GOEL, le cooperative che hanno “fatto la festa” alle mafie

Per non arrendersi alla ‘ndrangheta non è sufficiente contrastarla a livello economico o legale, ma occorre combatterla soprattutto sul piano dell’immaginario. In Calabria abbiamo incontrato Vincenzo Linarello che ci ha raccontato l’esperienza di GOEL – Gruppo cooperativo, una rete di aziende che sta costruendo un altro tipo di economia partendo dal cuore della Locride e dimostrando che si possono combattere le mafie creando alternative concrete e “festose”.

Vincenzo Linarello è dal 2016 tra i Fellow di Ashoka: imprenditori sociali che offrono soluzioni innovative per affrontare i problemi più urgenti della società. Ha ricevuto questo riconoscimento per gli importanti risultati ottenuti da GOEL – Gruppo Cooperativo nella creazione di un’economia parallela alla mafia collegando questo nuovo ecosistema a un’economia positiva nel resto d’Italia e non solo.

«Dopo ogni aggressione facciamo una festa e la chiamiamo festa della ripartenza. Coinvolgiamo la comunità locale e l’opinione pubblica nazionale invitandole a stringersi intorno alla vittima. Tutto ciò porterà sostegno, aiuto e opportunità per la vittima stessa. Dopo qualche mese promuoviamo un report pubblico in cui spieghiamo ai mafiosi quanti vantaggi ha avuto la vittima della loro aggressione, sottolineando, quindi, quanto questa sia stata “positiva”. Dopo la terza festa di ripartenza… sono trascorsi due anni e non abbiamo più avuto danni seri. Un tempo lunghissimo».
Una festa… Quando la più terribile e sanguinaria tra le mafie (o una delle più terribili), colpisce, loro che fanno? Organizzano una festa! Quando per la prima volta ho ascoltato queste parole sono rimasto incredulo. Eppure è così. Vincenzo Linarello, Presidente di GOEL – Gruppo Cooperativo, mi spiega che per non arrendersi alla ‘ndrangheta non è sufficiente contrastarla a livello economico o legale, ma occorre combatterla soprattutto sul piano dell’immaginario. «Non dobbiamo mai arrenderci, mai mostrarci piegati o sconfitti. Le mafie prosperano sullo sconforto e cercano di creare un clima di depressione sociale. Sanno che la depressione fa stare buona la gente». E allora vai con le feste!
Per racchiudere l’eccezionalità di questa storia credo basti questo stralcio di intervista. Ma non è tutto, anzi è solo un dettaglio. Cominciamo dall’inizio.

Il ricattatore

La prima volta che incontrai Vincenzo Linarello fu nel lontano 2012 nella sede di GOEL, a Gioiosa Ionica, nei pressi del cuore pulsante della Locride, in Calabria. Già allora potei apprezzare i risultati ottenuti da questa organizzazione, ma in occasione della video-intervista che vi proponiamo qui sopra ho potuto coglierne fino in fondo le mille sfaccettature e la straordinaria originalità.

«GOEL – ci spiega Linarello – nasce nel 2003 con la voglia di innescare un processo di riscatto e cambiamento per contrastare il sistema che la ‘ndrangheta ha creato insieme alle massoneria deviate; un sistema di corruzione che genera depressione economica e di disoccupazione».

Le origini, però, sono precedenti: «A metà degli anni ’90 avviammo in ambito ecclesiale un’esperienza di incubatore, il CreaLavoro, da cui nacquero diverse cooperative. Cominciammo quindi a interrogarci sul futuro della nostra regione e ci rendemmo presto conto di come in Calabria la precarietà fosse stata elevata a strumento di governo del territorio, generando dipendenza e controllo dei voti e delle risorse pubbliche».

Non a caso, quindi, decisero di chiamare il nuovo organismo GOEL. Questo termine, infatti, deriva dal “dizionario biblico”. Come ci ha spiegato Linarello, infatti, «in antichità, quando qualcuno non aveva i soldi per pagare un debito diventava schiavo. Per liberarlo era solitamente necessario l’intervento dei famigliari. Il GOEL era un estraneo che in maniera del tutto disinteressata pagava il prezzo del riscatto e restituiva la persona a uno stato di cittadino libero. Letteralmente, quindi, GOEL può essere tradotto come “il riscattatore”».

