Piantare una food forest per seminare il futuro di una comunità

Katia e Roberto vivono tra le colline reggiane e sognano di realizzare una food forest, uno spazio aperto alla comunità di cui potersi prendere cura tutti insieme. Non si tratta di un semplice progetto di rimboschimento, ma di un percorso verso l’autoproduzione nel rispetto del legame profondo che ci unisce alla natura.

Reggio EmiliaEmilia-Romagna – Come si crea una food forest? Di quali cure e manutenzione ha bisogno? La food forest – ovvero foresta commestibile – è un vero e proprio ecosistema di piante, animali, microrganismi ed esseri umani. A differenza di un orto o un campo coltivato, non richiede cure costanti o di essere seminata ogni anno. È un sistema complesso in grado di autoregolarsi, esattamente come accade per boschi e foreste, e di offrire gli stessi servizi ecosistemici oltre a un’ampia varietà di erbe officinali, piante e frutti commestibili. Alle porte di Reggio Emilia, tra le morbide pendici delle colline reggiane, Katia e Roberto sognano di piantare una grande food forest insieme ad amici, familiari e chiunque desideri dare il proprio aiuto. Dopo una vita trascorsa in città si sono trasferiti a Montalto (Vezzano sul Crostolo) per coltivare il sogno di una vita semplice, che assecondi i ritmi della campagna. Psicologa lei, professore di filosofia e counselor lui, poco più di un anno fa hanno creato l’associazione culturale “Il Passo Oltre lo Specchio”, che si occupa di ambiente, crescita personale e arte, partendo da un approccio olistico.

Su una parte del terreno alle spalle della loro abitazione hanno avviato un progetto di rimboschimento, in collaborazione con “Città di Smeraldo APS” e “Simbiosi Magazine”: «Abbiamo già messo a dimora cinquecento piante autoctone, partendo da ghiande di alberi secolari – mi raccontano – nell’ambito di “Nuove Antiche Foreste”, iniziativa che mira a ricreare aree di bosco per favorire la biodiversità e contrastare il cambiamento climatico».

Punteggiate di case sparse, sentieri e borghi abbandonati, queste colline ospitano alcuni dei più antichi boschi autoctoni di pino silvestre dell’Emilia Romagna. Qui la qualità dell’aria ha sorprendenti proprietà balsamiche, come attestato dagli ultimi rilevamenti del CNR. A lungo rimaste spopolate, le frazioni di queste pendici sono tornate a essere meta ambita per chiunque desideri una vita più semplice e lenta. Ma per ricucire questa comunità frammentata e dare nutrimento a un territorio a lungo sfruttato dalle colture intensive, occorre tempo. Per Katia e Roberto quello della food forest è un progetto ambizioso e una piccola eredità da consegnare alla comunità di oggi e a quella che verrà: «Ci piacerebbe realizzarla nel terreno alle spalle di casa nostra, ma vorremmo che sia di tutti», mi raccontano. «Uno spazio in cui i bambini possano venire a giocare, esplorare e apprendere. In cui ritrovare sé stessi, meditando, passeggiando o semplicemente sedendo sotto un albero a leggere».

Da settembre scorso, grazie a una campagna di crowdfundingKatia e Roberto hanno avviato un corso su come progettare e piantare una food forest grazie all’aiuto di Stefano Soldati, esperto di agricoltura alternativa, fondatore e primo presidente dell’Accademia Italiana di Permacultura. Fra i massimi conoscitore di foreste commestibili in Italia, Soldati lavora da circa quarant’anni come consulente per il recupero di terreni, contribuendo alla conversione al biologico di ettari ed ettari di seminativi.

«Quando si progetta una food forest (a questo è stato dedicato il primo modulo del corso, ndr), non si tratta soltanto di scegliere quali piante mettere a dimora. È importante cogliere la saggezza dell’ecosistema – racconta Roberto –, ogni albero ha i suoi tempi e le sue risorse: ci sono quelli da frutto e poi ve ne sono altri, come la robinia, ottima per la legna, perché cresce in fretta ed è in grado di nutrire il terreno, in quanto azotofissatore». All’inizio una food forest ha bisogno di cure, i giovani alberi vanno protetti perché facile preda di animali e parassiti. Con il tempo, la foresta commestibile sarà autonomamente in grado di tenere lontani i parassiti, grazie a piante apposite, fornire nutrimento per la comunità e per gli altri animali. I partecipanti del corso, guidati da Stefano Soldati e da un po’ di fantasia e intuito, si sono cimentati nella progettazione di una possibile food forest. Questa si presenta come un sistema stratificato: si va dalle piante grandi, ovvero la struttura portante della foresta, alle intermedie, dalle cespugliose fino alle specie tappezzanti e le radici. Tra le varietà si possono contare le lianose o rampicanti e quelle acquatiche. Realizzare una piccola riserva d’acqua in una food forest consente di ricreare un piccolo microclima dove verranno attratti insetti in grado di allontanare quelli dannosi, anfibi e animali selvatici, che potranno abbeverarsi. A fine novembre si è tenuta l’ultima parte del corso e sono state messe a dimora le prime piante. Katia e Roberto vorrebbero organizzare diverse attività all’interno della food forest: incontri di meditazione, mindfulness, attività con i bambini, performance artistiche. Sarà uno spazio aperto, non vi saranno confini o recinti. Tutti potranno venire a raccogliere o semplicemente trascorrervi del tempo. «In Emilia Romagna nessuno è più in grado di riconoscere le erbe spontanee. È un’abitudine che si è persa da generazione», racconta Katia. La food forest infatti nasce anche per riportare in vita tradizioni scomparse con il graduale abbandono di queste colline. Certo, ci vorrà del tempo, ma per dirla con Riccardo Ferrari, chi pianta gli alberi vive due volte, o forse molte di più.

Fonte: https://www.italiachecambia.org/2021/12/food-forest-colline-reggiane/?utm_source=newsletter&utm_medium=email

Fuga dalla città. Una seconda vita sulle colline piacentine

Il nuovo documentario della serie “TERRE”, prodotto e ideato dalla casa di produzione MaGestic Film, racconta del ritorno di Stefano Malerba sulle colline piacentine, per occuparsi dei vigneti un tempo coltivati dai suoi avi. Dopo anni trascorsi in giro, Stefano realizza con grande tenacia il sogno di una vita semplice e a contatto con la natura. Ma gli ostacoli sono numerosi e i risultati dei propri sforzi non sono quelli sperati.

PiacenzaEmilia-Romagna – Reinterpretando un vecchio proverbio, Stefano Malerba – protagonista del secondo episodio della serie di documentari “TERRE” – è convinto che lasciare la strada vecchia per la nuova non sia mai una cattiva idea. Anche quando, dopo anni trascorsi in giro per il mondo, la vita lo riporta a casa, tra i vigneti delle colline piacentine. Era il 2007 e Gualdora, la sua allora nascente azienda vinicola, era molto di più di una brillante trovata imprenditoriale. Un sogno per l’appunto e l’inizio di una vita diversa, lontano dalla città. Nato e cresciuto a Milano, Stefano lavora per anni nel settore delle telecomunicazioni, dividendosi tra la sua città, il Sudafrica e Madrid. Il tempo trascorso nella metropoli spagnola è il preludio alla sua nuova vita: «Già avevo l’allergia alla città – ironizza Stefano – e Madrid è una super città. Milano mi sembrava un paesino al confronto. Questo ha forzato la voglia di cambiamento che sentivo da anni». E così lascia un lavoro che sa far bene ma che non è ciò che vuole e si trasferisce in Val Tidone, nel comune di Ziano Piacentino, la terra delle sue origini.

