Lo comunica l’IEA nel suo ultimo rapporto, in cui spiega che Il balzo è dovuto all’eccessivo affidamento al carbone. Il massimo storico è dovuto all’accelerazione dell’economia a causa del Covid-19 che si attesta a 36,3 miliardi di tonnellate, più che compensando il declino indotto dalla pandemia nell’anno precedente. Il balzo è dovuto all’eccessivo affidamento al carbone
Secondo una nuova analisi dell’IEA, nel 2021 il balzo economico dovuto alla pandemia ha accelerato le emissioni globali di anidride carbonica dovute all’energia portandole al suo massimo storico di 36,3 miliardi di tonnellate, con un aumento del 6%. L’accelerazione è dovuta al maggiore affidamento al carbone per alimentare tale crescita. L’IEA nel suo rapporto Global Energy Review: CO2 Emissions in 2021 ribadisce che l’aumento delle emissioni di oltre 2 miliardi di tonnellate è stato il più grande nella storia in termini assoluti, più che compensando il declino indotto dalla pandemia dell’anno precedente. La ripresa della domanda di energia nel 2021 è stata aggravata dalle condizioni meteorologiche e del mercato energetico avverse, in particolare dai picchi dei prezzi del gas naturale, che hanno portato a una maggiore combustione di carbone nonostante la produzione di energia rinnovabile abbia registrato la sua più grande crescita di sempre. I dati sulle emissioni globali di CO2 e sulla domanda di energia si basano sull’analisi dettagliata dell’IEA regione per regione e combustibile per combustibile, attingendo agli ultimi dati ufficiali nazionali e ai dati energetici, economici e meteorologici pubblicamente disponibili. Insieme alle stime delle emissioni di metano pubblicate dall’IEA il mese scorso e alle stime delle emissioni di protossido di azoto e di CO2 legate al “flaring”, la nuova analisi mostra che le emissioni complessive di gas serra dall’energia sono salite al livello più alto mai raggiunto nel 2021.
I numeri chiariscono che la ripresa economica globale dalla crisi del Covid-19 non è stata la ripresa sostenibile che il direttore esecutivo dell’IEA Fatih Birol ha chiesto durante le prime fasi della pandemia nel 2020. Il mondo ora deve garantire che il rimbalzo globale delle emissioni nel 2021 è stato un evento unico e che una transizione energetica accelerata contribuisce alla sicurezza energetica globale e alla riduzione dei prezzi dell’energia per i consumatori.
Il carbone ha rappresentato oltre il 40% della crescita complessiva delle emissioni globali di CO2 nel 2021, raggiungendo il massimo storico di 15,3 miliardi di tonnellate. Le emissioni di CO2 del gas naturale sono rimbalzate ben al di sopra dei livelli del 2019 a 7,5 miliardi di tonnellate. Con 10,7 miliardi di tonnellate, le emissioni di CO2 del petrolio sono rimaste significativamente al di sotto dei livelli pre-pandemia a causa della limitata ripresa dell’attività di trasporto globale nel 2021, principalmente nel settore dell’aviazione.
Nonostante il rimbalzo dell’uso del carbone, le fonti di energia rinnovabile e l’energia nucleare hanno fornito una quota maggiore della produzione globale di elettricità rispetto al carbone nel 2021. La generazione da fonti rinnovabili ha raggiunto il massimo storico, superando gli 8.000 terawattora (TWh) nel 2021, registrando 500 TWh al di sopra del livello del 2020. La produzione di energia eolica e solare fotovoltaica è aumentata rispettivamente di 270 TWh e 170 TWh, mentre la produzione idroelettrica è diminuita a causa degli effetti della siccità, in particolare negli Stati Uniti e in Brasile.
L’uso del carbone per la produzione di elettricità nel 2021 è stato intensificato dai prezzi record del gas naturale. I costi di esercizio delle centrali a carbone esistenti negli Stati Uniti e in molti sistemi energetici europei sono stati considerevolmente inferiori a quelli delle centrali a gas per la maggior parte del 2021.
Il passaggio da gas a carbone ha spinto le emissioni globali di CO2 dalla produzione di elettricità di ben oltre 100 milioni di tonnellate, in particolare negli Stati Uniti e in Europa, dove la concorrenza tra centrali elettriche a gas e a carbone è più serrata.
Il rimbalzo delle emissioni globali di CO2 al di sopra dei livelli pre-pandemia è stato in gran parte trainato dalla Cina, dove sono aumentate di 750 milioni di tonnellate tra il 2019 e il 2021. La Cina è stata l’unica grande economia a registrare una crescita economica sia nel 2020 che nel 2021. L’aumento delle emissioni in questi due anni in Cina hanno più che compensato il calo aggregato nel resto del mondo nello stesso periodo. Nel 2021, le emissioni di CO2 della Cina sono aumentate di oltre 11,9 miliardi di tonnellate, rappresentando il 33% del totale globale.
L’aumento delle emissioni della Cina è il risultato in gran parte di un forte aumento della domanda di elettricità che dipendeva fortemente dall’energia a carbone. Con una rapida crescita del PIL e un’ulteriore elettrificazione dei servizi energetici, la domanda di elettricità in Cina è cresciuta del 10% nel 2021, più velocemente della crescita economica dell’8,4%. Questo aumento della domanda di quasi 700 TWh è stato il più grande mai registrato in Cina. Con la crescita della domanda che supera l’aumento dell’offerta da fonti a basse emissioni, il carbone è stato utilizzato per soddisfare più della metà dell’aumento della domanda di elettricità. Ciò nonostante il paese abbia visto anche il suo più grande aumento mai registrato nella produzione di energia rinnovabile nel 2021.
Le emissioni di CO2 in India sono fortemente rimbalzate nel 2021 per superare i livelli del 2019, trainate dalla crescita dell’uso del carbone per la produzione di elettricità. La produzione a carbone ha raggiunto il massimo storico in India, balzando del 13% al di sopra del livello del 2020. Ciò è in parte dovuto al fatto che la crescita delle energie rinnovabili è rallentata fino a un terzo del tasso medio registrato nei cinque anni precedenti.
La produzione economica globale nelle economie avanzate è tornata ai livelli pre-pandemia nel 2021, ma le emissioni di CO2 sono aumentate in modo meno marcato, segnalando una traiettoria più permanente di declino strutturale. Le emissioni di CO2 negli Stati Uniti nel 2021 sono state del 4% inferiori al livello del 2019. Nell’Unione Europea erano inferiori del 2,4%. In Giappone, le emissioni sono diminuite del 3,7% nel 2020 e sono rimbalzate di meno dell’1% nel 2021. Su base pro capite, le emissioni di CO2 nelle economie avanzate sono scese in media a 8,2 tonnellate e sono ora al di sotto della media di 8,4 tonnellate in Cina, sebbene permangano ampie differenze tra le economie avanzate.
