La storia di Carlotta: dall’amore per la natura alla nudge theory e all’economia circolare

La nudge theory può essere applicata a processi economici e commerciali per favorire buone pratiche ispirate all’economia circolare e al riuso dei materiali. Approfondiamo questo concetto insieme a una giovane ricercatrice con la passione per l’ambiente, che l’ha portata a collaborare con un progetto che sul suo territorio vuole abbassare l’impatto ecologico in particolare del settore floro-vivaistico. Un percorso di studio e di vita che lega le prime uscite con gli scout nella natura dietro casa a un progetto di consapevolizzazione dei consumatori, l’amore per l’ambiente e il rispetto per chi lo tutela con la nudge theory – per chi non sapesse cos’è dopo ne parleremo in modo più approfondito. Attraverso il racconto di Carlotta Bergamelli, ricercatrice che collabora con il progetto SUSFLO – di cui abbiamo parlato pochi giorni fa in questo articolo – parliamo di alcuni aspetti variegati e apparentemente distanti che però riconducono tutti alla grande idea di sostenibilità.

Ti puoi presentare?

Mi chiamo Carlotta e sono nata e cresciuta in un paesino nella provincia di Bergamo. Ricordo fin da piccola di essere stata sempre a contatto con la natura. A otto anni ho iniziato a frequentare il gruppo scout della mia zona: questo mi ha formato molto al rispetto e amore nei confronti del territorio e della natura. Il motto degli scout è “Lascia sempre il posto in cui vai migliore di come lo hai trovato”. Credo che sia nata proprio da qui la mia passione per l’ambiente e la sua salvaguardia. Spesso durante le uscite fatte nei fine settimana incontravamo persone del mestiere: ricordo una guardia forestale che ci ha portati per due giorni in giro in lungo e largo per i terreni facenti parte del Parco dei Colli di Bergamo a osservare le peculiarità naturalistiche che lo caratterizzano e per cui esso è nato (ci sono più di 126 specie di orchidee selvatiche nei boschi del parco). Ed è proprio qui che circa dieci anni dopo ho svolto il mio tirocinio di laurea triennale. Questo è stato il primo passo che mi ha permesso effettivamente di avvicinarmi ad un ambito specifico del mondo agricolo.

Di cosa ti sei occupata durante il tirocinio?

Il mio lavoro consisteva nello studio delle figure presenti nel Parco che collaborano per mantenere il territorio integro e per la sua promozione: impiegati, guardie forestali e aziende agricole. Conoscere tutti gli aspetti e gli attori che costituiscono questo ente mi ha permesso di comprendere la sua importanza, sia per quanto riguarda la salvaguardia della natura in tutte le sue forme, sia come figura promozionale e di supporto per le aziende agricole.

Hai continuato a seguire questo filone anche nel prosieguo degli studi?

Sono stata molto fortunata anche per quanto riguarda la mia tesi magistrale perché ho potuto continuare il percorso iniziato in triennale: ho avuto la possibilità di approfondire il legame tra istituzioni e aziende agricole presenti in territori particolari. In questo caso mi sono spostata in Valle Camonica. La Valle Camonica è una delle valli più ampie e antiche della Lombardia orientale, con una lunghezza di circa 100 km e una superficie poco superiore di 1270 km2.

Si tratta di un’area svantaggiata, così come definita dal PSR 2014-2020 della Regione Lombardia, caratterizzata prevalentemente da territori boscati e ambienti semi-naturali, con una straordinaria ricchezza naturalistica e paesaggistica oltre alla presenza di numerose aree protette. In questo luogo particolare, la presenza di aziende agricole risulta importante per la salvaguardia dell’ambiente, la conservazione e il mantenimento di beni naturali presenti oltre che per la diffusione e la valorizzazione delle risorse della valle.

Qual è stato l’oggetto della tua testi?

Il lavoro di tesi è stato svolto a partire da una collaborazione tra il CREA-PB, responsabile del Working Package 5 del progetto “Il Biodistretto come modello di policy per lo sviluppo sostenibile”, e l’Università degli studi di Milano.

Puoi raccontarci nel dettaglio cos’è e cosa fa un biodistretto?

Il biodistretto è un ente nato per diffondere il metodo biologico e supportare le piccole aziende agricole, ma oggi ha assunto diverse funzioni anche nella valorizzazione ambientale e nel supporto dello sviluppo locale territoriale. Lo scopo della mia tesi è stato quello di analizzare le caratteristiche del Biodistretto della Valcamonica e l’impatto della sua adozione sulla soddisfazione degli agricoltori e sulla sostenibilità dell’agricoltura biologica di montagna.

In che modo sei poi entrata in contatto con il mondo dell’economia circolare e, in particolare, con il progetto SUSFLO?

In seguito alla laurea mi si è aperta una nuova possibilità nel mondo accademico: quella di studiare realtà presenti nel territorio e impegnate a livello di sostenibilità ambientale grazie al progetto SUSFLO-Sustainable Flowers. Questo progetto coinvolge diversi enti e organizzazioni Fondazione Minoprio, Distretto Florovivaistico Alto-Lombardo e i centri vivaistici Agricola Home & Garden, Idealverde, Viridea Garden Center, Flover Garden, Azienda floricola Donetti dislocati in Lombardia, oltre ovviamente all’Università degli studi di Milano, nella figura della Dott.ssa Chiara Mazzocchi. Il progetto SUSFLO-Sustainable Flowers vuole spingere per un cambiamento del comportamento di acquisto del consumatore attraverso l’applicazione e la valutazione delle tecniche di comunicazione della nudge theory, proponendo un nuovo packaging compostabile venduto nei garden e, parallelamente, spingere il consumatore al recupero e riutilizzo delle confezioni in plastica dei prodotti tradizionali.

Che cos’è la nudge theory?

È un concetto che, nel campo dell’economia comportamentale e della filosofia politica, sostiene che “stuzzicando”, ”pungolando” con messaggi positivi il consumatore questi possa assumere comportamenti virtuosi. Nel nostro caso riguardo la riduzione dell’acquisto di vasi in plastica e l’aumento del loro riutilizzo.

Com’è strutturato il percorso?

Nel dettaglio il progetto si divide in tre fasi: la prima prevede che attraverso cartellonistica “nudge” sul punto vendita si promuova l’acquisto di un ECOPOT, cioè un vaso completamente biodegradabile nel terreno. Questa fase è basata sulla comunicazione diretta ai consumatori legata al richiamo delle norme sociali, al senso di appartenenza ad una comunità virtuosa, che permettono il miglioramento dell’ambiente. La seconda si basa su un altro pannello associato a un bin, che vuole stimolare il consumatore alla riconsegna di vasi in plastica acquistati precedentemente con all’interno piantine di basilico, prodotte appositamente per il progetto. In questo caso la comunicazione si basa sulla fornitura di informazioni relative al consumo di vasi in plastica e promossa dal claim: vuoto a rendere. La terza fase si avvale della tecnica dei Choice Experiments: raccoglieremo interviste agli acquirenti dei garden che partecipano al progetto. Il questionario sarà incentrato sulla predisposizione del consumatore a rinunciare al vaso in plastica, anche a costo dell’aumento di prezzo del prodotto di acquisto.

A che punto siete adesso?

