Manca pochissimo alla presentazione in anteprima
di “Un nuovo mo(n)do per fare salute”, il primo libro della Rete
Sostenibilità e Salute, di cui anche Italia Che Cambia fa parte. Appuntamento
venerdì 11 ottobre a Bologna con i curatori Chiara Bodini, Jean-Louis Aillon,
Matteo Bessone. Dopo circa un anno
di gestazione, è uscito in libreria il libro della Rete Sostenibilità e Salute: “Un nuovo mo(n)do per fare salute”. Come
suggerisce il titolo, si tratta di riflessioni e spunti, teorici e pratici, per
ripensare la salute e la cura all’interno di un più ampio ripensamento
dell’attuale sistema socio-economico e culturale, insostenibile e patogeno.
I vari capitoli, a
cura di autori e autrici afferenti alla Rete, affrontano gli snodi principali
della Carta di Bologna, il manifesto fondativo con cui la Rete è nata cinque anni fa: la salute come
prodotto sociale, la centralità delle relazioni e dunque della cultura e della
partecipazione, la questione ambientale e le alternative al dogma della
crescita, i diversi approcci alla cura e l’importanza del servizio sanitario
nazionale, le minacce rappresentate da conflitti di interessi e sistemi che
premiano la malattia e non la salute, e molto altro.
Il libro sarà
presentato a Bologna, in prima nazionale, venerdì 11 ottobre alle 18.00 a Venti Pietre (Via Marzabotto 2). Grazie
alla presenza di Giuditta Pellegrini, giornalista ambientale e fotografa per
Terra Nuova e Il Manifesto, sarà possibile un dialogo approfondito con i
curatori (Chiara Bodini, Jean-Louis Aillon, Matteo Bessone) e le autrici e gli
autori.
Per maggiori
informazioni, trovate allegati la scheda libro (copertina, indice ed
introduzione), la locandina e l’evento facebook. A questo link può essere,
invece, acquistato il libro online (cartaceo o pdf), oppure scaricato
gratuitamente il primo capitolo introduttivo.
“Secondo
l’autorevole rivista «The Lancet», i cambiamenti climatici saranno la
principale minaccia per la salute del XXI secolo. Contemporaneamente,
l’acuirsi delle disuguaglianze alimenta problemi sociali e di salute, sia
fisica che mentale, in tutta la popolazione e a tutti i livelli. […]. Che cosa
possiamo fare di fronte a tutto ciò?
In questo volume la
Rete Sostenibilità e Salute propone spunti teorici e pratici per un cambiamento
dell’attuale sistema, a partire da un modo diverso di leggere la malattia e
la cura. Si tratta di un utile strumento per tutte le persone che si rifiutano
di rassegnarsi a questa ingiusta ed evitabile “realtà”, e vogliono impegnarsi
nel dare vita a un mondo che metta al centro la salute delle persone e quella
del pianeta”.
A Cervia (RA) un gruppo di bambine e bambini si è
auto-organizzato e ha istituito delle giornate di pulizia delle spiagge,
coinvolgendo altri piccoli e grandi frequentatori del litorale. Un bellissimo
gesto dal grande valore simbolico. Tommaso, Federica, Maria Giulia, Celeste e Virginia sono di Cervia e hanno
dieci anni. C’è anche la piccola Eleonora che ne ha solo sei. Alcuni giorni
alla settimana durante le loro vacanze estive li passano a camminare avanti e
indietro per la spiaggia della loro città armati di sacchi e guanti. Raccolgono
rifiuti di ogni genere che i bagnanti lasciano sulla sabbia e nell’acqua della
riviera. Il gruppo si muove allegro a chiassoso lungo il bagnasciuga. “Ma
che bravi! Sono davvero speciali!” dicono quelli che li vedono passare
commentando un’azione che per i bambini è quasi naturale. Loro invece si
sorprendono per altro. Non si capacitano di come gli adulti possano abbandonare
con tanta noncuranza i rifiuti in un luogo che è di tutti – “è pieno di
sigarette, ieri abbiamo trovato anche un accendino!” – e ripulirlo sembra loro
un gesto scontato.
Ci sediamo tutti su
un lettino. Hanno percorso più di due chilometri sotto il sole cocente e li
“costringiamo” a riposarsi un po’, ma se fosse per loro andrebbero avanti senza
sosta. Ci mostrano orgogliosi i sacchi già mezzi pieni di spazzatura.
Come vi è venuta
questa idea?
L’idea ci è venuta
ispirandoci a un’iniziativa che ci hanno fatto fare a scuola, che si chiama
“Passeggiata ecologica”. Un giorno abbiamo deciso di fare anche noi una piccola
passeggiata e abbiamo trovato tantissimi rifiuti. Volevamo raccoglierli. Ci
siamo chiesti se qualcuno per caso volesse farlo con noi. Allora abbiamo
raccolto le firme al mercatino dei bimbi [organizzato ogni lunedì sera dalla
Croce Rossa, ndr] e abbiamo messo insieme un piccolo gruppo.
Cosa dicono gli
altri bagnanti quando vi vedono passare?
La gente ci dice
che siamo bravissimi e ci fa i complimenti. Una signora ci ha dato anche una
mano.
Perché lo fate?
Perché la nostra
maestra ci ha insegnato che è giusto farlo. E poi volevamo salvare i pesci
dalla plastica e anche noi stessi.
Cos’altro si può
fare oltre a raccogliere i rifiuti?
Smettere di usare
la plastica. Per esempio usare le borracce anziché le bottiglie oppure
utilizzare le cannucce biodegradabili o evitare i palloncini – in spiaggia ne
abbiamo trovati un sacco – o i cotton fioc, servirsi di bicchieri di vetro
invece di quelli usa e getta di plastica.
Qual è la cosa più
strana che avete raccolto?
Le reti dei giochi
dei bimbi, una scarpa e delle mutande usate.
Mentre parliamo
Celeste si interrompe e raccoglie una sigaretta. “Non riesco a capire: la gente
fuma, fa male a sé stessa e inquina”.
Bevete l’acqua in
bottiglia?
No, io la vado a
prendere con le bottiglie di vetro alla centrale.
Chi è che beve
l’acqua del rubinetto?
Tutti i bambini
alzano la mano.
“Abbiamo
deciso di fare un cartellone così magari si unisce più gente quando camminiamo.