I settori agricolo, forestale e zootecnico possono contribuire agli obiettivi globali di mitigazione e di sviluppo di un territorio, se vengono messe in atto delle attività sostenibili di uso del suolo. Lo dice un nuovo studio diretto dalla Fondazione Centro Euro-Mediterraneo sui Cambiamenti Climatici
Le emissioni di gas serra del settore agricolo, forestale e altri usi del suolo (il cosiddetto settore AFOLU, Agriculture, Forestry and Other Land Use), rappresentano il 24% delle emissioni globali; i principali driver sotto accusa sono le emissioni legate alla deforestazione, le emissioni di metano degli allevamenti o prodotte dalla fermentazione anaerobica di materia organica, principalmente dalle coltivazioni di riso, o di protossido di azoto (N2O) legate all’uso di fertilizzanti in agricoltura. Tale settore è pertanto uno dei principali responsabili del cambiamento climatico, secondo solo al settore energetico. Un nuovo studio diretto dalla Fondazione CMCC esplora come la gestione sostenibile del territorio possa contribuire agli obiettivi di mitigazione globali e di sviluppo sostenibile a livello locale. I ricercatori hanno identificato alcune possibili opzioni di mitigazione land-based per ridurre e compensare le emissioni del settore zootecnico, che rappresenta attualmente una delle principali fonti di gas serra dell’intero settore agricolo. Anche se a partire dagli anni ’90 le emissioni degli allevamenti sono infatti diminuite, con una riduzione del 20% in Europa nel 2018, ancora oggi a livello europeo rappresentano più del 60% del totale delle emissioni del comparto agricolo.
“Il settore agricolo”, spiega Maria Vincenza Chiriacò, ricercatrice CMCC e primo autore dello studio, “ha la caratteristica unica di essere sia parte del problema che della soluzione: da un lato genera emissioni di gas serra, dall’altro può riassorbirle, soprattutto con un’appropriata gestione sostenibile, grazie all’attività di fotosintesi e alla biodiversità dei suoli, rappresentando un importante sink di carbonio. Tutti gli altri settori (energia, edilizia, trasporti) possono impegnarsi per ridurre le proprie emissioni e farle tendere progressivamente a zero, ma non hanno possibilità di sottrarre dall’atmosfera quell’eccesso di CO2 ormai già presente. Il nostro approccio si articola in due fasi successive: per prima cosa realizziamo una stima delle emissioni di gas serra derivanti dalle attività delle aziende zootecniche, ovvero calcoliamo la loro impronta di carbonio, quindi valutiamo il potenziale di alcune attività nel settore agricolo e forestale per la mitigazione delle emissioni stimate nel passaggio precedente.”
I risultati dello studio hanno messo in luce come le opzioni di mitigazione prese in esame, basate sulle pratiche agricole maggiormente sostenibili, possano non solo compensare, ma persino arrivare a portare il settore zootecnico a zero emissioni, a raggiungere, cioè, lacarbon neutrality. I ricercatori CMCC si sono concentrati su un primo caso studio pilota in Italia centrale, in un’area della provincia di Viterbo con una forte vocazione agricola, con l’obiettivo di comprendere come e in che misura le emissioni di gas serra delle aziende zootecniche potevano essere ridotte o compensate attraverso rimozioni di carbonio nella stessa area. Con questo obiettivo in mente, i ricercatori hanno sviluppato e messo a punto un approccio land-based dato dalla combinazione di diverse metodologie, come elaborazioni GIS, misurazioni delle emissioni delle aziende zootecniche attraverso il metodo LCA (life cycle assessment) e altre metodologie dell’IPCC, per arrivare a una stima precisa delle emissioni di gas serra del comparto zootecnico e del potenziale di mitigazione di diverse opzioni d gestione agricola e forestale su scala locale, nelle immediate vicinanze della fonte emissiva (cioè in prossimità delle aziende zootecniche presenti nell’area analizzata).
“I risultati del nostro studio”, commenta il Prof. Riccardo Valentini (Fondazione CMCC e Università della Tuscia), mostrano la possibilità di una totale compensazione delle emissioni delle aziende zootecniche dell’area pilota, indicando i percorsi possibili per arrivare alla carbon neutrality, cioè a zero emissioni o persino a emissioni negative. Se opportunamente gestito il settore agricolo appare quindi un settore chiave, in grado di contribuire in maniera significativa agli obiettivi di mitigazione dei cambiamenti climatici a livello globale.”
“È importante sottolineare”, aggiunge Maria Vincenza Chiriacò, “il concetto di prossimità alla base di questo approccio. Esistono già molti meccanismi di compensazione delle emissioni, ma spesso seguono una logica di compensazione su scala globale, per cui l’assorbimento del carbonio emesso in atmosfera avviene in aree geograficamente molto distanti da quelle in cui sono state generate le emissioni da compensare. Nell’approccio di prossimità realizzato dal CMCC, la compensazione delle emissioni avviene vicino alla fonte emissiva. Questo, oltre a contribuire al raggiungimento degli obiettivi globali di mitigazione del cambiamento climatico, comporta un miglioramento ad ampio raggio dell’intero sistema agro-forestale su scala locale, fornendo tutta una serie di co-benefici ambientali e socio-economici per la comunità e il territorio.”
L’approccio land-based sviluppato dai ricercatori CMCC è diventato di recente anche un web tool. Ideato e sviluppato da CMCC e Istituto di Servizi per il Mercato Agricolo Alimentare (ISMEA), con il supporto finanziario del Programma “Rete Rurale Nazionale 2014–2020”, il tool è completamente gratuito e accessibile online. Strumento rigorosamente scientifico, basato su dati e informazioni scientificamente fondate, il web tool nasce con l’obiettivo di essere facilmente accessibile a tutti i suoi potenziali utenti. La piattaforma consente agli allevatori zootecnici italiani di fare una stima dell’impronta di carbonio della propria azienda zootecnica compilando un breve questionario: poche domande che prendono in considerazione le principali caratteristiche dell’azienda, dal numero di capi allevati, al consumo energetico, alla tipologia di allevamento e al foraggio e ai mangimi acquistati, etc. In questa prima fase si ottiene una stima delle emissioni generate dall’azienda zootecnica. Quindi si passa a una seconda fase dove sono ipotizzate tutta una serie di azioni, ciascuna con il suo protocollo, per ridurre e compensare le emissioni dell’allevamento. Il tool aiuterà pertanto i diversi portatori d’interesse a individuare le migliori opzioni per una gestione più sostenibile del territorio in Italia, in special modo a livello locale. I ricercatori CMCC stanno lavorando con ISMEA e il Programma “Rete Rurale Nazionale 2014–2020” alla creazione di un sistema di tracciabilità della sostenibilità dell’uso del suolo, basato sull’approccio sviluppato, attraverso un meccanismo volontario di incentivazione di pratiche agricole e forestali sostenibili per ridurre e compensare le emissioni zootecniche a livello locale. Il meccanismo utilizzerà dei crediti, che i ricercatori hanno soprannominato “crediti di sostenibilità”, per i molteplici benefici, non solo climatici, che porteranno alle comunità e ai distretti agricoli locali. L’approccio land-based presentato in questo studio è stato sviluppato nell’ambito delle attività del Programma “Rete Rurale Nazionale 2014–2020” grazie a uno specifico accordo tra Fondazione CMCC Centro Euro-Mediterraneo sui Cambiamenti Climatici (CMCC) e Istituto di Servizi per il Mercato Agricolo Alimentare (ISMEA) per il progetto Il distretto agricolo-zootecnico-forestale: un nuovo approccio territoriale per la mitigazione dei cambiamenti climatici.