In questo momento ci troviamo nel pieno della seconda fase del programma. Già da ora posso dire di aver imparato moltissime cose nuove, sia a livello pratico di partecipazione a un progetto multi-ente e quindi di gestione e organizzazione delle fasi, sia a livello accademico/teorico riguardo l’utilizzo di particolari software e tecniche di raccolta e analisi dei dati.

Fonte: https://www.italiachecambia.org/2021/09/carlotta-nudge-theory/?utm_source=newsletter&utm_medium=email

“Facciamo girare l’olio”: economia circolare a sostegno delle donne vittime di violenza

Può un progetto tutelare l’ambiente e allo stesso tempo sostenere tante donne in difficoltà? “Facciamo girare l’olio” consente non solo di recuperare gli oli esausti, dannosi e inquinanti se smaltiti in modo non corretto, ma anche di dare un aiuto concreto alle donne vittime di violenza domestica.

Genova – Frisceu, panissa, focaccine, foglie di salvia, fiori di zucchina, latte dolce e latte brusco, ma anche le semplici patatine a fiammifero. Merende golose, contorni e secondi piatti tipici genovesi. Ma cosa succede nei ristoranti di Genova dopo aver fritto tutte queste sfiziosità?

Per legge tutte le attività di ristorazione sono tenute a smaltire correttamente l’olio esausto, compilando una modulistica dove si dichiara esplicitamente come e dove viene smaltito. D’altronde gli oli esausti, non essendo biodegradabili, sono inquinanti per l’ambiente: se bruciati, liberano sostanze nocive per le nostre vie respiratorie e se versati negli scarichi domestici – abitudine purtroppo ancora presente in molte case italiane – comportano una riduzione della quantità di ossigeno a disposizione della flora e della fauna marina e un solo litro di olio vegetale contamina circa 1 milione di litri d’acqua. A Genova, però, il recupero dell’olio può tramutarsi in una preziosa opportunità di riscatto per molte donne in difficoltà.

 “FACCIAMO GIRARE L’OLIO

“Facciamo girare l’olio” è il nuovo progetto dell’associazione Non Solo Parole che, attraverso l’olio esausto e grazie alla collaborazione con l’azienda toscana Ecorec, restituisce indipendenza e dignità alle vittime di violenza domestica.

«Avevamo già iniziato questo progetto lo scorso anno, in forma pilota», racconta Miriam Kisilevsky, presidente dell’associazione. «Quella del 2020 è stata una sorta di “edizione zero”, che però ci ha permesso di capire la portata e gli effetti positivi di questa iniziativa sul territorio».

Ora Non solo Parole sta coinvolgendo ristoranti, panifici, gastronomie, rosticcerie e chiunque abbia olio esausto da smaltire per invitarli a far parte di questo circuito di solidarietà.

“Facciamo girare l’olio” – Il video che presenta il progetto

COME FUNZIONA?

Per donare l’olio vegetale al termine del suo utilizzo è necessario contattare l’associazione, attraverso cui si attiverà il contratto con l’azienda specializzata Ecorec. Poco dopo verranno consegnati, su appuntamento, uno o più bidoni vuoti da riempire. Ogni ristoratore che diventa un produttore di olio esausto, riceve quindi un contributo di 25 centesimi al chilo, ai quali si aggiungono 6 centesimi che vengono destinati all’associazione. Il 100% della somma raccolta contribuisce al sostegno di donne vittime di violenza domestica, che hanno modo così di allontanarsi da casa in tempi più brevi.

CHI SI SOSTIENE ADERENDO AL PROGETTO

«In questo periodo stiamo sostenendo un numero sempre crescente di donne sole o mamme con bambini anche piccoli che hanno subito violenza, sia fisica che psicologica. In questi anni abbiamo notato che la loro principale difficoltà è la mancanza di indipendenza economica: spesso sono disoccupate oppure lo stipendio che queste donne ricevono ogni mese non è sufficiente a coprire le spese di un affitto e le varie utenze».

Ci sono anche situazioni in cui queste donne lavorano ma non hanno un contratto stabile oppure casi in cui c’è un conto in banca in comune con l’ex compagno, con un capitale bloccato a cui non è possibile accedere, quantomeno momentaneamente.

INDIPENDENZA E PROTEZIONE

«Le donne che si rivolgono a noi hanno bisogno principalmente di due cose: indipendenza e protezione. Quello che possiamo fare è restituire loro un’indipendenza economica, pagando bollette e contratti d’affitto, tutte spese impensabili per chi quei soldi non sa dove prenderli».

Il magazzino

L’associazione Non solo Parole dispone anche di un magazzino solidale dove sono presenti vestiti di tutte le taglie, per adulti e bambini, attrezzature per neonati, tovaglie e tanti accessori per la casa: «Vogliamo che tutte coloro che ci chiedono aiuto possano sentirsi libere di poter prendere decisioni in autonomia, per riuscire a ripartire con una nuova vita senza ricatti, come armadi sottochiave o altre forme di tormento per le donne che si lasciano alle spalle queste relazioni».

Miriam poi indirizza ognuna di loro a un centro antiviolenza, che ha un canale preferenziale con le forze dell’ordine.

L’ASSOCIAZIONE

Oltre a queste donne, Non Solo Parole sostiene circa trecento famiglie genovesi in situazioni di criticità socio-economiche e promuove gli acquisti nei negozi sotto casa e nelle botteghe di quartiere, per contribuire a conservare quel tessuto sociale che mantiene vive le periferie.

«Adesso invitiamo tutti i ristoratori, panettieri e pizzaioli ad adottare un bidone, che non solo aiuta le donne in fuga, ma anche l’ambiente, salvaguardando la qualità delle acque».

Fonte: https://www.italiachecambia.org/2021/09/facciamo-girare-lolio/?utm_source=newsletter&utm_medium=email

Ronchi: “Ministero per la Transizione ecologica grande sfida per il futuro del Paese”

Così il presidente della Fondazione per lo sviluppo sostenibile, Edo Ronchi, ministro dell’Ambiente dal ’96 al 2000, in merito al nuovo annunciato dicastero. “Un pilastro”, afferma Ronchi, per il quale “ci sarà da affrontare la riforma delle competenze” anche se “non c’è bisogno di inventare molto” se si segue l’impostazione europea

Edo Ronchi, presidente della Fondazione per lo sviluppo sostenibile, durante il meeting internazionale Giustizia ambientale e cambiamenti climatici, Roma, 11 Settembre 2015. ANSA / LUIGI MISTRULLI

 “Un ministero di riferimento serve. Quello per la Transizione ecologica è una grande sfida per il futuro del nostro Paese in termini di potenzialità sul lavoro e sull’innovazione”. Così il presidente della Fondazione per lo sviluppo sostenibileEdo Ronchi, ministro dell’Ambiente dal ’96 al 2000, in merito al nuovo annunciato dicastero. “Un pilastro”, afferma Ronchi, per il quale “ci sarà da affrontare la riforma delle competenze” anche se “non c’è bisogno di inventare molto” se si segue l’impostazione europea.

La transizione ecologica, ricorda Ronchi, “è il primo punto del Recovery plan europeo”. All’orizzonte “la crisi climatica non è così lontana” e l’Italia non si può presentare alla Conferenza mondiale del clima di Glasgow il prossimo novembre, la Cop26, dice Edo Ronchi, “non in regola con il piano di adeguamento all’obiettivo dell’Ue per aumentare l’impegno di taglio dei gas serra dal 40 al 55 per cento”. L’impegno, sottolinea il già ministro dell’Ambiente, “sarà importante perchè dal ’90 al 2019 abbiamo tagliato il 19%, ora si tratta di fare un salto dal 19 al 55 per cento”.