Sulle dolci pendici collinari della valle, dove la vite viene coltivata da millenni, Stefano impianta pregiate varietà di uva. Ha l’aria di essere un perfezionista, uno che non vende solo un prodotto, ma una “filosofia”. Barbera, Bonarda, Malvasia e Chardonnay sono i principali vini che produce nella sua cantina. Dietro c’è la ricerca inesausta di un prodotto di alto livello.

Nella sua azienda tra le colline piacentine, Stefano sceglie di coltivare le sue viti biologicamente e non perché tale certificazione sia di per sé una garanzia indiscutibile di qualità. La sua è una scelta consapevole, frutto di domande, studio ed esperienza. «Nel biologico sono ammessi solo prodotti non di sintesi. Nel caso dei fungicidi, ad esempio, si utilizzano solo rame e zolfo, che sono due metalli la cui efficacia fungicida è provata. C’è una limitazione nell’uso del rame perché si tratta di un metallo pesante. Ma siamo certi che non faccia male alla terra e alla vite?», si chiede Stefano, convinto che purtroppo nel mercato la certificazione valga di più del prodotto in sé. Tuttavia, dal suo punto di vista, la fiducia nel produttore è ciò che alla fine pesa di più sul piatto della bilancia, al di là di ogni certificazione di origine. Nel documentario la storia di Gualdora è un racconto amaro. Alle immagini delle colline assolate al ritmo lento della natura si alternano scene di duro lavoro, avvolte nei colori delle brevi giornate invernali. La vita in campagna appare tutt’altro che bucolica: si fatica a tirare avanti, soprattutto in un’azienda piccola dove bisogna spartirsi il lavoro tra pochi. Per Stefano le cose non sono andate come si sarebbe aspettato: «Io sognavo che un’azienda come Gualdora potesse stare in piedi. Il discorso non è arrivare a fine anno. Se vuoi crescere devi continuare a investire e se non investi non cresci e rimani lì».

I debiti, le gelate, i raccolti andati persi, gli ingenti costi per una piccola azienda costretta a barcamenarsi tra mille difficoltà, diventano un cappio, sempre più stretto. No, la campagna non è più quella di una volta, verrebbe da dire. Vivere in modo semplice, come si faceva un tempo, richiede in realtà grandi sacrifici. Le stagioni non sono più facilmente prevedibili e così una gelata ti devasta il raccolto e vanifica il duro lavoro di un anno. In una scena Florencia, la compagna di Stefano, mostra i danni irreparabili della pioggia, che in una sola notte ha sventrato il fianco della collina, trascinando dietro di sé ogni cosa. Ma questo non fa scalpore: se è una piccola azienda a non farcela, non importa a nessuno.

«Tante piccole aziende stanno sparendo. Quando chiudono o senti che il titolare si è impiccato perché non ce la faceva più, non è un problema. La gelata di due anni fa ha fatto danni a più di quattrocento aziende della zona. Ma qualcuno lo ha detto in televisione?», denuncia Stefano. Le sue parole d’accusa sono cariche di amara rassegnazione, perché si è destinati a soccombere in un sistema che non tutela affatto le piccole e medie imprese. La vita a Gualdora è raccontata con un carosello di immagini. Le fiere, il vigneto, la cantina, le feste di paese addobbate con i sorrisi di gente semplice e infine le chiacchiere con gli anziani, che hanno lasciato la campagna per ritornarvi da vecchi. Tutti, nessuno escluso, a fare i conti con quel poco che viene dalla terra e non sembra più sufficiente per i bisogni e le comodità a cui siamo ormai abituati da generazioni. «Dal dopoguerra in poi siamo stati cresciuti con l’idea di dover essere qualcosa di meglio dei nostri genitori. E quindi non zappare la terra, ma diventare dirigenti e magari finire a lavorare nella grande distribuzione a leggere le etichette». Ma siamo certi che sia la strada giusta?

Oggi Stefano è tornato a lavorare in ambito commerciale per un’azienda del settore alimentare. «L’agricoltore lo faccio il sabato e la domenica – scherza davanti alla telecamera –, forse è proprio questa la dimensione giusta di Gualdora». Alla fine tutto è cambiato e allo stesso tempo è rimasto uguale. La sua Gualdora, a 35 chilometri da Piacenza e a 65 da Milano, oltre a un’azienda vinicola è un posto tranquillo dove poter trascorrere qualche giorno di pace. Ma soprattutto è il suo riscatto personale. In fondo, anche per essere felici, si deve accettare qualche compromesso.

Fonte: https://www.italiachecambia.org/2021/11/nuova-vita-gualdora/?utm_source=newsletter&utm_medium=email

Emilia Romagna prima regione italiana a bandire le gabbie dagli allevamenti

Prima in Italia, la Regione Emilia Romagna ha approvato una risoluzione per vietare le gabbie negli allevamenti. Si tratta di un primo passo che, unendosi a una mobilitazione massiva generata grazie a una campagna a livello europeo, pone le basi per l’abbandono dell’insostenibile modello degli allevamenti intensivi.

«Buone notizie e non solo per animalisti ed ambientalisti! Oggi l’Emilia Romagna fa un primo importante passo verso la transizione graduale a modalità di allevamento senza gabbie. Grazie all’approvazione della risoluzione per abbandonare l’uso delle gabbie negli allevamenti, di cui sono prima firmataria, l’Emilia Romagna, prima in Italia, intraprende un percorso istituzionale per la tutela sia del benessere e della salute degli animali, e quindi anche dei consumatori, sia della reputazione delle nostre eccellenze alimentari sui mercati internazionali».

La consigliera regionale Silvia Zamboni comunica così l’approvazione della “Risoluzione per impegnare la Giunta regionale a promuovere politiche e strumenti a supporto della transizione del settore zootecnico ad allevamenti che non fanno uso delle gabbie e sono improntati al benessere animale”, un atto che darà il via all’iter per varare la prima legge in Italia che vieterà le gabbie negli allevamenti. Ad approvarla è la Commissione Permanente per le Politiche Economiche della Regione Emilia Romagna.

Si tratta di un primo, piccolo, ma importante passo per allontanarsi da un modello alimentare insostenibile per il Pianeta e per l’essere umano. Lungi dall’essere sufficiente, la rinuncia alle gabbie è comunque un passaggio necessario per ridiscutere il sistema degli allevamenti intensivi, che – specialmente nella pianura padana – provoca danni ambientali enormi, oltre all’incalcolabile sofferenza che causa agli animali prigionieri di queste strutture.