Leggi la versione integrale dell’articolo (scaricalo gratuitamente entro il 23 febbraio 2021):
Il Consiglio Europeo ha raggiunto un accordo sul nuovo obiettivo climatico dell’Unione. Greenpeace critica la poca ambizione del patto e la riluttanza dei governi ad affrontare le vere cause dell’emergenza climatica. Dopo un’intensa notte di lavori a Bruxelles il Consiglio Europeo ha raggiunto un accordo sul nuovo obiettivo climatico dell’Unione. I leader dei 27 paesi hanno concordato di ridurre le emissioni di gas serra di almeno il 55% entro il 2030, rispetto ai livelli del 1990, aggiornando l’obiettivo attuale di tagliarle del 40% in questo decennio. Il nuovo obiettivo mira a mettere l’UE sulla buona strada per raggiungere zero emissioni nette entro il 2050, una scadenza che secondo gli scienziati il mondo deve rispettare per evitare gli impatti più catastrofici del cambiamento climatico. “L’Europa è leader nella lotta al cambiamento climatico” ha detto in un tweet il presidente del Consiglio europeo Charles Michel, che ha presieduto i colloqui. “Ci mettiamo su un percorso chiaro verso la neutralità climatica nel 2050”, ha invece commentato la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen del nuovo obiettivo. Per Bruxelles, l’accordo offre la possibilità di affermare la propria leadership climatica sulla scena globale. L’UE presenterà il suo obiettivo sabato al vertice virtuale dei leader mondiali delle Nazioni Unite. L’obiettivo è stato conquistato a fatica con un compromesso tra i paesi dell’UE più ricchi, per lo più occidentali e nordici, che desiderano un’azione per il clima più ambiziosa, e gli stati orientali con settori energetici dipendenti dal carbone e industrie ad alta intensità energetica, che volevano condizioni specifiche legate ai tagli delle emissioni. L’obiettivo “almeno il 55%” è buono ma richiederà l’approvazione del Parlamento europeo, che sostiene un più ambizioso taglio delle emissioni del 60%” ha detto Jytte Guteland, il principale legislatore del parlamento sulla questione. “Ci stanno preparando per una trattativa difficile”.
Critici gli ambientalisti
L’accordo raggiunto tuttavia non soddisfa le principali organizzazioni ambientaliste del mondo. Greenpeace critica la poca ambizione del patto e la riluttanza dei governi a seguire la scienza e ad affrontare le vere cause alle origini dell’emergenza climatica in corso.
“I governi senza dubbio definiranno questo accordo come storico, ma la realtà è che si registra solo un piccolo miglioramento rispetto ai tagli alle emissioni che l’Ue aveva già in programma di raggiungere. È evidente che la convenienza politica ha la precedenza sulla scienza del clima, e che la maggior parte dei politici ha ancora paura di affrontare i grandi inquinatori”, dichiara Luca Iacoboni, responsabile della campagna clima di Greenpeace Italia. “Senza ulteriori azioni, il nuovo obiettivo dell’Ue in materia di clima permetterà alle compagnie petrolifere e del gas di continuare con il solito business, e non trasformerà la mobilità e i metodi di produzione del cibo con la velocità necessaria a superare l’emergenza climatica, lasciando così le persone più vulnerabili indifese rispetto agli impatti della crisi climatica”. Nella tarda notte, durante il vertice Ue diversi governi hanno fatto pressioni affinché si riconoscano le cosiddette “tecnologie di transizione” come il gas, che sarebbero dunque ammissibili ai finanziamenti “verdi”. Greenpeace sostiene da tempo che gli investimenti nel gas saranno catastrofici per il clima e porteranno a miliardi di euro di attività economicamente non redditizie. I leader europei si sono accordati per ridurre le emissioni nette dell’Ue del 55% entro il 2030 (sulla base dei livelli del 1990). L’uso del termine “nette” per definire le emissioni comporta che sarà possibile l’uso dei cosiddetti “pozzi di assorbimento”, e dunque ci sarà solo un taglio del 50,5% delle emissioni reali di settori inquinanti come l’energia, i trasporti e l’agricoltura industriale, mentre ci si affida alle foreste per assorbire abbastanza carbonio da raggiungere l’obiettivo del 55%. Questo accordo rappresenta dunque un miglioramento insufficiente rispetto agli obiettivi climatici esistenti, per i quali l’Ue dovrebbe già ridurre le emissioni del 46% nel 2030. La comunità scientifica avverte che, per evitare la catastrofe climatica, l’Ue deve ridurre le emissioni molto più velocemente di quanto accadrebbe con un obiettivo del 55%. Per aumentare le possibilità di limitare il riscaldamento globale a 1,5°C ed evitare i peggiori effetti di una catastrofe climatica, Greenpeace sostiene un taglio minimo del 65% delle emissioni dell’Ue provenienti dai settori inquinanti entro il 2030.
Ricoveri ospedalieri, perdita di benessere, riduzione dell’aspettativa di vita: questi i fattori che fanno la somma del costo sociale, una spesa che per gli italiani ammonta a 1.400 euro per ogni cittadino. La stima da uno studio europeo a cui collabora Legambiente. I costi dell’inquinamento dell’aria connessi all’alto numero di automobili in circolazione e alla carenza del trasporto pubblico incidono sul portafoglio degli italiani più che nel resto d’Europa. Ricoveri ospedalieri, perdita di benessere, impatti indiretti sulla salute e, quindi, riduzionedell’aspettativa di vita. Sono questi i fattori che fanno la somma del costo sociale, una spesa che per gli italiani ammonta a un costo medio di 1400 euro per ogni cittadino, equivalente a circa il 5% del PIL. Il peso che ogni cittadino è costretto a sobbarcarsi per far fronte ai danni derivanti dall’inquinamento atmosferico. In Europa, invece, la stima è più bassa e si aggira intorno a quota 1250 euro per una percentuale del 3,9%. A far emergere questi dati è lo studio “Costi sanitari dell’inquinamento atmosferico nelle città europee, connesso con sistema dei trasporti”, diffuso nella giornata di oggi dalla società di consulenza CE Delf, che ha preso in esame 432 città europee, in 30 paesi (27 paesi UE più Regno Unito, Norvegia e Svizzera). Lo studio si riferisce a dati raccolti per l’anno 2018 ed è commissionato dall’Alleanza europea per la salute pubblica, una ONG di interesse pubblico presente in 10 paesi dell’Unione Europea (European Public Health Alliance – EPHA). Per quanto riguarda l’Italia è Legambiente a collaborare al progetto.
Roma, Milano e Torino sono tra le prime 25 città europee per costi sociali in assoluto, mentre ben 5 città italiane sono nella top ten per costi pro capite, di cui due lombarde (Milano seconda dopo Bucarest, seguita dal terzo posto di Padova, al sesto Venezia, al settimo Brescia e al nono posto Torino). E maggiore è il numero di automobili in strada e più aumenta il tempo trascorso nel traffico più si alzano i costi sociali dell’inquinamento. “Un aumento dell’1% del tempo medio di percorrenza per recarsi al lavoro aumenta i costi sociali delle emissioni di PM10 dello 0,29% e quelli delle emissioni di NO2 anche dello 0,54%. Un incremento dell’1% del numero di autovetture in una città aumenta i costi sociali complessivi di quasi lo 0,5%”, è quanto viene evidenziato dallo studio diffuso oggi da CE Delf.
