Nel quartiere di Mirafiori sud, a Torino, sorge un vecchio edificio industriale, da molti anni dismesso. Dal suo recupero sta nascendo il progetto Orto Wow, non un semplice orto urbano, bensì un’oasi naturale dove si coltivano piante mellifere capaci di attirare le api, che qui potranno contribuire a creare biodiversità in città e stimolare l’apicoltura urbana, coinvolgendo i residenti nella cura di questo splendido angolo di natura. Nel bel mezzo del quartiere di Mirafiori sud, circondata da palazzi ed edifici industriali sorgerà una nuova casa che, a differenza di quelle del circondario, avrà delle ospiti d’eccezione: le api. Ci troviamo in via Onorato Vigliani e proprio qua si trova un vecchio complesso abbandonato, precedentemente adibito alla meccanizzazione agricola e ora in fase di riconversione, che ci dimostra come anche le zone più industriali possono diventare un luogo dove la natura riconquista i suoi spazi. Tutto questo grazie al contributo di Elena Carmagnani ed Emanuela Saporito, fondatrici di Orti Alti, associazione che, come vi abbiamo raccontato in un precedente articolo, stanno diffondendo a Torino la cultura del verde, attraverso la realizzazione di orti urbani sui tetti di edifici e palazzi.
Qui sta nascendo Orto Wow, con uno speciale giardino in cassoni per piante impollinatrici, un tetto verde coltivato a prato naturale e un grande apiario, per diffondere l’apicoltura nelle nostre città. Il pezzo forte del progetto è il “pollinator garden”, un giardino formato da 16 cassoni in legno disposti a creare percorsi e zone di sosta. Come ci spiegano Elena ed Emanuela, «In questi cassoni è in corso la semina e la piantumazione di piante mellifere, ovvero piante che, insieme al tetto verde, costituiranno il “pascolo” delle api e di altri insetti impollinatori».
Le piante mellifere coltivate, definite in collaborazione con il dipartimento di agronomia dell’Università di Torino, prevedono la semina di molteplici varietà di piante molto apprezzate dalle api come salvia, calendula, tarassaco, borraggine, papavero, senape selvatica, giglio, fiordaliso e iperico, oltre che il trapianto di timo, erba cipollina e menta. «Al suo interno si sperimenta l’utilizzo del “new soil”, un nuovo suolo rigenerato e creato per inserire terreno fertile nei parchi urbani che sono nati dall’abbandono di aree industriali, spesso di scarsa qualità e inadatto a qualsiasi uso».
La realizzazione di Orto Wow rientra nell’ambito di ProGiReg, un progetto europeo finalizzato a sperimentare soluzioni “nature based” per la rigenerazione urbana e sociale delle città. Questi primi interventi infatti vanno nella direzione di avviare la riqualificazione di un complesso abbandonato che può essere rigenerato a partire da una sua nuova vocazione green. L’apiario è poi parte integrante del progetto e sarà curato dall’associazione Parco del Nobile che da molti anni si occupa di apicoltura urbana.L’integrazione dell’allevamento di api per la produzione di miele urbano con la realizzazione di orti e giardini melliferi è fortemente perseguita da OrtiAlti in molte sue realizzazioni. Come ci viene spiegato da Elena ed Emanuela, «Le piante mellifere si combinano perfettamente con le piante orticole e nel caso dell’Orto Wow l’inserimento delle attività di apicoltura rientra anche in un programma di Science Education che riguarda tutto il progetto. Inoltre, la presenza del mercato dei produttori di Coldiretti che qui si svolge, può essere messa in relazione con la produzione del miele WOW per innescare micro-economie di quartiere».
La fabbrica dismessa diventerà in questo modo un vero e proprio corridoio ecologico per favorire nuove connessioni e contribuire a riequilibrare gli ecosistemi naturali. Come ci viene spiegato, «Un corridoio ecologico è un’area verde studiata per preservare specie di animali e di piante, permettendo il passaggio graduale di animali e semi da un habitat all’altro. La possibilità di realizzare queste infrastrutture verdi all’interno delle città è fondamentale poiché permette di ripristinare la biodiversità biologica, cioè la variabilità di tutti gli organismi viventi e degli ecosistemi di cui fanno parte».
E saranno proprio gli abitanti del quartiere a prendersi cura e a mantenere il pollinator garden, occupandosi dei cassoni e dell’area dedicata all’orto, utilizzando lo spazio verde per lo svolgimento di attività ludiche. Il tutto grazie alla Fondazione Mirafiori che a pochi passi gestisce la Casa nel Parco, casa del quartiere di Mirafiori sud.
«Purtroppo la situazione Covid ha impedito di partire con il calendario di attività programmate da questo giugno e le iniziative sono state rinviate alla prossima primavera. Intanto però è iniziato un lavoro per la proposta di un patto di collaborazione per la cura dell’area che mette insieme la Fondazione Mirafiori, l’associazione Parco del nobile (che si occupa delle api), Coldiretti e un gruppo informale di cittadini appassionati di api e biodiversità che si chiama Comunità degli Impollinatori Metropolitani».
L’obiettivo è di arrivare nei prossimi mesi alla firma di un patto con la Città per la gestione del giardino in cassoni, avendo a disposizione anche dei locali dell’edificio dove svolgere attività formative intorno ai temi della biodiversità e dell’apicoltura urbana.
Coronavirus, un aggressore che arriva in conseguenza di un’alterazione degli equilibri ecologici e ambientali senza precedenti: è in sintesi quanto sostiene Gianni Tamino, docente emerito di Biologia generale all’Università di Padova, già deputato ed europarlamentare e oggi membro dei Comitati Scientifici dell’Associazione medici per l’ambiente- ISDE (International Society of Doctors for the Environment) e dell’Associazione Italiana per lo Sviluppo dell’Economia Circolare.
Coronavirus, un aggressore che arriva in conseguenza di un’alterazione degli equilibri ecologici e ambientali senza precedenti: è in sintesi quanto sostiene Gianni Tamino, docente emerito di Biologia generale all’Università di Padova, già deputato ed europarlamentare e oggi membro dei Comitati Scientifici dell’Associazione medici per l’ambiente- ISDE (International Society of Doctors for the Environment) e dell’Associazione Italiana per lo Sviluppo dell’Economia Circolare.