«È ormai riconosciuto che l’industrializzazione dei sistemi di allevamento intensivi costringe un alto numero di animali a vivere in spazi ristretti con ripercussioni negative sul loro benessere e la loro salute», prosegue la consigliera. «Oltre a comportare l’impiego massiccio di antibiotici, col rischio che poi si ritrovino nella carne destinata al consumo, queste condizioni di allevamento favoriscono la diffusione di virus e batteri che possono essere potenzialmente trasmissibili all’uomo (zoonosi) e all’origine di epidemie, come l’aviaria anni fa».

Questo provvedimento rappresenta un segnale incoraggiante che dà seguito a un’altra grande vittoria dei movimenti che si battono per il benessere degli animali, ovvero la consegna, lo scorso ottobre, delle firme raccolte grazie alla petizione End of the cage age, che in Italia è sostenuta da una ventina di associazioni e che ha raccolto nel giro di pochi mesi 1,4 milioni di firme di cittadini europei contrari agli allevamenti intensivi. La Commissione Europea è ora vincolata a pronunciarsi in merito alla richiesta e i prossimi mesi saranno cruciali per garantire che la domanda posta dall’iniziativa si trasformi in azione.


Un riferimento a questa mobilitazione su scala continentale compare anche nel testo della risoluzione regionale, che impegna la giunta “a proseguire le iniziative a supporto del benessere animale già intraprese e a promuovere azioni di sensibilizzazione ed educazione dei consumatori, favorendo quindi comportamenti consapevoli e sostenendo anche l’adesione degli allevatori agli obiettivi dell’Iniziativa dei cittadini europei”.

«Rendere più sostenibili ambientalmente e più etici i metodi di allevamento premia inoltre quegli allevatori che già oggi rispettano il benessere degli animali», conclude Silvia Zamboni. L’auspicio è che la transizione verso un modello alimentare in cui i cibi di origine animale diventino sempre meno diffusi prosegua senza sosta: è necessario che ciò avvenga perché il modo in cui mangiamo oggi è insostenibile non solo per il nostro organismo, ma anche per il Pianeta che ci ospita.

Fonte: https://www.italiachecambia.org/2021/05/emilia-romagna-bandire-gabbie-allevamenti/?utm_source=newsletter&utm_medium=email

Un nuovo mo(n)do per fare salute

Manca pochissimo alla presentazione in anteprima di “Un nuovo mo(n)do per fare salute”, il primo libro della Rete Sostenibilità e Salute, di cui anche Italia Che Cambia fa parte. Appuntamento venerdì 11 ottobre a Bologna con i curatori Chiara Bodini, Jean-Louis Aillon, Matteo Bessone. Dopo circa un anno di gestazione, è uscito in libreria il libro della Rete Sostenibilità e Salute: “Un nuovo mo(n)do per fare salute”. Come suggerisce il titolo, si tratta di riflessioni e spunti, teorici e pratici, per ripensare la salute e la cura all’interno di un più ampio ripensamento dell’attuale sistema socio-economico e culturale, insostenibile e patogeno.

I vari capitoli, a cura di autori e autrici afferenti alla Rete, affrontano gli snodi principali della Carta di Bologna, il manifesto fondativo con cui la Rete è nata cinque anni fa: la salute come prodotto sociale, la centralità delle relazioni e dunque della cultura e della partecipazione, la questione ambientale e le alternative al dogma della crescita, i diversi approcci alla cura e l’importanza del servizio sanitario nazionale, le minacce rappresentate da conflitti di interessi e sistemi che premiano la malattia e non la salute, e molto altro.  

Il libro sarà presentato a Bologna, in prima nazionale, venerdì 11 ottobre alle 18.00 a Venti Pietre (Via Marzabotto 2). Grazie alla presenza di Giuditta Pellegrini, giornalista ambientale e fotografa per Terra Nuova e Il Manifesto, sarà possibile un dialogo approfondito con i curatori (Chiara Bodini, Jean-Louis Aillon, Matteo Bessone) e le autrici e gli autori.

Per maggiori informazioni, trovate allegati la scheda libro (copertina, indice ed introduzione), la locandina e l’evento facebook. A questo link può essere, invece, acquistato il libro online (cartaceo o pdf), oppure scaricato gratuitamente il primo capitolo introduttivo. 

“Secondo l’autorevole rivista «The Lancet», i cambiamenti climatici saranno la principale minaccia per la salute del XXI secolo. Contemporaneamente, l’acuirsi delle disuguaglianze alimenta problemi sociali e di salute, sia fisica che mentale, in tutta la popolazione e a tutti i livelli. […]. Che cosa possiamo fare di fronte a tutto ciò? 

In questo volume la Rete Sostenibilità e Salute propone spunti teorici e pratici per un cambiamento dell’attuale sistema, a partire da un modo diverso di leggere la malattia e la cura. Si tratta di un utile strumento per tutte le persone che si rifiutano di rassegnarsi a questa ingiusta ed evitabile “realtà”, e vogliono impegnarsi nel dare vita a un mondo che metta al centro la salute delle persone e quella del pianeta”.

Fonte: http://www.italiachecambia.org/2019/10/un-nuovo-mondo-per-fare-salute/?utm_source=newsletter&utm_campaign=general&utm_medium=email&utm_content=relazioni

A dieci anni puliscono la spiaggia della riviera romagnola

A Cervia (RA) un gruppo di bambine e bambini si è auto-organizzato e ha istituito delle giornate di pulizia delle spiagge, coinvolgendo altri piccoli e grandi frequentatori del litorale. Un bellissimo gesto dal grande valore simbolico. Tommaso, Federica, Maria Giulia, Celeste e Virginia sono di Cervia e hanno dieci anni. C’è anche la piccola Eleonora che ne ha solo sei. Alcuni giorni alla settimana durante le loro vacanze estive li passano a camminare avanti e indietro per la spiaggia della loro città armati di sacchi e guanti. Raccolgono rifiuti di ogni genere che i bagnanti lasciano sulla sabbia e nell’acqua della riviera. Il gruppo si muove allegro a chiassoso lungo il bagnasciuga. “Ma che bravi! Sono davvero speciali!” dicono quelli che li vedono passare commentando un’azione che per i bambini è quasi naturale. Loro invece si sorprendono per altro. Non si capacitano di come gli adulti possano abbandonare con tanta noncuranza i rifiuti in un luogo che è di tutti – “è pieno di sigarette, ieri abbiamo trovato anche un accendino!” – e ripulirlo sembra loro un gesto scontato.

Ci sediamo tutti su un lettino. Hanno percorso più di due chilometri sotto il sole cocente e li “costringiamo” a riposarsi un po’, ma se fosse per loro andrebbero avanti senza sosta. Ci mostrano orgogliosi i sacchi già mezzi pieni di spazzatura. 

Come vi è venuta questa idea? 

L’idea ci è venuta ispirandoci a un’iniziativa che ci hanno fatto fare a scuola, che si chiama “Passeggiata ecologica”. Un giorno abbiamo deciso di fare anche noi una piccola passeggiata e abbiamo trovato tantissimi rifiuti. Volevamo raccoglierli. Ci siamo chiesti se qualcuno per caso volesse farlo con noi. Allora abbiamo raccolto le firme al mercatino dei bimbi [organizzato ogni lunedì sera dalla Croce Rossa, ndr] e abbiamo messo insieme un piccolo gruppo. 