Oltre all’impegno sulla riduzione dei gas climalteranti occorre, dice Ronchi, raddoppiare la crescita delle rinnovabili, fare molto di più sul settore dei trasporti dove, a parte questo anno di pandemia, “abbiamo aumentato le emissioni anziché diminuirle”.

La transizione green non è solo neutralità climatica “ma anche – sottolinea Ronchi – economia circolare che per un Paese manifatturiero come il nostro è centrale e che è pre-condizione per gli impegni sul clima, con la riduzione del consumo di materiali che va a incidere sul comparto energetico”. Senza dimenticare il tema della biodiversità: “Non si può parlare di transizione ecologica – dice Ronchi – senza interessarsi al capitale naturale che in Italia significa bonifiche, recuperi, risanamenti, falde”. Nel mirino anche la qualità green delle città che apre tutto il capitolo della mobiltà sostenibile. “Ecco perchè un ministero della Transizione ecologica è fontamentale. Ora occorre ridisegnarlo”.

Il ministero dell’Ambiente ha un suo Dipartimento della Transizione ecologica creato nel gennaio del 2020: è stato voluto dal ministro uscente, il Cinquestelle Sergio Costa, nell’ambito di una riorganizzazione interna. In quell’occasione, nella sede di via Cristoforo Colombo erano stati creati due dipartimenti, per seguire i due grandi filoni delle politiche ambientali: da un lato Protezione della natura, dall’altro Transizione ecologica. Quest’ultima è il passaggio da un’economia basata sulle fonti fossili di energia a una basata su fonti rinnovabili, riciclo (la cosiddetta economia circolare) e risparmio energetico. In materia di transizione ecologica, una parte delle competenze, quelle sulle energie pulite, restano in capo al ministero dello Sviluppo economico. Lo scopo del Dipartimento presso il ministero dell’Ambiente era proprio quello di coordinarsi col Mise su questi temi, che vanno al di là delle sue tradizionali competenze di tutela ambientale.

Fonte: ecodallecitta.it

Economia circolare, Costa: nei prossimi 5 anni 1,6 milioni di lavoratori necessari al settore riparazione

Il ministro dell’Ambiente, intervenuto al webinar ‘2021 anno del diritto alla riparazione’, fa una stima alla luce dei cambiamenti che riguardano il passaggio dall’economia lineare all’economia circolare

Secondo alcune stime “sono oltre 230mila le posizioni di lavoro che ora occorrerebbero per i cosiddetti riparatori”, in un più vasto “cambio di paradigma, dall’economia lineare all’economia circolare, che nel prossimo quinquennio si stima necessiti di oltre 1,6 milioni di nuovi lavoratori green nel settore”, cioè “circa il 60% oltre la richiesta lavoro esistente”. Così il ministro dell’Ambiente, Sergio Costa, intervenuto al webinar organizzato dal Movimento 5 Stelle dal titolo ‘2021 anno del diritto alla riparazione’. Insomma, “non è più banale parlare di economia circolare – dice Costa – va magnificato il tema che è emerso”.

“Sul tema della riparazione, all’esame del Senato c’è una proposta di legge per il contrasto all’obsolescenza programmata dei beni di consumo, mentre alla Camera ce n’è un’altra basata sul concetto di bene nella gestione del rifiuto. Sono proposte di legge che segnano questa sensibilità – aggiunge il ministro – oggi che ci sono le condizioni culturali, politiche e governative, si può fare ed è necessario fare questo salto di qualità”. 

“Il diritto alla riparazione si fonde ad altri diritti nell’ambito dell’economia circolare che cambiano il paradigma produttivo”, spiega Costa, “una visione nella quale nel resto della legislatura vogliamo costruire questo sistema”.

l ministro ha ricordato che nel 2018, poco dopo il suo insediamento al ministero dell’Ambiente, è stata assegnata al suo dicastero la competenza sull’economia circolare, insieme al ministero dello Sviluppo economico. Inoltre, nel 2020 è stata creata la Direzione generale per l’economia circolare. “Questo va di pari passo – ha osservato – con il quadro Ue”, al quale ha fatto riferimento la direttrice generale del ministero Laura D’Aprile. 

Costa ha ricordato che “nell’ambito del regolamento Ue sulla tassonomia, abbiamo costruito gli indici della green finance, tra cui l’indice della circolarità della materia: coloro che vi investono hanno un indice di rischio più basso. Siamo i primi in Europa ad applicare tutto questo in via sperimentale”.

Fonte: ecodallecitta.it

Il pastore Marco Scolastici: una yurta sull’Appennino ed un ritorno consapevole alle origini .

Una yurta sull’Appennino e tanta pazienza sono stati gli ingredienti di un ritorno consapevole alle origini e ad un mestiere antico, quello del pastore. Dopo aver vissuto in prima persona il terremoto del centro Italia ed il Covid-19, Marco Scolastici ha acquisito sempre più consapevolezza dell’importanza della natura, del suo lavoro all’aria aperta e delle piccole produzioni locali. Sui Sibillini, a Macereto, l’Azienda Agricola Scolastici è attiva con metodo biologico da oltre vent’anni con all’interno un caseificio che quest’anno festeggia le nozze d’argento. Marco, all’interno dell’azienda di famiglia, si occupa di allevamento e di trasformazione con la volontà di adeguarsi al ciclo della natura senza cercare di forzare i suoi tempi. Tutto è controllato dall’interno, in un’ottica di reale economia circolare: dall’alimentazione degli animali all’allevamento di pecore, cavalli e vacche, dalla lavorazione di prodotti caseari fatta solo con latte autoprodotto alla cura di uno spaccio aziendale dove le persone possono vedere direttamente anche la realtà aziendale. Ogni cosa, perciò, è necessariamente guidata dalla trasparenza e dalla volontà di fare le cose come si sono sempre fatte in una sorta di patto di rispetto con la natura e con l’ambiente. Perché alla fine Marco si sente anche una sentinella, si impegna ogni giorno per mantenere integra la terra che gli regala i suoi frutti e per valorizzarla anche nei momenti di grande difficoltà.

Il lavoro del pastore è uno dei più antichi, nulla ormai si può più inventare. Marco però è convinto che sia possibile farlo in modo innovativo: la consapevolezza del passato permette di osservarlo per reinventarsi il futuro e questo è quello che permette di fare la differenza a lungo termine. L’idea di tornare alle origini è riflessa anche nella scelta di allevare la pecora sopravvissana, una razza resistente, rustica e poco produttiva ma con un latte più sapido e più ricco organoletticamente (viene prodotto anche un pecorino a latte crudo, inserito come presidio Slow Food). Questa scelta gli ha anche permesso di riscoprire la magia della lana che da rifiuto è diventata la scintilla per un progetto in fieri di produzione di capi di abbigliamento su prenotazione, con le tecniche delle signore del luogo appassionate di ferri.  
In tutto questo, l’attesa è il concetto chiave: dal bisnonno che da aiuto-pastore è diventato proprietario di un’azienda alla pratica di transumanza trasversale del passato che ha legato in un rapporto simbiotico i Sibillini alla Maremma laziale, facendo spostare la famiglia Scolastici a Tarquinia. Dal ritorno ai Sibillini del padre a quello di Marco, convinto a rimanere anche dopo il fatidico terremoto del 2016. Una yurta e tanta pazienza sono stati gli ingredienti di un ritorno consapevole e arricchente al mestiere più antico di sempre.