«L’obiettivo evolutivo di tutte le forme viventi è la propria riproduzione, per colonizzare l’ambiente di vita, obiettivo che entra in relazione, talora conflittuale, con lo stesso obiettivo riproduttivo di tutti gli altri organismi – spiega Tamino – da queste relazioni si sviluppano gli equilibri che caratterizzano gli ecosistemi e che pongono limiti alla crescita delle popolazioni e dei consumi di ciascuna specie. In ecologia si parla di carrying capacity (o capacità di carico) per spiegare che, sulla base delle caratteristiche di un ecosistema, gli individui di una popolazione non possono superare i limiti imposti dalle risorse disponibili. Un classico esempio per spiegare questo fenomeno è quello della relazione tra preda e predatore: alla crescita del numero di predatori corrisponde una diminuzione significativa del numero delle prede, che innesca – per scarsità di cibo – un conseguente calo anche dei predatori».
«Nel caso della popolazione umana si utilizzano concetti simili a quelli di carrying capacity ma con terminologie e metodi di valutazione un po’ diversi – prosegue Tamino – Si parla di “impronta ecologica”, cioè la misura del territorio in ettari necessario per produrre ciò che un uomo o una popolazione consumano. Questa analisi facilita il confronto tra regioni, rivelando l’impatto ecologico delle diverse strutture sociali e tecnologiche e dei diversi livelli di reddito. Così l’impronta media di ogni residente delle città ricche degli USA o dell’Europa è enormemente superiore a quella di un agricoltore di un paese non industrializzato, per cui sul pianeta un solo statunitense “pesa” più di 10 afgani».
«L’Overshoot Day è, invece, il giorno in cui il consumo di risorse naturali da parte dell’umanità inizia a superare la produzione che la Terra è in grado di mettere a disposizione per quell’anno: nel 2019 questo giorno è stato il 29 luglio. Dunque in circa sette mesi, abbiamo usato una quantità di prodotti naturali pari a quella che il pianeta rigenera in un anno. Il nostro deficit ecologico, pari a cinque mesi, provoca da una parte l’esaurimento delle risorse biologiche (pesci, alberi ecc.), e, dall’altra, l’accumulo di rifiuti e inquinamento, responsabile anche dell’effetto serra. Le attività umane stanno, dunque, cambiando l’ambiente del nostro pianeta in modo profondo e in alcuni casi irreversibile. Stiamo dunque superando, anzi abbiamo già superato i limiti delle capacità del pianeta di sostenere la popolazione umana e mettiamo a rischio la sopravvivenza di molte altre specie. L’attuale sistema produttivo industriale ed agricolo sta gravemente compromettendo anche la biodiversità del pianeta. Molte specie di animali e di piante sono ridotte a pochissimi esemplari e, quindi, in pericolo o, addirittura, in via di estinzione».
Tamino spiega ancora: «Le dimensioni e i consumi delle popolazioni umane sono variati moltissimo nel corso dei millenni, ma ogni volta che le risorse disponibili diventavano insufficienti, le popolazioni venivano ridimensionate, attraverso sistemi di autoregolazione. Fino a 12 mila anni fa la popolazione umana di raccoglitori e cacciatori, già presente in tutto il pianeta, per motivi di sostenibilità, cioè disponibilità di cibo, non superava probabilmente 1-2 milioni di abitanti, dato che ogni tribù doveva avere un ampio territorio di raccolta e di caccia e quel cibo costituiva il limite alla crescita. Si trattava di un sistema ben autoregolato e in equilibrio con il proprio ambiente; in qualche modo le società di allora potevano essere felici, perché utilizzavano quanto la natura offriva loro, senza un lavoro che occupava tutto il tempo di vita e quindi con tempi adeguati per le relazioni e per il riposo, come il mitico periodo dell’Eden».
«In seguito, in varie zone del pianeta, come nella mezzaluna fertile, in medio oriente, un importante cambiamento climatico, con riscaldamento globale, diffusione di animali e piante nelle regioni in cui il clima divenne più caldo e umido, favorì la cosiddetta rivoluzione neolitica, cioè l’agricoltura e l’allevamento. In tal modo i limiti della crescita demografica cambiarono perché, seminando piante e allevando animali, sullo stesso territorio si potevano sfamare fino a 1000 persone anziché 40-50, portando la popolazione ben oltre la dimensione di un paio di milioni. Tuttavia quando l’annata dava raccolti scarsi o quando la popolazione cresceva troppo, non restava altra via che la migrazione verso nuove terre da coltivare. Così pian piano questa nuova cultura si estese, a partire dall’Anatolia, a tutta l’Europa e, partendo da altre zone, a gran parte dell’Asia e parte dell’Africa. In tal modo la popolazione mondiale arrivò prima a decine, poi a centinaia di milioni di abitanti, già alcuni secoli avanti Cristo. Si stima che nell’Impero Romano, tra il 300 ed il 400 d.C., vivessero tra 60 e 120 milioni di abitanti; ma tale popolazione fu duramente colpita dalla cosiddetta Peste di Giustiniano, che portò a decine di milioni di decessi. In pratica quando, in base alle caratteristiche ambientali, climatiche, politiche e tecnologiche (capacità di produrre cibo), si superava il limite demografico per quel territorio, intervenivano fattori ambientali e sociali che riportavano la popolazione sotto il limite. Analogamente tra il ‘300 e il ‘600 scoppiarono varie epidemie, associate a carestie e guerre, come la peste decritta dal Manzoni ne “I promessi sposi”, e la popolazione europea subì periodiche drastiche riduzioni».
«Anche l’emigrazione ha costituito un elemento equilibratore dell’incremento demografico – prosegue il docente – La popolazione europea ha trovato, dopo la scoperta dell’America, nuove terre da coltivare, spazi da abitare, ricchezze da sfruttare, sottraendoli ai nativi che, oltre a essere massacrati, venivano debilitati da epidemie di malattie portate dai conquistatori. Oltre alle epidemie di peste già ricordate, nel corso della storia umana, anche recente, si sono succedute molte altre epidemie/pandemie, alcune collegate a guerre e carestie».
«Come abbiamo visto, epidemie e pandemie sono uno dei possibili meccanismi di controllo delle popolazioni, insieme a carestie, guerre e migrazioni: quanto più si superano i limiti della disponibilità di risorse del territorio, quanto più si altera l’ambiente di vita, tanto più facilmente uno o tutti insieme questi meccanismi entrano in funzione – dice ancora Tamino – La crescita della popolazione umana fino a più di 7 miliardi di abitanti, è stata resa possibile dalla Rivoluzione Industriale, che ha utilizzato enormi quantità di energia di origine fossile per attività impensabili in precedenza, non solo nell’industria, ma anche in agricoltura, con la cosiddetta Rivoluzione Verde. Tuttavia il cibo ottenuto potrebbe sfamare anche più di 7 miliardi di persone se venisse equamente distribuito e prodotto in modo sostenibile, ma una iniqua utilizzazione delle risorse, una crescente disparità tra pochi ricchi e molti poveri, una riduzione delle terre coltivabili a causa della cementificazione, la perdita di fertilità dovuta alle monocolture gestite chimicamente, l’inquinamento ambientale, l’alterazione del clima, danno origine a frequenti casi di carestie e di malnutrizione in ampie fasce della popolazione, soprattutto al sud del mondo».