Cosa dicono gli altri bagnanti quando vi vedono passare? 

La gente ci dice che siamo bravissimi e ci fa i complimenti. Una signora ci ha dato anche una mano. 

Perché lo fate? 

Perché la nostra maestra ci ha insegnato che è giusto farlo. E poi volevamo salvare i pesci dalla plastica e anche noi stessi. 

Cos’altro si può fare oltre a raccogliere i rifiuti? 

Smettere di usare la plastica. Per esempio usare le borracce anziché le bottiglie oppure utilizzare le cannucce biodegradabili o evitare i palloncini – in spiaggia ne abbiamo trovati un sacco – o i cotton fioc, servirsi di bicchieri di vetro invece di quelli usa e getta di plastica. 

Qual è la cosa più strana che avete raccolto? 

Le reti dei giochi dei bimbi, una scarpa e delle mutande usate.  

Mentre parliamo Celeste si interrompe e raccoglie una sigaretta. “Non riesco a capire: la gente fuma, fa male a sé stessa e inquina”.  

Bevete l’acqua in bottiglia?  

No, io la vado a prendere con le bottiglie di vetro alla centrale. 

Chi è che beve l’acqua del rubinetto? 

Tutti i bambini alzano la mano.

 “Abbiamo deciso di fare un cartellone così magari si unisce più gente quando camminiamo. Al mercatino abbiamo messo delle foto e dei fogli per lasciare i contatti”. I bambini non si tengono. Sfornano nuove idee a ciclo continuo e con il loro entusiasmo contagiano tutti i presenti. Se volete aiutarli li trovate ogni lunedì sera al mercatino dei bambini organizzato dalla Croce Rossa. Oppure potete sempre seguire il loro esempio passeggiando e raccogliendo i rifiuti sulla spiaggia dove andate in vacanza, facendo plogging nel parco vicino a casa, parlando con i vostri conoscenti di questa iniziativa. E se vi sembra poco non dimenticate che anche un grande fuoco parte da una piccola scintilla.

 Fonte: http://www.italiachecambia.org/2019/07/dieci-anni-puliscono-spiaggia-riviera-romagnola/?utm_source=newsletter&utm_campaign=general&utm_medium=email&utm_content=relazioni

OLTREfood Coop, il supermercato partecipativo ed ecologico di Parma

Dopo avervi parlato di Camilla, che ha sede a Bologna, e Mesa Noa, che sta per aprire i battenti in Sardegna, abbiamo oggi il piacere di annunciarvi la prossima apertura del terzo supermercato autogestito d’Italia. Arriva ora a Parma OLTREfood coop, l’emporio di comunità che sovverte le regole della grande distribuzione. Vi abbiamo raccontato per la prima volta delle Food Coop a ottobre del 2017, con l’augurio di veder nascere numerosi empori autogestiti in tutta Italia. A dicembre del 2018 abbiamo avuto il piacere di annunciarvi l’apertura di Camilla a Bologna e in seguito vi abbiamo presentato Mesa Noa, la cooperativa di consumo sorta in Sardegna. Siamo ora lieti di annunciarvi la costituzione della cooperativa OLTREfood Coop e di anticiparvi che l’apertura è prevista in autunno a Parma.

OLTREFood Coop è la terza esperienza italiana di “supermercato autogestito” o di “negozio partecipativo” o ancora di “emporio di comunità” e consente ai suoi soci di essere contemporaneamente proprietari, lavoratori e consumatori. La difficoltà a trovare una traduzione univoca di “food coop” ha sicuramente a che fare con la multidimensionalità di questo progetto, che tocca temi fittamente intrecciati come l’alimentazione, l’ambiente, la comunità, il lavoro e tanti altri, formando un poliedro ben sfaccettato. “Fare parte di questo tipo di esperienza implica una visione politica globale, di tutela dell’ambiente e dell’uomo” afferma Carlotta Taddei, presidente dell’Associazione OLTREFood Coop. Non più “consumatori”, i soci diventano soggetti attivi che possono scegliere quale filiera sostenere e dunque che tipo di impatto ambientale, sociale ed economico desiderano avere. Pagata una quota sociale di circa cento euro, infatti, i soci hanno la possibilità di partecipare alle scelte sui prodotti e su altri aspetti organizzativi e possono acquistare presso OLTREFood a prezzi agevolati, garantendo al contempo un equo compenso ai produttori. La richiesta di dedicare tre ore ogni quattro settimane al progetto risponde sia all’esigenza di mantenere dei prezzi equi per tutte le parti, sia alla necessità di avere una partecipazione che non sia solo sulla carta, ma vissuta. Pur avendo come chiari riferimenti esperienze come Park Slope, Bees Coop, La Louve e Camilla, OLTREFoodCoop sente una continuità anche rispetto alla storia del cooperativismo e del solidarismo che ha caratterizzato l’Italia dalla prima metà dell’Ottocento, quando la rivoluzione industriale mutò gli assetti sociali e generò, per reazione, le prime associazioni di mutuo soccorso come strumento di autodifesa dal nuovo liberismo che si andava imponendo.

I soci di OLTREfood coop

Il territorio parmigiano si distingue già da tempo per una forte sensibilità in questa direzione, tant’è che il primo Gruppo di Acquisto Solidale italiano è stato fondato nel 1994 nella vicina Fidenza. Tuttavia, mentre la grande distribuzione gode di un’enorme visibilità, questo “mondo parallelo” di consumo etico e di sostegno ai produttori può sembrare irraggiungibile a chi non appartiene a queste reti. Per questo OLTREFood Coop vuole costruire un sistema che abbia una sede fissa, visibile, che possa essere veramente aperto a tutti, pubblicizzato ed estendibile all’infinito. L’aspirazione ad essere un luogo aperto e di conoscenza reciproca trapela anche dalla scelta nome: OLTREFood si rifà a Oltretorrente, il quartiere popolare e libertario, ma anche conflittuale, in cui si è scelto di aprire il negozio. Ad oggi c’è la soddisfazione di aver raggiunto il primo centinaio di soci che, pur vivendo nella stessa – piccola – città, non si conoscevano, e che sono arrivati a compiere insieme scelte dal contenuto molto profondo. “Altri tipi di associazioni, con intenti altrettanto lodevoli, raccolgono chi già la pensa allo stesso modo” mentre OLTREFood, ha attirato non tanto “per un’impronta ideologica di partenza, ma per la condivisione di tutto un processo di ragionamento, studio e autoformazione. Attraverso questa pratica siamo riusciti a raccogliere persone molto diverse”, racconta Carlotta Taddei.  

OLTREFood coop ha una formula legale tanto innovativa quanto faticosa da comunicare all’esterno e le occasioni di confronto e supporto reciproco con l’emporio di comunità Camilla hanno giocato un ruolo importante. Mentre, speriamo, le food coop diventeranno un modello pian piano sempre più diffuso, la costruzione di una forte rete regionale e nazionale si intravede all’orizzonte.

