Il solare del futuro si ispira agli antichi egizi

Per realizzare le celle solari del futuro ci si può ispirare alla piramide di Cheope in Egitto, che ha molto da insegnarci: lo sostengono i ricercatori russi della Itmo University di San Pietroburgo e del Laser Zentrum di Hannover in Germania.9897-10686

Le celle solari del futuro potranno ispirarsi alla Piramide di Cheope, a Giza, che è stata studiata con i metodi della fisica attuale. Dalle ricerche è emerso che riesce a concentrare l’energia elettromagnetica, e precisamente le onde radio, sia nelle camere interne sia nella base. Si potrebbero così progettare nanoparticelle ispirate alla struttura di questo edificio che siano in grado di riprodurre un effetto analogo nel campo dell’ottica, da utilizzare per ottenere celle solari più efficienti. Lo indica la ricerca pubblicata sul Journal of Applied Physics e condotta dai fisici della Itmo University a San Pietroburgo e del tedesco Laser Zentrum di Hannover. Per Tullio Scopigno, fisico dell’Università Sapienza di Roma, l’applicazione prospettata dai ricercatori è interessante “ma questo studio va preso con cautela, in quanto basato su modelli matematici non ancora supportati da evidenze sperimentali”. I ricercatori hanno condotto lo studio perché interessati alla struttura della della tomba del faraone Cheope dal punto di vista fisico. In particolare hanno voluto vedere come le onde radio si distribuiscono nella sua complessa struttura. Per farlo hanno ipotizzato che non ci siano cavità sconosciute e che il materiale calcareo da costruzione sia uniformemente distribuito. Sulla base di queste ipotesi è stata messa a punto una simulazione matematica e si è visto che la Grande Piramide può concentrare le onde radio nelle sue camere interne e sotto la base, un po’ come una parabola.

Questo avviene, rileva Scopigno, perché “la lunghezza d’onda delle onde radio, compresa 200 e 600 metri, è in un certo rapporto rispetto alle dimensioni della piramide”. Ciò significa che per avere lo stesso effetto con altri tipi di radiazioni che hanno lunghezze d’onda diverse, come la luce, sono necessarie strutture di dimensioni diverse, precisamente occorrono dispositivi in miniatura. Ecco perché i ricercatori prevedono di progettare nanoparticelle, ossia delle dimensioni di qualche milionesimo di millimetro, e a forma di piramide,  in grado di riprodurre effetti simili nel campo ottico, da usare nelle celle solari.

Fonte: ilcambiamento.it

 

Musicisti dall’Egitto al Ruanda insieme per proteggere il bacino del Nilo

Si chiama The Nile Project, il Progetto Nilo, e ne fanno parte musicisti di differenti nazioni, differenti generi e tradizioni. Il loro obiettivo? Promuovere la cooperazione e l’integrazione culturale delle diverse popolazioni che si affacciano sul Nilo e per le quali la scarsità di acqua e i cambiamenti climatici rappresentano una tragedia.progetto_nilo