«A partire dalla rivoluzione industriale abbiamo imposto un’economia lineare su un Pianeta il cui sistema produttivo funziona in modo ciclico. La conseguenza è una continua crescita dell’inquinamento e un cambiamento climatico sempre più minaccioso per il mantenimento degli ecosistemi e della biodiversità. Tutto ciò comporta la morte prematura di molti milioni di persone, ma anche un incremento di malattie cronico-degenerative, con conseguente indebolimento di tutta la popolazione, che risulta meno idonea a difendersi da altre malattie come quelle infettive. I cambiamenti climatici e la riduzione delle foreste con l’alterazione degli habitat di molte specie animali mettono sempre più facilmente a contatto animali selvatici con esseri umani, un contatto ancora più stretto quando questi animali vengono catturati per essere venduti in mercati affollati, rendendo più facile il salto di specie per i loro patogeni (si pensi al virus di ebola). Inoltre gli allevamenti, in particolare di polli e suini, con concentrazioni di molti capi in spazi ridotti, alimentati con mangimi contenenti antibiotici, favoriscono una forte pressione selettiva sui loro virus e batteri, che mutano velocemente verso ceppi e tipi più aggressivi anche verso la specie umana, come è avvenuto per l’influenza aviaria e suina. Un ulteriore contributo alla diffusione di agenti patogeni è dato poi dalla globalizzazione, che, grazie al frenetico trasferimento in ogni parte del pianeta di persone e merci, favorisce il passaggio da epidemie a pandemie».
La pandemia da Covid-19
«Dunque la nuova pandemia del virus Covid-19 era prevedibile e ampiamente prevista, se non proprio nei termini e nei tempi precisi, sicuramente come evento probabile – sostiene il docente – Già nel 1972, nel rapporto del MIT per il Club di Roma, dal titolo “I limiti dello sviluppo” si affermava che se la popolazione mondiale continuava a crescere al ritmo di quegli anni, la crescente richiesta di alimenti avrebbe impoverito la fertilità dei suoli, la crescente produzione di merci avrebbe fatto crescere l’inquinamento dell’ambiente, l’impoverimento delle riserve di risorse naturali (acqua, foreste, minerali, fonti di energia) avrebbe provocato conflitti per la loro conquista; malattie, epidemie, fame, conflitti avrebbero frenato la crescita della popolazione».
«Vi è poi il libro “Spillover” di David Quammen; egli stesso spiega in una recente intervista: “Nel 2012, quando il libro è stato pubblicato, ho previsto che si sarebbe verificata una pandemia causata da 1) un nuovo virus 2) con molta probabilità un coronavirus, perché i coronavirus si evolvono e si adattano rapidamente, 3) sarebbe stato trasmesso da un animale 4) verosimilmente un pipistrello 5) in una situazione in cui gli esseri umani entrano in stretto contatto con gli animali selvatici, come un mercato di animali vivi, 6) in un luogo come la Cina. Non ho previsto tutto questo perché sono una specie di veggente, ma perché ho ascoltato le parole di diversi esperti che avevano descritto fattori simili.”».
Come evitare pandemie future
«Il Covid-19 è una reazione (tra le altre) allo stato di stress che abbiamo causato al pianeta e quindi per prevenire nuovi eventi simili dobbiamo ridurre le alterazioni dell’ambiente, come la perdita di biodiversità, l’alterazione degli habitat e i cambiamenti climatici, favorendo processi produttivi industriali ed agricoli basati sull’economia circolare, sostenibili, con ricorso a fonti energetiche rinnovabili – sostiene Tamino – Già pochi mesi di blocco dei movimenti delle persone e di parziale riduzione di attività produttive hanno portato a un netto miglioramento della qualità dell’aria sia in Cina che in Italia (soprattutto nel Veneto): questo dato va colto non come futura necessità di impedire la circolazione delle persone e delle merci o di non produrre beni necessari, bensì di ripensare i trasporti e le produzioni industriali ed agricole, in particolare ridurre gli allevamenti animali: attualmente vi sono nel mondo 1,5 miliardi di bovini, 1 miliardo di suini, oltre 1,5 miliardi di ovini e caprini e circa 50 miliardi di volatili. La massa degli animali allevati è ben maggiore di quella di tutti gli esseri umani, con enormi sprechi di cibo, forte inquinamento e forte aumento di virus e batteri che possono fare il salto di specie. Inoltre l’abuso in zootecnia di antibiotici è responsabile anche dell’aumento di batteri resistenti agli antibiotici, vanificando uno degli strumenti a nostra difesa da queste infezioni. Oltre a nuove pandemie virali, il futuro potrebbe riservarci una diffusione pandemica di nuovi batteri resistenti ad ogni trattamento farmacologico».
Sono cittadini ed esperti i promotori del gruppo che ha lanciato una petizione per chiedere che la gestione del patrimonio boschivo passi dal Ministero per le attività produttive al Ministero dell’ambiente e che si fermi «il saccheggio» che sta mettendo a rischio ecosistemi e territori. Li abbiamo intervistati.
Sono cittadini ed esperti i promotori del gruppo che ha lanciato una petizione per chiedere che la gestione del patrimonio boschivo passi dal Ministero per le attività produttive al Ministero dell’ambiente e che si fermi «il saccheggio» che sta mettendo a rischio ecosistemi e territori. Abbiamo intervistato Diego Infante, uno dei promotori dell’iniziativa.
«Troppo spesso e per troppo tempo i boschi sono stati visti per troppo tempo come materia inerte, non come preziosi serbatoi di biodiversità da tramandare alle future generazioni. Ed è questo il “peccato originale” che ha fatto sì che un unico dicastero si occupasse di foreste e di agricoltura insieme. Il denominatore comune, infatti, è lo stesso: il produttivismo» spiega Infante.