Fonte: http://www.italiachecambia.org/2019/06/oltrefood-coop-supermercato-partecipativo-ecologico-parma/?utm_source=newsletter&utm_campaign=general&utm_medium=email&utm_content=relazioni

Il 5G e la ricerca sul cancro

La direttrice dell’Istituto Ramazzini Fiorella Belpoggi fa il punto sulla situazione 5G. Un’occasione per parlare di ricerca indipendente, delle linee guida sugli studi e della necessità di valutare l’inquinamento diffuso e continuativo nella ricerca sul cancro.  In occasione dell’intervista alla ricercatrice e direttrice dell’Istituto Ramazzini, Fiorella Belpoggi, abbiamo chiesto un aggiornamento sulla situazione 5G. “È un momento di grande fermento – sottolinea la direttrice – e vengo invitata continuamente ad eventi sull’impatto delle radiofrequenze organizzati da cittadini e amministratori: c’è molta attenzione anche tra ricercatori, fondazioni e amministrazioni. Anche dall’estero ricevo continuamente richieste di intervista, ci sono pochissime informazioni ma soprattutto è un tema ancora poco studiato. L’Istituto Ramazzini è l’unico soggetto di ricerca indipendente dai finanziamenti delle industrie che abbia studiato l’impatto almeno sul 3G, sulla frequenza di 1.8 GHz, attualmente in uso. Invece il 5G utilizzerà una fascia di radiazioni elettro magnetica delle onde millimetriche su cui non esistono studi per la salute delle persone. Oltretutto l’utilizzo dei telefonini è sempre più massiccio e continuato anche nelle giovanissime generazioni quindi bisognerebbe impostare nuove metodologie di ricerca oltre che indipendenti.

Fiorella Belpoggi, direttrice dell’Istituto Ramazzini

Abbiamo studiato le basse frequenze cioè quelle indotte dal flusso della corrente elettrica, le radiofrequenze 1.8 GHz e abbiamo visto che tutte le onde possono indurre il cancro soprattutto alcuni tipi di cancro al cervello. Infatti abbiamo rilevato l’impatto negativo sulle cellule di Schwann che formano la mielina attorno ai filamenti dei neuroni. I tumori che abbiamo osservato noi e i colleghi negli Stati Uniti sono gli stessi che avevano indotto la IARC (Agenzia internazionale per la ricerca sul cancro) nel 2011 ad affermare che le radiofrequenze erano “possibilmente cancerogene” negli utilizzatori assidui del cellulare. Poiché questi device sono tenuti vicini o addosso al corpo tutto il giorno, l’energia che viene assorbita dall’organismo è maggiore rispetto alle stesse frequenze emesse dalle antenne: c’è una maggiore interferenza con il materiale biologico. Di fronte al fatto che esistono le due evidenze scientifiche di pericolosità, dei due diversi laboratori, abbiamo chiesto di inserire nelle prossime nuove valutazioni delle radiofrequenze una revisione più completa e aggiornata degli studi. Importante infatti è tenere conto delle eventuali amplificazioni del sistema della trasmissione di onde ancora maggiori cioè con maggiore capacità di trasmettere anche se meno penetranti. Non c’è una evidenza scientifica di emergenza come ci accadde quando studiammo gli effetti del benzene e della formaldeide. Ma prima di espandere queste tecnologie bisognerebbe studiarle perché coinvolgono miliardi di persone. Possiamo chiedere alle compagnie di costruire apparecchi meno pericolosi, con misure che espongano meno cioè maggiormente schermati o con incorporate applicazioni per renderlo funzionante solo quando è ad una certa distanza dal corpo oppure dotati di auricolari integrati; già a 5 cm di distanza dal corpo l’esposizione è 25 volte minore, ma sempre alta. Il wifi ha una frequenza intermedia ma sono sempre onde elettro magnetiche ed è meglio non tenerlo acceso di notte. Sarebbe importante ad esempio cambiare il modo di far vedere ai figli un film: bisognerebbe prima scaricarlo. La condizione più preoccupante consiste nel numero di apparecchi cellulari contemporaneamente accesi, ad esempio in un vagone di un treno possiamo avere 100 cellulari accesi, con 50 persone che parlano al telefono; l’esposizione aumenta moltissimo.

In particolare le onde millimetriche del 5G, quelle dei forni a microonde, sollecitano gli atomi di acqua, quindi i bambini, che hanno una percentuale maggiore di acqua, sono i più esposti. Queste onde hanno scarso potere di penetrazione, ma quanto è sottile la calotta cranica di un bambino? E per le gestanti quanto penetrano nel liquido amniotico? Anche se penetrassero solo l’epidermide bisognerebbe considerare che è un tessuto molto innervato e gli impulsi nervosi sono trasportati da cariche elettriche fino al Sistema Nervoso Centrale. Non c’è più alcun dubbio che irrorando di campi magnetici ci sia interazione, abbiamo visto svilupparsi cancri ai nervi facciali, mandibolari, acustici.  

Gli allarmi precoci andrebbero ascoltati e con metodologie nuove. Considerando che siamo tutti immersi in questo surplus di onde risulta quasi impossibile selezionare una parte di popolazione “pulita” per evidenziare le differenze con il caso controllo. 

Gli studi sul cancro 

Gli studi di cancerogenesi durano 3/4 anni, c’è bisogno di tempo, ma bisogna studiare anche le modificazioni biomolecolari sulle cellule e se ci sono biomarkers tumorali come quelli che abbiamo trovato nel 3G. Nella ricerca sono necessari i modelli uomo equivalenti, eseguiti fin dall’ esposizione prenatale, invece le linee guida fanno iniziare gli studi ad una età equivalente di 15 anni, di fatto togliendo la parte più sensibile alle esposizioni. Ma questo vale per qualsiasi studio di cancerogenesi. Il cancro ha una latenza di circa 10 anni e veniamo in contatto con sostanze, ormai da decenni riconosciute cancerogene, in età sempre più precoce. Quindi se vediamo sempre più casi di cancro mammario a 30 anni o linfomi e leucemie nell’infanzia vuol dire che le esposizioni sono diventate molto precoci. Gli enti autorevoli di controllo come l’EFSA controllano gli studi commissionati dalle aziende, ma l’oggetto di ogni studio e le metodologie scelte sono l’anello più importante e dovrebbero essere affidate a laboratori indipendenti. Non basta segnalare la presenza o meno dei conflitti d’interesse. Risparmieremmo anche molti soldi se gli studi valutassero più parametri biologici e non il singolo danno neurologico o immunitario o la cancerogenesi. Bisogna prevedere studi che analizzino tutti questi effetti contemporaneamente.

In Italia ci sono grossi centri di ricerca ma sono sponsorizzati, sono laboratori che lavorano a contratto soprattutto per l’industria farmaceutica e devono produrre profitto. Le Università che fanno ricerca indipendente hanno piccoli laboratori non in grado di fare grandi studi, non hanno il know how, durano massimo un anno. 