Quindi, nonostante le difficoltà oggettive di valutazione, lo studio riesce a stimare la diretta connessione tra costi dell’inquinamento dell’aria (dovuta a smog, emissioni PM10 e N20) e l’aumento dei costi sociali per gli italiani. «Secondo i risultati dello studio Milano ha perso poco meno di tre miliardi e mezzo di euro in un anno in welfare e costi sociali, superata soltanto da Roma» dichiaraBarbara Meggetto, presidente di Legambiente Lombardia. «L’inquinamento continua a sprofondare i bilanci già gravemente compromessi delle nostre città. Milano è seconda in Europa dopo Bucarest per costo pro capite, con oltre 2800 €/anno, una cifra sottratta al benessere e alla capacità di spesa dei cittadini. Gli scienziati indicano chiaramente la responsabilità dei trasporti nell’emissione dei diversi inquinanti presi in esame. È ora di scelte coraggiose e convinte, basta con indulgenze e mezze misure, si deve uscire velocemente dal fossile e incentivare multimodalità e sharing».
E i costi calcolati potrebbero essere ancora più alti se – citando lo studio – “si includessero adeguatamente i costi correlati alla pandemia COVID-19. Le comorbilità sono un elemento preponderante nella mortalità di pazienti affetti da COVID-19 e fra le più importanti vi sono quelle associate all’inquinamento atmosferico. Da diversi documenti di ricerca si evidenzia che la scarsa qualità dell’aria tende ad aumentare la mortalità di pazienti affetti da COVID-19. Pertanto, i costi sociali di una scarsa qualità dell’aria potrebbero essere maggiori rispetto a quanto stimato in questa ricerca”. Secondo Andrea Poggio, responsabile mobilità Legambiente «il costo dell’inquinamento, aggravato quest’anno alla pandemia Covid19, è particolarmente pesante per i redditi più bassi: l’inquinamento, come il Covid colpisce tutti, ma chi è più povero fatica a mitigarne gli effetti ed accedere alle cure. I governi nazionale e regionali devono adottare al più presto politiche pubbliche per mobilità e riscaldamento ad emissioni zero, per tutti, ma soprattutto per chi è meno abbiente. Servono mezzi pubblici elettrici, bici e auto elettriche condivise, serve in città agevolare e promuovere subito la mobilità ciclo-pedonale. Serve il superbonus (110%) se ben speso per ridurre l’inquinamento da riscaldamento. Non servono invece proroghe ai permessi di circolazione dei veicoli diesel più inquinanti, non servono bonus per l’acquisto di auto di proprietà a combustione. Iniziare a ridurre a zero, o quasi, l’inquinamento deve divenire una priorità nazionale del Recovery plan italiano».
«I test svolti da Transport & Envroment sui due veicoli diesel Euro 6 più venduti in Europa mostrano che le nuove auto di questo tipo continuano a violare i limiti di legge sulle emissioni di polveri sottili, con picchi di inquinamento fino a 1.000 volte i valori considerati standard»: così l’associazione Cittadini per ‘Aria.
«I test svolti da Transport & Envroment sui due veicoli diesel Euro 6 più venduti in Europa mostrano che le nuove auto di questo tipo continuano a violare i limiti di legge sulle emissioni di polveri sottili, con picchi di inquinamento fino a 1.000 volte i valori considerati standard»: così l’associazione Cittadini per ‘Aria.
«Questi picchi sono una minaccia immediata, in particolare per il sistema cardiocircolatorio e derivano dalla pulizia automatica dei filtri delle auto (cd. rigenerazione), necessaria per il buon funzionamento dei sistemi di abbattimento delle emissioni – prosegue l’associazione – Questo processo si verifica in media una volta ogni 480 km e i suoi effetti durano fino a 15 km, sconfessando quindi i test ufficiali di laboratorio dai quali non si evincono scostamenti dai valori consentiti. In Europa, sono più di 45 milioni le automobili dotate di questi filtri, per un totale di 1,3 miliardi di rigenerazioni all’anno. Se prendiamo solo l’Italia questo problema riguarda 6.223.000 veicoli con 176.804.000 picchi di inquinamento».
«Transport & Environment (T&E), che ha commissionato test di laboratorio indipendenti, conclude questo nuovo studio ribadendo la necessità che il legislatore prenda atto del fatto che i diesel rimangono pericolosi per la salute umana – proseguono Cittadini per l’Aria – Serve imporre test e limiti più severi, più aderenti alle condizioni reali su strada. Le auto prese in considerazione per i test di T&E sono state due, la seconda e la quarta vettura più vendute nei rispettivi segmenti. Nei test indipendenti, hanno superato il limite legale di polveri dal 32% al 115% ad ogni rigenerazione del filtro. Tuttavia, un vuoto normativo fa si che il limite legale non si applichi quando, durante i test ufficiali, si verifica la pulizia del filtro. In questo modo, il 60-99% delle emissioni di particolato regolamentate viene di fatto ignorato nei test».
Anna Krajinska, ingegnere delle emissioni di T&E, ha dichiarato: “Questi test dimostrano che i nuovi diesel non sono ancora puliti. Emettono ogni giorno livelli estremamente pericolosi di particolato nelle nostre città e strade. Si semplifica il compito delle case automobilistiche, ma sono i nostri polmoni a pagarne le conseguenze”.
«Dati ancora più allarmanti sono emersi quando sono state misurate le polveri ultrafini di dimensione più ridotta e non regolamentate – hanno aggiunto dall’associazione – In questo modo, le emissioni nocive totali di particolato delle auto sottoposte a test sono aumentate di un ulteriore 11-184%. Queste polveri non vengono misurate nei test ufficiali, ma sono le più dannose per la salute umana – poiché penetrano in profondità nell’organismo – e sono associate all’insorgenza dei tumori al cervello. La rigenerazione per evitare l’intasamento del filtro antiparticolato può verificarsi in tutte le condizioni di guida, incluse le aree urbane. Nei test, il numero delle particelle di particolato è rimasto più elevato durante la guida urbana per 30 minuti dopo la fine della pulizia. Entrambi i modelli testati hanno rispettato invece i limiti legali di NOx».
“I risultati di questi test ci dimostrano ancora una volta che, per quanto possiamo cercare di rendere pulite le auto endotermiche, queste saranno sempre nocive per la salute umana, in quanto bruciano combustibili fossili localmente. E’ tempo per i regolatori di prenderne atto e agire di conseguenza, implementando zone a basse e zero emissioni nelle città e smettendo di incentivare l’acquisto di auto a combustione interna. Purtroppo il bonus-malus, giustamente introdotto dal Governo nel 2019 per incentivare il ricambio del parco veicolare tramite elettriche e ibride è spesso indebolito in molte realtà regionali e a pagarne le spese è la nostra salute” così Veronica Aneris, responsabile di Transport & Enviroment Italia.
Anna Gerometta, presidente di Cittadini per l’aria, ha dichiarato: “Le polveri regolamentate sono solo metà della storia. Si sa ormai che le polveri ultrafini rappresentano una minaccia maggiore, ma sono ignorate dai test ufficiali. La prossima classe di inquinamento Euro deve evitare scappatoie e fissare dei limiti per tutti gli inquinanti. Ancor di più, di fronte a questa evidenza, presidenti delle regioni e sindaci devono bandire questi veicoli dalle città e dalle aree nelle quali la popolazione è esposta al traffico, mettendo in atto ogni strategia per ridurre al massimo l’uso privato delle auto così da proteggere la salute umana e la qualità della vita in città.”