Al mercatino abbiamo messo delle foto e dei fogli per lasciare i contatti”. I
bambini non si tengono. Sfornano nuove idee a ciclo continuo e con il loro
entusiasmo contagiano tutti i presenti. Se volete aiutarli li trovate ogni
lunedì sera al mercatino dei bambini organizzato dalla Croce Rossa. Oppure
potete sempre seguire il loro esempio passeggiando e raccogliendo i rifiuti
sulla spiaggia dove andate in vacanza, facendo plogging nel parco vicino a
casa, parlando con i vostri conoscenti di questa iniziativa. E se vi sembra
poco non dimenticate che anche un grande fuoco parte da una piccola scintilla.
Dopo avervi parlato di Camilla, che ha sede a
Bologna, e Mesa Noa, che sta per aprire i battenti in Sardegna, abbiamo oggi il
piacere di annunciarvi la prossima apertura del terzo supermercato autogestito
d’Italia. Arriva ora a Parma OLTREfood coop, l’emporio di comunità che sovverte
le regole della grande distribuzione. Vi abbiamo raccontato per la prima volta delle Food Coopa ottobre del 2017,
con l’augurio di veder nascere numerosi empori autogestiti in tutta Italia. A
dicembre del 2018 abbiamo avuto il piacere di annunciarvi l’apertura di Camilla a Bologna e in seguito vi abbiamo presentato Mesa Noa, la cooperativa di consumo sorta in Sardegna. Siamo
ora lieti di annunciarvi la costituzione della cooperativa OLTREfood Coope di anticiparvi che l’apertura è prevista in autunno a Parma.
OLTREFood Coop è la
terza esperienza italiana di “supermercato autogestito” o di “negozio
partecipativo” o ancora di “emporio di comunità” e consente ai suoi soci di
essere contemporaneamente proprietari, lavoratori e consumatori. La difficoltà
a trovare una traduzione univoca di “food coop” ha sicuramente a che fare con
la multidimensionalità di questo progetto, che tocca temi fittamente
intrecciati come l’alimentazione, l’ambiente, la comunità, il lavoro e tanti
altri, formando un poliedro ben sfaccettato. “Fare parte di questo tipo di
esperienza implica una visione politica globale, di tutela dell’ambiente e
dell’uomo” afferma Carlotta Taddei, presidente dell’Associazione OLTREFood
Coop. Non più “consumatori”, i soci diventano soggetti attivi che
possono scegliere quale filiera sostenere e dunque che tipo di impatto
ambientale, sociale ed economico desiderano avere. Pagata una quota sociale di
circa cento euro, infatti, i soci hanno la possibilità di partecipare alle
scelte sui prodotti e su altri aspetti organizzativi e possono acquistare
presso OLTREFood a prezzi agevolati, garantendo al contempo un equo compenso ai
produttori. La richiesta di dedicare tre ore ogni quattro settimane al progetto
risponde sia all’esigenza di mantenere dei prezzi equi per tutte le parti, sia
alla necessità di avere una partecipazione che non sia solo sulla carta, ma
vissuta. Pur avendo come chiari riferimenti esperienze come Park Slope, Bees Coop, La Louve e Camilla, OLTREFoodCoop sente una continuità anche rispetto
alla storia del cooperativismo e del solidarismo che ha caratterizzato l’Italia
dalla prima metà dell’Ottocento, quando la rivoluzione industriale mutò gli
assetti sociali e generò, per reazione, le prime associazioni di mutuo
soccorso come strumento di autodifesa dal nuovo liberismo che si andava
imponendo.
I soci di OLTREfood
coop
Il territorio
parmigiano si distingue già da tempo per una forte sensibilità in questa
direzione, tant’è che il primo Gruppo di Acquisto Solidale italiano è stato
fondato nel 1994 nella vicina Fidenza. Tuttavia, mentre la grande distribuzione
gode di un’enorme visibilità, questo “mondo parallelo” di consumo etico e di
sostegno ai produttori può sembrare irraggiungibile a chi non appartiene a
queste reti. Per questo OLTREFood Coop vuole costruire un sistema che abbia una
sede fissa, visibile, che possa essere veramente aperto a tutti, pubblicizzato
ed estendibile all’infinito. L’aspirazione ad essere un luogo aperto e di conoscenza
reciproca trapela anche dalla scelta nome: OLTREFood si rifà a Oltretorrente,
il quartiere popolare e libertario, ma anche conflittuale, in cui si è scelto
di aprire il negozio. Ad oggi c’è la soddisfazione di aver raggiunto il
primo centinaio di soci che, pur vivendo nella stessa – piccola – città,
non si conoscevano, e che sono arrivati a compiere insieme scelte dal contenuto
molto profondo. “Altri tipi di associazioni, con intenti altrettanto lodevoli,
raccolgono chi già la pensa allo stesso modo” mentre OLTREFood, ha attirato non
tanto “per un’impronta ideologica di partenza, ma per la condivisione di tutto
un processo di ragionamento, studio e autoformazione. Attraverso questa pratica
siamo riusciti a raccogliere persone molto diverse”, racconta Carlotta Taddei.
OLTREFood coop ha
una formula legale tanto innovativa quanto faticosa da comunicare all’esterno e
le occasioni di confronto e supporto reciproco con l’emporio di comunità
Camilla hanno giocato un ruolo importante. Mentre, speriamo, le food coop
diventeranno un modello pian piano sempre più diffuso, la costruzione di una
forte rete regionale e nazionale si intravede all’orizzonte.
La direttrice dell’Istituto Ramazzini Fiorella
Belpoggi fa il punto sulla situazione 5G. Un’occasione per parlare di ricerca
indipendente, delle linee guida sugli studi e della necessità di valutare
l’inquinamento diffuso e continuativo nella ricerca sul cancro. In occasione dell’intervista alla ricercatrice e direttrice dell’Istituto Ramazzini, Fiorella Belpoggi, abbiamo chiesto un aggiornamento sulla
situazione 5G. “È un momento di grande fermento – sottolinea la direttrice – e
vengo invitata continuamente ad eventi sull’impatto delle radiofrequenze
organizzati da cittadini e amministratori: c’è molta attenzione anche tra
ricercatori, fondazioni e amministrazioni. Anche dall’estero ricevo
continuamente richieste di intervista, ci sono pochissime informazioni ma
soprattutto è un tema ancora poco studiato. L’Istituto Ramazzini è l’unico
soggetto di ricerca indipendente dai finanziamenti delle industrie che abbia
studiato l’impatto almeno sul 3G, sulla frequenza di 1.8 GHz, attualmente in
uso. Invece il 5G utilizzerà una fascia di radiazioni elettro magnetica delle
onde millimetriche su cui non esistono studi per la salute delle persone.
