fine di limitare la diffusione del virus SARS-Cov-2. Parigi, Londra, Barcellona e Milano risultano essere tra le prime sei città con il maggior numero di decessi evitati.
Le città spagnole, francesi e italiane hanno sperimentato la maggiore diminuzione di NO2 tra il 50% e il 60% nel periodo, e questo inquinante si è considerevolmente ridotto in tutta Europa. Le riduzioni di altri inquinanti sono state meno marcate. Tale risultato era atteso, in quanto circa la metà delle emissioni di NO2 vengono generate dal trasporto stradale, che rappresenta il settore più colpito dalle restrizioni governative. Il trasporto stradale contribuisce in maniera sensibilmente inferiore alle emissioni totali degli altri inquinanti esaminati. Questo studio all’avanguardia si è basato sui dati di superficie forniti da CAMS utilizzando un insieme di modelli di qualità dell’aria regionali al fine di comparare le concentrazioni dei principali inquinanti atmosferici ottenute grazie a due scenari specifici di emissioni inquinanti, uno corrispondente a condizioni di “business-as-usual” e l’altro corrispondente a una stima dettagliata delle emissioni risultanti dalle misure governative effettive adottate quotidianamente durante il primo lockdown – variabili a seconda del paese – e per ciascuno dei principali settori di attività (traffico stradale, industria…).
Gli scienziati responsabili dello studio hanno utilizzato questo dataset unico sull’inquinamento atmosferico di CAMS e un approccio metodologicamente avanzato al fine di valutare i singoli interventi politici in ogni città e i relativi effetti sulla diminuzione dei livelli di inquinamento. Sebbene gli effetti siano stati variabili come previsto, è stata osservata un’importante diminuzione di NO2 e, in minor misura, del particolato fine PM2.5 e PM10 nelle aree nelle quali sono state imposte chiusure più severe.
Vincent-Henri Peuch, Director of the Copernicus Atmosphere Monitoring Service (CAMS), ha commentato:” Questa ricerca dispone di un dataset unico fornito da CAMS, che permette di confrontare, nella maniera più realistica e accurata, la qualità dell’aria europea per come essa è stata sperimentata a seguito delle misure adottate a causa della pandemia COVID-19 e ciò che invece sarebbe accaduto in condizioni normali. Questo supera molte limitazioni legate ad altri studi, che hanno paragonato ad esempio anni diversi o periodi differenti. L’insieme multi-modello CAMS utilizzato per generare questo dataset ha capacità senza equivalenti nel mondo. “
“I risultati ottenuti sono estremamente significativi in quanto consolidano l’evidenza quantitativa che le misure governative legate alla pandemia COVID hanno influito direttamente sui livelli di inquinamento atmosferico in tutta Europa, in particolare per quanto riguarda l’inquinante NO2. Oltre all’analisi sulla mortalità durante i primi mesi della pandemia, questo studio potrebbe contribuire a definire le policy futura considerando che risultano evidenti i benefici per la salute pubblica riconducibili alla riduzione dell’inquinamento nelle nostre città e l’efficacia di talune misure”, ha aggiunto. Rochelle Schneider, Honorary Assistant Professor in Geospatial Data Science at LSHTM, Visiting Scientist at ECMWF, e prima autrice dello studio ha dichiarato:”Le politiche governative adottate durante la primavera e l’inizio dell’estate del 2020 ci hanno dato un’opportunità unica di studiare uno scenario “reale” con livelli minori di inquinamento atmosferico inferiori. Questo studio ha espresso forti segnali sul potenziale della ricerca replicabile, scalabile e collaborativa condotta con competenze e conoscenze complementari dalle università di salute pubblica e medicina tropicale, Copernicus e gli istituti di meteorologia. Mettere in collegamento le diverse expertise a seguito e durante l’inizio della pandemia di COVID-19 ci ha fornito la possibilità di stimare i benefici per la salute ottenuti da specifiche misure governative. Questo, e altri studi simili, possono contribuire a lanciare un segnale chiaro: “dobbiamo assolutamente migliorare la qualità dell’aria nelle città per la salute dell’uomo e per l’ambiente”.”
Antonio Gasparrini, Professor of Biostatistics and Epidemiology at London School of Hygiene and Tropical Medicine e senior author dello studio, ha commentato: “Il lockdown durante la prima ondata della pandemia di COVID-19 ha provocato enormi costi sanitari e sociali, seppur offrendo condizioni senza precedenti utili per studiare gli effetti potenziali di politiche rigorose volte a ridurre i livelli di inquinamento nelle aree urbane. Questo “esperimento naturale” ci ha permesso di intravedere come la qualità dell’aria possa essere migliorata grazie a misure drastiche di salute pubblica che sarebbero di difficile attuazione in tempi normali. Le informazioni possono essere importanti per progettare politiche efficaci per affrontare il problema dell’inquinamento nelle nostre città.”
L’inquinamento atmosferico causato dalle industrie in Europa provoca danni alla salute e all’ambiente stimati fino a 430 miliardi di euro per un solo anno, è quanto ha dichiarato l’Agenzia europea dell’ambiente (AEA).
Secondo il nuovo rapporto dell’agenzia, nel 2017 l’inquinamento atmosferico industriale è costato alla società tra i 277 miliardi e i 433 miliardi di euro. Questo rappresenta circa il 2-3% del PIL europeo ed è superiore alla produzione economica totale di molto stati membri in quell’anno. Mentre l’industria europea ha compiuto “progressi significativi” nella riduzione del suo impatto ambientale e climatico, “i costi sociali o “esternalità” causati dall’inquinamento atmosferico del settore rimangono elevati. Secondo il rapporto, degli oltre 11.000 siti che segnalano emissioni inquinanti, 211 sono responsabili della metà dei costi totali. Questi si trovano principalmente in Germania, Regno Unito, Polonia, Spagna e Italia. Secondo l’agenzia dell’UE, l’inquinamento atmosferico causato dalle centrali termiche – per lo più alimentate a carbone – è il più pericoloso per la salute e l’ambiente, seguito dalle emissioni dell’industria pesante, della produzione e della lavorazione del carburante. Seguono le industrie più leggere, la gestione dei rifiuti, l’allevamento e il trattamento delle acque reflue. Secondo lo studio, tra i 30 impianti più inquinanti del continente, 24 sono centrali termoelettriche che si trovano in Europa occidentale, di queste, sette sono in Germania. L’impianto industriale europeo più inquinante si trova invece in Polonia, mentre i successivi quattro sono in Germania. Nonostante i lievi miglioramenti, l’inquinamento atmosferico rappresenta ancora un grave rischio per la salute della popolazione europea. Infatti, i livelli di particolato fine, ozono e ossidi di azoto sono spesso al di sopra degli standard di qualità dell’aria.