L’emergenza Covid-19 ha colpito in prima persona Marco, che è stato contagiato dal virus. In questa circostanza sfortunata ha capito l’importanza del suo lavoro fatto all’aria aperta, la centralità della gioia nel poter respirare a pieni polmoni. Il poter tornare al lavoro, quindi, è stato un passo importante sia dal punto di vista personale che per l’azienda che, alla fine, non ha subito in modo troppo pesante le conseguenze di qualche chiusura forzata: anche senza vendita i prodotti caseari possono stagionare ed acquisire strati di complessità che li rendono ancora più interessanti. Qualcosa, secondo Marco, è cambiato anche nei rapporti interpersonali e nell’attenzione nei confronti di tutte quelle piccole produzioni locali che mettono al centro del loro lavoro la consapevolezza. Il legame di Marco con la natura è scandito dal tempo dell’amore, che è alla base di tutto. Si sente dalla sua voce, l’emozione nel parlare di quella che è la sua maestra e la sua compagna di vita, quel luogo dove si sente leggero e a suo agio. Per questo, nella voce di Marco, si sente solo ottimismo nei confronti del futuro: ci sono tantissime idee e tantissimi progetti da portare avanti e questo è uno stimolo enorme e un’ulteriore conferma che la strada intrapresa sia proprio quella giusta. Fonte: https://www.italiachecambia.org/2020/10/pastore-marco-scolastici-yurta-appennino-ritorno-consapevole-alle-origini-piccoli-produttori-7/?utm_source=newsletter&utm_medium=email

ANIASA, nuovo progetto di sviluppo per una mobilità sostenibile e condivisa

Uno degli obiettivi principali annunciati dall’associazione afferente a Confindustria è quello di supportare “l’ineluttabile transizione dalla proprietà all’uso dei veicoli che nel nostro Paese ha già portato 1 vettura su 4 ad essere immatricolata a noleggio”

Supportare l’ineluttabile transizione dalla proprietà all’uso dei veicoli che nel nostro Paese ha già portato 1 vettura su 4 ad essere immatricolata a noleggio. Consolidare il ruolo di interlocutore di riferimento nel dibattito nazionale sulla mobilità – anche quella post COVID – e nelle strategie messe in campo dal Governo per gestire in modo efficace i fondi del Recovery Fund che dovranno guidare il nostro Paese verso una mobilità più sostenibile, smart e sicura. Intercettare in anticipo i cambiamenti in atto e svolgere un’efficace azione di sensibilizzazione sulle tematiche strategiche della mobilità cittadina, turistica e aziendale. Sono questi i principali obiettivi alla base del nuovo progetto di sviluppo di ANIASA, l’Associazione che all’interno di Confindustria rappresenta il settore dei servizi di mobilità, implementato con il supporto strategico del partner di respiro internazionale The European House Ambrosetti (1° Think Tank in Italia e tra i primi 10 in Europa), che accompagnerà l’Associazione anche nei prossimi due anni in un percorso di trasformazione.

“In Italia il settore della mobilità nel suo complesso”, osserva Massimiliano Archiapatti, Presidente di ANIASA, “sta vivendo una fase di rapida evoluzione, destinata a stravolgere il nostro modo di muoverci e di spostare le merci: le formule di pay-per-use mobility nel 2019 hanno toccato la quota record del 25% dell’immatricolato e oltre 1 mln di veicoli circolanti. L’avvento della pandemia sta accelerando questo cambiamento. Abbiamo davanti a noi un’occasione irripetibile per rendere la mobilità italiana più sostenibile, smart e sicura, anche grazie alle risorse del Recovery Fund. Il noleggio è oggi un asset strategico per le politiche di sostenibilità ed economia circolare, con il suo parco veicoli a emissioni ridotte e con la capacità di immettere costantemente sul mercato dell’usato veicoli a fine noleggio di ultima generazione, in grado di sostituire quelli più inquinanti. Il nostro settore può e deve essere protagonista di questa rivoluzione che presenta diverse sfide: l’impatto ambientale, la connettività, la crescente urbanizzazione (con i connessi problemi di congestionamento, parcheggio, inquinamento), i nuovi paradigmi di consumo sempre più proiettati

all’uso del veicolo, l’integrazione con la micromobilità cittadina”.

“Per fronteggiarle in maniera efficace”, aggiunge Archiapatti, “abbiamo deciso di avviare un percorso di evoluzione con l’obiettivo di rispondere in modo ancora più puntuale allo sviluppo del mercato, con particolare attenzione alle nuove generazioni, ai loro stili di vita e alle loro modalità di consumo, totalmente differenti da quelle conosciute finora. Siamo all’inizio di un tragitto che ci proietterà al centro dei nuovi scenari di mobilità”. A conferma dell’avvio di questo percorso è stata attivata ufficialmente la sezione Digital Automotive che si aggiunge alle altre presenti in Associazione (noleggio a lungo e breve termine, car sharing, servizi automobilistici); un segmento di cui già oggi fanno parte tutti i principali player nazionali e internazionali del settore.

Fonte: ecodallecitta.it

L’economia del futuro deve essere decarbonizzata altrimenti non ha prospettive’, intervista ad Edo Ronchi | 2° parte

In occasione degli Stati Generali della Green Economy in programma il 3 e 4 novembre in versione digitale causa Covid, abbiamo raggiunto Eco Ronchi per sapere quali saranno le riflessioni condivise sull’economia verde ai tempi della pandemia

Quest’anno Gli Stati Generali della Green Economy lanciano un appello alla Comunità europea facendo da megafono al mondo delle imprese. Di cosa si tratta?

Un appelloche qualifica un gruppo consistente di imprese italiane. Per ora l’iniziativa è europea con il gruppo più consistente a livello comunitario che si è espresso per tenere alta l’attenzione climatica nell’uso del Recovery fund. Abbiamo il timore che finanziando gli interventi per il clima possa finanziare anche gli investimenti che generano le emissioni di gas serra. Pensi a certe rottamazioni alla leggera di veicoli ad emissioni di Co2, oppure a certe infrastrutture stradali che comportano aumento di emissioni di gas serra. Insomma bisogna essere coerenti anche perché l’investimento nella carbonizzazione cioè in infrastrutture e impianti che abbiano elevate emissioni di gas serra o che abbiano comunque un aumento di gas serra è un investimento di corto respiro visto che significa buttare via i soldi. E quindi noi siamo convinti che destinare il 37% degli investimenti del Recovery and Resilience Facility, il più importante strumento di finanziamento del pacchetto Next Generation Eu, a favore del clima sia una quota apparentemente consistente ma in realtà è bassa. Bisogna portarla almeno al 50% anche per finanziare le misure di adattamento climatico di cui dicevamo prima, per la prevenzione del dissesto idrogeologico e l’aumento della resilienza del territorio verso le alluvioni e anche verso le ondate di calore. 

Da ex subcommissario per il risanamento ambientale dell’Ilva di Taranto, cosa ne pensa della possibilità di finanziare l’impianto con il Recovery fund?