Oltretutto l’utilizzo dei telefonini è sempre più massiccio e continuato anche
nelle giovanissime generazioni quindi bisognerebbe impostare nuove metodologie
di ricerca oltre che indipendenti.
Abbiamo studiato le
basse frequenze cioè quelle indotte dal flusso della corrente elettrica, le
radiofrequenze 1.8 GHz e abbiamo visto che tutte le onde possono indurre il
cancro soprattutto alcuni tipi di cancro al cervello. Infatti abbiamo
rilevato l’impatto negativo sulle cellule di Schwann che formano la mielina
attorno ai filamenti dei neuroni. I tumori che abbiamo osservato noi e i
colleghi negli Stati Uniti sono gli stessi che avevano indotto la IARC (Agenzia
internazionale per la ricerca sul cancro) nel 2011 ad affermare che le
radiofrequenze erano “possibilmente cancerogene” negli utilizzatori assidui del
cellulare. Poiché questi device sono tenuti vicini o addosso al corpo tutto il
giorno, l’energia che viene assorbita dall’organismo è maggiore rispetto alle
stesse frequenze emesse dalle antenne: c’è una maggiore interferenza con il
materiale biologico. Di fronte al fatto che esistono le due evidenze
scientifiche di pericolosità, dei due diversi laboratori, abbiamo chiesto
di inserire nelle prossime nuove valutazioni delle radiofrequenze una revisione
più completa e aggiornata degli studi. Importante infatti è tenere conto
delle eventuali amplificazioni del sistema della trasmissione di onde ancora
maggiori cioè con maggiore capacità di trasmettere anche se meno
penetranti. Non c’è una evidenza scientifica di emergenza come ci accadde
quando studiammo gli effetti del benzene e della formaldeide. Ma prima di
espandere queste tecnologie bisognerebbe studiarle perché coinvolgono miliardi
di persone. Possiamo chiedere alle compagnie di costruire apparecchi meno
pericolosi, con misure che espongano meno cioè maggiormente schermati o con
incorporate applicazioni per renderlo funzionante solo quando è ad una certa
distanza dal corpo oppure dotati di auricolari integrati; già a 5 cm di
distanza dal corpo l’esposizione è 25 volte minore, ma sempre alta. Il wifi
ha una frequenza intermedia ma sono sempre onde elettro magnetiche ed è meglio
non tenerlo acceso di notte. Sarebbe importante ad esempio cambiare il modo
di far vedere ai figli un film: bisognerebbe prima scaricarlo. La
condizione più preoccupante consiste nel numero di apparecchi cellulari
contemporaneamente accesi, ad esempio in un vagone di un treno possiamo avere
100 cellulari accesi, con 50 persone che parlano al telefono; l’esposizione
aumenta moltissimo.
In particolare le
onde millimetriche del 5G, quelle dei forni a microonde, sollecitano gli atomi
di acqua, quindi i bambini, che hanno una percentuale maggiore di acqua, sono i
più esposti. Queste onde hanno scarso potere di penetrazione, ma quanto è
sottile la calotta cranica di un bambino? E per le gestanti quanto penetrano
nel liquido amniotico? Anche se penetrassero solo l’epidermide bisognerebbe
considerare che è un tessuto molto innervato e gli impulsi nervosi sono
trasportati da cariche elettriche fino al Sistema Nervoso Centrale. Non c’è più
alcun dubbio che irrorando di campi magnetici ci sia interazione, abbiamo visto
svilupparsi cancri ai nervi facciali, mandibolari, acustici.
Gli allarmi
precoci andrebbero ascoltati e con metodologie nuove. Considerando che
siamo tutti immersi in questo surplus di onde risulta quasi impossibile
selezionare una parte di popolazione “pulita” per evidenziare le differenze con
il caso controllo.
Gli studi sul
cancro
Gli studi di
cancerogenesi durano 3/4 anni, c’è bisogno di tempo, ma bisogna studiare anche
le modificazioni biomolecolari sulle cellule e se ci sono biomarkers tumorali
come quelli che abbiamo trovato nel 3G. Nella ricerca sono necessari i modelli
uomo equivalenti, eseguiti fin dall’ esposizione prenatale, invece le linee
guida fanno iniziare gli studi ad una età equivalente di 15 anni, di fatto
togliendo la parte più sensibile alle esposizioni. Ma questo vale per qualsiasi
studio di cancerogenesi. Il cancro ha una latenza di circa 10 anni e veniamo in
contatto con sostanze, ormai da decenni riconosciute cancerogene, in età sempre
più precoce. Quindi se vediamo sempre più casi di cancro mammario a 30 anni o
linfomi e leucemie nell’infanzia vuol dire che le esposizioni sono diventate
molto precoci. Gli enti autorevoli di controllo come l’EFSA controllano gli
studi commissionati dalle aziende, ma l’oggetto di ogni studio e le metodologie
scelte sono l’anello più importante e dovrebbero essere affidate a laboratori
indipendenti. Non basta segnalare la presenza o meno dei conflitti d’interesse.
Risparmieremmo anche molti soldi se gli studi valutassero più parametri
biologici e non il singolo danno neurologico o immunitario o la cancerogenesi.
Bisogna prevedere studi che analizzino tutti questi effetti contemporaneamente.
In Italia ci sono
grossi centri di ricerca ma sono sponsorizzati, sono laboratori che lavorano a
contratto soprattutto per l’industria farmaceutica e devono produrre profitto.
Le Università che fanno ricerca indipendente hanno piccoli laboratori non in grado
di fare grandi studi, non hanno il know how, durano massimo un anno.
Rischi cancerogeni
diffusi
Bisogna cambiare il
sistema di valutazione, le regole che sono state fatte negli anni 70 quando la
maggiore tossicità era nei luoghi di lavoro, ora l’inquinamento è molto più
diffuso, costante e continuo dalla vita prenatale in poi e su tutta la
popolazione umana. Il tema delle regole sono in pochissimi a conoscerle e chi
le conosce lavora a contratto e/o segue l’applicazione delle linee guida senza
la visione delle ricadute; è attento solo alla parte tecnica. Sono studi di
nicchia e pochi ricercatori ne capiscono le reali conseguenze, io stessa l’ho
capito solo dopo anni. Dobbiamo abbassare il potenziale cancerogeno ambientale
totale ma se continuiamo a sintetizzare centinaia di nuovi composti chimici
come cosmetici, farmaci, pesticidi e non ritiriamo dal commercio quelli
obsoleti e più pericolosi, andiamo in accumulo.