T&E chiede anche che – grazie ai nuovi poteri – la Commissione Europea richieda alle autorità di omologazione di controllare le auto su strada, anche dopo la vendita, come già fa l’Agenzia per la protezione dell’ambiente statunitense.
Tre abitanti su quattro delle città europee sono esposti a livelli pericolosi di particolato e l’inquinamento da polveri sottili viene considerato sempre più “il nemico numero uno”. Si tratta del tipo di inquinamento atmosferico più strettamente associato al cancro, che con l’esposizione cronica crea ripercussioni su cuore e polmoni.
Il sistema alimentare è responsabile di circa un quarto delle emissioni di gas serra ed è sempre più chiaro che modificare le nostre abitudini alimentari diviene necessario per contenere anche i cambiamenti climatici e impattare in misura minore sul pianeta. Come fare? Greenpeace fornisce alcuni suggerimenti.
«Il sistema alimentare è responsabile di circa un quarto delle emissioni di gas serra, e questo “peso” è in particolare da attribuire alle diete più diffuse nei paesi ricchi, in cui è presente un elevato consumo di prodotti di origine animale e cibi ultra-processati»: Greenpeace è attiva su questo fronte e ha formulato un elenco di suggerimenti per mitigare l’impatto sull’ambiente della nostra alimentazione.
«Le scelte alimentari che compiamo possono avere degli effetti a volte insostenibili. La fettina di carne comprata al supermercato sotto casa ha spesso una storia lunghissima da “raccontare”: ad esempio è molto probabile che il mangime usato nell’allevamento intensivo da cui proviene contenga soia coltivata su un terreno deforestato dall’altro lato del mondo – spiega l’associazione – Un bicchiere di latte o una braciola potrebbero raccontare quanto gas serra o quanto inquinamento atmosferico sono legati alla loro produzione. Non tutti sanno che, ad esempio, gli allevamenti intensivi sono la seconda causa di formazione di polveri sottili in Italia, più del trasporto leggero e dell’industria, e che il settore zootecnico contribuisce alla produzione di gas climalteranti quanto l’intero settore dei trasporti».
Buone pratiche possono certamente essere aumentare verdure e proteine vegetali, ridurre i prodotti di origine animale (ma quei pochi, buoni e genuini), contenere al minimo gli imballaggi e la “strada” percorsa dal nostro cibo, scegliere sempre stagionale e locale, e preferire sempre il biologico.
«Un impegno quotidiano per combattere i cambiamenti climatici, ma anche per mandare un messaggio all’intero sistema agroalimentare, nel quale pochi grandi attori fanno profitti sempre più grandi, mentre le piccole aziende spariscono».
«Come consumatori possiamo fare molto per invertire questa tendenza attraverso le nostre scelte quotidiane” dichiara Federica Ferrario, responsabile campagna agricoltura di Greenpeace Italia. “Anche la politica deve fare la sua parte. Servono scelte chiare ed efficaci: utilizzare i fondi pubblici della Politica agricola comune (PAC) per il sostegno delle produzioni ecologiche e non per quelle intensive, approvare una normativa europea per fermare il commercio di materie prime prodotte distruggendo le foreste, e impegnarsi ad istituire una rete di santuari marini per proteggere almeno il 30 per cento dei nostri mari».
Se da una parte le emissioni di anidride carbonica, il gas serra responsabile del riscaldamento globale, continuano ad aumentare, dall’altro, magra consolazione, crescono a un ritmo più lento rispetto al passato. A raccontarlo, mentre è in corso la Cop25 (l’annuale conferenza internazionale delle Nazioni Unite sul clima) a Madrid, sono stati i ricercatori dell’Università dell’East Anglia (Uea), in collaborazione con l’Università di Exeter, secondo cui quest’anno le emissioni derivanti dalla combustione di combustibili fossili sono cresciute dello 0,6%, raggiungendo quasi 37 miliardi di tonnellate di anidride carbonica (CO2). Vale a dire una riduzione significativa rispetto all’1,5% nel 2017 e il 2,1% nel 2018. Lo studio Global Carbon Project 2019 è stato appena pubblicato su Nature Climate Change, Earth System Science Data edEnvironmental Research Letters.
Il tasso di crescita più lento delle emissioni di anidride carbonica nel 2019, spiegano i ricercatori, è dovuto principalmente a drastiche riduzioni dell’utilizzo del carbone da parte degli Stati Uniti e dell’Unione europea (-10%), e, in aggiunta, a una crescita più lenta dell’uso di carbone da parte di Paesi come la Cina e l’India. Inoltre, quest’anno, secondo le stime dello studio, le emissioni di CO2 dovute al consumo di petrolio, dovrebbero crescere dello 0,9%, mentre per quelle dovute all’uso di gas naturale, che rappresenta la fonte di emissioni in più rapida crescita, l’aumento previsto è del 2,6%. Mentre si prevede che le emissioni derivanti dalla combustione del carbone diminuiranno dello 0,9%.
(Infografica: University of East Anglia, University of Exeter e Global Carbon Project)
Sebbene le strategie climatiche ed energetiche stiano emergendo, sottolineano i ricercatori, non sono ancora sufficienti per invertire la tendenza delle emissioni globali. “Un fallimento nell’affrontare prontamente i fattori trainanti alla base della continua crescita delle emissioni limiterà la capacità del mondo di spostarsi su un percorso coerente all’obiettivo dell’Accordo sul clima di Parigi”, spiega Pierre Friedlingstein, dell’università di Exeter. “La scienza è chiara: le emissioni di CO2 devono ridursi a zero a livello globale per fermare un ulteriore riscaldamento del pianeta”.
Le emissioni globali di CO2, ricordano i ricercatori, sono cresciute in media dello 0,9% all’anno dal 2010, più lentamente del 3% degli anni 2000. Mentre quest’anno le stime delle emissioni provocate dalla deforestazione, hanno raggiunto 6 miliardi di tonnellate di CO2, circa 0,8 miliardi di tonnellate in più rispetto ai livelli del 2018. Le emissioni totali di CO2 prodotte dalle attività umane – compresa la combustione di combustibili fossili e il consumo di suolo – dovrebbero raggiungere i 43,1 miliardi di tonnellate nel 2019. Mentre, la concentrazione di CO2 atmosferica nel 2019 dovrebbe essere del 47% al di sopra dei livelli preindustriali. In Europa, sempre secondo le stime del nuovo studio, le emissioni sono diminuite dell’1,7% nel 2019, con una riduzione prevista del 10% delle emissioni a base di carbone. Mentre, il consumo petrolio continua ad aumentare, portando a un aumento delle emissioni dei prodotti petroliferi dello 0,5%. Anche il consumo di gas continua a crescere, di circa il 3% di media, sebbene a un tasso molto variabile tra gli stati membri dell’Ue. “Le attuali politiche climatiche ed energetiche sono troppo deboli per invertire le tendenze delle emissioni globali”, spiega Corinne Le Quéré, ricercatrice dell’Uea. “Le politiche hanno avuto successo a vari livelli nell’implementazione di tecnologie a basse emissioni di carbonio, come i veicoli solari, eolici ed elettrici. Ma queste spesso si aggiungono alla domanda esistente di energia anziché sostituire le tecnologie che emettono CO2, in particolare nei paesi in cui la domanda di energia è in crescita. Abbiamo bisogno di politiche più forti volte a eliminare gradualmente l’uso di combustibili fossili”.