Rischi cancerogeni diffusi 

Bisogna cambiare il sistema di valutazione, le regole che sono state fatte negli anni 70 quando la maggiore tossicità era nei luoghi di lavoro, ora l’inquinamento è molto più diffuso, costante e continuo dalla vita prenatale in poi e su tutta la popolazione umana. Il tema delle regole sono in pochissimi a conoscerle e chi le conosce lavora a contratto e/o segue l’applicazione delle linee guida senza la visione delle ricadute; è attento solo alla parte tecnica. Sono studi di nicchia e pochi ricercatori ne capiscono le reali conseguenze, io stessa l’ho capito solo dopo anni. Dobbiamo abbassare il potenziale cancerogeno ambientale totale ma se continuiamo a sintetizzare centinaia di nuovi composti chimici come cosmetici, farmaci, pesticidi e non ritiriamo dal commercio quelli obsoleti e più pericolosi, andiamo in accumulo.

La ricerca indipendente 

Noi abbiamo iniziato nel 2005 con un unico finanziamento ma gli altri fondi sono arrivati dai volontari dell’Istituto che oggi ha 50.000 soci perché siamo una cooperativa sociale e siamo finanziati da donazioni. Ci abbiamo messo più tempo ma siamo indipendenti e no-profit. Il nostro scopo è il pareggio di bilancio e il nostro guadagno da Statuto è diffondere informazioni per una cultura della prevenzione. Facciamo una ricerca che cerca di riprodurre le situazioni espositive umane con modello uomo equivalente. Con approccio simile al nostro c’è in America il National Toxicology Program, finanziato dall’FDA e per fare il nostro studio sul 3G hanno speso 30.000 euro iniziando a studiare dalla vita prenatale come noi, per rendere il modello più sensibile, ma non rilasciano interviste. Siamo gli unici che riescono a divulgare i risultati sulle radiofrequenze, un servizio a miliardi di persone. Nei diversi incontri a cui sono invitata, sempre più cittadini sentono che stiamo esagerando nell’uso incontrollato della tecnologia ma anche ricercatori universitari, fondazioni, amministratori sono d’accordo e spingono per comportamenti più cautelativi. Poi bisognerebbe investire molto di più nell’informazione sull’uso corretto degli apparecchi, non bastano le istruzioni per l’uso nelle confezioni che nessuno le legge. I device devono migliorare man mano che aumentano le conoscenze; per i produttori sono spese minime, è solo una questione di volontà. E’ una grossa sfida tecnologica: l’innovazione deve avere un miglioramento non solo sul comfort ma anche sulla salute. Bisogna imparare a gestire ciò che via via scopriamo di poter fare.” 

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Fonte: http://www.italiachecambia.org/2019/07/5g-ricerca-cancro/

Duv’Art, dentro le botteghe degli artigiani di Bologna

Dieci botteghe bolognesi sono le protagoniste di “Duv’Art – Le strade dell’artigianato”, un documentario web dedicato alla produzione artigianale di Bologna, ancora viva tra le sue strade, dal centro alla periferia. Una vera e propria visita guidata virtuale tra giovani creativi aperti alla sperimentazione di nuove tecniche e antichi custodi del lavoro dei padri, che tramandano i segreti del saper fare. Sedetevi, rilassatevi e calmate la mente. State per entrare virtualmente dentro dieci botteghe che sembrano essersi fermate nel tempo. Qui si respira ancora il profumo del legno appena intagliato, si vedono mani che accarezzano delle materie prime per dar vita a creazioni uniche che richiamano arti tramandate attraverso le generazioni, ricordando un tempo dove il “saper fare” era, oltre a una necessità, uno stile di vita e dove i pensieri e la creatività si trasformavano in oggetti di uso quotidiano o per le occasioni speciali.

L’artigiana della bottega PG ceramiche dove potrete ammirare traforati, palloncini e bellissime maioliche in ceramica

Ancora oggi all’interno di queste botteghe le creazioni vengono disegnate e realizzate a mano, grazie alla passione di chi ha scelto di salvare e tramandare la qualità, la creatività e l’autenticità, caratteristiche che spesso non vengono considerate in una società che preferisce oggetti risultanti da una catena di montaggio, che costano il meno possibile e che verranno rimpiazzati da altri identici quando non servirà più. 

Duv’Art – le strade dell’artigianato è un progetto realizzato dall’Associazione Culturale Emiliodoc che attraverso un webdoc multimediale racconta le storie di dieci botteghe del territorio bolognese. Abbiamo incontrato Cecilia, giovanissima portavoce del progetto da cui traspare ancora tutta l’emozione e la meraviglia di aver potuto toccare con mano queste creazioni uniche. “È stato difficilissimo – racconta – fare una selezione degli artigiani presenti nel territorio bolognese”. Alcune botteghe si trovano in zone periferiche, altre godono di maggiore visibilità ma ognuna di loro ha una sua unicità ed è portavoce di mestieri e utensili che meritano di essere riportati alla luce.

Nella Bottega Prata si lavora il ferro battuto trasformandolo in lampadari, letti e tantissime altre creazioni originali

“Abbiamo scelto le botteghe che hanno creato una sinergia tra la tradizione e l’innovazione, generazioni attuali che tramandano le tradizioni imparate in famiglia”, continua Cecilia. “Sentire le loro storie, scoprire a cosa serve quell’utensile appartenuto al nonno e tenerlo in mano, è stata un’emozione indescrivibile”.

Il web doc racconta le storie di ognuna di loro, si “passeggia” lungo le strade che sono state disegnate rigorosamente a mano, ricostruendo fedelmente ogni dettaglio delle botteghe affacciate sulle strade. Ci si può soffermare in una alla volta, immergendosi nelle sue creazioni raccontate attraverso brevi video che indugiano in modo minuzioso su ogni dettaglio con il sottofondo del suono degli utensili e delle mani che creano. Ad ogni bottega sono dedicati brevi filmati in cui si mostrano le creazioni e dove vengono narrate le origini, dando voce agli artigiani che mostrano con estrema maestria i loro utensili e le loro tecniche, spesso tramandati dai nonni e che sono per loro insostituibili. Dopo la visita virtuale, vi invitiamo poi a visitare personalmente le botteghe perché le loro storie, i profumi, i suoni e le atmosfere meritano di essere assaporate dal vivo.

Dingi, nata come ferramenta, si è trasformata nel progetto Era, dove vengono recuperarti oggetti che non servono più donando loro nuova vita e trasformandoli in opere d’arte. L’artigianato è un’eccellenza tutta italiana che racconta tradizioni, società e cultura ed è oggi patrimonio dell’Unesco. Riportare alla luce antiche tradizioni e vedere mani che creano e voci che raccontano com’è nato quell’oggetto, quel caffè o quel bigliettino di auguri ha un valore inestimabile.

 Fonte: http://www.italiachecambia.org/2019/03/duvart-dentro-botteghe-artigiani-di-bologna/?utm_source=newsletter&utm_campaign=general&utm_medium=email&utm_content=relazioni

Rusko: riparare gli oggetti rotti può aggiustare il mondo

Promuovere l’economia circolare attraverso una serie di attività, con un focus specifico sulle riparazioni di oggetti guasti altrimenti destinati a divenire rifiuti. È questo l’obiettivo di Rusko, associazione nata a Bologna e ispirata all’esperienza internazionale dei Repair Cafè: un’iniziativa virtuosa e dall’alto valore sociale ed ecologico che sempre più sta prendendo piede anche in Italia.