La ricerca
indipendente
Noi abbiamo
iniziato nel 2005 con un unico finanziamento ma gli altri fondi sono arrivati
dai volontari dell’Istituto che oggi ha 50.000 soci perché siamo una
cooperativa sociale e siamo finanziati da donazioni. Ci abbiamo messo più tempo
ma siamo indipendenti e no-profit. Il nostro scopo è il pareggio di bilancio e
il nostro guadagno da Statuto è diffondere informazioni per una cultura della
prevenzione. Facciamo una ricerca che cerca di riprodurre le situazioni
espositive umane con modello uomo equivalente. Con approccio simile al nostro
c’è in America il National Toxicology Program, finanziato dall’FDA e per fare
il nostro studio sul 3G hanno speso 30.000 euro iniziando a studiare dalla vita
prenatale come noi, per rendere il modello più sensibile, ma non rilasciano
interviste. Siamo gli unici che riescono a divulgare i risultati sulle
radiofrequenze, un servizio a miliardi di persone. Nei diversi incontri a cui
sono invitata, sempre più cittadini sentono che stiamo esagerando nell’uso
incontrollato della tecnologia ma anche ricercatori universitari, fondazioni,
amministratori sono d’accordo e spingono per comportamenti più cautelativi. Poi
bisognerebbe investire molto di più nell’informazione sull’uso corretto degli
apparecchi, non bastano le istruzioni per l’uso nelle confezioni che nessuno le
legge. I device devono migliorare man mano che aumentano le conoscenze; per i
produttori sono spese minime, è solo una questione di volontà. E’ una grossa
sfida tecnologica: l’innovazione deve avere un miglioramento non solo sul
comfort ma anche sulla salute. Bisogna imparare a gestire ciò che via via
scopriamo di poter fare.”
Dieci botteghe bolognesi sono le protagoniste di
“Duv’Art – Le strade dell’artigianato”, un documentario web dedicato alla
produzione artigianale di Bologna, ancora viva tra le sue strade, dal centro
alla periferia. Una vera e propria visita guidata virtuale tra giovani creativi
aperti alla sperimentazione di nuove tecniche e antichi custodi del lavoro dei
padri, che tramandano i segreti del saper fare. Sedetevi, rilassatevi e calmate la mente. State per entrare virtualmente
dentro dieci botteghe che sembrano essersi fermate nel tempo. Qui si
respira ancora il profumo del legno appena intagliato, si vedono mani che accarezzano
delle materie prime per dar vita a creazioni uniche che richiamano arti
tramandate attraverso le generazioni, ricordando un tempo dove il “saper
fare” era, oltre a una necessità, uno stile di vita e dove i pensieri e la
creatività si trasformavano in oggetti di uso quotidiano o per le occasioni
speciali.
L’artigiana della
bottega PG ceramiche dove potrete ammirare traforati, palloncini e bellissime
maioliche in ceramica
Ancora oggi
all’interno di queste botteghe le creazioni vengono disegnate e
realizzate a mano, grazie alla passione di chi ha scelto di salvare e
tramandare la qualità, la creatività e l’autenticità, caratteristiche che
spesso non vengono considerate in una società che preferisce oggetti risultanti
da una catena di montaggio, che costano il meno possibile e che verranno
rimpiazzati da altri identici quando non servirà più.
“Duv’Art
– le strade dell’artigianato” è un progetto realizzato dall’Associazione Culturale Emiliodoc che
attraverso un webdoc multimediale racconta le storie di dieci botteghe del
territorio bolognese. Abbiamo incontrato Cecilia, giovanissima portavoce del
progetto da cui traspare ancora tutta l’emozione e la meraviglia di aver potuto
toccare con mano queste creazioni uniche. “È stato difficilissimo –
racconta – fare una selezione degli artigiani presenti nel territorio
bolognese”. Alcune botteghe si trovano in zone periferiche, altre godono di
maggiore visibilità ma ognuna di loro ha una sua unicità ed è
portavoce di mestieri e utensili che meritano di essere riportati alla
luce.
Nella Bottega Prata
si lavora il ferro battuto trasformandolo in lampadari, letti e tantissime
altre creazioni originali
“Abbiamo scelto le
botteghe che hanno creato una sinergia tra la tradizione e l’innovazione,
generazioni attuali che tramandano le tradizioni imparate in famiglia”,
continua Cecilia. “Sentire le loro storie, scoprire a cosa serve quell’utensile
appartenuto al nonno e tenerlo in mano, è stata un’emozione indescrivibile”.
Il web doc
racconta le storie di ognuna di loro, si “passeggia” lungo le strade che sono
state disegnate rigorosamente a mano, ricostruendo fedelmente ogni
dettaglio delle botteghe affacciate sulle strade. Ci si può soffermare in una
alla volta, immergendosi nelle sue creazioni raccontate attraverso
brevi video che indugiano in modo minuzioso su ogni dettaglio con
il sottofondo del suono degli utensili e delle mani che creano.
Ad ogni bottega sono dedicati brevi filmati in cui si mostrano le creazioni e
dove vengono narrate le origini, dando voce agli artigiani che mostrano con
estrema maestria i loro utensili e le loro tecniche, spesso tramandati dai
nonni e che sono per loro insostituibili. Dopo la visita virtuale, vi invitiamo
poi a visitare personalmente le botteghe perché le loro storie, i profumi, i
suoni e le atmosfere meritano di essere assaporate dal vivo.
Dingi, nata come
ferramenta, si è trasformata nel progetto Era, dove vengono recuperarti oggetti
che non servono più donando loro nuova vita e trasformandoli in opere d’arte. L’artigianato
è un’eccellenza tutta italiana che racconta tradizioni, società e
cultura ed è oggi patrimonio dell’Unesco. Riportare alla luce antiche
tradizioni e vedere mani che creano e voci che raccontano com’è nato
quell’oggetto, quel caffè o quel bigliettino di auguri ha un valore
inestimabile.
Promuovere l’economia circolare attraverso una
serie di attività, con un focus specifico sulle riparazioni di oggetti guasti
altrimenti destinati a divenire rifiuti. È questo l’obiettivo di Rusko,
associazione nata a Bologna e ispirata all’esperienza internazionale dei Repair
Cafè: un’iniziativa virtuosa e dall’alto valore sociale ed ecologico che sempre
più sta prendendo piede anche in Italia.