Non c’è solo il Veneto, non c’è solo in Nord Italia: l’inquinamento da PFAS minaccia tutta l’Europa. Lo dicono i dato del rapporto dell’Agenzia Europea per l’Ambiente (EEA) “Rischi chimici emergenti in Europa – PFAS”.
Non ci sono solo il Veneto e le altre regioni del nord e centro Italia a essere minacciate dall’inquinamento da PFAS. Anche l’intera Europa è esposta a questo rischio di contaminazione, situazione che rivela una pervasività veramente preocupante di queste sostanze così dannose per la salute. Il rapporto dell’Agenzia Europea per l’Ambiente (EEA) “Rischi chimici emergenti in Europa – PFAS” presenta una panoramica dei rischi noti e potenziali per la salute umana e l’ambiente in Europa causati da sostanze alchiliche perfluorifluorurate (PFAS). Queste sostanze chimiche estremamente persistenti e artificiali sono utilizzate in una varietà di prodotti di consumo e sistemi industriali perché hanno proprietà che risultano particolarmente utili all’industria; vengono usate per esempio per aumentare la repellenza all’olio e all’acqua, ridurre la tensione superficiale o resistere a temperature e prodotti chimici elevati. Attualmente esistono oltre 4.700 diversi PFAS che, a causa della loro estrema persistenza, si accumulano nell’organismo delle persone e nell’ambiente. Sebbene manchino la mappatura e il monitoraggio sistematici di siti potenzialmente inquinati in Europa, le attività di monitoraggio nazionali hanno rilevato PFAS nell’ambiente in tutta Europa e la produzione e l’uso di PFAS hanno anche portato alla contaminazione delle forniture di acqua potabile in diversi paesi europei. Il biomonitoraggio umano ha anche rilevato una serie di PFAS nel sangue dei cittadini europei. Il rapporto dell’EEA avverte che, a causa dell’elevato numero di PFAS, è un compito difficile e dispendioso in termini di tempo valutare e gestire i rischi per queste sostanze individualmente, il che può portare a un inquinamento diffuso e irreversibile.
I costi per la società dovuti a danni alla salute umana e alle bonifiche in Europa sono stati stimati in decine di miliardi di euro all’anno.
Le persone sono principalmente esposte al PFAS attraverso acqua potabile, imballaggi per alimenti e alimenti, polvere, creme e cosmetici, tessuti rivestiti in PFAS o altri prodotti di consumo.
Occorrono dunque serie misure e azioni per sanare questa situazione, limiti chiari di legge e sanzioni, bonifiche e prevenzione.
La direttiva approvata dal Parlamento europeo
sulla plastica monouso getta le basi per grossi cambiamenti nella
progettazione, imballaggio e utilizzo dei beni di consumo, introducendo divieti
su molti oggetti di plastica usa e getta e concetti come la responsabilità
estesa del produttore su molti altri. Riusciranno gli stati membri a recepire
correttamente la direttiva e anzi a cogliere l’occasione per andare oltre il
plastic free e introdurre misure per il riuso, la riduzione a monte dei
rifiuti, il superamento dell’usa e getta? Ne abbiamo parlato con Silvia Ricci,
responsabile campagne dell’ACV Associazione Comuni Virtuosi. Qualche settimana fa abbiamo parlato con Silvia
Ricci, responsabile campagne dell’ACV Associazione Comuni Virtuosi, dello
stato dell’arte nella gestione degli imballaggi in plastica. L’abbiamo ricontattata per entrare più nel dettaglio
della direttiva sulle plastiche monouso o Single Use Plastics (SUP) recentemente
approvata dal Parlamento europeo. In particolare ci interessa avere un suo
parere su quali sono le luci e le ombre del provvedimento europeo e su cosa si
potrebbe fare da subito per preparare il terreno per il miglior recepimento
possibile. Il tema degli imballaggi e dell’usa e getta in genere è infatti uno
dei cavalli di battaglia dell’ACV, oltre che che oggetto di proposte a decisori
politici e aziendali, a partire dal lancio della campagna Porta la Sporta che
ha informato sul marine litter collegandolo agli attuali stili di
vita già dieci anni fa.
Parliamo della
direttiva SUP: qual è la tua valutazione complessiva?
L’Europa con questa
direttiva ha fornito una prima risposta importante che mancava per affrontare
un’emergenza mondiale come l’inquinamento da plastica che, soprattutto
negli ambienti marini e acquatici in genere ha assunto dimensioni allarmanti.
Nonostante il fenomeno fosse già noto almeno dagli anni settanta, come ha evidenziato lo studio “Plastic Industry Awareness of the Ocean
Plastics Problem” del CIEL (Center for International Environmental Law),
l’atteggiamento negazionista adottato in primis dall’industria della chimica e
plastica ha avuto la meglio. Pertanto, decadi dopo, il problema si è
ripresentato, amplificato dal boom di produzione plastica che è passato dai dei
35 milioni di tonnellate del 1970 ai 348 milioni di tonnellate del 2017 e ci è stato “servito sul piatto” , nel senso letterale del termine.
Tuttavia alcune
misure presentate nella prima versione del testo sono state edulcorate
nell’ultima stesura e cercherò di spiegare perché, complessivamente, non
le ritengo commisurate alla reale gravità del fenomeno. Non dimentichiamoci che
l’impatto della plastica sull’ambiente è destinato ad aumentare visto che
anche la produzione plastica aumenta, trainata dall’aumento della
popolazione mondiale e da un maggiore benessere nei paesi in via di
sviluppo. Molto dipenderà pertanto dal recepimento che i paesi membri dovranno
formalizzare all’interno dei propri quadri legislativi. Questa direttiva
potrebbe diventare un’importante opportunità per ripensare il modello lineare
che caratterizza la gestione degli imballaggi – non solo in plastica –
introducendo azioni di prevenzione e riuso che sono indispensabili per
alleggerire il carico che i prodotti usa e getta hanno sull’ambiente, riducendo
al contempo le emissioni climalteranti che sono associate a tutti i processi
produttivi, a prescindere dai materiali.
Quali sono i punti
di forza di questa direttiva ?