«Le minacce che incombono sui boschi italiani sono ampie e molteplici: prima fra tutte l’industria delle centrali a biomasse (lautamente sovvenzionate da contributi pubblici in quanto “fonti rinnovabili” secondo la direttiva UE “RED II”). Come si asserisce dall’Accademia dei Lincei, nate per bruciare scarti di potatura, adesso ingoiano intere foreste – prosegue Infante – E vi è il nuovo Testo Unico in materia di Foreste e Filiere forestali (TUFF) approvato dal governo Gentiloni, in virtù del quale si introduce una «gestione attiva» volta, di fatto, all’incremento dei tagli, senza alcuna distinzione tra boschi da destinare alla produzione e quelli da lasciare all’evoluzione spontanea, con l’ulteriore aggravante che Regioni e Province autonome possono sostituirsi ai legittimi proprietari di «terreni incolti, abbandonati o silenti» per ripristinarne la “gestione produttiva”, addirittura coatta nel caso in cui non si raggiungano accordi coi suddetti possessori. Al fondo di questo interventismo gestionale è la discutibile idea (eufemismo) che i boschi non “puliti” o in alcuni casi non convertiti a ceduo, potrebbero provocare incendi e dissesto idrogeologico».
«Per non parlare poi dei modi in cui sono eseguiti i tagli: ormai sempre più spesso intervengono ditte senza scrupoli che sfruttano manovalanza straniera a basso costo (la pratica della ceduazione, già discutibile di suo, troppo spesso diventa “di rapina”, senza contare l’utilizzo di macchinari sempre più grandi che aprono nuove piste con conseguenti ulteriori rischi idrogeologici) – aggiunge il promotore della petizione – Da segnalare altresì una delle ultime strategie adottate dalle amministrazioni comunali: la vendita di porzioni di bosco al solo scopo di fare cassa (esemplare la vicenda del Comune di Paola, in provincia di Cosenza, dove 22 ettari di faggeta stavano per scomparire, operazione poi bloccata da proteste e petizioni). L’apparato sanzionatorio, poi, risulta risibile: basti pensare, a titolo d’esempio, che l’abbattimento abusivo in una fustaia piemontese di un salice o di un pioppo di dimensioni “eccezionali” (da 82,5 cm di diametro in su, purché non monumentale) viene sanzionato – sempre nel caso in cui si trovi il responsabile – con una multa di soli 60 euro».
«Malgrado il silenzio assordante della politica e della stampa, i ragguardevoli risultati raggiunti da questa petizione si devono all’impegno profuso da un gruppo nato su Facebook: “Liberi pensatori a difesa della natura”, che mi onoro di aver fondato: in questa sede ho potuto portare il mio contributo di studioso di filosofia indiana e antropologia culturale, con l’obiettivo di traslare il pensiero olistico nel regno del riduzionismo – prosegue Infante – In effetti si può ben dire che con il solo ausilio dei social network e di alcune testate che ci hanno sostenuto, come Terra Nuova e Il Cambiamento, nonché del comitato dei promotori che riunisce in una ricca compagine le migliori professionalità del mondo accademico, scientifico e ambientalista, siamo riusciti a scardinare il monopolio culturale di un mondo forestale interventista sempre più autoreferenziale e ripiegato sui dogmi della quantificazione numerica. Riteniamo infatti che ciascuno, con il proprio bagaglio di competenze – siano esse scientifiche o umanistiche – possa offrire il proprio contributo alla soluzione di problemi, che per complessità e interconnessioni reciproche, necessitano di superare l’ormai assurda e datata partizione dei saperi. Se questo obiettivo può dirsi raggiunto, non possiamo dire altrettanto per ciò che ci prefiggiamo con la petizione: finora sia i “decisori” che la politica in generale sono rimasti in completo silenzio. E questo è molto grave, perché è dalla mancanza di risposte che nascono complottismi vari e fake news».
«In parole molto semplici, chiediamo a gran voce l’abbandono di una anacronistica gestione dei boschi tarata sul produttivismo, a vantaggio di una improntata a criteri prettamente conservativi. Ora, dal momento che il Ministero dell’Ambiente ha come scopo precipuo la tutela del territorio, riteniamo sia questo il dicastero deputato a gestire in maniera conservativa il nostro patrimonio forestale. Ma la petizione si fa portavoce di una proposta di più ampio respiro, che incide sull’architettura costituzionale: riportare la competenza sui boschi pubblici e privati dagli enti locali allo Stato centrale (possibilità sancita dall’art. 138 della Costituzione). Buona parte degli scempi (vedasi Toscana), infatti, viene deliberata proprio in seno alle medesime regioni».
«Di più facile portata, invece, l’obiettivo di acquisire al demanio dello Stato i boschi di maggior pregio e quelli “di protezione” – prosegue Infante – che difendono il territorio da valanghe e dissesto idrogeologico. Altresì riteniamo che occorra implementare la messa a dimora di alberi in aree agricole non utilizzate (come del resto già accade con la pioppicoltura), per ricavarne legna da destinare agli usi umani. Del resto, avendo ormai perso la sacralità della natura, non possiamo che affidarci alla legge positiva per tentare di ricreare il contrappunto laico del bosco sacro che ancora oggi (r)esiste in Oriente. Eppure, le notizie che giungono dai parchi nazionali non lasciano presagire nulla di buono: 20 milioni di euro per nuovi impianti sciistici nel cuore del Parco Nazionale della Majella, 30 per espandere il comprensorio di Campitello Matese (CB), in quello che è il neonato Parco Nazionale del Matese. Sui parchi pende peraltro un’inquietante ipoteca rappresentata da un Protocollo d’intesa siglato in data 12 giugno 2019 tra Federparchi e FederlegnoArredo, che apre a cavalli di Troia quali “valorizzazione” e “sviluppo sostenibile”, ormai assurti a veri e propri specchietti per le allodole».