“Eravamo quattro
amici al bar, che volevano cambiare il mondo…”. Inizio ad ascoltare
l’intervista raccolta dai miei colleghi e subito mi viene in mente la celebre
strofa della canzone di Gino Paoli che, a pensarci bene, descrive perfettamente
l’avvio di una miriade di progetti virtuosi, innovativi e vincenti nati per
l’appunto da una chiacchierata informale tra persone affini, una buona
intenzione ed un’idea semplice, ma efficace. Ed è proprio così che circa un
anno e mezzo fa a Bologna ha preso vita l’associazione Rusko (Riparo Uso Scambio
Comunitario), ispirata anche
all’esperienza estera dei Repair Cafè: momenti di incontro in cui si riparano
oggetti rotti che altrimenti verrebbero gettati via.
“Insieme ad alcuni
amici, davanti ad una pizza e una birra, abbiamo iniziato a domandarci cosa
avremmo potuto fare concretamente per contribuire al miglioramento di una
società che non ci convinceva. Abbiamo buttato giù un’idea, la abbiamo studiata
e abbiamo raccolto informazioni su altre esperienze avviate in altri Paesi, in
particolare nel nord Europa”, ci racconta Raffaele Timpano, presidente di
Rusko. “Abbiamo preso contatti con la Repair Foundation di Amsterdam,
promotrice di un modello, quello dei Repair Cafè, che coniuga due valori
per noi importanti: partecipazione sociale e rifiuto dello spreco. Tutto quello
che serviva per iniziare era un gruppo di persone ben affiatate e luoghi dove
svolgere le nostre attività: riparazioni, prima di tutto, ma anche una serie di
altre iniziative volte a promuovere l’economia circolare e la sostenibilità”.
Nasce così Rusko,
che significa Riparo Uso Scambio Comunitario ma che in bolognese vuol dire
anche spazzatura. “Abbiamo voluto giocare proprio su questa ambivalenza: una
cosa considerata inutile può avere una nuova vita ed un valore sociale ed
ecologico. Un nome che qui a Bologna ha riscosso subito molto successo”.
Raffaele Timpano ci
spiega la filosofia che sta alla base della loro esperienza. “Ci siamo interrogati
sui cicli di vita sempre più brevi dei prodotti industriali e sul legame che
esiste tra le persone e gli oggetti, ovvero sulla totale dissociazione che si è
venuta a creare con l’avvento del consumo di massa: oggi le persone non si
chiedono più da dove vengono gli oggetti e come vengono realizzati. I prodotti
vengono acquistati, usati e poi buttati nella spazzatura. Un sistema
insostenibile, insomma, che noi vogliamo contribuire a superare”. Partendo,
appunto, dalla promozione dei Repair Cafè, iniziativa nata qualche anno fa in
Olanda e che ora si sta diffondendo anche in Italia. Si tratta di incontri tra
persone che vogliono riparare oggetti malfunzionanti. “Alcune persone
partecipano ai Repair cafè che organizziamo per curiosità, altre per passare del
tempo in compagnia, altre ancora perché animate da uno spirito ecologista – ci
spiega Raffaele – Inoltre nei quartieri più popolari abbiamo visto anche
famiglie che ricorrono alle riparazioni per necessità. È molto diverso
l’approccio tra centro e periferia, nelle zone periferiche spesso abbiamo
conosciuto immigrati che si sorprendono per la nuova diffusione della pratica
della riparazione nel nostro Paese e ci raccontano gli usi dei loro territori.
Si creano così degli scambi molto interessanti”.
Rusko, che conta
ora circa una trentina di volontari, al momento non ha una sede fisica.
“Andiamo dove ci invitano – dice Raffaele – Un luogo fisico non è fondamentale
ma è più funzionale per l’attrezzatura. Ecco perché il nostro prossimo
obiettivo è trovare un posto dove stabilirci”.
Ma come funziona? “Qualche giorno prima dell’evento mandiamo una mail
agli interessati indicando luogo e ora dell’appuntamento – continua Raffaele –
Alcuni ci chiedono prima informazioni circa la possibilità di riparare un
oggetto o meno. L’unica condizione che noi poniamo è la partecipazione attiva
della persona alla riparazione. La persona si presenta quindi nel giorno
stabilito con il prodotto malfunzionante e partecipa al tavolo della
riparazione al quale solitamente siedono alcuni volontari particolarmente
abili, a volte anche professionisti (di elettronica, sartoria, biciclette). Nel
2018 sono stati portati da noi soprattutto piccoli apparecchi elettrici come
frullatori o asciugacapelli. Solitamente i guasti sono abbastanza banali e
quindi risolvibili. A volte però vengono portati anche apparecchi più complessi
la cui riparazione richiede più tempo. In base al tipo di prodotto la persona
si siede accanto al ‘tutor’, si analizza il problema dell’apparecchio in
questione e si prova a risolverlo insieme. Si crea così un’interazione
normalmente assente nei rapporti di mercato che solitamente sono così
strutturati: ‘Io ti pago per risolvermi un problema, quello che fai non mi
interessa’.
Ovviamente il grado
di partecipazione può essere maggiore o minore rispetto al grado di abilità di
chi porta gli oggetti. Soprattutto in questa zona, che ha un tessuto
industriale ancora vivo, ci sono anche tanti pensionati molto esperti. È così
che abbiamo trovato molti volontari, ex lavoratori appassionati di riparazioni.
Noi lavoriamo con la comunità e per la comunità e lo facciamo
incondizionatamente. Non chiediamo niente a chi partecipa ai Repair Cafè ma chi
vuole può lasciare un contributo per sostenere le attività della nostra
associazione. Se le istituzioni vogliono collaborare o sostenerci sono
ovviamente le benvenute”.
Raffaele è infatti
convinto che se le istituzioni riconoscessero il valore sociale di queste
iniziative e le sostenessero si potrebbero fare moltissime cose: ad esempio
corsi di formazione per la manutenzione, per l’alfabetizzazione informatica,
per l’efficientamento energetico delle case, corsi di artigianato o per
l’inserimento sociale di persone svantaggiate. “Le prospettive sono molto
ampie”.
Raffaele ci parla
anche di un aspetto che ci sembra molto interessante: il diritto alla
riparabilità. “Negli anni ’60 se compravi un oggetto ricevevi anche un
manuale per la riparazione. Oggi al contrario quando acquistiamo qualcosa
leggiamo sulla confezione: ‘non smontare’, ‘non aprire’, ‘non sostituire la
batteria’. Dobbiamo rivendicare il diritto alla riparabilità dei nostri
oggetti. È necessario cambiare il modo in cui vengono progettati gli oggetti:
bisogna progettare in modo modulare per far sì che i pezzi siano sostituibili e
dovrebbe essere introdotto l’obbligo di rendere disponibili i pezzi per le
sostituzioni. Serve, insomma, una progettazione pensata per avere un impatto
zero”.