L’obiettivo fattibile della decarbonizzazione di interi Paesi entro la metà del secolo è la tesi centrale del rapporto appena pubblicato dalla Rete per le soluzioni sullo sviluppo sostenibile. Prosegue qui l’articolo di cui ieri abbiamo pubblicato la prima parte.
Cosa si può e deve fare?
Le raccomandazioni che scaturiscono dal rapporto vengono qui di seguito sintetizzate, relativamente ai quattro settori indagati: elettrico, industriale, trasporti ed edifici.
SETTORE ELETTRICO
Il settore elettrico sta già subendo un processo di decarbonizzazione in diversi Paesi del mondo. La tradizionale organizzazione centralizzata sta affrontando un passaggio di paradigma verso la generazione distribuita e rinnovabile. Questo nuovo modello è strettamente legato all’attuazione di reti intelligenti, in cui gli utenti finali agiscono come prosumers (produttori e al contempo consumatori di energia), fornendo alla rete l’eccesso di energia prodotta dai propri impianti distribuiti. Le tecnologie digitali saranno al centro di questa rivoluzione, sviluppando il potenziale dei diversi modelli di business come gli aggregatori virtuali e il trading energetico. Le tecnologie di oggi a supporto di questa transizione possono essere classificate in quattro gruppi principali:
(1) le fonti di energia a basse emissioni di carbonio (eolico on e offshore, solare fotovoltaico e a concentrazione, energia idroelettrica, biomassa, nucleare e geotermica);
(2) le soluzioni di accumulo di elettricità a breve e lungo termine;
(3) altre opzioni flessibili come le interconnessioni di rete, le sinergie di settore, le risposte all’offerta (bacini idro, bioenergia) e la gestione della domanda;
(4) la cattura, utilizzo e stoccaggio del carbonio con le varianti di carbonio da bio-energia e sua cattura diretta dall’aria (ma valgono qui più o meno gli stessi ragionamenti fatti per l’energia nucleare).
Per il nucleare menzionato nel primo gruppo è necessario ricordare che non vi sono esempi positivi da cui prendere spunto. La sacrosanta inaccettabilità sociale e gli alti costi ne limitano, e continueranno a farlo in futuro, per fortuna, la diffusione. La gestione delle scorie radioattive è un problema enorme che ci ricordiamo soltanto in occasione di incidenti o di trasferimenti da un sito all’altro. Immaginiamo se al posto degli attuali circa 500 reattori nucleari (tra quelli attivi e in costruzione) ne avessimo centinaia di migliaia in tutto il mondo: scorie ma anche “disponibilità” di uranio saranno la scintilla per nuove guerre, esattamente come quelle che stiamo vivendo oggi per le fonti fossili. Anche i “potenziali” miglioramenti ipotizzati nella generazione nucleare (sia della fissione di quarta generazione o della fusione) sono delle pie illusioni. Perché continuare quindi a pensare di investire miliardi di soldi pubblici quando, a non voler ostinatamente prendere in considerazione gli alti impatti ambientali e sociali dell’attuazione di questa tecnologia, anche la convenienza economica non c’é. Queste tecnologie si troverebbero poi a competere contro il calo dei costi delle opzioni rinnovabili che si basano, principalmente, sulle soluzioni fotovoltaiche ed eoliche unite ai sistemi di stoccaggio. E quindi, torniamo al punto principale: conviene imbarcarci su tale strada o non sarebbe meglio indirizzare fin da subito tutte le risorse (poche) disponibili verso quei settori che già adesso risultano competitivi, quali l’eolico e il solare? La risposta apparirebbe scontata.
Analogamente, tra le tecnologie al momento non ancora competitive, come lo stoccaggio di elettricità e la cattura del carbonio, si dovrebbe puntare esclusivamente su quelle che ci potranno sostenere dall’affrancamento dalla rete elettrica nazionale. Lo sviluppo delle comunità energetiche passa proprio dalla possibilità che avremo di immagazzinare e scambiare localmente l’energia prodotta da impianti rinnovabili in loco. Per quanto riguarda la cattura del carbonio, lascerei fare a chi è più esperto di noi: la natura, da sempre gli ecosistemi agro-forestali svolgono questa funzione e non c’è ragione di intromettersi. Ritengo poi un controsenso pensare di investire risorse su tecnologie che “catturino” la CO2 dall’aria invece che risolvere il problema all’origine e cioè fare in modo che tutti i processi diventino ad emissioni zero.
In definitiva, con le criticità sopra evidenziate, si concorda che l’obiettivo di decarbonizzazione totale richiederà una combinazione di più tecnologie. A seconda delle condizioni locali, il mix di opzioni disponibili varierà da paese a paese e quindi non ci sarà una soluzione unica per tutti. Tra le fonti fossili, giusto il gas può svolgere un ruolo cruciale durante il periodo di transizione verso una totale decarbonizzazione. Quanto questo periodo di transizione debba durare, e quindi il ruolo che deve assumere tale fonte fossile è una scelta che i decisori politici devono prendere, magari mostrando coraggio ad anticiparne i tempi di riduzione, puntando fortemente sullo sviluppo industriale basato sulle fonti rinnovabili.
SETTORE INDUSTRIALE
L’industria pesante emette gran parte delle emissioni globali di gas serra e a livello mondiale ha consumato più della metà (55%) di tutta l’energia erogata nel 2018. Nel settore industriale, l’industria chimica è uno dei maggiori utenti (12% del consumo globale di energia industriale). I tre settori ad alta intensità energetica considerati nel rapporto sono: il cemento, il ferro e l’acciaio e i prodotti petrolchimici (materie plastiche, solventi, prodotti chimici industriali) che contribuiscono ciascuno ad emissioni di diverso tipo (diretto, termico; diretto, chimico e indiretto). Le emissioni da questi settori industriali richiedono soluzioni che vanno al di là dell’elettrificazione degli input energetici. Per ridurre tali emissioni, si dovranno sostituire gli input energetici basati sui combustibili fossili con elettricità a basse o zero emissioni, unitamente ad una migliore integrazione con l’energia termica e l’efficienza energetica. La decarbonizzazione completa di interi settori industriali richiede un approccio multidimensionale e sono tre le aree d’azione identificate:
· ridurre la domanda di prodotti e servizi ad alta intensità di carbonio;
· migliorare l’efficienza energetica negli attuali processi produttivi;
· attuare tecnologie di decarbonizzazione in tutti i settori, che a loro volta possono essere suddivise nei quattro percorsi di decarbonizzazione dal lato dell’offerta (elettrificazione; utilizzo della biomassa; utilizzo dell’idrogeno e combustibili sintetici; utilizzo della tecnologia della cattura del carbonio).