Ritengo sicuramente
positivo il divieto di vendita sul mercato comunitario (ai sensi
dell’articolo 5 a partire dal 2021) di quegli articoli usa e getta
che sono diventati rifiuti pervasivi sia in contesti urbani che in natura
rappresentando circa la metà di tutti i rifiuti marini trovati sulle spiagge
europee (per numero). Si tratta di: cotton fioc, posate (coltelli, cucchiai,
forchette, bacchette e agitatori), piatti, cannucce, aste per palloncini,
contenitori in plastiche oxo-degradabili e in polistirene espanso (EPS) per
alimenti e bevande (e relativi coperchi) sia per consumo in loco che da
asporto. Inoltre l’istituzione di regimi di responsabilità estesa del
produttore (EPR, ai sensi dell’articolo 8) per alcuni di questi prodotti non
ancora coperti da tali schemi è a mio avviso la misura determinante per favorire
la prevenzione, l’eco design e la riduzione di prodotti superflui, di cui una
parte può essere sostituita con opzioni riutilizzabili. Principalmente perché
questi regimi prevedono che siano i produttori a sostenere i costi di raccolta
e avvio a riciclo di tali prodotti a fine vita nonché delle attività di pulizia
ambientale e di sensibilizzazione verso i cittadini. Parliamo di articoli come,
ad esempio, involucri di snack dolci e salati, salviette umidificate,
assorbenti e prodotti a base di tabacco contenenti plastica (entro il
gennaio 2023 per la maggior parte degli articoli). Inoltre ritengo importante
che la presenza di materie plastiche venga notificata sull’etichetta del
prodotto insieme all’informazione sugli impatti ambientali e alle opzioni
appropriate di smaltimento.
Infine sono
favorevole alla misura che riguarda i criteri di progettazione degli
articoli SUP che, all’articolo 6, stabilisce che coperchi e contenitori debbano
essere fissati al contenitore in modo da non venire dispersi nell’ambiente. Ma
anche finire nello scarto degli impianti di selezione a causa delle ridotte
dimensioni aggiungerei. Peccato che l’entrata in vigore sia stata posticipata
dal 2021 al 2024. Va detto che i paesi che hanno in vigore il deposito su
cauzione offrono già una soluzione alla dispersione dei tappi con tassi di
intercettazione di bottiglie (e tappi) che possono andare oltre al 90%
dell’immesso. Per quanto riguarda invece prodotti contenenti plastica come i
mozziconi di sigaretta e gli attrezzi da pesca l’obbligatorietà di adesione ad
un un regime di responsabilità estesa con monitoraggio e raggiungimento di
obiettivi nazionali di raccolta avrebbe dovuto arrivare già molto, molto tempo
fa. Ma meglio tardi che mai….
Quali sono invece
le ombre della direttiva? Quali misure avresti voluto vedere incluse sin dalla
prima stesura?
In prima battuta
non avere fissare in sede europea delle obiettivi obbligatori di riduzione per contenitori
per alimenti e bevande. Avere previsto la possibilità per i paesi dell’UE
di adottare restrizioni di mercato per questi manufatti, senza proporre
obiettivi, rischia di non stimolare i governi centrali e locali a prendere
misure legislative in merito. Ma soprattutto di non incentivare le aziende che
utilizzano questi contenitori a dismetterli a favore di alternative più
sostenibili già collaudate. Basta guardare impegni annunciati dalle grandi
catene del fast food per diminuire l’impatto dei propri contenitori per notare
che generalmente si limitano all’eliminazione delle cannucce. Oppure a
sostituire la plastica con altri materiali usa e getta che, seppur riciclabili
o compostabili, vengono poi gestiti con l’indifferenziato. Solamente la catena
di caffetterie inglese Boston Tea Party ha, coraggiosamente, eliminato lo
scorso anno tutti i contenitori monouso e introdotto tazze da asporto
riutilizzabili. Il proprietario della catena ha raccontato di essersi chiesto cosa
poteva fare per non lasciare alle future generazioni un pianeta di spazzatura e
di avere fatto la scelta maggiormente responsabile, nella totale consapevolezza
di incorrere in un’importante riduzione del fatturato (che si è poi
verificata). Abbiamo fatto un appello a Starbucks in collaborazione con Zero Waste Europe, Greenpeace e WWF Italia
prima che aprisse il primo locale a Milano, coinvolgendo anche la Giunta
di Milano che ha dimostrato di apprezzare il gesto, senza che l’appello venisse
colto nella sostanza.
Pertanto in assenza
di provvedimenti, che per ora stanno prendendo alcune città come Berkeley, Amsterdam e Tubinga, che spiegherò a seguire, questo flusso di rifiuti, insieme ai
rifiuti derivati dal commercio online, continuerà a crescere così come i costi
ambientali ed economici collegati a carico delle comunità. In seconda battuta
penso sia stato un errore madornale ritardare di 4 anni il raggiungimento dell’obiettivo
di raccolta separata del 90% per le bottiglie di bevande (articolo 9) che,
dal 2025 slitta al 2029, anche se è stato fissato un obiettivo intermedio del
77% di intercettazione entro il 2025. Una scadenza più vicina avrebbe spinto i
paesi EU ad attivarsi per introdurre al più presto un sistema di deposito per
tutti i contenitori di bevande, seguendo gli esempi di successo dei 10
paesi europei dove il sistema è già rodato e nei quali nessuno vorrebbe più
tornare indietro. Come ho raccontato recentemente la Lituania che ha implementato
un sistema di deposito in tempi da record, ha raggiunto in meno di un anno oltre
il 70% di intercettazione (obiettivo intermedio del 2025), per attestarsi al
92% in due anni, testimonia come la volontà politica possa risolvere dei
problemi convertendoli in opportunità economiche. Infine considero
l’obiettivo del 25% di contenuto riciclato per le bottiglie entro il
2025, per passare al 30% al 2030, alquanto modesto, considerato che gli impegni
annunciati da alcune multinazionali dell’acqua in bottiglia, ma anche di prodotti
per la detergenza, sono molto più ambiziosi. Lo scorso anno Bar le
Duc (United Soft Drinks) è stata la prima marca di acqua minerale ad optare in
Olanda per bottiglie realizzate con il 100% di plastica da riciclo. Evian di
Danone ha annunciato che raggiungerà lo stesso obiettivo entro il 2025 e
Coca-Cola porterà al 50% la percentuale di contenuto riciclato nelle sue bottiglie
al 2030.