“Noi crediamo molto
nell’urgenza di un cambio del paradigma culturale e dei meccanismi del sistema.
Una frase che rappresenta molto la nostra filosofia è quella pronunciata da
Einstein: ‘Non possiamo pretendere che le cose cambino se continuiamo a fare le
stesse cose’. Ecco perché dobbiamo ridurre il nostro livello di consumo,
interrogarci sulla quantità di rifiuti che produciamo, cominciare a mettere noi
stessi in discussione. Questo si può fare, magari, partendo proprio dalla
riparazione, un punto che tocca alcuni tasti psicologici molto interessanti. Ultimamente
sta prendendo forza l’idea che i rifiuti siano una ricchezza: io credo invece
che dovremmo cercare in primis di ridurli, anche attraverso la riparazione che,
peraltro, serve anche a prendere coscienza delle proprie capacità. La
soddisfazione psicologica che deriva dal riuscire a riparare qualcosa è
grande, è quasi terapeutica!”.
“Lasciareandare” è il principio cui attenersi se si decide di comprare la borsa ideata da Federica Zamegna. Lo scopo? Superare le paure, staccarsi dalle cose materiali, liberarsi da ciò che non rende felice, ritrovare la fiducia nel mondo ed il piacere di dare senza ricevere. Un progetto che trasforma il negativo in forza e stimola alla crescita di se stessi partendo da cose semplici, come una borsa e un diario. Si fa chiamare Feffè e viene da Savignano sul Rubicone, in Emilia Romagna. Ha girato – e vissuto – in Europa e nel mondo, saltando dall’Italia alla Spagna, all’Inghilterra per poi arrivare in Turchia e in Colombia e poi tornare in Italia. È un’insegnante ma anche tanto altro. Fra questo ‘altro’ c’è un progetto nato da meno di un anno che si chiama “Lasciareandare”, che coinvolge una borsa, un diario e degli sconosciuti.
L’idea è quella di creare una borsa del “lasciareandare” in cui ogni persona che la compra può mettere tutto ciò che vuole lasciare andare via: le sue paure, un lavoro che non rende felici, una relazione da cui è difficile staccarsi ma che non fa più bene. Si scrive tutto su un diario (che arriva con la borsa stessa) e, se si vuole, si decide di scambiarla con qualcuno (via posta ma anche dal vivo) scegliendo da una lista presente sul blog “Notonlybarcelona”.
«Ho scelto la borsa perché l’essere umano è assolutamente innamorato del materiale e lasciare andare una borsa è un piccolo passo per poi salire di livello», spiega Federica Zamegna, che è appunto Feffe’. «E poi c’è la dimensione del diario e della scrittura manuale perché è più stimolante per la nostra parte creativa» e dunque più adatta ad esprimere le nostre emozioni e le nostre paure. Con la borsa e il diario, però, arrivano anche dei consigli su un luogo o un viaggio o un posto positivo, che uno sconosciuto ha scritto con l’unico scopo di regalarli a chi poi comprerà la borsa. In questa idea è fondamentale anche la scelta di un soprannome con cui firmarsi: anche i nomi producono effetti su di noi, vibrazioni positive o negative, e scegliere un nome che ci rispecchi rappresenta un passo importante per parlare di noi in modo sincero e positivo. Chi sceglie una borsa, decide dunque di fare un passo importante nella propria vita, che è quello del lasciare andare. Che poi è anche uno dei tre principi, fra loro collegati, su cui si basa la filosofia del progetto: «Le cose che non vanno bisognerebbe lasciarle andare senza accanirsi: se fai sì che le paure ti tarpino le ali, non ti succederà mai niente di bello, ma se lasci che le cose ‘vadano’, allora qualcosa di buono succede», spiega Federica. «Ho sentito tante di queste storie: persone che una volta mollata la paura e deciso di cambiare, sono riuscite a vivere serenamente, trovando il positivo. Questo succede spesso con il lavoro o con una relazione lunga».
Accanto al “Lasa Andè” – che vuol dire “lasciare andare” in dialetto romagnolo – c’è poi il dare senza ricevere, il dare in forma circolare. Nella società di oggi in cui tutti sono abituati a dare per poi avere un tornaconto personale, il dare senza ricevere nulla in cambio diventa rivoluzionario. E anche liberatorio, perché ci distacca da quei beni materiali che riteniamo essenziali ma che in realtà non lo sono. L’ultimo principio è quello della fiducia nell’Universo, che si collega circolarmente agli altri tre: se abbandoni la paura, l’Universo non ti tradisce. E le cose belle accadono.
«Questo è il risultato di tutte le esperienze che ho vissuto e che si sono unite una volta tornata in Italia», spiega Federica. «Quando sono andata in Turchia nel 2014, ho riscoperto l’umiltà e l’idea che il dare senza ricevere potesse ancora esistere, ho riscoperto quell’umiltà che la mia famiglia mi aveva insegnato e che avevo un po’ perso». Dopo la Turchia c’è il cammino di Santiago, che segna un ulteriore tassello verso questa strada. E poi la Colombia, dove a Bogotà un’imponente manifestazione della popolazione decide di ‘lasciare andare’ gli impuniti della guerra civile e ricominciare da capo. «Questa per me è stata una ‘sberla’ del lasciare andare, ma l’ho realizzato soltanto dopo quando sono tornata in Italia».
Da un anno a questa parte, quindi, Federica sta portando avanti il suo progetto, che nel suo piccolo cerca anche di rispettare canoni di eco-sostenibilità. La borsa, infatti, viene prodotta nel raggio di 30 km: completamente artigianale, cucita da una sarta romagnola con stoffe comprate a Forlì e poi stampata dalla stessa Feffe’. Imperfetta, quindi, come anche gli esseri umani, ma sicuramente più autentica. «L’idea è quella di portarla fuori, magari all’estero, ma ho capito che ci vuole del tempo per farla conoscere». Nel frattempo Federica raccoglie opinioni e sensazioni: «Spesso mi sono sentita dire “Chi ha inventato questa cosa?” e vedere volti meravigliati quando scoprivano che era una donna, ma in generale ho avuto spesso commenti positivi e negativi. La cosa curiosa è che ci sono alcuni tipi di persone che capiscono subito di cosa si tratti, mentre altri no: i bambini fanno parte del primo gruppo, gli adulti – quelli calati dentro il loro mondo di regole – facevano fatica a comprendere».
Da un lato le paure e i dubbi, dall’altro la positività e la voglia di fidarsi. Un progetto, quello del “Lasciareandare”, che trasforma il negativo in forza, che stimola alla crescita di se stessi partendo da cose semplici come una borsa e un diario.