“Eravamo quattro amici al bar, che volevano cambiare il mondo…”. Inizio ad ascoltare l’intervista raccolta dai miei colleghi e subito mi viene in mente la celebre strofa della canzone di Gino Paoli che, a pensarci bene, descrive perfettamente l’avvio di una miriade di progetti virtuosi, innovativi e vincenti nati per l’appunto da una chiacchierata informale tra persone affini, una buona intenzione ed un’idea semplice, ma efficace. Ed è proprio così che circa un anno e mezzo fa a Bologna ha preso vita l’associazione Rusko (Riparo Uso Scambio Comunitario), ispirata anche all’esperienza estera dei Repair Cafè: momenti di incontro in cui si riparano oggetti rotti che altrimenti verrebbero gettati via.

“Insieme ad alcuni amici, davanti ad una pizza e una birra, abbiamo iniziato a domandarci cosa avremmo potuto fare concretamente per contribuire al miglioramento di una società che non ci convinceva. Abbiamo buttato giù un’idea, la abbiamo studiata e abbiamo raccolto informazioni su altre esperienze avviate in altri Paesi, in particolare nel nord Europa”, ci racconta Raffaele Timpano, presidente di Rusko. “Abbiamo preso contatti con la Repair Foundation di Amsterdam, promotrice di un modello, quello dei Repair Cafè, che coniuga due valori per noi importanti: partecipazione sociale e rifiuto dello spreco. Tutto quello che serviva per iniziare era un gruppo di persone ben affiatate e luoghi dove svolgere le nostre attività: riparazioni, prima di tutto, ma anche una serie di altre iniziative volte a promuovere l’economia circolare e la sostenibilità”. 

Nasce così Rusko, che significa Riparo Uso Scambio Comunitario ma che in bolognese vuol dire anche spazzatura. “Abbiamo voluto giocare proprio su questa ambivalenza: una cosa considerata inutile può avere una nuova vita ed un valore sociale ed ecologico. Un nome che qui a Bologna ha riscosso subito molto successo”.

Raffaele Timpano ci spiega la filosofia che sta alla base della loro esperienza. “Ci siamo interrogati sui cicli di vita sempre più brevi dei prodotti industriali e sul legame che esiste tra le persone e gli oggetti, ovvero sulla totale dissociazione che si è venuta a creare con l’avvento del consumo di massa: oggi le persone non si chiedono più da dove vengono gli oggetti e come vengono realizzati. I prodotti vengono acquistati, usati e poi buttati nella spazzatura. Un sistema insostenibile, insomma, che noi vogliamo contribuire a superare”. Partendo, appunto, dalla promozione dei Repair Cafè, iniziativa nata qualche anno fa in Olanda e che ora si sta diffondendo anche in Italia. Si tratta di incontri tra persone che vogliono riparare oggetti malfunzionanti. “Alcune persone partecipano ai Repair cafè che organizziamo per curiosità, altre per passare del tempo in compagnia, altre ancora perché animate da uno spirito ecologista – ci spiega Raffaele – Inoltre nei quartieri più popolari abbiamo visto anche famiglie che ricorrono alle riparazioni per necessità. È molto diverso l’approccio tra centro e periferia, nelle zone periferiche spesso abbiamo conosciuto immigrati che si sorprendono per la nuova diffusione della pratica della riparazione nel nostro Paese e ci raccontano gli usi dei loro territori. Si creano così degli scambi molto interessanti”.

Rusko, che conta ora circa una trentina di volontari, al momento non ha una sede fisica. “Andiamo dove ci invitano – dice Raffaele – Un luogo fisico non è fondamentale ma è più funzionale per l’attrezzatura. Ecco perché il nostro prossimo obiettivo è trovare un posto dove stabilirci”.

Ma come funziona? “Qualche giorno prima dell’evento mandiamo una mail agli interessati indicando luogo e ora dell’appuntamento – continua Raffaele – Alcuni ci chiedono prima informazioni circa la possibilità di riparare un oggetto o meno. L’unica condizione che noi poniamo è la partecipazione attiva della persona alla riparazione. La persona si presenta quindi nel giorno stabilito con il prodotto malfunzionante e partecipa al tavolo della riparazione al quale solitamente siedono alcuni volontari particolarmente abili, a volte anche professionisti (di elettronica, sartoria, biciclette). Nel 2018 sono stati portati da noi soprattutto piccoli apparecchi elettrici come frullatori o asciugacapelli. Solitamente i guasti sono abbastanza banali e quindi risolvibili. A volte però vengono portati anche apparecchi più complessi la cui riparazione richiede più tempo. In base al tipo di prodotto la persona si siede accanto al ‘tutor’, si analizza il problema dell’apparecchio in questione e si prova a risolverlo insieme. Si crea così un’interazione normalmente assente nei rapporti di mercato che solitamente sono così strutturati: ‘Io ti pago per risolvermi un problema, quello che fai non mi interessa’.

Ovviamente il grado di partecipazione può essere maggiore o minore rispetto al grado di abilità di chi porta gli oggetti. Soprattutto in questa zona, che ha un tessuto industriale ancora vivo, ci sono anche tanti pensionati molto esperti. È così che abbiamo trovato molti volontari, ex lavoratori appassionati di riparazioni. Noi lavoriamo con la comunità e per la comunità e lo facciamo incondizionatamente. Non chiediamo niente a chi partecipa ai Repair Cafè ma chi vuole può lasciare un contributo per sostenere le attività della nostra associazione. Se le istituzioni vogliono collaborare o sostenerci sono ovviamente le benvenute”. 

Raffaele è infatti convinto che se le istituzioni riconoscessero il valore sociale di queste iniziative e le sostenessero si potrebbero fare moltissime cose: ad esempio corsi di formazione per la manutenzione, per l’alfabetizzazione informatica, per l’efficientamento energetico delle case, corsi di artigianato o per l’inserimento sociale di persone svantaggiate. “Le prospettive sono molto ampie”.

Raffaele ci parla anche di un aspetto che ci sembra molto interessante: il diritto alla riparabilità. “Negli anni ’60 se compravi un oggetto ricevevi anche un manuale per la riparazione. Oggi al contrario quando acquistiamo qualcosa leggiamo sulla confezione: ‘non smontare’, ‘non aprire’, ‘non sostituire la batteria’. Dobbiamo rivendicare il diritto alla riparabilità dei nostri oggetti. È necessario cambiare il modo in cui vengono progettati gli oggetti: bisogna progettare in modo modulare per far sì che i pezzi siano sostituibili e dovrebbe essere introdotto l’obbligo di rendere disponibili i pezzi per le sostituzioni. Serve, insomma, una progettazione pensata per avere un impatto zero”.  