Gli Stati membri
hanno due anni per recepire la direttiva nella propria legislazione nazionale
che cosa temi e ti auguri rispetto a questa fase?
Come ho anticipato
mi auguro che i paesi membri recepiscano questa direttiva in modo ambizioso con
misure che si inseriscano come tasselli in un contesto più ampio che è quello
della prevenzione dei rifiuti e del consumo di risorse. Perché è qui che
si gioca la vera partita, ogni rifiuto da smaltire è una sconfitta, anche
rispetto alla lotta al cambiamento climatico. A maggior ragione se teniamo
presente che le previsioni della Banca Mondiale (nel rapporto What a
Waste 2.0) stimano al 2050 un aumento del 70% nella produzione dei
rifiuti, di cui quelli da usa e getta ne costituiscono una parte
importante. Anche le stime dell’Unep che indicano che avremo bisogno del 40% in
più di risorse come energia, acqua, legno e fibre varie andrebbero tenute in
mente quando si legifera. Tornando al clima lo Special report 15 (Sr15)
dell’IPCC recentemente presentato alle Nazioni Unite avverte che entro i
prossimi dodici anni vanno messe in campo misure che abbattano a tempo di
record le emissioni di gas ad effetto serra per mantenere il riscaldamento
della Terra entro i 1,5 gradi centigradi. Assodato che per avere qualche
chance di centrare questo obiettivo vanno intrapresi urgentemente drastici cambiamenti
negli stili di vita, cosa c’è di più scontato che partire con una revisione
dei modelli di consumo usa e getta che, in cambio di comodità fugaci
garantiscono una distruzione perenne degli habitat naturali? In linea peraltro
con l’Obiettivo di Sviluppo Sostenibile nr.12: Consumo e Produzione
Responsabili delle Nazioni Unite. I ritmi massicci di prelievo di risorse
operato da oltre 7 miliardi di “cavallette” non rispettano da almeno mezzo
secolo quelli che sono i tempi naturali di rigenerazione degli ecosistemi. E
anche in Italia non scherziamo, visto che l’Overshoot day, il giorno
dell’anno in cui abbiamo già consumato tutto il nostro budget annuale di
risorse naturali cade, secondo il Global Footprint Network, il 24 maggio, con
quasi tre mesi di anticipo rispetto alla media globale ( il 1 agosto nel 2018)
. Pertanto un recepimento della direttiva SUP non dovrebbe solamente seguire la
Gerarchia EU di gestione dei rifiuti nell’individuazione delle azioni
prioritarie da convertire in legge, ma anche tenere conto, per ogni articolo
che si voglia bandire, ridurre o sostituire, verso quali alternative si
sposterà il consumo. Una volta individuate le possibili opzioni di ripiego ne
andrebbero valutati gli impatti (da enti terzi) e andrebbero previste eventuali
misure a supporto delle opzioni più sostenibili. Anche per evitare di
lasciare questa partita in mano al mercato, che ha interessi che non coincidono
sicuramente con la prevenzione del rifiuto. A meno che non si obblighi il
produttore/utilizzatore a dovere recuperare a fine vita i propri prodotti
assumendosene i costi totali. Queste valutazioni , che sarebbero da fare
con la collaborazione di tutti i portatori di interesse di uno specifico
provvedimento, sono necessarie per identificare possibili effetti
collaterali o conseguenze non volute che possono annullare i benefici
ambientali previsti. La direttiva sui biocarburanti ne è l’esempio più
eclatante: è stata introdotta per i presunti effetti positivi sul clima, ma ha
avuto effetti disastrosi sulla biodiversità, sulla deforestazione e sul
fenomeno conosciuto come cambiamento indiretto di destinazione d’uso del suolo
ILUC (indirect land use change).
L’Italia come si
sta muovendo?
Venendo all’Italia
non sono ancora arrivati “segnali incoraggianti” rispetto all’approccio che ho
delineato. Non ho letto nelle dichiarazioni del Ministro Costa riportate dai
media, alcun accenno alla prevenzione di questi rifiuti. Ad esempio per quanto
riguarda le stoviglie usa e getta in plastica , anche se pochi media ne
hanno fatto accenno, va detto che le misure della direttiva SUP si applicano a
tutte le materie plastiche monouso elencate negli allegati, comprese le
plastiche biodegradabili e compostabili. In un’intervista concessa recentemente
al Corriere il Ministro Costa afferma che stiamo chiedendo una deroga in Europa
per le stoviglie in bioplastica compostabile visto che l’Italia è un
produttore leader a livello europeo di questo settore. Questa linea si
riflette nella misura del credito d’imposta del 36% previsto nella Legge di
Bilancio 2019 che viene concesso alle imprese che acquistano “prodotti
realizzati con materiali provenienti dalla raccolta differenziata degli
imballaggi in plastica, ovvero che acquistano imballaggi biodegradabili e
compostabili secondo la normativa UNI EN 13432:2002, o derivati dalla raccolta
differenziata della carta e dell’alluminio”. Questa è una misura di cui tra
l’altro , non riesco a cogliere l’utilità, se non per la plastica. Ma anche in
questo caso, se si vuole creare un mercato di sbocco per le plastiche da
riciclo servirebbe molto di più di quanto previsto da questa misura. Serve un
quadro legislativo di promozione di modelli di economia circolare che
consideri tutti i flussi di rifiuti che potrebbero essere evitati creando
occupazione verde. Ritengo di basilare importanza porre il tema delle materie
prime seconde per cui va sicuramente creato un mercato, ma se non facciamo
prima un ragionamento su quali sono i “prodotti indispensabili” e se ci devono
essere eccezioni (e perché), si rischia di proporre gli stessi volumi
(insostenibili) di usa e getta in altri materiali, che sono solamente
diversamente impattanti. Mi riferisco ovviamente anche ai prodotti a base di
cellulosa. In questo ultimo anno il marketing delle aziende,
approfittando del sentiment anti-plastica, si è speso nella
promozione dei propri prodotti con claim che sono al limite del greenwashing.
Aggettivi come bio-based, compostabile, biodegradabile, plastic-free
(che è invece necessario quando evidenzia la presenza, insospettabile, di
microplastiche nei prodotti), vengono utilizzati per vendere inducendo il
consumatore a pensare che basti optare per questi prodotti per fare “bene
all’ambiente” quando invece, molto spesso, si tratta di alternative che
risultano “meno dannose” o “diversamente impattanti”.