«Altresì facciamo nostra la proposta del Prof. Bartolomeo Schirone dell’Università degli Studi della Tuscia: il 50% delle foreste italiane va lasciato all’evoluzione spontanea, il restante deve essere destinato a utilizzazioni meno impattanti. In tal senso, un esempio è offerto dalla cosiddetta “silvicoltura sistemica” approntata dal Prof. Orazio Ciancio – prosegue nelle sue dichiarazioni Infante – Purtroppo devo dire che al di là delle decine di migliaia di firmatari della petizione, siamo stati completamente ignorati dalla stampa, dalla politica e dalle associazioni ambientaliste. Con ogni probabilità, gli spin doctor suggeriscono di non impegnarsi su temi che hanno scarsa presa sull’opinione pubblica, perché giudicati troppo complessi: molto più semplice rifarsi una verginità con operazioni del tipo “piantiamo un alberello”, laddove è ovvio che un albero maturo non potrà mai offrire gli stessi benefici ecosistemici di una giovane pianta. Su questo disinteresse generalizzato è possibile produrre innumerevoli considerazioni: al fondo vi è una generale indifferenza degli italiani nei confronti dell’ambiente (soprattutto se raffrontata con la sensibilità vigente nei Paesi germanofoni: a mancare è il mito del primigenio, della wilderness, della foresta primordiale – Urwald – né possiamo dire d’avere alle spalle la caratura “ambientale”del romanticismo tedesco). Alle nostre latitudini prevale invece l’idea di “bosco pulito”, privo di quel caos creativo che ne sancisce la magnificenza. Colgo l’occasione per precisare come il disastro occorso nel Nord-Est a seguito della tempesta “Vaia” è solo in parte da attribuirsi all’eccezionalità dell’evento meteorologico: foreste miste e disetanee resistono meglio delle monocolture artificiali (ma forse i turisti perderebbero le loro rassicuranti cartoline…). Eppure, nonostante lo sconfortante panorama complessivo, una delle poche sponde l’abbiamo infine trovata nel Dipartimento Dafne dell’Università della Tuscia: il 10 dicembre 2019 si è infatti svolto a Viterbo un importante convegno nel segno dell’interdisciplinarità denominato “Perché conservare le foreste”, che ha visto la partecipazione del sottoscritto in qualità di relatore. È grazie al team di quella Università, sotto la guida esperta del Prof. Gianluca Piovesan, che possiamo ammirare gli alberi più antichi d’Italia e d’Europa (tra i più noti: il pino nero abbarbicato su un costone della Majella, accreditato di 900 anni; il pino loricato “Italus”, che con i suoi 1230 anni risulta essere l’albero più antico d’Europa che sia stato sottoposto ad analisi scientifiche; infine due faggi, denominati “Norman” e “Michele” di 620 anni, scoperti sempre sul massiccio del Pollino. Lo stesso team è inoltre responsabile della scoperta di una decine di faggete vetuste, poi inserite nel Patrimonio Mondiale dell’UNESCO».
«In un Paese distratto e assente, ripiegato nel culto autoreferenziale delle proprie mitologie umanistiche e urbanocentriche, aver scoperto lembi di foreste antiche ha dell’eccezionale e connota l’attività del Dafne come un vero e proprio atto d’eroismo – conclude Infante – In fondo, quel che vogliamo dire con la nostra petizione è che noi dipendiamo dalle foreste, ma oggi sono esse che dipendono da noi: impegniamoci a dare loro voce».
L’appello delle deputate del
Gruppo Misto in Parlamento Sara Cunial e Silvia Benedetti: «Basta demandare
all’Unione Europea, la competenza è nazionale. Dunque, si prendano misure
drastiche».
«Abbiamo portato
all’attenzione del ministro Centinaio l’annosa questione della moria di api
che sta avvenendo in diverse parti d’Italia in seguito a un uso massiccio e
scriteriato di pesticidi estremamente dannosi al loro habitat e alla loro
vita, come per esempio il caso del Mesurol in Friuli per cui è stata aperta
un’indagine o ancora i neonicotinoidi già banditi in diversi stati membri ma
purtroppo ancora utilizzati in Italia». Ad affermarlo sono le deputate del
gruppo Misto Sara Cunial e Silvia Benedetti, che tornano sulla questione
di cui, dopo un grande allarme qualche tempo fa, ora si tende a parlare sempre
meno.
«Sebbene vi sia
consapevolezza della strategicità del settore e dei gravi danni causati da
alcune molecole agli ecosistemi e agli insetti impollinatori, ancora una volta
si demanda a importanti decisioni all’Unione Europea, quando la competenza su
queste disposizione è nazionale, come indicato nella normativa comunitaria e
come altre nazioni, più lungimiranti e attente alla vita e alla salute ci
insegnano».
«È bene ricordare
che nelle campagne italiane ci sono milioni di alveari curati da oltre 45.000
apicoltori – continuano le deputate – miliardi di euro derivano dalla sola
attività di impollinazione alle coltivazioni a cui si aggiunge il profitto di
22.000 tonnellate annue di produzione di miele. Un trend in continua crescita
che dà lavoro a sempre più persone, soprattutto giovani e soprattutto al sud, e
che fa dell’Italia un’avanguardia delle pratiche e tecnologie in questo
frangente nonché uno dei principali produttori di miele d’eccellenza. Ma
soprattutto è bene sottolineare che senza api perderemmo gran parte della
nostra biodiversità, l’accesso a ingenti tipologie di cibo, la vita stessa è a
rischio senza il loro lavoro – proseguono – Avremmo bisogno di azioni
concrete e urgenti per favorire politiche agricole sostenibili e idonee a
proteggere questo cruciale settore, purtroppo troppo spesso messo in crisi da
pratiche scriteriate e anacronistiche – spiegano le deputate – Ci
chiediamo dove siano i paladini dell’occupazione, dell’innovazione, del Made in
Italy e dei nostri prodotti di qualità. Ma soprattutto ci chiediamo dove siano
tutti coloro che dovrebbero mettere la tutela delle persone e dell’ambiente al
primo posto e fare del principio di precauzione il faro della loro azione
politica. Confidiamo che in Italia quanto in Europa si mantenga ciò che è stato
promesso e di ciò che moltissimi apicoltori, agricoltori e cittadini chiedono».
Le foreste coprono il 40% del territorio europeo e forniscono una
moltitudine di servizi ecosistemici: contribuiscono sia alla salute
dell’ambiente sia al benessere umano.
L’UE contiene circa
il 5% delle foreste mondiali, il 60% delle quali è di proprietà privata. Negli
ultimi 60 anni le foreste europee si sono espanse continuamente e ora occupano
circa 160 milioni di ettari.
In Europa si consumano
400.000 tonnellate di pesticidi all’anno e l’Italia è al terzo posto tra gli
Stati della UE per consumo di sostanze chimiche in agricoltura. L’unico modo
per preservare la biodiversità è dire basta all’utilizzo di chimica tossica.
In Europa si
consumano 400.000 tonnellate di pesticidi all’anno e l’Italia è al terzo posto
tra gli Stati della UE per consumo di sostanze chimiche in agricoltura. I
residui di queste sostanze si concentrano nell’ambiente e nei nostri piatti: il
67% delle acque superficiali, il 33% delle acque sotterranee, il 66% della
frutta e il 40% degli ortaggi che mangiamo risultano contaminati!
I rischi per
l’ambiente e la biodiversità sono molteplici e ancora non del tutto conosciuti,
mentre molti studi hanno ormai accertato conseguenze per la salute umana dall’esposizione
“cronica” ai pesticidi, ovvero l’esposizione a dosi piccole e prolungate nel
tempo, spesso con interazione di diversi principi attivi, rilevando un aumento
dell’incidenza di vari tipi di tumori (cerebrali, alla mammella, al pancreas,
ai testicoli, al polmone, sarcomi, leucemie, linfomi non Hodgkin e mielosi) e
di malattie neurodegenerative come Parkinson e Alzheimer. L’inquinamento da
pesticidi degli alimenti è un problema sempre più concreto, che – oltre ai
lavoratori direttamente esposti e a chi vive accanto ai campi trattati –
colpisce soprattutto i più piccoli. Alcune sostanze possono infatti arrivare al
feto attraversando la placenta mentre i lattanti assorbono fitofarmaci
attraverso il latte materno.