«Prossimamente andrò in Libano, sento che mi chiama, e forse cercherò di portare il progetto lì e avviarlo con delle donne del luogo», conclude Federica. E poi? Chi lo sa, tutto è in divenire. L’importante è lasciarsi andare.
Da piccolo amava esplorare la Natura del suo giardino di casa; dopo la scuola ha continuato studiarla all’università; oggi Gianluca Maini ha trasformato la sua passione in un lavoro. Ha lasciato la città, si è trasferito in Appennino e lavora come guida ambientale, facendo ciò che ama e avvicinando tante persone al mondo naturale. Sin da piccolo Gianluca ha avuto la passione per la Natura e per gli esseri che la abitano, manifestando la volontà di esplorarla, conoscerla meglio, entrare in contatto profondo ed empatico con essa. Crescendo ha dato corpo a questa passione, che adesso è diventata anche il suo lavoro. Non solo! Vuole trasmettere il suo amore per l’ambiente anche alle giovani generazioni, facendo scoprire loro l’Appennino, che da qualche anno è diventato la sua casa.
Quand’è stato che hai sentito il “richiamo della Natura” e cosa ti ha spinto a trasferirti in montagna e dedicarti all’ambiente naturale?
Fin da piccolo ho avuto un contatto diretto con l’ambiente naturale e i suoi abitanti, sperimentando ogni giorno e ampliando via via le mie esplorazioni: dal giardino di casa all’Appennino tutto sommato il passo è breve se sei curioso! Da questa passione è scaturita la voglia di studiare per bene l’oggetto della mia curiosità: mi sono laureato a Bologna in Scienze Biologiche, specializzandomi con una laurea magistrale in Scienze Naturali. Pian piano ma inesorabilmente, testardamente e con un po’ di fortuna, è nato anche il mio lavoro, fatto di spostamenti e appostamenti, di bambini e adulti, di valli e crinali: il trasferimento in montagna è venuto di conseguenza, per comodità e innamoramento del luogo di lavoro.
Andiamo particolarmente orgogliosi delle nostre Settimane Verdi: nate dalla passione e dalla competenza di alcuni nostri soci, prima tra tutti Melania, permettono di far vivere ai ragazzi il contatto più autentico con l’ambiente. È un contatto talvolta severo, che avviene però in totale sicurezza; è un contatto autentico, che fa emozionare, divertire e rinsaldare i rapporti tra i partecipanti. Le attività sono tante e diverse, adatte a tutti, ma hanno un filo conduttore: la vita nell’ambiente naturale, per crescere camminando insieme. Autonomia e socializzazione a braccetto con divertimento e ambiente salutare: rafting, orienteering, campi tendati, avventure notturne…ce n’è per tutti i gusti!
Secondo te è importante avvicinare i ragazzi e i bambini al mondo naturale, magari anche in maniera leggera e giocosa?
Sicuramente: come dicevo l’ambiente naturale insegna tanto e in tempi come oggi, sovraccarichi di tecnologia, aiuta a ritrovare le cose autentiche, cui non siamo più abituati. Dalla curiosità per ciò che ci circonda alla volontà di socializzare, senza dimenticare la salubrità dei crinali: si gioca ma si cresce!
Se dovessi suggerire a un “cittadino” di trascorrere un po’ di tempo in montagna, cosa gli diresti per convincerlo?
Non sono sicuro sia la cosa migliore raccontare qualcosa. Spesso si ha in mente la montagna alpina: conosciuta, turistica e accogliente. Bisognerebbe portarlo su, appassionarlo, raccontargli in loco le storie degli anziani, fargli sentire e osservare gli animali, fargli assaggiare i prodotti del bosco: incredulo di avere un tesoro a pochi chilometri dalla città, sono convinto che tornerebbe!
Cosa ti ha dato l’Appennino, come ha cambiato la tua vita?
L’Appennino è autentico, difficile e selvaggio. A livello pratico mi ha fornito un lavoro – assurdo no? Tutti scendono in città per cercarlo! –, a livello emozionale mi ha dato tutto ciò che difficilmente si ritrova in città. Passo per idealista, ma avere l’occasione di vedere l’aquila volteggiare sopra la testa quando esci la mattina di casa non è cosa da poco per me.
A Bologna c’è Instabile Portazza, uno spazio sociale nato grazie alla riqualificazione da parte dei cittadini di un vecchio palazzo pubblico abbandonato e degradato. In maniera condivisa e partecipata, gli abitanti della zona si sono auto-organizzati e hanno aperto un dialogo con le istituzioni, rimboccandosi le maniche e provvedendo loro stessi alla ristrutturazione e all’organizzazione di attività per la comunità. Dalla periferia di Bologna arriva una bellissima storia di riappropriazione di spazi abbandonati, di auto-organizzazione, di cittadini che di fronte al degrado e alla mancanza di spazi sociali non rimangono con le mani in mani aspettando un intervento dall’alto, ma si rimboccano le maniche e agiscono. È la storia di Instabile Portazza, che fino a pochi anni fa era un inquietante palazzone abbandonato dalla cattiva gestione pubblica, maltrattato dal tempo e dagli atti vandalici, avvolto in un fitto strato di vegetazione spontanea, desolatamente vuoto e inutile.
Proprio lì incontriamo Jacopo e Luca, due ragazzi che fanno parte del gruppo di cittadini che hanno deciso di ridare vita a questo ammasso di cemento e farlo diventare un bene a disposizione della comunità, bisognosa di spazi e luoghi di socialità.
«Nel 2014, grazie alla social street di zona – racconta Jacopo –, abbiamo iniziato a chiederci cosa fare. Abbiamo fatto delle ricerche scoprendo la sua storia e abbiamo capito che l’interesse di tutti era entrarci e trasformarlo in uno spazio per la comunità».
Sin da subito il progetto è partecipato e condiviso. I primi incontri con i residenti hanno lo scopo di capire quali sono le loro esigenze e cosa vorrebbero per la zona in cui vivono. Ciò che manca in questo “quartiere dormitorio” sono gli spazi sociali dove ritrovarsi, le attività da condividere, i servizi e le occasioni per coltivare le relazioni umane.
«Abbiamo raccolto le idee ed elaborato un progetto parlando con gli interlocutori – ACER e Comune di Bologna – e siamo partiti». La prima mossa era ristrutturarlo, renderlo di nuovo vivibile. Ma come fare senza soldi e senza attrezzature? Semplice: con la condivisione!