Per meglio chiarire
cosa intendo mantengo l’esempio già citato delle stoviglie monouso:
indifferentemente dal materiale in cui siano realizzate, che sia carta o
bioplastica, andrebbe stabilito che un loro uso debba diventare di natura
“emergenziale” e cioè in quelle situazioni in cui non possono davvero essere
usate alternative riutilizzabili. Questi manufatti dovrebbero essere comunque
aggravati da una tassa ambientale, sull’esempio di Tubinga, il cui sindaco
spiega che la tassa che verrà introdotta in città (per tutti i tipi di
contenitori monouso e in qualunque materiale) è essenziale per rendere meno
oneroso l’adesione a sistemi riutilizzabili. Ecco perché credo che i governi
centrali in fase di recepimento della direttiva debbano guardare agli esempi di
ordinanze come quelle adottate da Berkely, Amsterdam e Tubinga che offrono spunti
concreti da adattare alle caratteristiche dei diversi contesti.
In cosa consistono
queste tre esperienze?
L’ordinanza di
Berkeley che è quella “più strutturata”, ha il merito di avere creato un percorso
a tappe di creazione del sistema che renderà possibile e agevole, in due
anni circa, avere in città cibo e bevande consumate (in loco o da asporto)
prevalentemente in contenitori riutilizzabili. Parallelamente al divieto per i
contenitori di plastica viene infatti permesso l’utilizzo di contenitori
compostabili ma con un sovrapprezzo obbligatorio. Tutto il percorso è stato
avviato dalla municipalità con il coinvolgimento attivo di tutti gli stakeholder
tra i quali gli esercizi commerciali e i loro rappresentanti e le Ong. L’ordinanza
di Tubinga, precedentemente accennata, ha sempre il merito di promuovere il
riuso anche se con una modalità “meno laboriosa” e magari più veloce. Tassando
tutti i contenitori monouso di qualsiasi materiale l’amministrazione cittadina
vuole evitare che l’esternalizzazione dei costi sulle comunità e contribuenti,
che favorisce economicamente gli utilizzatori di contenitori monouso, penalizzi
la nascita e la diffusione di sistemi di riuso basati sul concetto del
“prodotto come servizio”.
E infine
l’ordinanza di Amsterdam, che è altrettanto efficace “da subito” per uno
specifico flusso di usa e getta, e pertanto “geniale”. Tutti gli organizzatori
di eventi che chiedono da questo mese un permesso di occupazione di suolo
pubblico alla città per eventi e manifestazioni varie, sono obbligati a
servirsi solamente di bicchieri riutilizzabili. I sistemi che gestiscono
contenitori riutilizzabili e funzionano con l’applicazione di una cauzione (
che garantisce la restituzione dei contenitori per la sanificazione e
successivi utilizzi), sono già attivi in Olanda da oltre 10 anni fa e ci sono
diverse aziende che forniscono questo servizio chiavi in mano.
In Europa sprechiamo 88 milioni di tonnellate di cibo ogni anno in media e la parte del leone la fanno frutta e verdura. La maggior parte di questi sprechi sarebbe evitabile se solo maturassero nei cittadini coscienza civica e buone pratiche.
Secondo le stime della FAO, un terzo del cibo prodotto a livello mondiale per il consumo umano va sprecato, nella sola Europa ogni anno se ne sprecano circa 88 milioni di tonnellate, per un costo stimato in circa 143 miliardi di euro l’anno. E a fare il punto, nello specifico, sullo spreco di frutta e verdura è uno studio curato dal Joint Research Centre della Commissione Europea (JRC), che fa il punto sul settore frutta e verdura che contribuisce a quasi il 50% degli sprechi alimentari generati dalle famiglie della UE a 28 Stati; si stima che ogni persona riduca in rifiuto 35,3 kg di frutta e verdura all’anno, 14,2 kg dei quali sarebbero evitabili. La prima differenziazione che fa lo studio è tra il non commestibile, o rifiuto inevitabile, e il commestibile, che diventa rifiuto a causa di comportamenti di acquisto e consumo sbagliati. Sono stati presi in esame 51 tipi di frutta e verdura acquistati, consumati e sprecati nel Regno Unito, Germania e Danimarca nel 2010, arrivando alla conclusione che 21,1 kg di rifiuti pro capite sarebbero inevitabili e 14,2 kg evitabili. In media, il 29% (35,3 kg per persona) di frutta e verdura fresca acquistata dalle famiglie è sprecato, e di questo il 12% (14,2 kg) potrebbe non venire gettato. Gli autori rilevano differenze a causa dei diversi livelli di comportamenti nei consumi, legati essenzialmente a fattori culturali ed economici, che influenzano direttamente la quantità di rifiuti generati. Per esempio, i dati mostrano che sebbene gli acquisti di verdure fresche siano più bassi nel Regno Unito rispetto alla Germania, la quantità di rifiuti inevitabili generati pro-capite è quasi la stessa, mentre la quantità di rifiuti evitabili è più alta nel Regno Unito.
Il problema, dunque, non è di poco conto. In proposito, la Commissione Europea sta predisponendo la seguente serie di azioni:
– elaborazione, entro marzo 2019, di una metodologia comune europea per misurare coerentemente i rifiuti alimentari, in cooperazione con gli Stati membri e le parti interessate;
– utilizzo di una piattaforma sulle perdite e gli sprechi alimentari che riunisce organizzazioni internazionali, organi dell’UE, Stati membri, attori nella catena alimentare, per contribuire a definire le misure necessarie, facilitare e sviluppare la cooperazione, analizzare l’efficacia delle iniziative di prevenzione degli sprechi alimentari, condividere le migliori pratiche e i risultati raggiunti;
– adozione di linee guida per facilitare la donazione di cibo e la valorizzazione di alimenti non più destinati al consumo umano come alimenti per animali, senza compromettere la sicurezza di alimenti e mangimi;
– esaminare i modi per migliorare l’uso della marcatura delle date di scadenza e la loro comprensione da parte dei consumatori.
Non è detto che tali misure siano destinate a funzionare, anche perché gli interventi “dall’alto” non sempre sono veloci ed efficaci e non sempre sortiscono effetti significativi. La cosa più importante sarebbe che ogni persona, ogni cittadini maturasse la consapevolezza che non è più momento per potersi permettere di sprecare nulla.
Il pacchetto mobilità pulita è l’ultima di una serie di proposte politiche mirate a rafforzare la leadership globale dell’Unione europea (UE) in materia di trasporti sostenibili. Per il commissario Miguel Arias Cañete, «la gara mondiale per lo sviluppo di auto pulite è stata avviata».