I pesticidi e
l’agrochimica sono la più importante causa di perdita di biodiversità in Europa, producono inquinamento, perdità di produttività
agricola sul lungo periodo e mettono in crisi gli ecosistemi producendo
squilibri e fragilità. La moria delle api e di tutti gli insetti impollinatori,
da cui dipendiamo per mantenere la produzione agricola, sono la dimostrazione
evidente di un sistema fallito che è necessario cambiare.
Per questo motivo
il WWF ha organizzato in tutta Italia una mobilitazione STOP PESTICIDI
che ha avuto una risposta importante in Italia e in particolar modo in Toscana,
dove si è organizzata una marcia nei territori del Chianti, storicamente
agricoli e come tali soggetti ai problemi dell’agrochimica.
La marcia, che ha
visto tra i promotori anche ISDE, CAI Siena, Legambiente Siena, Biodistretto di
San Gimignano e Biodistretto del Chianti, ha avuto un successo oltre le
aspettative con decine di associazioni aderenti e centinaia di partecipanti che
hanno sfidato temporali e pioggia battente per portare il loro messaggio di cambiamento.
Molti i giovani ed
anche i bambini che hanno partecipato affiancando i più anziani in un percorso
di oltre 9 chilometri che ha toccato i paesi di Radda e Gaiole, comuni
patrocinanti. Tra i partecipanti molti attivisti e dirigenti del WWF locale, tra
cui Valeria Rugi cui abbiamo chiesto perchè si sia scelto proprio il
Chianti e questa data per la mobilitazione. La vicepresidentessa del WWF Siena
risponde così: «La mobilitazione è rivolta ai ministri delle politiche
agricole, dell’ambiente e della salute che dovranno a breve approvare il PAN
(Piano di Azione Nazionale per l’uso sostenibile dei fitofarmaci) e alle
regioni che dovranno attuarlo nei loro territori e che poco hanno fatto fino ad
ora. Il Chianti rappresenta al contempo un esempio del problema, con i vigneti
diserbati e l’utilizzo massiccio di prodotti chimici, ed una soluzione dato che
ci sono molte aziende che si sono dedicate con passione e convinzione al
biologico; circa il 30 % del territorio è ormai bio».
Alla marcia ha
partecipato anche Mariarita Signorini presidentessa di Italia
Nostra nazionale che ha dichiarato: «La transizione al biologico è già
iniziata: la superficie a biologico in Toscana supera il 18% del totale
regionale. Purtroppo la crescita dal 2015 si è però arrestata, a differenza che
in altre regioni dove il bio continua a crescere. Colpa della politica
regionale che favorisce l’agricoltura integrata, che usa pesticidi chimici.
Basta dire che autorizza l’uso di pesticidi perfino nelle aree di salvaguardia
dei pozzi ad uso idropotabile!».
Gli obiettivi che
la marcia ha rivendicato per il nuovo PAN sono:
– Raggiungere
almeno il 40% della superficie agricola nazionale a biologico entro il 2030
utilizzando meglio i finanziamenti europei per l’agricoltura.
– Ridurre i rischi
per i residenti nelle aree rurali e gli agricoltori fissando distanze minime di
sicurezza dalle abitazioni e dalle coltivazioni biologiche per difenderle dal
rischio di una possibile contaminazione accidentale.
– Nei siti Natura
2000 e nelle altre aree naturali protette deve essere vietato l’utilizzo di
pesticidi pericolosi per gli habitat e le specie selvatiche, con misure di
conservazione della biodiversità regolamentari vincolanti.
– Adottare tecniche
biologiche per la manutenzione delle aree non agricole (rete viaria,
ferroviaria) con particolare attenzione al verde pubblico e agli spazi
utilizzati dalla popolazione residente nelle città.
– Prevedere il
divieto totale del glifosato in Italia entro il 2022, escludendo qualsiasi
ipotesi di rinnovo dell’autorizzazione concessa per cinque anni dall’Unione
Europea il 27 novembre 2017.
– Definire criteri
più rigorosi per la concessione delle deroghe per l’utilizzo di pesticidi di
norma vietati a causa della loro pericolosità per la salute umana e per gli
ecosistemi.
«La manifestazione
si è conclusa trasmettendo grande energia e una sfida – hanno detto gli
organizzatori – non è che l’inizio; la lotta andrà avanti fino a quando non
saranno ottenuti i risultati sperati».
Nel sufismo islamico si credeva che gli uccelli canori portassero messaggi dall’aldilà e che il loro canto avesse dunque il potere di mettere in contatto il mondo dei vivi e quello dei morti. Con The Messenger, la regista Su Rynard esplora approfonditamente i problemi a cui questi “messaggeri” devono far fronte in un mondo sempre più antropizzato che ne mette a rischio la sopravvivenza. Dalla Foresta Boreale dell’estremo Nord America alle pendici del Monte Ararat, dai boschi della Pennsylvania alle campagne francesi, da Ground Zero al Costa Rica, gli uccelli canori sono in pericolo.
Oltre alla caccia, Rynard evidenzia i pericoli meno noti al grande pubblico, per esempio come l’utilizzo dei neonicotinoidi in agricoltura vada a decimare gli insetti che ne sono il sostentamento e a inquinare le acque e gli ecosistemi in cui gli uccelli si muovono. Un altro grave problema è l’inquinamento luminoso che ne disturba i flussi migratori, alterando l’orientamento basato sul campo magnetico e sul volo nelle ore notturne. Fra i momenti più incredibili di questo documentario vi sono sicuramente quelli in cui i ricercatori ritrovano uccelli che hanno compiuto un percorso di andata e ritorno dal Nord al Sud America per tornare nello stesso luogo dal quale erano partiti mesi prima.
Fra i pericoli per gli uccelli vi sono anche le collisioni in quota e quelle contro i grattacieli e, naturalmente, tutti quei “progressi” tecnologici che comportano la distruzione degli habitat degli uccelli migratori. La scomparsa degli uccelli non va sottovalutata e la storia dimostra quanto siano importante per gli equilibri ecosistemici. Come si racconta nel documentario, a cavallo fra gli anni Cinquanta e Sessanta Mao Tse Tung diede vita alla campagna contro i quattro flagelli. Uno di questi era, secondo il leader cinese, la presenza dei passeri “rei” di mangiare i chicchi di grano.