«GOEL – continua Linarello – decide fin da subito di innescare questo processo di cambiamento in Calabria dimostrando che l’etica non è una scelta di retroguardia per animi nobili, ma la via maestra dello sviluppo economico di una intera regione». Per farlo era necessario testimoniare come questo tipo di scelte fossero più efficace ed efficienti della pseudo-economia mafiosa, che sembrava essere l’unica possibilità in alcune aree della regione.

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I fallimenti della ‘Ndrangheta e una nuova economia sociale ed etica

Per fare questo GOEL delegittima costantemente la ‘ndrangheta con una azione di comunicazione che mette in evidenza gli aspetti fallimentari della sua azione. Linarello ci ricorda – ad esempio – come questa organizzazione criminale, considerata la “numero uno” al mondo nel suo genere, abbia prodotto la regione più povera d’Europa, che è appunto la Calabria. Un fallimento totale…Da un lato occorre quindi mettere in evidenza le contraddizioni e i fallimenti della ‘ndrangheta, dall’altro mostrare e costruire esempi di economia sociale ed etica che funzionano davvero. Ed è quanto è avvenuto con le tante cooperative nate intorno a GOEL: progetti di accoglienza di minori “a rischio”, progetti con i migranti, progetti di sanità, ma anche e soprattutto aziende che si ribellano alla ‘ndrangheta e ottengono – nel farlo – un vantaggio economico oltre che etico.

Tra questi troviamo realtà appartenenti a diversi ambiti. Si va da I viaggi di GOEL – tour operator specializzato nel turismo responsabile, ambientale, enogastronomico, culturale e sociale che premia ristoranti e alberghi che si sono ribellati alla mafia o che sono stati confiscati – a GOEL BIO – la prima cooperativa agricola fatta di aziende che si sono ribellate alla mafia. I risultati sono sbalorditivi. Nel caso delle arance, ad esempio, si è passati da una situazione in cui i produttori vendevano le proprie arance venivano a 10-15 centesimi al chilo ad una in cui quegli stessi produttori riescono a guadagnare 40 centesimi al chilo. «È il prezzo più alto pagato per le arance in Calabria – ci conferma Linarello – E chi lo ha ottenuto? Le aziende che si sono ribellate alla mafia. Allora vuoi vedere che ribellarsi alla mafia conviene?».
Non poteva mancare la moda. Vincenzo ha le idee chiare: «Per recuperare e rilanciare la prestigiosissima tradizione della tessitura a mano calabrese ci siamo inventati il primo marchio di alta moda etica in Italia, Cangiari. Lo abbiamo sviluppato con le donne del territorio che hanno voluto caparbiamente recuperare questa tradizione che ora vogliamo esportare in tutto il mondo attraverso l’e-commerce».

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Numeri che fanno futuro

Oggi GOEL è composto da 12 cooperative sociali, 2 cooperative di conferimento agricolo, 2 associazioni di volontariato, 1 fondazione e 29 aziende prevalentemente agricole per un totale di circa 200 dipendenti e 150 collaboratori (il 70% donne). Secondo Linarello, però, la più grande soddisfazione è un’altra: «Quando facciamo le assemblee vediamo la comunità provenienti da diverse zone della Calabria confrontarsi… gli agricoltori stanno ad ascoltare con interesse quello che è successo in ambito turistico, gli operatori turistici vedono cosa è successo nel campo della moda, le operaie tessili vedono come proseguono i progetti sociali e tutti insieme si sentono parte di una comunità di riscatto che vuole cambiare le cose in Calabria. Molte di queste persone non partono consapevoli ma lo diventano toccando con mano come pur tra tante difficoltà un’alternativa è possibile».

GUARDA L’INTERVISTA INTEGRALE!

Fonte: https://www.italiachecambia.org/2020/01/goel-cooperative-hanno-fatto-festa-alle-mafie-io-faccio-cosi-277/?utm_source=newsletter&utm_medium=email

Zamagni: “L’economia etica? È il cambiamento di cui abbiamo bisogno”.