Non si finanzia più il carbone ma si finanzia la conversione verso l’idrogeno o tecnologie intermedie che abbassino le emissioni di gas serra, questo vuol dire. Quindi benissimo investire nell’Ilva ma non nell’altoforno a carbone, ma nelle misure verso la conversione all’idrogeno. Ovviamente nessuno pensa che si possa fare la conversione dell’Ilva all’idrogeno in 6 mesi. Forse neanche in qualche anno. Si tratta di investire verso la transizione anche prevedendo tappe intermedie. L’importante è che non si tenda a mantenere o aumentare le emissioni di gas serra, ma per ridurre le emissioni di gas serra. 

Di recente l’Italia ha iniziato a recepire il pacchetto di direttive sull’economia circolare. Siamo sulla buona strada? L’emanazione dei decreti “End of waste”, per il riutilizzo delle materie prime seconde, procede a rilento…

Anche in questo caso, negli anni come Fondazione sullo sviluppo sostenibile ci siamo battuti parecchio. Tutti d’accordo sull’economia circolare. Del resto chi vuole mantenere un’economia inefficiente basata sullo spreco delle risorse con alti costi? Poi però quando si tratta di fare le misure non si riescono a cogliere le priorità. Il riciclo va favorito e agevolato. L’End of waste nella normativa europea è una procedura che con le nuove direttive è stata semplificata favorendo, con l’autorizzazione “caso per caso”, la procedura più semplice per il riutilizzo dei materiali. Noi in Italia cosa abbiamo fatto? Con sofferenza abbiamo recepito il potere di affidare alle Regioni le autorizzazioni al riciclo “caso per caso”. Ma siamo l’unico paese europeo che ha istituito una specie di procedura speciale di controllo di secondo livello affidata all’Ispra. Una procedura bizantina che ha come effetto l’appesantimento del riciclo con l’End of waste, rendendolo più complicato rispetto allo smaltimento e all’incenerimento. Speravamo nel pacchetto di recepimento delle direttive per semplificare certi passaggi. Ma non è accaduto.   

Le percentuali di raccolta differenziata raggiunte in Italia sono sempre più alte. Ma il sistema impiantistico è adeguato al trattamento delle frazioni raccolte separatamente?

Se vuoi fare il riciclo hai bisogno di impianti che facciano la una buona selezione, una buona preparazione e una buona attività di riciclo. E’ evidente. Siamo tra i leader europei del riciclo quindi gli impianti li abbiamo. In alcune regioni sono carenti e succede che i rifiuti provenienti dalla raccolta differenziata viaggino per centinaia di chilometri. Compreso l’organico che per l’80% è perlopiù formato da acqua. Se portiamo questi rifiuti in giro verso le località in cui ci sono gli impianti direi che questa non è una buona soluzione anche dal punto di vista degli impatti energetici e ambientali. 

Per accelerare la transizione verso l’economia circolare occorre non solo favorire il riciclo ma fare in modo che i materiali abbiamo un mercato. Che spinta potrebbe arrivare dall’applicazione dei cosiddetti appalti verdi, obbligatori ma poco utilizzati?

Nel network delle Green city, dove abbiamo fatto un po’ di istruttoria sul tema degli appalti verdi, risulta che le amministrazioni, soprattutto quelle piccole, hanno bisogno di essere supportate tecnicamente. Abbiamo proposto l’intervento dell’Enea, l’Agenzia nazionale per le nuove tecnologie, l’energia e lo sviluppo economico sostenibile, come supporto anche per stipulare questi appalti verdi che richiedono modalità tecniche e anche capacità di conoscere il mercato e le produzioni, per sapere se le specifiche che istruiscono poi corrispondono ai prodotti che io trovo sul mercato. Questa capacità ce l’hanno poche Regioni e pochi Comuni. Quindi molte stazioni appaltanti, pur avendo in genere buone intenzioni trovano difficoltà a gestire in maniera efficace gli appalti pubblici verdi. Non è semplice compilare la parte del bando sulle prescrizioni delle caratteristiche che devono avere i beni e i servizi forniti. È una difficoltà operativa che abbiamo riscontrato tra gli amministratori che vogliono applicare davvero i Criteri ambientali minimi, non quelli che cercano le scuse per non fare niente. 

Fonte: ecodallecitta.it

Questa pandemia racchiude un enorme potenziale per cambiamenti positivi

Per uscire dal pantano dobbiamo accettare di sporcarci, ma una volta raggiunta l’altra sponda sarà evidente che ne valeva ampiamente la pena. Abbiamo tutte le risorse e gli strumenti non solo per superare il momento di difficoltà, ma anche per costruire un domani migliore, più equo, più sostenibile, più futuribile. Pubblichiamo le riflessioni attraverso cui il nostro Roberto Battista immagina la transizione verso questa nuova epoca. Il grande pubblico ha un campo di attenzione sufficiente a poco più di un argomento per volta. In questo momento la pandemia del coronavirus monopolizza l’attenzione globalmente e non lascia spazio per nessuna delle grandi questioni aperte. Chi si ricorda dell’emergenza climatica, di Greta e del movimento Fridays for Future, dei profughi siriani arenati al confine tra Turchia e Grecia, delle crisi che perdurano in Yemen, South Sudan, Democratic Republic of the Congo, dei Rohingya in Myanmar e Bangladesh, dei migranti nei lager libici? Chi si ricorda degli incendi in Australia o delle locuste in varie parti dell’Africa, i migranti sui barconi nel Mediterraneo o ISIS e la minaccia terroristica, tanto per citarne alcuni?

Questo dato di fatto è più che mai rilevante per le sue implicazioni ed è un fattore che rende possibile a personaggi politici di conquistare il favore del pubblico con propaganda senza scrupoli, confidando nella necessità di una larga porzione della popolazione di ottenere risposte semplici per problemi complessi, soluzioni immediate a problematiche che richiedono generazioni di evoluzione, identificazione di colpevoli per qualsivoglia problema contingente, vero o presunto.

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Questo contesto dà adito anche a un proliferare di teorie complottiste delle più fantasiose – si vedano gli articoli di Nicolas Guilhot (Senior Research Associate, CNRS and Visiting Professor, City College of New York) Why pandemics are the perfect environment for conspiracy theories to flourish e Nuovo e utile: Bias cognitivi e decisioni sistemiche ai tempi del virus di Annamaria Testa – e a questo contribuisce una diminuita fiducia nella scienza e nell’autorevolezza degli “esperti” alla quale si è giunti dopo anni di sistematica delegittimazione della credibilità basata su studio ed esperienza. I vari leaders che cavalcano quest’onda sono noti, da Trump a Bolsonaro, da Orban a Salvini, gli esempi non mancano e varrebbe la pena di soffermarsi a osservare il processo storico che ha portato all’emergenza di questi personaggi, che possono essere visti in un ottica assimilabile al progredire di una pandemia. Al di là di quest’analisi però ci troviamo a una congiuntura che, nella sua drammaticità, racchiude un enorme potenziale per cambiamenti positivi.