I contadini furono dunque incaricati di ucciderli o farli morire per sfinimento spaventandoli con forti rumori. I nidi e le uova vennero distrutti, i pulcini uccisi e si stima che furono abbattuti circa otto milioni di passeri e altri uccelli. Nell’aprile 1960 i dirigenti di Pechino si accorsero che in assenza dei passeri, suoi predatori naturali, le cavallette avevano la possibilità di aggredire indisturbate le coltivazioni. La povertà dei raccolti successivi alla scomparsa degli uccelli fu la principale causa di una carestia che costò la vita a circa 30 milioni di persone. Come accade con la scomparsa delle api, anche quella degli uccelli canori e migratori è un segnale molto importante dello stato di salute del Pianeta e della gravità dei disequilibri provocati negli ecosistemi dall’attività umana.
E’ un vero e proprio allarme fiumi e in questo momento la situazione in Toscana è drammatica. Interventi disastrosi distruggono ecosistemi e mettono a rischio la sicurezza idraulica del territorio. E purtroppo la Toscana non è l’unica Regione dove tali scempi si stanno moltiplicando…
E’ un vero e proprio allarme fiumi e in questo momento la situazione in Toscana è drammatica. Interventi disastrosi distruggono ecosistemi e mettono a rischio la sicurezza idraulica del territorio. E purtroppo la Toscana non è l’unica Regiove dove tali scempi si stanno moltiplicando… Stiamo provocando con le nostre mani uno dei più gravi danni al sistema idraulico naturale. Il reticolo di torrenti, ruscelli, fiumi che si snodano a meandri nella piatta pianura padana, o che precipitano in forre e gole delle montagne e colline del centro Italia sono oggetto, da oltre cinquant’anni di un attacco feroce fatto di canalizzazioni, briglie, dighe, cementificazioni e addirittura, in molti casi, di interramenti, che significa che il fiume viene fatto passare in canali sotterranei artificiali. All’attacco umano, che si prefigge insensatamente di tenere sotto controllo una delle forze più potenti della natura, ovvero l’acqua, cercando di costringerla in spazi forzati e di impedirne il naturale andamento, si è contrapposta la realtà delle cose. Da quando l’opera di distruzione dei fiumi è cominciata, si sono moltiplicati gli eventi catastrofici, che hanno colpito la popolazione e l’economia di intere zone. E tuttavia si continua ad ignorare questa realtà, a non conoscere e non capire che cosa sono e come funzionano i corsi d’acqua. Si vedono i fiumi come semplici elementi del paesaggio da tenere sotto controllo, e non come ecosistemi dalla struttura complessa, in continuo mutamento e sorretti da un equilibrio dinamico molto fragile. Ma l’ignoranza in tema fluviale è sempre stata funzionale al lucro di persone senza scrupoli, pronte ad arricchirsi a scapito della sicurezza dei territori. Dopo la grande cementificazione d’Italia, che ha portato ai tragici eventi che si ripetono ogni anno con interi paesi costruiti in aree alluvionali, oggi i fiumi subiscono l’enorme pressione del nuovo sistema delle imprese coinvolte nel mercato dell’energia da biomasse. Avete capito bene. Infatti, tra le energie alternative risultano esserci le centrali termoelettriche a biomasse, che a seconda della dimensione hanno bisogno di grandi quantità di materia vegetale per poter funzionare (ed essere economicamente remunerative). Come al solito in Italia, grazie ad amministratori compiacenti e poco lungimiranti, c’è chi riesce a trasformare una opportunità di contrasto al drammatico problema dei cambiamenti climatici in una speculazione inaccettabile: è lecito alimentare una centrale termoelettrica a biomassa, a bilancio CO2 teoricamente neutro, al costo della distruzione diretta di un ecosistema? La cosiddetta “ripulitura” dei corsi d’acqua sta comportando in più parti la distruzione completa di tutta la vegetazione riparia, anche secolare, che le rive dei fiumi, gli argini e le naturali casse di espansione ospitano. Oggi si taglia quella vegetazione che l’evidenza, l’esperienza, le indicazioni in normativa e, se non bastasse, numerosi studi scientifici dimostrano necessaria per la funzionalità ecologica del fiume, oltre ad essere utilissima nello smorzare la furia delle piene, nel depurare le acque dagli inquinanti, nel proteggere le sponde dall’erosione. Macchine potentissime radono al suolo tutto, dai pioppi e dagli ontani di trenta metri di altezza fino ai cespugli, riducendoli poi in trucioli e schegge; smuovono la terra che poi le piogge porteranno via producendo frane e smottamenti. Tutto questo è cronaca di questi giorni anche in provincia di Siena, come ha denunciato il WWF, per una serie di interventi autorizzati dalla Provincia e dal nuovo Consorzio di Bonifica Toscana Sud, che negli ultimi tre anni hanno abbattuto la vegetazione su oltre 50 km di fiumi e torrenti. “Siamo molto preoccupati” – dichiara Tommaso Addabbo, presidente del WWF Siena. “Da un lato c’è lo Stato, che legifera e recepisce direttive comunitarie che imporrebbero il raggiungimento di un “buono stato ecologico” degli ecosistemi d’acqua dolce entro il 2015, come previsto dalla Direttiva Quadro Acque 2000/60/CE. Dall’altro non solo non si procede in modo deciso a sanare i danni del passato, ma in molti casi si persevera nella distruzione della naturalità, in un quadro amministrativo sconcertante”. “Per la sicurezza del territorio sono necessari interventi pianificati e selettivi, mirati esclusivamente a garantire la stabilità idraulica del sistema, preservando l’integrità delle sponde e la funzionalità ecologica del fiume, come chiesto dalla normativa. Alcuni enti l’hanno finalmente recepito, e stanno modificando, seppur lentamente, i loro progetti in tal senso. Altri enti, come recentemente fatto sul fiume Arbia dal Consorzio di Bonifica Toscana Sud, mettono ancora in atto la distruzione totale”. “Ma il problema non è da addebitarsi ai soli Consorzi di Bonifica. Anche le Province hanno le loro responsabilità con concessioni di taglio rilasciate a privati, praticamente senza alcuna prescrizione, con risultati disastrosi”.