«Ci siamo chiesti: “Quali sono le nostre competenze? Cosa siamo disposti a imparare?”. Quindi ci siamo affidati alla condivisione dei saperi: due domeniche al mese ci siamo ritrovati all’in-cantiere e ciascuno trasmetteva agli altri le proprie competenze, spiegava cosa fare e come farlo e imparava ciò che non sapeva».
Tutti insieme, i cittadini della zona si sono messi in gioco, hanno dedicato tempo e sudore al progetto e hanno creato un contenitore. Dopodiché è partita la seconda fase: riempirlo! Questo è stato possibile grazie al nutrito gruppo di associazioni che partecipano all’iniziativa, come Promuovo, Architetti di strada, Leila, Camelot, Metropolis. «Da soli – ammette Jacopo – non andremmo da nessuna parte».
Dopo quasi quattro anni la trasformazione non è ancora completa, ma questo non-luogo è tornato a vivere. È davvero entusiasmante vedere che là dove prima c’erano polvere, rifiuti e calcinacci oggi si svolgono concerti, corsi di auto-costruzione, cineforum, repair cafè, lezioni di musica e tante altre attività. Giovani e anziani si ritrovano e stanno insieme, riappropriandosi degli spazi comuni. Centinaia di cittadini e decine di associazioni hanno dimostrato che far rinascere e riqualificare il territorio è possibile: dal basso, in maniera condivisa e partecipata, senza tanti soldi, ma con consapevolezza e voglia di fare!
Intervista: Francesco Bevilacqua e Daniela Bartolini Riprese: Daniela Bartolini Montaggio: Paolo Cignini
A denunciarlo è la Lipu nel dossier “Fiumi in fumo”: in Emilia Romagna gli enti locali hanno chiesto a ditte private di “ripulire” gli argini dei fiumi permettendo loro di tenersi la legna ricavata. Il risultato? Secondo la denuncia dell’associazione: distruzione di habitat ed ecosistemi fluviali e taglio selvaggio.
Hanno tagliato oltre 417 ettari di vegetazione su una lunghezza totale di quasi 200 chilometri di aree demaniali. Senza rispettare le prescrizioni e distruggendo habitat ed ecosistemi fluviali di elevato valore conservazionistico. E, infine, ricavando oltre 76mila metri cubi di biomassa, da cui sono derivati profitti privati ai danni della collettività. La Lipu-BirdLife Italia denuncia nel nuovo dossier Fiumi in fumo quanto successo dalla fine del 2012 al mese di marzo 2016 in cinque ambiti fluviali dell’Emilia-Romagna, dal torrente Parma al Savena, dal Sillaro al Rio Acqua Chiara ai corsi d’acqua minori nel modenese (cui si aggiungono i dati raccolti in altri fiumi tra parmense e modenese) dove «ditte private hanno effettuato tagli lungo i fiumi, entrando in possesso del legname ricavato a compensazione delle spese sostenute spesso senza pagare alcun canone per l’utilizzo di area demaniale. Le aziende hanno realizzato interventi che vanno ben oltre le prescrizioni fornite degli enti preposti effettuando, a causa della disattenzione generale e di controlli insufficienti, tagli indiscriminati per massimizzare i guadagni».
Il dossier Fiumi in fumo – che la Lipu ha realizzato col l’aiuto dei propri volontari e di quelli di altre associazioni ambientaliste, comitati e singoli cittadini – offre una dettagliata analisi dei cinque casi oggetto di studio, dalla descrizione dei danni ambientali alle norme violate fino alle interferenze con rete Natura 2000, completata da una vasta documentazione cartografica e fotografica che testimonia gli scempi effettuati.
«Si tratta di un fenomeno preoccupante e in costante aumento non solo in Emilia-Romagna, ma su tutto il territorio nazionale e al quale contribuiscono – oltre all’insufficienza dei controlli – politiche europee che incentivano la produzione di energia da biomasse legnose (le bioenergie rappresentano il 65% al mix di energie rinnovabili della Ue) e, inoltre, la spesso anacronistica politica di gestione dei nostri fiumi» spiegano dalla Lipu. Nel dossier – per il quale la Lipu ha consegnato, limitatamente al caso di Parma, un esposto alla Procura della Repubblica della città emiliana – si denunciano le gravissime conseguenze di questi interventi in termini di perdita di biodiversità, distruzione di habitat ripariali (protetti dalla Direttiva comunitaria “Habitat”), compromissione della funzione dei fiumi come corridoi ecologici, perdita di fondamentali servizi ecosistemici come la limitazione dell’erosione, il rallentamento della corrente, la mitigazione delle piene, la ricarica delle falde acquifere sotterranee.
“E’ preoccupante – afferma Claudio Celada, direttore Conservazione natura della Lipu – vedere come norme, linee guida, studi e ricerche vengano disattesi senza nemmeno fornire adeguate spiegazioni, in nome di una presunta sicurezza idraulica e della necessità di agire d’urgenza, bypassando la buona pratica della programmazione e pianificazione. Abbiamo inoltre spesso riscontrato la mancanza di una Valutazione d’incidenza, obbligatoria anche quando gli interventi sono stati eseguiti al di fuori (di pochi chilometri) dai siti Natura 2000, in quanto gli effetti negativi dei tagli ricadono sulle specie e sugli habitat protetti.
“Con questo dossier – prosegue Celada – vogliamo sensibilizzare ai temi della biodiversità e della tutela delle specie e degli habitat ripariali tutti i soggetti coinvolti nella gestione idraulica dei fiumi. Ma anche favorire l’avvio di un processo di rinaturalizzazione dei corsi d’acqua che in tutta Europa, tranne che nel nostro Paese, sta portando incoraggianti risultati, sia in termini di protezione della natura sia di aumento della sicurezza idraulica”.
FIUMI IN FUMO: I NUMERI DEI 5 CASI ANALIZZATI
Corso d’acqua /Tratti interessati dai tagli /Area disboscata/Biomasse tagliate
Rii Acqua Chiara e Lavezza/2,6 Km / 6,7 ha / 1.200 mc
Corsi d’acqua minori nel modenese/ 61,9 Km / 131,5 ha / 24.306 mc
Torrente Parma / 7 km / 55,6 ha / 7.000 mcTorrente Savena / 12 km / 25 ha / 2.850 mc
Torrente Sillaro / 7,1 km / 36,5 ha / 7.100 mc
IL DISBOSCAMENTO DEI CORSI D’ACQUA EMILIANO-ROMAGNOLI
Tratti interessati al taglio : 197,2 chilometri
Area disboscata : 417,3 ettari
Biomassa estratta: 76.259 metri cubi