Forse è troppo ottimistico aspettarsi che qualche mese di “sospensione della normalità” riveli a un numero sufficiente di persone quanto questa normalità avesse ben poco di normale. Resta la speranza che il doversi confrontare con la realtà senza le consuete scappatoie possa effettivamente aiutare a concentrare l’attenzione su quelli che sono effettivamente i problemi reali e urgenti che dobbiamo affrontare, con logica e competenza, se vogliamo sopravvivere come specie. Arundhati Roy in The pandemic is a portal, Noam Chomsky in Coronavirus – What is at stake? e Yuval Noah Harari in The world after coronavirus affrontano questo tema da diversi punti di vista, suggerendo interessanti ipotesi su un possibile futuro e ponendo l’accento su quali sono i punti chiave sui quali dovremmo focalizzare la nostra attenzione in vista di un possibile progresso sostenibile e ormai inderogabile. Alcuni di essi sono imprescindibili e necessitano attenzione immediata; tra questi i più urgenti, e in gran parte tra di loro collegati, sono il cambiamento climatico, la disparità abissale di distribuzione della ricchezza, il reale rischio di un conflitto atomico, le guerre probabili derivate dall’esaurimento di risorse naturali e la crescita esponenziale della popolazione, lo strapotere di una manciata di multinazionali.

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Noam Chomsky

La quasi totalità degli altri problemi che affliggono l’umanità oggi (senza scusanti o cause inevitabili) sono collegati a queste questioni, che vanno affrontate globalmente nell’interesse di tutti. Proprio questo punto può rivelarsi cruciale poiché richiede una rivoluzione di pensiero: iniziare a pensare come “noi” prima che come “io” e questo vale sia per gli individui che per le nazioni. Il concetto di bene comune deve prevalere, non per qualche ingenuo buonismo ma piuttosto per una necessità evolutiva e di sopravvivenza. Da decenni ormai i risultati del cammino intrapreso negli anni ottanta con l’ultra-liberismo promosso da Thatcher e Reagan erano previsti e descritti abbastanza dettagliatamente da economisti come Joseph Stiglitz e Paul Krugman e addirittura da un epitome del capitalismo, il tanto odiato (e soggetto prediletto dai complottisti) George Soros. Non abbiamo scuse per giustificare la nostra ignoranza sulle conseguenze nefaste del modo in cui abbiamo abusato il nostro pianeta e auspicabilmente lo spavento causato dalla pandemia in corso potrebbe risvegliare abbastanza coscienze. Questa presa di coscienza peraltro non comporterebbe un arresto del progresso, come sostengono i fautori dell’economia capitalista selvaggia e nemmeno una così drammatica riduzione del lusso al quale il consumismo ci ha abituati, come sostengono altri nel campo opposto della decrescita. Possediamo conoscenze sufficienti a consentirci di fare buon uso delle risorse a nostra disposizione, già solo riducendo gli sprechi, riutilizzando e riciclando, ci porremmo in una posizione tale da evitare la catastrofe climatica e ridurre considerevolmente povertà e ineguaglianze. Attualmente circa i due terzi delle risorse del pianeta (minerali, combustibili fossili, cibo) vengono sprecate e questo spreco a sua volta è causa di problemi ambientali. Una conversione graduale, ma il più rapida possibile, verso un’economia circolare è palesemente essenziale e urgente. In questo contesto l’accesso all’informazione e l’educazione a decifrarla diventano elementi cruciali e indispensabili, sfortunatamente non acquisibili istantaneamente. Il dibattito sul controllo della veridicità dell’informazione sui mezzi di comunicazione e ancor più sui social media è un punto critico, poiché tocca inevitabilmente le questioni di censura sulla libertà di espressione e diritto alla privacy. Chi può arrogarsi il diritto (e la capacità) di definire cosa sia legittimo e comprovato? Chi controlla i controllori? Sarebbe preferibile affidarsi all’intelligenza artificiale e chi dovrebbe impostarne i parametri iniziali? Dove finisce il diritto di espressione individuale e inizia la salvaguardia del bene comune? Sono domande importanti con le quali si dibattono filosofi e sociologi da anni, e raramente si possono trovare risposte univoche. Resta il fatto che la situazione attuale è insostenibile e il danno causato dalla diffusione di cattiva informazione è enorme. Si dovrebbe ovviamente partire dall’educazione, concepita in modo da dotare i giovani di strumenti adeguati alla critica e comprensione, alla formazione di opinioni fondate su conoscenza ed esperienza. Ma anche questo semplice concetto conduce in un roveto dal quale è difficile uscire senza ferite e per il quale troppi non sono adeguatamente equipaggiati. Il divario digitale in Italia ad esempio, in tutti i settori della vita del paese, è drammatico e un motivo al quale si può imputare in parte una diffusa mancanza di capacità critica della popolazione.

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Quando nel 2014 l’allora primo ministro Renzi annunciò un programma per colmare questo divario, le dichiarazioni d’intenti erano sensate e di buon auspicio. Tristemente l’applicazione di quei principi è stata ampiamente disattesa. Non ci sono state politiche coerenti e coordinate, col risultato che quello che è stato convertito a sistemi digitali è spesso minato da carenze concettuali, mancanza di omogeneità, infrastrutture tecnologiche carenti, software obsoleto, incompatibilità di vario genere, design strutturale inadeguato e dilettantesco. I risultati sono purtroppo drammatici. In queste ultime settimane ad esempio abbiamo assistito al tentativo frenetico di passare dall’insegnamento tradizionale in aula a quello a distanza su internet. Mentre molte delle università già da tempo si erano adeguate e attrezzate, le scuole elementari e medie si sono trovate completamente impreparate e, nella maggior parte dei casi, il risultato è stato caotico, con insegnanti ai quali veniva richiesto dall’oggi al domani di fornire le loro lezioni online senza mai aver ricevuto training adeguato, senza uno standard di software e metodologie pensati in modo coordinato. A questo si è aggiunto il problema che molti degli studenti non hanno un computer a casa, non hanno connessioni adeguate e genitori abituati a utilizzare questi sistemi. È auspicabile che questa contingenza spinga più insegnanti e genitori a considerare quanto sia essenziale per l’educazione delle nuove generazioni fare un balzo per riportarsi al passo con i tempi. Questo purtroppo difficilmente può avvenire senza linee guida meticolosamente pensate ed elaborate a livello centrale, il che richiederebbe responsabili competenti e messe in opera coordinate e scevre da motivazioni politiche e ideologiche, che attualmente scarseggiano. Se però si vuole uscire dal pantano dobbiamo accettare che ci sporcheremo alquanto, ma una volta raggiunta l’altra sponda sarà evidente che ne valeva ampiamente la pena. Ora è forse il momento migliore, un’opportunità rara, storicamente i periodi di crisi profonda portano a periodi di rinascita e sviluppo. Non perdiamo quest’occasione.

Fonte: https://www.italiachecambia.org/2020/04/pandemia-racchiude-enorme-potenziale-cambiamenti-positivi/?utm_source=newsletter&utm_medium=email

Giornata della Terra: “Chiediamo stop a deforestazioni e sostegno all’agroecologia”

In occasione della Giornata Internazionale della Terra una coalizione planetaria di oltre 500 organizzazioni chiede lo stop alle deforestazioni e alla perdita di biodiversità e il sostegno alle piccole e medie produzioni agroecologiche. Riconoscere lo stato di crisi in cui si trova il pianeta Terra, identificare le reali cause che hanno condotto all’emergenza sanitaria Covid 19 e approfittare del lockdown per ripartire con un vero cambio di paradigma produttivo, economico, sociale e culturale che tenga conto di quanto la salute della Terra e di tutte le specie che la abitano, animali e vegetali, siano profondamente interconnesse. È questa la richiesta di oltre 500 organizzazioni della società civile internazionale, appartenenti a oltre 50 paesi, che hanno aderito all’appello lanciato da Navdanya International, Naturaleza de derechos e Health of Mother Earth foundation in occasione della Giornata Internazionale della Terra. Il documento, a cui hanno aderito le maggiori organizzazioni ecologiste di tutto il mondo fra cui Ifoam, Third World Network, International Forum on Globalization, Organic Consumers Association, Acción Ecológica, Isde-Medici per l’ambiente, Pesticide Action Network – Italia e Associazione per l’Agricoltura Biodinamica, e sottoscritto da centinaia di ambientalisti fra cui Vandana Shiva, Adolfo Perez Esquivel, Maude Barlow, Maria Grazia Mammuccini, Carlo Triarico, Patrizia Gentilini e Lucio Cavazzoni, denuncia lo stato di degrado del pianeta dovuto a un sistema economico estrattivista e irresponsabile, sotto il controllo di un pugno di multinazionali, interessato solo a ottenere il massimo dei profitti senza curarsi dei danni provocati a livello sociale e ambientale.