Con l’entrata in vigore dell’accordo di Parigi, stiamo assistendo a una rinnovata volontà di procedere verso economie a ridotto tenore di carbonio a livello internazionale. Circa un quinto delle emissioni di gas a effetto serra prodotte nel vecchio continente deriva dai trasporti su strada: per questo, la mobilità pulita è una priorità per i legislatori dell’UE. La Commissione europea ha dunque avanzato una serie di proposte politiche per rendere più verdi i trasporti in Europa: l’ultima in ordine di tempo è quella relativa al pacchetto mobilità pulita.
“La gara mondiale per lo sviluppo di auto pulite è stata avviata. L’Europa deve però mettersi al passo se vuole condurre e guidare questo cambiamento globale.”
Miguel Arias Cañete, commissario europeo per l’Azione per il clima e l’energia
Si tratta del secondo pacchetto sulla mobilità presentato nel 2017: il primo, L’Europa in movimento, comprende una rosa di proposte in materia di sicurezza stradale, sistemi di pedaggio intelligenti, traffico, inquinamento atmosferico, emissioni di CO2 e condizioni di lavoro. I pacchetti sono stati elaborati sulla scia della strategia europea per una mobilità a basse emissioni, adottata nel giugno del 2016, che stabilisce una serie di azioni mirate ad aiutare l’Europa a rimanere competitiva nel settore e a rispondere alle crescenti esigenze di mobilità di persone e merci. In diverse regioni del mondo sono già in via di realizzazione investimenti e innovazioni nel campo della sostenibilità dei trasporti su strada, in particolare per quanto concerne i veicoli a basse o a zero emissioni: la Cina, ad esempio, ha introdotto quote di vendita obbligatorie a partire dal 2019, mentre la California e altri nove Stati americani hanno reso più rigorosi gli standard esistenti. L’UE rischia pertanto di perdere terreno in questa gara mondiale e non può permettersi di vestire i panni dell’inseguitrice.
Il pacchetto mobilità pulita comprende nuove norme in materia di emissioni di CO2 per auto e furgoni: rispetto ai livelli del 2021, nell’UE le emissioni medie dei nuovi veicoli rientranti in queste categorie dovranno essere tagliate del 15 % entro il 2025 e del 30 % entro il 2030. Al fine di stimolare i produttori a innovare, è inoltre previsto un meccanismo di incentivi flessibile e indipendente dalle tecnologie, che interesserà i veicoli a basse o zero emissioni.
Nel pacchetto sono poi inclusi una direttiva sui veicoli puliti, la revisione della direttiva sui trasporti combinati, una direttiva sui servizi di trasporto passeggeri effettuati con autobus e un piano d’azione, abbinato a soluzioni in materia di investimenti, per un’infrastruttura per i combustibili alternativi. Inoltre, una nuova iniziativa unionale intende sostenere la produzione di batterie in Europa, che riveste un’importanza strategica.
Le proposte mirano ad aiutare l’UE a centrare i suoi obiettivi in materia di clima ed energia, grazie a un’ingente riduzione delle spese sostenute per i combustibili e a un aumento significativo di competitività e occupazione. Tra i considerevoli benefici derivanti dalla loro applicazione sono da menzionare la riduzione di 170 milioni di tonnellate di CO2 (equivalenti al totale annuale di emissioni in Austria e Grecia) tra il 2020 e il 2030, il miglioramento della qualità dell’aria, il risparmio per i consumatori di circa 18 miliardi di euro l’anno sull’acquisto di combustibili, la possibile creazione di 70 000 posti di lavoro e la riduzione della spesa petrolifera annuale europea di circa 6 miliardi di euro.
In merito al pacchetto mobilità pulita, il commissario per l’Azione per il clima e l’energia, Miguel Arias Cañete, ha affermato: «La gara mondiale per lo sviluppo di auto pulite è stata avviata. L’Europa deve però mettersi al passo se vuole condurre e guidare questo cambiamento globale. Oggi investiamo nell’Europa e tagliamo l’inquinamento per rispettare l’impegno preso con l’accordo di Parigi di ridurre le emissioni di almeno il 40 % entro il 2030».
Dal 15 febbraio il servizio free floating di bici condivise chiude i battenti: “il 60% della nostra flotta europea ha subito danneggiamenti, vandalismi o è stato oggetto di fenomeni di privatizzazione”
L’avventura in Italia e in Europa di Gobee.bike si conclude nel peggiori dei modi, infatti da domani mercoledì 15 febbraio il servizio sarà chiuso. Ad annunciare la fine del servizio di bike sharing free floating che ha rivoluzionato la mobilità nel vecchio continente è la stessa azienda con una lettera inviata a tutti gli utenti.
A decretarne la fine, secondo l’azienda, è stata la “sistematica” serie di atti vandalici che hanno colpito le sue bici da dicembre dello scorso hanno. Sempre secondo Gobee.bike “il 60% della nostra flotta europea ha subito danneggiamenti, vandalismi o è stato oggetto di fenomeni di privatizzazione”.
Ecco la lettera inviata ai 45 mila utenti italiani:
Lo scorso autunno Gobee.bike ha iniziato la sua avventura in diverse città europee. Durante questo periodo le nostre bici hanno fornito un prezioso servizio a numerosi cittadini, rendendoci orgogliosi di un’attività che la nostra comunità di utenti ci ha incoraggiato a migliorare di giorno in giorno.
Il successo che questo servizio ha avuto non ha fatto altro che confermare la nostra visione di mobilità sostenibile e innovazione.
Dopo un caloroso benvenuto, abbiamo da subito compreso che la nostra passione era condivisa dalla maggior parte di voi.
Abbiamo dovuto affrontare una serie di ostacoli, imparando dai nostri errori, dando ascolto ai vostri consigli e investendo il massimo per provare che il bike sharing è una soluzione di mobilità ecologica e sostenibile per le città.
Purtroppo, tra tutte queste sfide, una in particolare ha rappresentato un problema che non potevamo superare: nelle ultime settimane i danni alla nostra flotta hanno raggiunto limiti che non possiamo più contenere con le nostre forze e con le nostre risorse.
Con tristezza annunciamo ufficialmente alla nostra comunità di utenti la fine del servizio di Gobee.bike in Italia, oggi (domani, ndr) 15 febbraio 2018.