Come già messo in evidenza, chi scrive sostiene pienamente i primi due punti e solo in parte il terzo. Nei settori più energivori, lo stesso rapporto indica alcune opzioni già praticabili. Per il cemento: ottimizzazione del progetto edilizio, riutilizzo del calcestruzzo, sostituzione dei materiali; per il ferro e l’acciaio: ottimizzazione del riciclaggio dei rottami, progettazione del prodotto, uso più intenso dei prodotti; per il petrolchimico: riciclaggio chimico e meccanico, cambiamento del comportamento sulla domanda/utilizzo di plastica, utilizzo di materie prime rinnovabili, progettazione ecocompatibile dei prodotti per consentire un migliore riciclaggio. Per questi settori, i miglioramenti dell’efficienza energetica dovrebbero andare di pari passo con l’efficienza dei materiali stessi e la riduzione della domanda. Azioni queste che dovrebbero essere sostenute attraverso adeguati incentivi.
SETTORE TRASPORTI
Il settore dei trasporti è la spina dorsale di qualsiasi sistema produttivo. Consentire la mobilità di persone e merci significa collegare persone e nazioni favorendo scambi economici e culturali con conseguente sviluppo sociale. La complessità del settore richiede l’attuazione di un mix diversificato di soluzioni di decarbonizzazione all’interno di ciascuno dei suoi quattro segmenti principali: strade, ferrovie, aviazione e navigazione. I percorsi di decarbonizzazione efficaci nei trasporti dovrebbero basarsi principalmente su alcune soluzioni tecnologiche e, soprattutto, su strategie di riduzione della domanda e di trasferimento modale. Inoltre, diversi vettori energetici avranno un ruolo strategico nella decarbonizzazione del settore: l’utilizzo diretto dell’elettricità (tramite batterie o ferrovie elettrificate e sistemi stradali elettrici), più che, come già messo in evidenza, dell’idrogeno e dei carburanti sintetici o della biomassa (concorrenza con la produzione alimentare; deforestazione o perdita di biodiversità, e anche concorrenza con le industrie che attualmente usano la biomassa per prodotti o utilizzi di maggior valore).
SETTORE EDIFICI
Gli edifici rappresentano circa il 36% del consumo finale globale di energia e il 39% delle emissioni globali di gas serra. L’obiettivo della decarbonizzazione totale nel settore degli edifici include la costruzione di nuovi edifici e distretti con zero o quasi zero consumo di energia da combustibili fossili e il rinnovamento totale di edifici esistenti con gli stessi standard di zero emissioni nette di carbonio. Gli attuali tassi di rinnovamento degli edifici si attestano sull’1% annuo circa del patrimonio edilizio esistente, ma per raggiungere l’obiettivo di zero emissioni di carbonio entro il 2050 sarà necessario innalzare tale tasso di rinnovo portandolo al di sopra del 3%. Importante ricordare che le emissioni di CO2 risultanti dall’uso di materiali negli edifici rappresentano quasi un terzo delle emissioni connesse all’edilizia: l’industria delle costruzioni deve cambiare radicalmente la propria struttura produttiva per ridurre la propria intensità energetica.
In generale, utilizzando una combinazione di tecnologie e processi già disponibili, edifici e distretti a zero emissioni nette di carbonio possono essere realizzati già oggi (e in effetti ci sono già degli esempi in tutto il mondo), secondo la seguente strategia suggerita dal rapporto:
· massimizzare innanzitutto l’efficienza energetica degli edifici, principalmente attraverso soluzioni passive e a basse emissioni di carbonio;
· adottare sistemi ad alta efficienza e strategie avanzate di controllo e gestione che eliminino le soluzioni inefficienti ed incoraggino sistemi a basse emissioni di carbonio quali le pompe di calore e il teleriscaldamento;
· massimizzare la produzione e l’autoconsumo di energia rinnovabile in loco o nelle vicinanze elettrificando al contempo il settore degli edifici per coprire completamente, o anche superare, la domanda totale di energia di ciascun edificio con il minimo scambio di energia con la rete, stimolando così la gestione, lo stoccaggio e lo scambio di energia a livello distrettuale e promuovendo il concetto di comunità energetica.
Le aree in cui intervenire in questo settore includono, tra le altre, le politiche e i sussidi per favorire, in via prioritaria, il retrofit di edifici esistenti; la realizzazione, con il coinvolgimento attivo del settore industriale, di involucri edilizi ad alta efficienza a costi negativi per il ciclo di vita; una strategia che sposti la domanda verso soluzioni ad alta efficienza integrate con l’obiettivo zero emissioni nette; la promozione di tecnologie per il raffreddamento e riscaldamento distrettuale da rinnovabile; la rimozione degli ostacoli per consentire un pieno autoconsumo e, infine, la promozione di idonei strumenti per la formazione e l’informazione.
E in Italia …
Anche qui, stimolato dalla lettura del rapporto Roadmap to 2050: a Manual for Nations to Decarbonize by Mid-Century della Rete per le soluzioni sullo sviluppo sostenibile e della Fondazione Eni Enrico Mattei, mi pongo alcune domande. Cosa aspettiamo a mettere in pratica queste indicazioni nel nostro Paese? C’è l’ENI, una delle aziende più grandi con oltre 30.000 dipendenti e 77 miliardi di euro di fatturato nel 2018 (ottavo gruppo petrolifero mondiale) di cui lo Stato italiano possiede una quota azionaria superiore al 30%, detenendo quindi un controllo effettivo della società (normato anche attraverso la cosiddetta golden share), che potrebbe giocare un ruolo strategico nella transizione verso un’Italia a zero emissioni. Utopia? Non credo, si tratta di lungimiranza. Questa azienda, come tutte quelle che lavorano nel mondo delle fossili, devono porsi il problema, ben prima che l’ultima goccia di petrolio verrà estratta e non cercare di abbindolare i consumatori con pubblicità distorte al limite del ridicolo. Visto che uno dei due soggetti autori del rapporto è la Fondazione Eni Enrico Mattei, non credo sia difficile che le indicazioni che ne scaturiscono, magari con una rivisitazione su alcune criticità che abbiamo cercato di mettere in evidenza in questo articolo, arrivino a chi di dovere. Ovviamente, deve essere il Governo nazionale ad indicare la strada all’ENI (in attesa di un management lungimirante e con meno scandali sulle spalle), così come a tutte quelle aziende il cui utilizzo dell’energia è una componente essenziale del proprio sviluppo. Gli annunci ascoltati in questi giorni sulla “svolta verde” della prossima Legge di Bilancio ci lasciano ben sperare. Per decidere che le principali aziende energetiche italiane entro il 2050 diventino leader nel mondo sulle energie rinnovabili e non più sulle fonti fossili ci vuole coraggio, ci vuole un Governo coraggioso ma consapevole che si possa fare. Non in tre anni, in trenta. Se l’Italia vuole veramente diventare un paese a zero emissioni entro il 2050 deve iniziare subito con indicazioni precise verso il settore industriale. Indicazioni che si possono dare con politiche chiare e una “visione” lungimirante che possa accelerare il processo di transizione verso una società a zero emissioni. Questa visione al momento ancora non c’è e come già detto più volte: quanto indicato all’interno del redigendo Piano Nazionale Integrato Energia e Clima (PNIEC) non è compatibile con l’obiettivo della decarbonizzazione del nostro Paese al 2050.