L’economista Stefano Zamagni, intervenuto al convegno annuale della B Corps italiane, analizza la storia dell’economia etica, spiegando perché in questa fase storica è proprio ciò di cui abbiamo bisogno.  Il movimento delle B Corps è forse in questo momento l’impulso più forte, quello capace di spingere in modo definitivo il mondo economico verso un nuovo paradigma fondato sull’etica, sulla consapevolezza e sulla sostenibilità. In Italia in particolar modo.

L’economista Stefano Zamagni

ECONOMIA ETICA: UNA TRADIZIONE A NOI FAMILIARE 

Non a caso il nostro paese è il secondo al mondo ad avere istituito un quadro normativo che regola questo settore, dopo gli Stati Uniti – la prima legge in merito è stata approvata nel 2010 da Maryland e Delaware. Ma è anche il secondo, sempre dopo gli USA, per numero di B Corps presenti sul proprio territorio. Perché allora lungo tutto il percorso formativo e accademico che affrontano, i nostri giovani non si imbattono praticamente mai nell’economia etica? Perché ancora oggi il discorso delle B Corps in Italia non è ancora arrivato alla base, non circola e soprattutto non è ancora entrato nelle università, a parte alcune lodevoli eccezioni? Perchè le B Corps non sono ancora oggetto del curriculum di studi delle facoltà economiche? 

Se lo chiede l’economista e docente Stefano Zamagni, sottolineando un ricorso storico interessante e significativo: “È stata la società civile ad anticipare quello che l’università avrebbe dovuto fare e in passato è stato sempre così. Recentemente sono stato alla Bocconi e gli studenti del corso di management non sapevano nulla di B Corps”. 

Eppure questo movimento rappresenta un ritorno all’antico, poiché fino all’inizio del ’900 tutte le imprese avevano una funzione pubblica. “La tradizione aziendalistica italiana – spiega Zamagni – vede l’impresa come un soggetto privato che svolge funzioni di natura pubblica”.

L’IMPRESA PERDE LA SUA FUNZIONE SOCIALE 

Tutto cambia quando un saggio di economia pubblicato negli anni ’30 sancì la scissione fra la proprietà (azionisti) e il controllo (management). Gli interessi non erano più sociali, ma privatistici. “Lì comincia una nuova stagione che vede l’impresa come una merce – the firm as a commodity –, che come tale può essere comprata e venduta a seconda delle convenienze del momento”.  

Nel 1976 due economisti americani oggi screditati, Jensen e Meckling, elaborano un modello in base al quale il fine dell’impresa è di massimizzare il profitto. A questa lettura si accoda anche Milton Friedman, che dice che alla fine anche la società ne trae un vantaggio. Questa teoria diventa egemone e viene insegnata nelle università di tutto il mondo. Ed eccoci arrivati a un altro spartiacque: la grande recessione del 2008. Spiega Zamagni: “La crisi ci ha detto che quel modello è sbagliato. Da allora in America, dove c’è una cultura molto pragmatica, le cose hanno iniziato a cambiare. Dopo tre anni di recessione hanno cominciato a delinearsi le prime B Corps: c’era voluto un disastro economico, ma gli americani avevano capito che il fine primario dell’impresa non è la massimizzazione del profitto”. 

Un ulteriore impulso arriva nel 2011 grazie all’intervento di altri due economisti, Porter e Kramer. Secondo loro il sistema capitalistico è sotto assedio e le imprese vengono viste sempre più come cause dei problemi sociali, ambientali ed economici. La legittimazione del business è scesa a livelli senza precedenti. Le imprese devono riconciliare business e società, successo economico progresso sociale. Devono mettere al centro i valori collettivi. Zamagni prosegue raccontando un aneddoto significativo: “La vicenda di Ford e dei fratelli Dodge insegna: i Dodge erano azionisti di minoranza di Ford e quando quest’ultimo iniziò a praticare il welfare aziendale loro lo portarono in tribunale accusandolo di aver sottratto i profitti che spettavano agli azionisti per finanziare la sua politica aziendale. La corte del Michigan diede ragione ai Dodge creando un precedente fondamentale”.  

Cosa insegna questa storia? “Ci dice che è fondamentale istituire un quadro normativo che disciplini l’economia etica”, spiega Zamagni. “Le cooperative ad esempio non hanno questo problema, ma le aziende normali, senza la legge del 2015 che istituisce le società benefit, avrebbero potuto incappare negli stessi inconvenienti con cui si dovette misurare Ford a suo tempo”.