È stata una decisione molto difficile, deludente e frustrante per tutto lo staff di Gobee.bike, che ha lavorato sin dall’inizio con passione per far sì che questo progetto fosse realizzabile.
Durante i mesi di dicembre e gennaio, le nostre biciclette sono diventate il bersaglio di sistematici atti di vandalismo, trasformandosi così in oggetti da distruggere per puro divertimento.
Mediamente, il 60% della nostra flotta europea ha subito danneggiamenti, vandalismi o è stato oggetto di fenomeni di privatizzazione.
Per questi motivi non c’è stata nessun’altra opzione se non procedere al termine del servizio a livello nazionale e continentale. Una decisione sofferta dal punto di vista morale, umano e finanziario.
Vogliamo ringraziarti un’ultima volta per tutte le tue pedalate sulle nostre bici verdi; per il tuo supporto, la tua pazienza e per averci stimolato a migliorare. Grazie a ognuno di voi abbiamo raggiunto più di 45.000 utenti in Italia.
Ringraziamo i nostri partner per aver visto in questo progetto l’opportunità di aumentare la consapevolezza su questo nuovo servizio di mobilità sostenibile, diffondendo i nostri valori.
Ringraziamo inoltre i vari Comuni che hanno riposto in noi fiducia aiutandoci in questo meraviglioso progetto e aprendo le porte delle loro città al nostro servizio.
E il più grande ringraziamento va al team Gobee.bike presente in ogni città. Senza alcun dubbio, sono stati la cosa migliore che abbiamo avuto da quando abbiamo iniziato questa avventura.
Gobee.bike è nata dalla nostra passione per la mobilità. Abbiamo fondato Gobee.bike dalla convinzione che avrebbe fatto riscoprire un nuovo tipo di libertà.
Abbiamo fatto una pedalata fantastica. Ti incoraggiamo a promuovere i valori inerenti al bike-sharing e alla stessa Gobee.bike: libertà, condivisione e innovazione. I valori che c’hanno portato fin qui e che hanno dato vita, anche se per poco, a questo fantastico progetto.
Gobee.bike non è solo trasporto e innovazione: è una comunità che hai contribuito a creare e che durerà per sempre.
Anche se non è facile, questo non è un addio, ma un arrivederci.
Dalla sua fondazione nel 2002, la piattaforma europea di riciclaggio (ERP) ha raccolto e riciclato oltre tre milioni di tonnellate di rifiuti di apparecchiature elettriche ed elettroniche in tutta Europa. Questo è equivalente alla quantità di RAEE generati in tutta l’Unione europea entro un anno. ERP, la piattaforma europea di riciclaggio ha pubblicato il rapporto sui Raee europei. Dalla sua fondazione nel 2002 ERP ha raccolto e riciclato oltre tre milioni di tonnellate di rifiuti di apparecchiature elettriche ed elettroniche in tutta Europa. Questo è equivalente alla quantità di RAEE generati in tutta l’Unione europea in un anno. Il riciclaggio di 3 milioni di tonnellate di rifiuti elettrici può far risparmiare fino a 32 milioni di tonnellate di emissioni di CO2, oltre a salvare risorse preziose e proteggere l’ambiente e la salute collettiva. In Italia nel 2015 sono state raccolte e trattate da Erp oltre 26mila tonnellate di apparecchiature elettriche ed elettroniche a fine vita (+7% rispetto al 2014). La quantità di RAEE è in costante aumento, non solo in Europa, ma in tutto il mondo. Entro il 2021, secondo il Global E-Waste Monitor rilasciato di recente, saranno circa 52 milioni di tonnellate all’anno. Le sostanze pericolose emesse durante la discarica possono contaminare il suolo e le falde acquifere e causare danni enormi all’ambiente e all’uomo. Al fine di ridurre il danno ambientale causato dai RAEE e conservare le risorse naturali, è essenziale aumentare il tasso di riciclaggio di questi dispositivi e promuovere la trasformazione in un’economia veramente circolare. In questo contesto, ERP accoglie con favore l’accordo recentemente concluso, tra il Consiglio dell’Unione europea, il Parlamento europeo e la Commissione europea sull’economia circolare. La strategia sulla plastica, che è stata pubblicata dalla Commissione europea il 16 gennaio 2018, è un altro passo importante, secondo ERP. Entrambe le iniziative comprendono misure necessarie per rafforzare l’economia circolare e per aumentare ulteriormente la raccolta e il riciclaggio dei principali flussi di rifiuti come i RAEE, i rifiuti di imballaggio e le batterie usate.
“La piattaforma europea per il riciclaggio accoglie con favore l’intenzione dell’Unione europea di rafforzare il principio della responsabilità estesa del produttore e di stimolare la concorrenza nel mercato dei rifiuti”, afferma Sabine Balaz, Managing Director di ERP Austria. “Con il riciclaggio di tre milioni di tonnellate di RAEE, ERP dimostra che la responsabilità estesa del produttore in un ambiente competitivo porta grandi benefici all’ambiente, mantenendo al tempo stesso un costo ragionevole per i produttori. Promuove anche l’innovazione, che a sua volta porta a una migliore qualità, riciclaggio dei rifiuti non pericolosi e risorse di economia circolare di migliore qualità “.
Per quanto riguarda il pacchetto sull’economia circolare, l’ERP raccomanda in particolare una chiara definizione dei ruoli e delle responsabilità di tutti gli attori coinvolti. Piacevole è anche l’estensione della responsabilità estesa del produttore alle società di vendita per corrispondenza che vendono le loro merci da uno stato membro all’altro. Questa misura aiuta a contrastare il problema dei free riders e crea condizioni di parità tra i produttori. Tuttavia, ERP lamenta che il compromesso manca di una chiara definizione delle responsabilità organizzative dei produttori. Ciò potrebbe ostacolare la concorrenza, poiché i produttori di alcuni Stati membri potrebbero essere potenzialmente legati a una specifica organizzazione di responsabilità del produttore invece di essere liberi di scegliere tra diversi sistemi concorrenti. Per quanto riguarda la strategia sulle materie plastiche, ERP accoglie con favore la proposta di revisione della direttiva sui rifiuti di imballaggio e di imballaggio, che mira a un’ulteriore armonizzazione dei requisiti. Ciò al fine di garantire che tutti gli imballaggi in plastica possano essere riciclati a costi contenuti e che venga rafforzato il principio della responsabilità estesa del produttore.