La differenza tra 1.5 e 2 gradi centigradi non è trascurabile e contenere il surriscaldamento del pianeta entro questa soglia potrà ridurre in maniera significativa i danni climatici – ondate di calore, siccità, incendi boschivi, alluvioni – che altrimenti potrebbero diventare devastanti. È quanto emerge dal rapporto del Comitato intergovernativo sui cambiamenti climatici (IPCC). Legambiente commenta: “Un obiettivo ambizioso ma attuabile. Serve, però,una rapida e profonda riconversione di tutti i settori dell’economia. L’Europa e l’Italia sono chiamati a tradurre in realtà l’Accordo di Parigi”.
“Il rapporto del Comitato intergovernativo sui cambiamenti climatici (IPCC), presentato oggi dimostra che molte delle disastrose conseguenze dei cambiamenti climatici in corso possono essere evitate se si rispetta la soglia critica di 1,5 gradi centigradi. Si tratta di un obiettivo ambizioso che siamo, però, ancora in grado di raggiungere. Ma serve una rapida e profonda riconversione di tutti i settori dell’economia globale. Domani i ministri europei dell’ambiente si riuniranno a Bruxelles e, insieme a tante altre associazioni europee, abbiamo chiesto loro di dare concreta attuazione a questa speranza. L’Italia può e deve avere un ruolo da protagonista in Europa non solo per tradurre in realtà la promessa di Parigi, ma soprattutto per accelerare la transizione, fondata su efficienza energetica e rinnovabili, verso la decarbonizzazione dell’economia europea. Solo così sarà possibile vincere la triplice sfida climatica, economica e sociale, creando nuove opportunità per l’occupazione e la competitività delle imprese italiane ed europee”.
È il commento di Edoardo Zanchini, vicepresidente di Legambiente, a seguito della pubblicazione del rapporto speciale dell’IPCC, commissionato e approvato dai governi che nel 2015 avevano firmato l’Accordo di Parigi. Una presentazione che arriva alla vigilia della riunione dei ministri europei dell’ambiente, chiamati ad adottare la posizione europea per la prossima Conferenza sul clima (COP24) di Katowice, in programma il prossimo mese di dicembre. Il rapporto costituisce la più approfondita ed autorevole valutazione degli impatti dovuti all’aumento della temperatura media globale. Si dimostra, oltre ogni dubbio, che la differenza tra 1.5 e 2 gradi centigradi non è trascurabile e che contenere il surriscaldamento del pianeta entro questa soglia potrà ridurre in maniera significativa i danni climatici – ondate di calore, siccità, incendi boschivi, alluvioni – che altrimenti potrebbero diventare molto pericolosi e devastanti.
“È evidente che servono impegni di riduzione delle emissioni molto più ambiziosi di quelli sottoscritti a Parigi, ma invertire la rotta è possibile sia dal punto di vista tecnologico che economico – sottolinea ancora Zanchini –. Ai ministri che si riuniranno domani, a partire da quello italiano, chiediamo per questo di accelerare la transizione verso un’Europa rinnovabile e libera da fonti fossili. Il Consiglio Ambiente deve pertanto impegnarsi ad aumentare entro il 2020 gli obiettivi europei, in linea con la traiettoria di riduzione delle emissioni compatibile con la soglia critica di 1.5°C, così da poter raggiungere zero emissioni nette entro il 2040 sulla base delle possibilità e responsabilità di leadership globale dell’Europa”.
Decarbonizzare non serve solo a contrastare i cambiamenti climatici, ma produce anche benefici sociali ed economici. Legambiente ricorda, infatti, che un’azione climatica in linea con gli obbiettivi di Parigi, secondo il recente rapporto della Commissione Globale su Economia e Clima, può far crescere l’economia mondiale di ben 26.000 miliardi di dollari, creare 65 milioni di nuovi posti di lavoro ed evitare 700.000 morti premature per l’inquinamento atmosferico già entro il 2030. Un impegno che non solo offre grandi opportunità di sviluppo economico e occupazionale, ma che consente una drastica riduzione dei costi dovuti agli impatti climatici. Secondo Eurostat, nel 2015 le perdite economiche sono state di ben 11.6 miliardi di euro. Mentre un recente studio dell’Agenzia europea dell’ambiente stima costi sino a 120 miliardi l’anno con un aumento della temperatura globale di 2°C e addirittura 200 miliardi se si raggiungessero 3°C.
Lo dice uno studio canadese: “Per ogni messaggio di testo, per ogni telefonata, ogni video che carichi o scarichi, c’è un centro dati che fa in modo che questo accada e che consuma molta energia derivante da combustibili fossili. È il consumo di energia che non vediamo” . Secondo uno studio della Mcmaster University di Hamilton (Canada) gli smartphone saranno i dispositivi più dannosi per l’ambiente entro il 2020, non solo per la mole di rifiuti dovuti all’obsolescenza programmata, problema ormai noto, ma anche per l’impatto sulle emissioni nocive generate dalla loro produzione e dal loro utilizzo. Il professor Lotfi Belkhir, docente di Total Sustainability and Management alla Mcmaster University e autore della ricerca, ha studiato l’impronta di carbonio di dispositivi comesmartphone, laptop, tablet, desktop, ma anche dei data center e delle reti di comunicazione, scoprendo che le Tecnologie di Comunicazione e Informazione hanno un impatto maggiore sulle emissioni di quanto si pensasse e la maggior parte di queste deriva dalla produzione e dal funzionamento: “Per ogni messaggio di testo, per ogni telefonata, ogni video che carichi o scarichi, c’è un centro dati che fa in modo che questo accada – spiega Belkhir –Le reti di telecomunicazioni e i data center consumano molta energia per servire le persone e la maggior parte dei data center continua ad essere alimentata dall’elettricità generata dai combustibili fossili. È il consumo di energia che non vediamo.”
Tra tutti i dispositivi, le tendenze suggeriscono che entro il 2020 i dispositivi più dannosi per l’ambiente saranno gli smartphone che consumano relativamente poca energia per funzionare, ma la cui produzione ha un impatto enorme sulle emissioni: la maggior quantità di energia è quella che serve per produrre il chip e la scheda madre perché sono costituiti da metalli preziosi che vengono estratti a un costo elevato. Gli smartphone hanno anche una breve vita che guida l’ulteriore produzione di nuovi modelli e questo genera una quantità colossale di rifiuti.”Chiunque può acquistare uno smartphone e le società di telecomunicazioni rendono facile acquistarne uno nuovo ogni due anni”.
Secondo i dati presentati da Greenpeace lo scorso anno, dal 2007 al 2017 stati prodotti 7,1 miliardi di smartphone. Solo nel 2014, secondo uno studio della United Nations University, sono stati prodotti 3 milioni di tonnellate di rifiuti elettronici legati alla produzione di smartphone. Meno del 16% dei rifiuti elettronici globali viene riciclato. Solo due modelli su tredici, esaminati come parte delle ricerca da Greenpeace Usa e iFixit, avevano batterie facilmente sostituibili. Questo significa che, quando la batteria inizia a scaricarsi, i consumatori sono costretti e sostituire l’intero dispositivo. Nel 2020 le persone che posseggono smartphone saranno 6,1 miliardi, ovvero circa il 70% della popolazione globale. Belkhir lancia un messaggio chiaro alle compagnie: “I centri di comunicazione e data devono passare alle energie rinnovabili quanto prima, non c’è più tempo. La buona notizia è che i data center di Google e Facebook saranno gestiti con energia rinnovabile, ma dev’esserci una politica in atto che faccia in modo che tutti i data center seguano l’esempio.”