COSA STA SUCCEDENDO IN ITALIA? 

L’idea che sta alla base delle B Corps riprende un pensiero che ha radici antiche e a noi familiari. “La figura dell’impresa moderna è nata in Italia, così come tante novità in ambito economico e finanziario. Ma noi italiani non le abbiamo mai valorizzate, rinunciando a innovare. Siamo creativi, ma non siamo capaci di tradurre l’invenzione in operatività”. 

Già nel 1400 esisteva la moderna impresa: Leonardo da Vinci fu il primo teorico e pratico dell’organizzazione d’impresa. Il suo modello all’estero viene chiamato “bottega leonardesca” e rappresenta il nucleo dell’organizzazione d’impresa condiviso anche dalle B Corps. Ecco perché per noi italiani questo movimento è particolarmente significativo. Ma perché oggi abbiamo particolarmente bisogno che in Italia si diffondano le B Corps? Risponde Zamagni: “Perché stiamo attraversando una fase nota come seconda grande trasformazione di tipo polaniano, ovvero riferita a Karl Polanyi, che nel 1974 parlò della prima grande trasformazione, nell’ambito della quale raccontò le due grandi rivoluzioni industriali”. 

Oggi viviamo una stagione altrettanto straordinaria, poiché siamo nel bel mezzo della quarta rivoluzione industriale. E si può dimostrare che in questa transizione in modello B Corps è esattamente ciò di cui abbiamo bisogno.  

“È una tesi forte ma perfettamente dimostrabile”, prosegue Zamagni. “Sappiamo che il modello taylorista non funziona più, sostituito da quello olocratico teorizzato nel 2007 da Brian Robertson. Questo modello è il contrario di quello taylorista ed è una prefigurazione a livello giuridico della società benefit. Abbiamo bisogno che il numero di queste società aumenti perché così possiamo estendere l’applicabilità del modello olocratico, che garantisce risultati straordinari come la massimizzazione del profitto, molto più del modello only for profit”. 

La storia economica stessa sostiene questa tesi. Fino al 1980 la produttività totale dei fattori dell’Italia era superiore a quella della Germania. Con la terza e quarta rivoluzione industriale siamo andati incontro a un forte declino perché non abbiamo adeguato il modello organizzativo. Secondo Stefano Zamagni dunque dobbiamo modificare l’assetto esistente, ne abbiamo un gran bisogno. 

 L’IMPRESA COME MOTORE DEL CAMBIAMENTO 

“Le valutazioni delle performance delle imprese sono di tre tipi: output, outcome e impatto. Misurano rispettivamente l’efficienza, l’efficacia (quanto l’operatività raggiunge i fini dichiarati) e il cambiamento. Il punto è qui: oltre alla valutazione di output (bilancio di esercizio) e di outcome (misurata nel bilancio sociale), la società benefit si spinge al terzo livello, che consiste nella valutazione dell’impatto sociale, ovvero la misurazione del cambiamento. Misurare questo cambiamento è ciò che distingue le performance delle società benefit, poiché le società convenzionali non possono per natura arrivare alla valutazione d’impatto, di cui noi abbiamo invece un gran bisogno, soprattutto se si parla di degrado ambientale”.  

Ecco dunque che, pur continuando a perseguire un legittimo profitto, l’impresa recupera la sua funzione sociale e genera benessere – economico, ma non solo – per tutta la comunità. Ma, come spiegato, solo le B Corps, società benefit e altri modelli imprenditoriali etici hanno questa capacità.

Zamagni conclude citando il monaco americano Tomas Merton, che nell’epilogo del suo Nessun uomo è un’isola dice: “Il tempo galoppa e la vita ci sfugge fra le mani, ma ci può sfuggire come sabbia o come semente. Se ci sfugge come sabbia cadendo al suolo non produce nulla, ma il seme produce sempre qualcosa. A noi la scelta”.