Spetta a Torino il triste primato di città più inquinata d’Italia e d’Europa, al terzo posto Alessandria. La situazione è critica per ben sei capoluoghi piemontesi su otto. Sono questi alcuni dei preoccupanti dati emersi da “Mal’Aria 2018”, il rapporto di Legambiente sull’inquinamento atmosferico nelle città italiane. “Non servono misure sporadiche, occorre ripartire da un diverso modo di pianificare gli interventi nelle aree urbane”.
In Italia l’emergenza smog è sempre più cronica e a guidare la classifica nazionale è Torino, con il record negativo di 112 giorni di livelli di inquinamento atmosferico illegali. Nel 2017 in ben 6 capoluoghi piemontesi su 8 è stato superato, almeno in una stazione ufficiale di monitoraggio di tipo urbano, il limite annuale di 35 giorni per le polveri sottili con una media giornaliera superiore a 50 microgrammi/metro cubo. Sono questi alcuni dati emersi da Mal’Aria 2018 – “L’Europa chiama, l’Italia risponde?”, il rapporto sull’inquinamento atmosferico nelle città italiane di Legambiente. Dal report emerge che nel 2017 in ben 39 capoluoghi di provincia italiani è stato superato il limite. Le prime posizioni della classifica sono tutte appannaggio delle città del nord (Frosinone è la prima del Centro/Sud, al nono posto), a causa delle condizioni climatiche che hanno riacutizzato l’emergenza nelle città dell’area del bacino padano.
Ben cinque su 39 capoluoghi hanno oltrepassato addirittura la soglia di 100 giorni di smog oltre i limiti: Torino (stazione Grassi) guida la classifica con il record negativo di 112 giorni di livelli di inquinamento atmosferico illegali; Cremona (Fatebenefratelli) con 105; Alessandria (D’Annunzio) con 103; Padova (Mandria) con 102 e Pavia (Minerva) con 101 giorni. Ci sono andate molto vicine anche Asti (Baussano) con 98 giorni e Milano (Senato) con le sue 97 giornate oltre il limite. Seguono Venezia (Tagliamento) 94; Frosinone (Scalo) 93; Lodi (Vignati) e Vicenza (Italia) con 90.
Il dossier Mal’Aria 2018 contiene anche il focus “Che aria tira in città: il confronto con i dati europei” dal quale emerge che le principali città italiane sono tra le più critiche a livello europeo per quanto riguarda l’inquinamento atmosferico, secondo i dati elaborati da Legambiente a partire dall’ultimo report del 2016 dell’Organizzazione mondiale della Sanità. Legambiente ha confrontato le medie annuali di PM10 di 20 grandi città di Italia, Spagna, Germania, Francia, e Regno Unito (dati 2013). I valori peggiori si registrano proprio a Torino e negli anni successivi al 2013 la situazione delle città italiane non è migliorata.
“Come ribadiamo da anni non servono misure sporadiche, ma è urgente mettere in atto interventi strutturali e azioni ad hoc sia a livello nazionale che locale – ha spiegato Stefano Ciafani, direttore generale Legambiente –. Una sfida che la prossima legislatura deve assolutamente affrontare. Gli innumerevoli protocolli e accordi non devono riguardare solo le regioni padane, ma tutte le regioni e le città coinvolte da questa emergenza. Occorre ripartire da un diverso modo di pianificare gli interventi nelle aree urbane, con investimenti nella mobilità collettiva, partendo da quella per i pendolari, nella riconversione sostenibile dell’autotrazione e dell’industria, nella riqualificazione edilizia, nel riscaldamento coi sistemi innovativi e nel verde urbano”.
I dati riferiti da Legambiente confermano i risultati del monitoraggio effettuato da Greenpeace nei pressi di dieci scuole dell’infanzia e primarie di Torino. La situazione riscontrata nelle scuole torinesi, all’orario della prima campana, è stata la peggiore emersa dai monitoraggi fatti dall’associazione ambientalista nelle quattro città italiane maggiormente interessate dalla concentrazione di biossido di azoto. Classificato tra le “sostanze certamente cancerogene”, il biossido di azoto negli ambienti urbani proviene per il 70-80% dal settore dei trasporti, e in massima parte dai diesel. I suoi effetti patogeni sono principalmente a carico delle vie respiratorie, del sistema sanguigno, delle funzioni cardiache. È inoltre particolarmente nocivo sui bambini causando infezioni alle vie respiratorie, asma, polmoniti, ritardo nello sviluppo del sistema nervoso e dei processi cognitivi.
Greenpeace afferma: “C’è un solo modo per abbattere le concentrazioni di biossidi di azoto nelle grandi città: limitare progressivamente la circolazione dei diesel, fino a vietarla nei prossimi anni”.
Fuso eCanter, scatta la produzione in Europa del primo autocarro leggero a trazione elettrica prodotto in serie.
Il Fuso eCanter avvia la produzione in Europa. Si tratta del primo autocarro leggero a trazione elettrica prodotto in serie e verrà realizzato nello stabilimento portoghese di Tramagal. L’evento in terra lusitana segue quello del 7 luglio, quando è iniziata la produzione nello stabilimento giapponese di Kawasaki. Il veicolo eCanter di Fuso, marchio di Daimler Trucks Asia, nasce sulle linee del Canter tradizionale, ed è equipaggiato con sei batterie agli ioni di litio ad alto voltaggio, 420 V e 13,8 kWh ciascuna. L’autonomia dichiarata è di 100 km di autonomia e il carico utile ammonta fino a tre tonnellate. Il sistema di batterie viene fornito da Accumotive, affiliata al 100% di Daimler, con sede nella città tedesca di Kamenz. Secondo Daimler è possibile risparmiare fino a 1.000 euro per 10.000 km in termini di costi di esercizio oltre alle eventuali agevolazioni dei singoli stati per quanto riguarda bollo e assicurazione. Nello stabilimento di Tramagal saranno realizzati i veicoli elettrici destinati al mercato europeo e americano utilizzando le linee dedicate al Fuso Canter tradizionale: qui oltre 400 collaboratori producono il camion per circa 30 paesi europei, oltre a Israele, Marocco e Turchia. Quasi il 95% dei veicoli prodotti viene quindi esportato. Dal 2012 i dipendenti di Tramagal costruiscono inoltre Fuso Canter Eco Hybrid, versione ibrida del Canter lanciata nel 2006. I Fuso eCanter costruiti in Portogallo verranno consegnati ai clienti di Europa e Stati Uniti nei prossimi mesi.