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La pandemia in atto, si denuncia nell’appello, è l’ennesimo esempio di una cattiva gestione delle risorse naturali ma è anche un ulteriore grido di allarme che deve necessariamente essere ascoltato prima della prossima inevitabile calamità. Le organizzazioni internazionali chiedono di non tornare al “business as usual” ma piuttosto di supportare le iniziative “bottom up”, già attive su moltissimi territori e basate sul rispetto dell’ambiente e del lavoro, per promuovere una fase di transizione verso sistemi economici democratici, equi ed ecologici. In particolare, è il sistema di produzione agricola industriale a confermare, anche in questa occasione, la sua insostenibilità. La corsa alla deforestazione, per ottenere nuove terre da sfruttare per piantagioni e allevamenti, crea le condizioni ideali per la diffusione di nuove epidemie: «Invadendo gli ecosistemi forestali, distruggendo gli habitat delle specie selvatiche e manipolando piante e animali a scopo di lucro, creiamo le condizioni per nuove epidemie. Negli ultimi 50 anni sono emersi fino a 300 nuovi agenti patogeni. È ben documentato che circa il 70% degli agenti patogeni umani, tra cui HIV, Ebola, Influenza, MERS e SARS, sono emersi quando gli ecosistemi forestali sono stati invasi e i virus sono passati dagli animali all’uomo (salto di specie). Quando gli animali sono costretti a vivere in allevamenti industriali per massimizzare i profitti, nascono e si diffondono nuove malattie come l’influenza suina e l’influenza aviaria».
Agricoltura industriale e allevamenti intensivi contribuiscono alla crisi sanitaria e a debilitare i nostri sistemi immunitari rendendoci ancora più esposti a nuove malattie: «L’agricoltura industriale ad alta intensità chimica e i sistemi alimentari industriali danno origine a malattie croniche non trasmissibili come difetti congeniti, cancro, disturbi endocrini, diabete, problemi neurologici e infertilità. In presenza di queste condizioni preesistenti, che sono alla base della compromissione del nostro sistema immunitario, la morbosità del Coronavirus aumenta drammaticamente».

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È allora necessario ripartire favorendo processi di localizzazione e di economia circolare: «Durante la crisi del Covid-19 e nella fase di ripresa post-coronavirus dobbiamo imparare a proteggere la Terra, i suoi sistemi climatici, i diritti e gli spazi ecologici delle diverse specie e dei diversi popoli – indigeni, giovani, donne, contadini e lavoratori. Per la Terra non ci sono specie sacrificabili e non ci sono popoli sacrificabili. Tutti noi apparteniamo alla Terra. Per evitare future pandemie, carestie e un possibile scenario in cui le persone vengano considerate sacrificabili, dobbiamo andare oltre il sistema economico globalizzato, industrializzato e competitivo. La localizzazione lascia spazio alla prosperità delle diverse specie, delle diverse culture e delle diverse economie locali. Dobbiamo abbandonare l’economia dell’avidità e della crescita illimitata, basate sulla concorrenza e sulla violenza, che ci hanno spinto a una crisi esistenziale e passare a una “Economia della cura” – per la Terra, per le persone e per tutte le specie viventi».
I membri della coalizione planetaria firmatari dell’appello si impegnano infine a sollecitare ed esortare le autorità e i rappresentanti dei governi dei rispettivi paesi, città e comunità, a favorire il passaggio a un paradigma in cui la responsabilità ecologica e la giustizia economica siano il fondamento per la creazione di un futuro sano e prospero per l’umanità. A questo scopo, le organizzazioni indicano una serie di azioni per favorire la transizione fra cui la protezione della biodiversità, l’impulso al biologico, la sospensione dei sussidi pubblici all’agricoltura industriale con la contestuale promozione dell’agroecologia e delle produzioni locali, la fine del sistema delle monocolture, delle manipolazioni genetiche e degli allevamenti intensivi di animali, il contrasto ai cambiamenti climatici e la tutela della sanità pubblica.

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Foto tratta dalla pagina Facebook di Navdanya International

Dichiarazioni:

Vandana Shiva, Navdanya International: «Un approccio sistemico all’assistenza sanitaria in tempi di crisi del Coronavirus non si occuperebbe solo del virus, ma anche di come le nuove epidemie si stanno diffondendo mentre invadiamo le case di altri esseri. È necessario affrontare il sistema alimentare industriale non sostenibile, antinaturale e malsano alla base dell’epidemia di malattie croniche non trasmissibili. I sistemi alimentari globalizzati e industrializzati diffondono le malattie. Le monocolture diffondono le malattie. La deforestazione diffonde malattie. L’emergenza sanitaria ci costringe a deglobalizzare e dimostra che, se c’è la volontà politica, possiamo farlo. Rendiamo permanente questa deglobalizzazione e la transizione verso la localizzazione».
Fernando Cabaleiro, Naturaleza de Derechos – Argentina: «Questa pandemia ci dice che il sistema di accaparramentoaccumulazione che governa le economie mondiali, e con esse la vita, la salute della terra e delle persone e della biodiversità, ha raggiunto il suo punto di svolta: la sua elevata vulnerabilità è stata esposta dimostrando che è giunto il momento che la politica ascolti tutte le organizzazioni, le assemblee, le persone, i contadini e le popolazioni indigene che da ogni angolo del pianeta già denunciavano e mettevano in guardia da disastri di questo tipo. In questa Giornata della Terra, la società civile globale si unisce in un unico grido di speranza».
Nnimmo Bassey, Health of Mother Earth Foundation (Homef) – Nigeria: «Il mondo è a un bivio. Questo è il momento di smettere di bruciare il Pianeta, dobbiamo lasciarci alle spalle l’era dei combustibili fossili, riconoscere i diritti della Madre Terra e punire l’ecocidio in tutte le sue forme».
Patrizia Gentilini, Isde – Italia: «Non possiamo continuare ad illuderci di essere sani in un mondo malato: la pandemia ha mostrato tutta la fragilità di un sistema predatorio, iniquo e violento nei confronti delle persone e del Pianeta. Tanto meno possiamo pensare di uscire dalla crisi sanitaria, economica e sociale rimanendo ancorati o addirittura prigionieri dello stesso modello di sviluppo e di consumo che ci ha portato ad essa e dobbiamo capire che neppure la tecnologia ci salverà, perché sarà utilizzata non per renderci più liberi, ma piuttosto sempre più schiavi, controllati e succubi. Da questa crisi possiamo uscirne più consapevoli e solidali, imboccando finalmente la strada giusta, ma anche purtroppo, peggiorando ulteriormente le cose e questo purtroppo vediamo profilarsi all’orizzonte».