Fonte: http://www.italiachecambia.org/2019/02/zamagni-economia-etica-cambiamento-bisogno/?utm_source=newsletter&utm_campaign=general&utm_medium=email&utm_content=relazioni

Orti urbani in Italia, la tendenza è in continuo aumento

Le nostre città sono caratterizzate da un numero sempre maggiore di orti urbani e periurbani: appezzamenti di terreno che vengono sottratti al degrado e coltivati dai residenti, favorendo lo sviluppo di un’economia etica a vantaggio diretto delle comunità locali.orti_urbani_torino

In Italia il fenomeno degli“orti urbani”, cioè delle aree che si trovano all’interno dei centri abitati e che vengono destinate alla coltivazione di frutta e verdura, è in costante aumento. Secondo gli ultimi dati resi noti da Italia Nostra, gli orti urbani occuperebbero, ad oggi, un’estensione di oltre 500.000 metri quadrati, ma si stima che in realtà siano molti di più. E la tendenza è in continua ascesa su tutto il territorio nazionale, complici da un lato la crisi economica e dall’altro la maggiore attenzione delle famiglie italiane alla qualità e genuinità del cibo. Gli orti urbani sono importanti perché permettono alle municipalità di incrementare la presenza di aree verdi, migliorando così la qualità dell’ambiente e riducendo l’inquinamento, di riqualificare le zone degradate, di frenare il consumo di suolo (in particolare quello agricolo delle fasce periurbane), sottraendo i terreni all’abusivismo edilizio e alla speculazione e valorizzando il paesaggio attraverso le attività agricole. Inoltre, consentono la produzione di ortofrutta tipica e di stagione, permettendo ai residenti di cibarsi in modo sano e genuino, migliorano sensibilmente il decoro e l’estetica urbana e favoriscono lo sviluppo di un’economia etica e solidale. Gli orti cittadini, quindi, sono un valido strumento non solo di riqualificazione urbana, ma anche di aggregazione sociale. L’iniziativa di Italia Nostra di creare una rete di orti all’interno delle città è nata nel 2006 e, dopo soli due anni, aveva raccolto l’adesione e il sostegno dell’ANCI (Associazione Nazionale Comuni Italiani), con cui era stato firmato, nel 2008, il primo Protocollo d’intesa per la diffusione dell’agricoltura urbana. Pochi giorni fa, quel Protocollo è stato rinnovato ed è diventato il “Progetto nazionale Orti Urbani”, che ha ampliato il numero delle adesioni: da quest’anno partecipano anche il Ministero per le Politiche Agricole e Forestali e l’Associazione Res Tipica (che è formata da ANCI e dalle “Associazioni Nazionali delle Città di Identità” ad ha l’obiettivo di valorizzare e promuovere, anche all’estero, il nostro patrimonio eno-gastronomico, ambientale, culturale e turistico).progetto_nazionale_orti_urbani

Il nuovo Progetto mira a realizzare un’unica rete in tutta Italia, che – pur nella diversità delle tipologie, degli usi e dei territori – sia accomunata da regole etiche condivise e che favorisca lo sviluppo di un’economia etica a vantaggio diretto delle comunità locali. Inoltre, il progetto punta tutelare la “memoria storica” degli orti, favorendo la partecipazione, la socialità e l’aggregazione; a favorire il recupero della manualità nelle attività collegate agli orti; e favorire la collaborazione e lo scambio di esperienze. I Comuni italiani che partecipano al Progetto nazionale sono sempre più numerosi: si va da grandi città come Roma, Torino e Genova ai centri medio-piccoli. Roma, ad esempio, vanta da anni una grande estensione di orti urbani e periurbani e sta per destinare ad orto altri 170 ettari di proprietà municipale nella valle della Caffarella, con l’obiettivo di creare uno spazio aperto di didattica e ricerca, un’aula dove sperimentare nuove tecniche di coltura ed approfondire la conoscenza del mondo naturale. A Torino, il Comune ha già destinato al Progetto circa 50.000 metri quadrati in favore dei residenti – per promuovere la qualità delle coltivazioni, l’educazione alle pratiche agricole e l’attività formativa nel settore – e intende raggiungere una superficie totale di 2 milioni di metri quadrati di orti urbani e periurbani. Anche Genova, dall’iniziale adesione di 7.000 metri quadrati ubicati dell’area di Begato, punta ad estendere l’agricoltura urbana a tutte le zone che un tempo ospitavano orti tradizionali (si tratta di 140 zone urbane) per una superficie complessiva di 300.000 metri quadrati. E a Padova, dai primi 4.000 metri quadrati della zona Mandrie, si è passati ad ulteriori 18.000 metri quadrati sparsi nei vari quartieri della città, suddivisi in orti di circa 30/40 metri quadrati ciascuno, destinati sia a cittadini singoli, di ogni età, sia ad associazioni.orti_ostuni