“Noi crediamo molto nell’urgenza di un cambio del paradigma culturale e dei meccanismi del sistema. Una frase che rappresenta molto la nostra filosofia è quella pronunciata da Einstein: ‘Non possiamo pretendere che le cose cambino se continuiamo a fare le stesse cose’. Ecco perché dobbiamo ridurre il nostro livello di consumo, interrogarci sulla quantità di rifiuti che produciamo, cominciare a mettere noi stessi in discussione. Questo si può fare, magari, partendo proprio dalla riparazione, un punto che tocca alcuni tasti psicologici molto interessanti. Ultimamente sta prendendo forza l’idea che i rifiuti siano una ricchezza: io credo invece che dovremmo cercare in primis di ridurli, anche attraverso la riparazione che, peraltro, serve anche a prendere coscienza delle proprie capacità. La soddisfazione psicologica che deriva dal riuscire a riparare qualcosa è grande, è quasi terapeutica!”. 

Intervista: Francesco Bevilacqua e Paolo Cignini

Realizzazione video: Paolo Cignini

Fonte: http://www.italiachecambia.org/2019/01/rusko-riparare-oggetti-rotti-puo-aggiustare-mondo-io-faccio-cosi-237/?utm_source=newsletter&utm_campaign=general&utm_medium=email&utm_content=relazioni

Lasciareandare: la borsa per liberarci di ciò che non vogliamo

“Lasciareandare” è il principio cui attenersi se si decide di comprare la borsa ideata da Federica Zamegna. Lo scopo? Superare le paure, staccarsi dalle cose materiali, liberarsi da ciò che non rende felice, ritrovare la fiducia nel mondo ed il piacere di dare senza ricevere. Un progetto che trasforma il negativo in forza e stimola alla crescita di se stessi partendo da cose semplici, come una borsa e un diario. Si fa chiamare Feffè e viene da Savignano sul Rubicone, in Emilia Romagna. Ha girato – e vissuto – in Europa e nel mondo, saltando dall’Italia alla Spagna, all’Inghilterra per poi arrivare in Turchia e in Colombia e poi tornare in Italia. È un’insegnante ma anche tanto altro. Fra questo ‘altro’ c’è un progetto nato da meno di un anno che si chiama “Lasciareandare”, che coinvolge una borsa, un diario e degli sconosciuti.ScambioBorsaRomagnola-768x458

L’idea è quella di creare una borsa del “lasciareandare” in cui ogni persona che la compra può mettere tutto ciò che vuole lasciare andare via: le sue paure, un lavoro che non rende felici, una relazione da cui è difficile staccarsi ma che non fa più bene. Si scrive tutto su un diario (che arriva con la borsa stessa) e, se si vuole, si decide di scambiarla con qualcuno (via posta ma anche dal vivo) scegliendo da una lista presente sul blog “Notonlybarcelona”.

«Ho scelto la borsa perché l’essere umano è assolutamente innamorato del materiale e lasciare andare una borsa è un piccolo passo per poi salire di livello», spiega Federica Zamegna, che è appunto Feffe’. «E poi c’è la dimensione del diario e della scrittura manuale perché è più stimolante per la nostra parte creativa» e dunque più adatta ad esprimere le nostre emozioni e le nostre paure. Con la borsa e il diario, però, arrivano anche dei consigli su un luogo o un viaggio o un posto positivo, che uno sconosciuto ha scritto con l’unico scopo di regalarli a chi poi comprerà la borsa. In questa idea è fondamentale anche la scelta di un soprannome con cui firmarsi: anche i nomi producono effetti su di noi, vibrazioni positive o negative, e scegliere un nome che ci rispecchi rappresenta un passo importante per parlare di noi in modo sincero e positivo. Chi sceglie una borsa, decide dunque di fare un passo importante nella propria vita, che è quello del lasciare andare. Che poi è anche uno dei tre principi, fra loro collegati, su cui si basa la filosofia del progetto: «Le cose che non vanno bisognerebbe lasciarle andare senza accanirsi: se fai sì che le paure ti tarpino le ali, non ti succederà mai niente di bello, ma se lasci che le cose ‘vadano’, allora qualcosa di buono succede», spiega Federica. «Ho sentito tante di queste storie: persone che una volta mollata la paura e deciso di cambiare, sono riuscite a vivere serenamente, trovando il positivo. Questo succede spesso con il lavoro o con una relazione lunga».lasciare-andare-1

Accanto al “Lasa Andè” – che vuol dire “lasciare andare” in dialetto romagnolo – c’è poi il dare senza ricevere, il dare in forma circolare. Nella società di oggi in cui tutti sono abituati a dare per poi avere un tornaconto personale, il dare senza ricevere nulla in cambio diventa rivoluzionario. E anche liberatorio, perché ci distacca da quei beni materiali che riteniamo essenziali ma che in realtà non lo sono. L’ultimo principio è quello della fiducia nell’Universo, che si collega circolarmente agli altri tre: se abbandoni la paura, l’Universo non ti tradisce. E le cose belle accadono.

«Questo è il risultato di tutte le esperienze che ho vissuto e che si sono unite una volta tornata in Italia», spiega Federica. «Quando sono andata in Turchia nel 2014, ho riscoperto l’umiltà e l’idea che il dare senza ricevere potesse ancora esistere, ho riscoperto quell’umiltà che la mia famiglia mi aveva insegnato e che avevo un po’ perso». Dopo la Turchia c’è il cammino di Santiago, che segna un ulteriore tassello verso questa strada. E poi la Colombia, dove a Bogotà un’imponente manifestazione della popolazione decide di ‘lasciare andare’ gli impuniti della guerra civile e ricominciare da capo. «Questa per me è stata una ‘sberla’ del lasciare andare, ma l’ho realizzato soltanto dopo quando sono tornata in Italia».Lasa-Ande.jpg

Da un anno a questa parte, quindi, Federica sta portando avanti il suo progetto, che nel suo piccolo cerca anche di rispettare canoni di eco-sostenibilità. La borsa, infatti, viene prodotta nel raggio di 30 km: completamente artigianale, cucita da una sarta romagnola con stoffe comprate a Forlì e poi stampata dalla stessa Feffe’. Imperfetta, quindi, come anche gli esseri umani, ma sicuramente più autentica. «L’idea è quella di portarla fuori, magari all’estero, ma ho capito che ci vuole del tempo per farla conoscere». Nel frattempo Federica raccoglie opinioni e sensazioni: «Spesso mi sono sentita dire “Chi ha inventato questa cosa?” e vedere volti meravigliati quando scoprivano che era una donna, ma in generale ho avuto spesso commenti positivi e negativi. La cosa curiosa è che ci sono alcuni tipi di persone che capiscono subito di cosa si tratti, mentre altri no: i bambini fanno parte del primo gruppo, gli adulti – quelli calati dentro il loro mondo di regole – facevano fatica a comprendere».

Da un lato le paure e i dubbi, dall’altro la positività e la voglia di fidarsi. Un progetto, quello del “Lasciareandare”, che trasforma il negativo in forza, che stimola alla crescita di se stessi partendo da cose semplici come una borsa e un diario.

«Prossimamente andrò in Libano, sento che mi chiama, e forse cercherò di portare il progetto lì e avviarlo con delle donne del luogo», conclude Federica. E poi? Chi lo sa, tutto è in divenire. L’importante è lasciarsi andare.

Fonte: http://www.italiachecambia.org/2018/06/lasciareandare-borsa-liberarci-cio-che-non-vogliamo/?utm_source=newsletter&utm_campaign=general&utm_medium=email&utm_content=relazioni