Leggi e firma il Comunicato per la Giornata della Terra

Visualizza i firmatari

Fonte: https://www.italiachecambia.org/2020/04/giornata-della-terra-chiediamo-stop-deforestazioni-sostegno-agroecologia/

Laboratorio Linfa: l’impresa artigiana che recupera il legno usato

Recuperare e ridar vita al legno usato per realizzare mobili, allestimenti e installazioni anche per luoghi pubblici e attraverso la progettazione partecipata. Nato per iniziativa di alcuni giovani designer attenti all’ambiente, il Laboratorio Linfa è un’impresa artigiana che promuove l’economia circolare, l’educazione ambientale e la valorizzazione delle risorse e del territorio.

 “Noi siamo il risultato di una serie di imperfezioni che hanno avuto successo. (…) Sono le strutture imperfette a farci capire in che modo funziona l’evoluzione: non come un ingegnere che ottimizza sistematicamente le proprie invenzioni, ma come un artigiano che fa quel che può con il materiale a disposizione, trasformandolo con fantasia, arrangiandosi e rimaneggiando”
Da “Imperfezione. Una storia naturale” di Telmo Pievani

Tutto ha inizio nel ritiro del materiale: mobili vecchi, serramenti, imballaggi, scarti di produzione. Ogni oggetto, che di solito non è nato con il criterio sostenibile di essere facile da disassemblare, viene smantellato e ogni suo materiale correttamente differenziato. Questa fase è difficile e lunga, se si vuol salvare quanto più legno possibile. Successivamente inizia la fase di recupero delle qualità estetiche e funzionali, le vere e proprie lavorazioni di falegnameria e tarsia; il criterio è sempre quello del minimo scarto, che prevale ed essenzialmente fissa i parametri estetici del manufatto. L’uso di colle, e quindi di sistemi di fissaggio permanenti, è minimizzato; tutto, anche l’energia consumata dagli utensili, va nella direzione dell’efficientamento e del minimo impatto. Si conclude con i trattamenti di finitura, operati con cere naturali e mai sostanze tossiche; in questo modo ogni loro opera potrà essere un giorno smantellata e il legno riusato senza paura di inquinare, Mettere e togliere la cera, anche se può sembrare solo una citazione, è l’operazione che ridona vita al materiale; le venature, i pori così come i colori tornano splendere. É l’olio di gomito, e non le innovative vernici “protettive”, a fare la differenza.

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È questo il ciclo di lavoro che si svolge quotidianamente nel Laboratorio Linfa, un’impresa artigiana che progetta e produce mobili di design, allestimenti e installazioni, impiegando legno usato quindi, non abbattendo alberi. Il laboratorio nasce nel 2004 come gruppo informale, dall’incontro di alcuni giovani designer preoccupati per le conseguenze che il proprio lavoro avrebbe avuto sull’ambiente. Scelgono così di progettare oggetti a basso impatto e sistemi comunicativi che sensibilizzano l’uomo all’adozione di principi ecologici. Attualmente Laboratorio Linfa conta due laboratori artigianali, uno a Orte, in provincia di Viterbo, e l’altro a Montemarciano, in provincia di Ancona, gestiti rispettivamente da Luigi Cuppone e Raul Sciurpa. Grazie anche all’insegnamento in scuole di design, come l’ISIA e lo IED di Roma, il Poliarte ad Ancona, tentano di diffondere le buone prassi ecologiche ed economiche alle nuove generazioni. Hanno instaurato ottimi rapporti con enti pubblici e imprese virtuose, e le attività partecipate di green thinking da loro intraprese in questi anni hanno permesso di costruire una rete capillare di avamposti collaborativi sul territorio nazionale. Laboratorio Linfa si occupa anche di grafica e comunicazione; elabora contenuti per allestimenti e prodotti editoriali e di comunicazione riguardanti i temi della sostenibilità. Per l’impegno nel settore dell’ecodesign, nel 2014 è stato premiato dalla Commissione europea con il primo premio per l’Italia, consegnato dall’allora commissario europeo all’ambiente Janez Potocnik.

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Sul fronte dell’economia circolare, obiettivo primario di Laboratorio Linfa è innescare circuiti virtuosi sostenibili: reintegrare materiali di scarto, provenienti da aziende locali e privati, in nuove catene produttive. Linfa lavora in upcycling, ossia seguendo processi artigianali che puntano a donare maggior valore al materiale. L’estetica delle sue creazioni è subordinata alla funzione e alle risorse disponibili; una sorta di «adattamento», come il comportamento che l’uomo dovrebbe assumere nei confronti della Terra. Si punta quindi a ridurre l’impronta antropica con oggetti duraturi, realizzati con il minimo sfrido e che stoccano CO2. Laboratorio Linfa ha una forte propensione a lavorare per luoghi pubblici, come musei, parchi, biblioteche, coworking. Attraverso la progettazione partecipata o affiancando le pubbliche amministrazioni, si producono allestimenti in grado di testimoniare l’impegno verso un cambiamento culturale e di maggior attenzione per l’ambiente. Un esempio è il Centro di documentazione del SAC – Sistemi ambientali e culturali di Andrano, in provincia di Lecce, sviluppato in progettazione partecipata; qui, agli arredi si affiancano le installazioni, che raccontano il territorio e il suo capitale naturale. Particolare attenzione è posta anche al mondo dei bambini, dagli arredi ai giochi. Sul piano dell’estetica, le installazioni dedicate ai più piccoli sono un modo per spezzare il ritmo dagli arredi convenzionali, un modo per uscire da schemi compositivi archetipici e poco creativi.

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Per potenziare le iniziative no-profit, Luigi Cuppone e Raul Sciurpa, hanno fondato anche l’associazione di promozione sociale, culturale e ambientale Linfa, che coinvolge dal 2008 centinaia di giovani motivati alla difesa della natura. Realizzano azioni capaci di valorizzare il territorio secondo i principi della sostenibilità, attraverso workshop di ecodesign gratuiti e percorsi di educazione ambientale in scuole e università. Nei workshop i ragazzi sono invitati a progettare e realizzare mobili, giochi, installazioni, utilizzando materiali di recupero. Queste iniziative sono itineranti, si svolgono ogni anno in un luogo diverso, in aree verdi pubbliche dove si allestisce un’esclusiva falegnameria en plain air, una cucina da campo, tende e docce, per vivere una settimana full-immersion tra design ed ecologia. Grazie ai giovani che hanno partecipato a una o più edizioni del workshop, questa best-practice si è diffusa in modo esponenziale in piazze importanti, come: Torino, Verona, Pescara, Perugia, Terni, Latina, Bari, Roma, Rio de Janeiro, in piazze scomode come Rosarno (Rc) e in piazze piccole come: Sannicola (Le), Morciano di Leuca (Le), Andrano (Le), Salisano (RI), Calcata (Vt), Montemarciano (An), Piticchio di Arcevia (An). Questo a significare che la strada del cambiamento va trovata con metodi e visioni globali, ma con applicazioni locali e integrate sui singoli casi.

Fonte: https://www.italiachecambia.org/2020/01/laboratorio-linfa-impresa-artigiana-recupera-legno-usato/?utm_source=newsletter&utm_medium=email