È ormai noto da anni che nelle nostre campagne è in corso una lenta e progressiva scomparsa degli insetti impollinatori come le api. I fattori sono molteplici, spesso legati ai cambiamenti climatici, ad agenti patogeni, alla crescente urbanizzazione e alla distruzione di habitat naturali. Oggi però le conseguenze di questo declino sono state finalmente quantificate da un importante studio pubblicato sul giornale open access BioRisk. I ricercatori del progetto del Settimo Programma Quadro Status and Trends of European Pollinators (STEP), arrivato al termine dopo ben 5 anni di lavoro, hanno infatti dato vita al dossier “Climatic Risk and Distribution Atlas of European Bumblebees”. Il documento mostra come questo calo numerico delle specie responsabili dell’impollinazione metterà seriamente in crisi la produzione agricola europea e non solo. L’impollinazione è un servizio essenziale dell’ecosistema, fondamentale per il mantenimento sia delle specie vegetali selvatiche che di quelle coltivate. Il 78% dei fiori beneficia di questo processo naturale, come l’84% delle coltivazioni europee; ciò implica che circa il 10% del valore economico totale della produzione agricola, ovvero oltre 14 miliardi di euro, dipende dall’impollinazione. Di fronte a questi dati, le conseguenze economiche relative a una progressiva scomparsa degli insetti impollinatori risultano quindi evidenti. Tuttavia fino ad ora non era chiaro il quadro completo relativo a questa estinzione di massa. Il progetto STEP, frutto di una collaborazione che ha coinvolto più di 20 centri di ricerca, ha fatto luce al riguardo, dando molte importanti risposte. Come scritto sul sito web dedicato, l’obiettivo generale di STEP è stato quello di “valutare lo stato e le tendenze attuali in Europa degli impollinatori, di quantificare l’importanza relativa delle varie cause e dell’impatto del cambiamento, di individuare strategie rilevanti di mitigazione e strumenti politici e diffondere la conoscenza acquisita a una vasta gamma di soggetti interessati”. Basandosi su dati raccolti in tutta Europa, gli autori del progetto hanno analizzato gli andamenti per 56 specie diverse di insetti, in base a tre scenari di cambiamenti climatici previsti tra il 2050 e il 2100. Gli esperti hanno così stimano che, se in relazione a cambiamenti climatici moderati solo per due specie si prevede l’estinzione da qui alla fine del secolo, in uno scenario di grandi stravolgimenti climatici ben 25 di esse risulterebbero seriamente in pericolo. Per ciascuno dei casi, occorre quindi individuare strategie di mitigazione più o meno forti per preservare questo importante gruppo di animali. Queste politiche dovranno differire da regione a regione; lo studio mostra infatti che la perdita di specie attesa diminuisce al crescere della latitudine. Ciò implica che le regioni del sud dell’Europa saranno le più colpite.
Per limitare questo declino, si potrebbe quindi cercare da un lato di agevolare le migrazioni delle specie tenendo traccia dei loro spostamenti, dall’altro attuare una gestione studiata del paesaggio. L’aumento della qualità degli habitat per gli impollinatori potrebbe infatti aiutare queste specie nella colonizzazione di nuove aree. Gli autori dello studio suggeriscono anche l’idea della migrazione assistita, per evitare il problema di barriere naturali o di origine antropica. “Tuttavia, la fattibilità di questa strategia è ancora discutibile”, dichiarano i ricercatori dello STEP. “Gli impollinatori europei devono affrontare molte sfide se vogliono continuare a sostenere la produzione alimentare e mantenere la diversità di fiori nei nostri paesaggi”, commenta Simon Potts, coordinatore di STEP. Come ricordano gli stessi ricercatori, infatti, la perdita di biodiversità ha impatto sia su scala locale che su scala globale e dovrebbe quindi essere una priorità assoluta per le politiche nazionali e internazionali.
Avete mai pensato a quanta acqua si risparmierebbe chiudendo il rubinetto ogni volta che ci si lavano i denti? Se non lo avete mai fatto questo è il momento giusto. Secondo una ricerca pubblicata su Nature Geoscience, un utilizzo più parsimonioso nel consumo domestico di acqua, unitamente ad altre “piccole” accortezze, permetterebbe di soddisfare il bisogno idrico globale entro il 2050. Sì, ma come?
La scarsità d’acqua non è un problema che riguarda solo i Paesi in via di sviluppo. In California, per esempio, si sta proponendo un piano di emergenza per il rifornimento idrico di ben 7,5 miliardi di dollari e negli Stati Uniti lo scorso anno i funzionari federali hanno avvertito la popolazione dell’Arizona e del Nevada che entro il 2016 sarà necessario affrontare dei tagli nel rifornimento idrico proveniente dal fiume Colorado. Alla radice del problema, apparentemente insormontabile, non ci sono solo le abitudini domestiche, ma anche le moderne tecniche di irrigazione, l’utilizzo di risorse idriche da parte degli impianti industriali nonché i cambiamenti climatici del pianeta. Lo stress idrico a cui sono sottoposte molte aree è dovuto allo sfruttamento dell’acqua dei fiumi, soprattutto in zone in cui oltre il 40% di tale acqua è già utilizzato; una situazione questa che riguarda circa un terzo della popolazione mondiale e che entro la fine del secolo potrebbe colpirne più della metà, se lo sfruttamento di risorse idriche continuerà a questo ritmo. Per ridurre lo stress idrico, gli autori dello studio hanno quindi individuato sei strategie. Fra le misure “soft” l’introduzione di nuove tecniche di coltura, unitamente ad una maggiore efficienza dei nutrienti agricoli; il miglioramento delle infrastrutture idriche, tramite il passaggio a sistemi di irrigazione a interruttore; l’utilizzo più parsimonioso del consumo di acqua domestica e industriale e, persino, una limitazione nel tasso di crescita della popolazione (da mantenere entro il 2050 al disotto degli 8,5 miliardi), potrebbero diminuire considerevolmente l’utilizzo d’acqua a livello mondiale. Ma i ricercatori hanno individuato anche delle soluzioni “hard” fra cui la possibilità di aumentare lo stoccaggio di acqua nei serbatoi e la desalinizzazione dell’acqua di mare. “Non esiste un unico metodo per affrontare il problema in tutto il mondo”, sostiene Tom Gleeson del Dipartimento di Ingegneria Civile del McGill e fra gli autori dello studio. “Ma, guardando il problema su scala globale, abbiamo calcolato che se quattro di queste strategie sono applicate allo stesso tempo è effettivamente possibile stabilizzare il numero di persone che nel mondo hanno problemi di stress idrico, piuttosto che continuare a consentire a questo numero di crescere, che è ciò che accadrà se continuiamo con il modello di business attuale”. “Riduzioni significative di stress idrico sono possibili entro il 2050”, aggiunge il co-autoreYoshihide Wada del Dipartimento di Geografia fisica dell’Università di Utrecht “ma un forte impegno e sforzi strategici sono necessari perché ciò accada.”