Ma è nei centri minori italiani che si registrano le sperimentazioni più interessanti e creative. Tra queste, spiccano molti comuni dell’Umbria: a Perugia si stanno ripristinando i 5.000 metri quadrati dell’orto-frutteto dell’antico Convento di San Matteo degli Armeni, con l’obiettivo di riqualificare anche lo storico quartiere Sant’Angelo, uno dei più antichi della città. A Foligno, nel parco di Villa Jacobelli, edificio storico del centro, verrà realizzato un orto urbano di 2.000 metri con annesso mercato ortofrutticolo, mentre m il comune di Sant’Anatolia di Narco sta sistemando un orto di 4.500 metri quadrati nei pressi dell’Abbazia di San Felice, che sarà destinato alla coltivazione della canapa. Infine, merita senz’altro una segnalazione il Comune di Ostuni, che intende riqualificare l’intera cinta muraria attraverso la creazione di tipici orti urbani terrazzati, per un totale di 27.000 metri quadrati. Il progetto prevede l’acquisizione da parte del Comune della fascia verde addossata al centro storico e la ricostruzione dei terrazzamenti con materiali e tecniche della tradizione locale. Ma non è tutto: ci sarà anche il ripristino integrale dei fabbricati rurali e dell’antico sistema di canalizzazione delle acque, fatto di cisterne, acquari e rogge. Gli orti terrazzati di Ostuni, un tempo floridi “giardini” di produzione di frutta e verdura, saranno destinati, in parte, a verde pubblico e gestiti dalla pubblica amministrazione e in parte saranno dati in gestione diretta ai residenti, alle associazioni e alle scuole. Marco Parini, presidente di Italia Nostra, spiega che “l’operazione Orti urbani è un ‘work in progress’, un’iniziativa partita da alcune esperienze che via via si sta diffondendo in città piccole, medie e grandi; un modo per creare verde nelle aree residuali, generare un vero e proprio intervento agricolo alla ricerca di un cibo sano, con l’impegno – altrettanto sano – del tempo di molti cittadini. La tutela dell’ambiente e del verde urbano si attua anche attraverso questa importantissima azione”.ostuni

Alla presentazione ufficiale del Progetto, Evaristo Petrocchi, responsabile del “Progetto nazionale Orti Urbani”, ha sottolineato che “creare una rete di orti, offre una possibilità di rilancio ad una tendenza che si sta delineando già da qualche anno e che è destinata ad estendersi con lo sviluppo delle aree orticole, che sia le grandi metropoli, sia comuni medio-piccoli hanno intenzione di sostenere ancor più efficacemente con nuovi orti o con la riqualificazione di quelli già esistenti o in corso di realizzazione”. “La crescente diffusione del Progetto ‘Orti Urbani’ – continua Petrocchi – risponde ad una esigenza fortemente sentita dalle comunità di poter disporre di aree urbane o periurbane da destinare a coltivazioni agricole per una migliore vivibilità, socialità e qualità dei luoghi da vivere”. E Fabrizio Montepara, Presidente dell’ Associazione Res Tipica, ha concluso: “L’istituzione degli orti urbani rientra nella filosofia di promozione del territorio agricolo comunale, individuando in essa un mezzo efficace per la sua salvaguardia. Salvaguardare, ma anche valorizzare: è indubbio che un’area territoriale destinata a coltivazioni venga preservata dal degrado, dall’abbandono, e venga rivisitata e rivissuta dai cittadini in una ottica dinamica di appartenenza e tutela. E’ indubbio, inoltre, che la diffusione degli orti urbani possa rappresentare, soprattutto nei piccoli centri, una fotografia del paesaggio più armoniosa per i turisti in visita e uno strumento di promozione del territorio”.

fonte: il cambiamento