Si comincia con un tamburo, poi una nota di basso e qualche altra nota dall’ud. Poi a un certo punto entrano un sassofono e una chitarra, il flauto kawala. Tanti strumenti e voci, che compongono una canzona traendola da tanti elementi. La gente che guarda è sedotta e prima della fine della serata sta già ballando. E’ quello che succede con i concerti del Progetto Nilo, che ha portato diverse nazioni a collaborare per cercare di salvare i loro ecosistemi interdipendenti. The Nile Project raggruppa diversi musicisti; c’è la cantante etiope Selamnesh Zemene; Alsarah, da Sudan e Brooklyn, definita dal The Guardian “la nuova principessa nubiana”; Sophie Nzayisenga, cantante ruandese e virtuosa dell’inanga; l’etiope-americano Meklit Hadero, fondatore del progetto; Dina El Wedidi, egiziana; Jackline Kasiva Mutua, la prima donna a irrompere nella tradizione kenyota delle percussioni; e altri ancora. Suonano insieme come se lo avessero sempre fatto, anche se non è così. Il loro obiettivo è promuovere la cooperazione e l’integrazione culturale tra le diverse genti del Nilo, che attraversa undici paesi e quattro zone climatiche ed è uno dei fiumi più lunghi del mondo. Le sorgenti in Ruanda e Burundi alimentano il lago Victoria, suddiviso tra Uganda, Kenya e Tanzania. Il Nilo bianco arriva nel Sud Sudan, poi incontra il Nilo Blu dall’Etiopia. Poi il Nilo scorre attraverso il deserto del Sahara in Sudan ed Egitto, finendo infine nel Mediterraneo. Per migliaia di anni, le culture del bacino del Nilo hanno sviluppato strategie alimentari per usufruire delle caratteristiche del fiume. Ma oggi le attività umane hanno bisogno di più acqua e inquinano. Se il trend rimarrà costante, si stima che la popolazione del bacino del Nilo raddoppierà nei prossimi 30-40 anni, arrivando a 945 milioni di persone. Gli esperti temono che non ci sarà sufficiente acqua per tutti. Poi ci sono i cambiamenti climatici, già si verificano prolungati periodi di siccità e la vita umana è in pericolo. Occorre quindi che queste genti collaborino insieme per gestire e proteggere gli ecosistemi interdipendenti. The Nile Basin Initiative, sottoscritta da nove paesi nel 1990, venne costituita per creare una piattaforma di dialogo intergovernativa. Ma nel 2010 cinque nazioni hanno siglato un accordo, il Cooperative Framework Agreement, per attingere più acqua al Nilo. I progressi politici sono lenti, la popolazione cresce e le economie divengono più complesse e globalizzate. L’Etiopia, oggi il secondo paese più popoloso dell’Africa, sta emergendo come un “leone economico” che ha vorace bisogno di energia (nel 2013 è iniziata la costruzione di un enorme impianto idroelettrico) e, ad esempio, l’Egitto è dipendente dal Nilo per il 97% delle proprie risorse di acqua. Costruire integrazione culturale può essere un punto di partenza per prevenire conflitti, spiega Mina Girgis, co-fondatore e responsabile del The Nile Project. “E la musica può essere uno strumento. Si può usare la musica per cambiare la natura di una conversazione prima che il conflitto scoppi e ciò deve accadere prima che la gente abbia raggiunto il punto di scontro”. “Siamo convinti che questa idea, questo progetto culturale sia qualcosa che la gente stava cercando” spiega Girgis, etnomusicologo egiziano. “Per promuovere la sostenibilità del bacino del Nilo, bisogna prima chiedersi come la gente si atteggia reciprocamente e come si relaziona con l’ecosistema. Se non siamo capaci di risolvere i nostri problemi in quanto persone che vivono nello stesso ecosistema, non saremo capaci di proteggere questo stesso ecosistema”. Durante il loro primo tour africano, qualche mese fa, il progetto ha toccato otto città lungo il Nilo e sono stati organizzati workshop nelle università in Uganda, Tanzania, Kenya, Etiopia e Egitto. Sta crescendo l’interesse tra i giovani ed è stato istituito anche il Nile Prize per incentivare soluzioni innovative alle sfide ambientali che la regione sta affrontando. Ora il gruppo sta affrontando un tour negli Stati Uniti, tenendo workshop nei college e nelle università. Ha detto il sassofonista etiope Jorga Mesfin: “Il progetto è veramente diverso e unico perchè non stiamo insieme solo per fare musica, ma viviamo insieme da mesi. Tante anime africane vivono insieme ed è quello su cui lavora il progetto stesso, ci capiamo e abbiamo una vita migliore”.

Maggiori informazioni sul The Nile Project tour www.nileproject.org.

Gli 11 paesi del bacino del Nilo sono: Ruanda, Burundi, Egitto, Kenya, Tanzania, Sudan, Sud Sudan, Uganda, Eritrea, Etiopia e Repubblica Centrafricana. Si ringrazia Valerie Schloredt, che ha riportato la notizia con grande freschezza ed entusiasmo su YES! Magazine

Fonte: ilcambiamento.it

Gli OGM fanno registrare +6% di superficie coltivata nel mondo nel 2012

Aumentano le superfici coltivate a OGM nel mondo e nel 2012 sono cresciute del 6%

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Secondo il rapporto pubblicato dall’ISAAA International Service for the Acquisition of Agri-biotech Applications nel mondo dal 1996 al 2012 si è passati da 1,7 milioni di ettari coltivati con OGM a 170 milioni di ettari nel 2012. Una crescita di 100 volte. Sono 28 i paesi in cui si coltivano piante geneticamente modificate e 20 tra quelli in via di sviluppo mentre sono 8 i paesi industrializzati.

Nel 2012 si sono aggiunti due nuovi Paesi che hanno iniziato a coltivare OGM e sono il Sudan (cotone Bt) e Cuba (mais Bt). Il Sudan è diventato il quarto paese in Africa, dopo il Sud Africa, Burkina Faso ed Egitto, per la commercializzazione di una coltura biotech per un totale di 20.000 ettari. A Cuba invece sono stati seminati 3000 ettari di mais Bt ibrido con una “commercializzazione regolamentata” e l’ iniziativa fa parte di un programma per le colture eco-sostenibili con ibridi di mais biotech e additivi micorrizici. Il mais Bt è stato sviluppato dall’Istituto per Ingegneria Genetica e Biotecnologia (CIGB) de l’Avana. Il mais NK603, MON810, MON1445 et Bt11 e la soia GTS sono i più coltivati e il paese che ha più colture OGM sono gli Stati Uniti seguito dal Brasile, mentre in Canada cresce la superficie coltiva a canola mentre in Europa si coltiva in Spagna, Portogallo, Repubblica Ceca, Slovacchia e Romania.
Fonte: Actu-Environment, ISAAA, Business daily Africa