Tra i partecipanti Legambiente, Bike Pride, Fridays for Future, ISDE, Greenpeace, Ecoborgo Campidoglio: “Crediamo che la candidatura di Torino tra le 100 città europee che vogliono raggiungere la neutralità carbonica entro il 2030 debba essere resa credibile attraverso una serie di cambiamenti strutturali. Questo richiederà il coinvolgimento attivo di cittadini e cittadine, per questo abbiamo deciso di costituirci in Osservatorio per monitorare l’avanzamento delle azioni”
Il 10 novembre 2021, all’indomani dell’insediamento della nuova Giunta della Città di Torino, 22 associazioni e realtà della società civile hanno inviato una lettera al Sindaco e all’Assessora alla Transizione Ecologica proponendo un programma di azioni strategiche e di azioni di breve periodo da avviare o realizzare nei primi 100 giorni per affrontare efficacemente la crisi climatica ed ecologica. In questi 100 giorni alcuni rappresentanti delle associazioni firmatarie hanno avviato un confronto con l’Assessora Foglietta che ha portato a discutere in modo approfondito le proposte e altre iniziative avviate nel frattempo dall’Amministrazione comunale in tema di mobilità e tutela della qualità dell’aria e del clima.
L’Assessora ha confermato la disponibilità ad avviare le iniziative strategiche proposte:
una campagna di informazione sulla crisi climatica ed ecologica rivolta a cittadini/e;
l’adozione di un piano organico di riduzione delle emissioni climalteranti;
la convocazione entro la fine del 2022 di un’assemblea di cittadini/e.
“Prendiamo atto favorevolmente di questa disponibilità e restiamo in attesa di ricevere informazioni più dettagliate sulle loro modalità e tempi di realizzazione”, commentano le associazioni “Riconosciamo anche la determinazione di voler proseguire al completamento ed al potenziamento di alcune iniziative già avviate dalla precedente amministrazione, in materia di scuole car free – ossia strade davanti alle scuole chiuse al transito di veicoli a motore durante le ore di scuola -, le zone 30 km/h – con la richiesta di andare verso una città con velocità a 30 km/h – e mobilità ciclabile, destinando risorse aggiuntive e affrontando alcune problematiche che si erano già evidenziate”.
Le associazioni hanno però anche evidenziato alcune criticità legate a decisioni che rischiano di allontanare la Città di Torino dal raggiungimento degli obiettivi di decarbonizzazione, come il ritardo nel ripristino della ZTL e di un’assenza per ora di un progetto più efficace di quello attuale, l’inefficacia delle misure di lotta alle emergenze smog, la decisione di eliminare il limite di 20 km/h nei controviali, l’annuncio di voler costruire ulteriori infrastrutture stradali e la difficoltà ad abbandonare progetti destinati a creare ulteriori emissioni e consumo di suolo per far posto a nuovi centri commerciali.
“Crediamo che la candidatura di Torino tra le 100 città europee che vogliono raggiungere la neutralità carbonica entro il 2030 debba essere resa credibile attraverso una serie di cambiamenti strutturali in tutti i settori, che guardino contemporaneamente alla giustizia sociale e alla giustizia climatica. Questo richiederà il coinvolgimento attivo di cittadini e cittadine, per questo abbiamo deciso di costituirci in Osservatorio permanente, per monitorare l’avanzamento delle azioni che abbiamo proposto e più in generale le politiche di decarbonizzazione della Città di Torino e fornire il nostro contributo di idee e competenze. A questo proposito abbiamo rivolto un invito a unire le forze ai docenti e ricercatori delle Università torinesi che hanno recentemente espresso con una lettera aperta all’Amministrazione comunale preoccupazioni analoghe alle nostre, e rivolgiamo un analogo appello alle altre forze della società civile ad unirsi a questa iniziativa”.
Comitato Torino Respira
Fiab Torino Bike Pride
Fridays For Future Torino
Legambiente Piemonte e Valle D’Aosta
Sottoscritto da:
Comunet Officine Corsare
Donne per la difesa della società civile
Ecoborgo Campidoglio Aps
Fiab Torino Bici & Dintorni
Fiab Val di Susa Biketrack
Greenpeace – Gruppo Locale di Torino
Greentoso a.s.d.
IMBA Italia (International Mountain Bicycling Association)
ISDE Torino
Associazione Laqup APS
Legambiente L’Aquilone
Legambiente greenTO
Legambiente Metropolitano
Legambiente Molecola
Legambiente Protezione Civile Piemonte
SEQUS – Sostenibilità EQuità Solidarietà Circolo di Torino “Piero Gobetti”
Una start-up innovativa italiana legata a una multinazionale spagnola ha lanciato l’acqua in brick tetrapack, promuovendo l’iniziativa come un passo avanti verso la sostenibilità. Ecco la posizione di alcune associazioni che da anni si occupano di riduzione dei rifiuti, che sottolineano come questo prodotto vada contro ogni principio di circolarità e reale riduzione dell’impatto ambientale. Si sta diffondendo anche in Italia l’acqua in brick. “Acqua di mucca?”. “Acqua artificiale?”. “Succo di acqua?”, si chiedono i bambini stupiti mentre maneggiano il contenitore. L’Acquainbrick, della multinazionale spagnola LY Company Group, è davvero “La risposta ecologica al cambiamento”, come si legge nella trionfalistica campagna pubblicitaria con un greenwashing spinto al massimo?
Questi purtroppo sono i frutti avvelenati che abbiamo prefigurato e denunciato per tempo delle campagne “Plastic free” che si concentrano solo su eliminazione della plastica e non sullo sviluppo di alternative migliori, riusabili e con vuoto a rendere. Messaggi fuorvianti e diseducativi che mettono in ombra tutto lo sforzo fatto finora da Comuni, associazioni e scuole per invitare le persone a bere acqua del rubinetto, alla spina: ricordiamo la campagna l’”acqua del sindaco”, la campagna “imbrocchiamola” per chiedere che anche ristoranti e bar servano acqua in caraffa, ricordiamo i tanti progetti di sensibilizzazione nelle scuole, con le borracce regalate ai bambini e ai ragazzi, oggi sostituite dall’acqua in brick. Sappiamo che a Marradi, dove ha sede l’unico impianto italiano di imbottigliamento, l’azienda sta fortemente pubblicizzando l’acqua in brick regalando migliaia di brick al Comune e che sono previste attività nelle scuole. Questa estate Acquainbrick è stata scelta come “acqua ufficiale” per tutti i bambini e i ragazzi che hanno partecipato ai campus di Milanosport: “A tutti i piccoli ospiti dei campus vengono dati in dotazione due brick in versione Splash, per dissetarsi nel corso della mattina e del pomeriggio”.
Con quale messaggio? Ora la borraccia non va più di moda? W l’usa e getta? Dovremmo insegnare ai ragazzi che il cambiamento passa dalla riduzione dei rifiuti, non dalla sostituzione di un contenitore inquinante – in plastica – con uno potenzialmente ancora più inquinante in tetrapak, come avviene con l’acqua in brick.
“Scegliamo l’acqua in contenitori di cartone e ci impegniamo in modo responsabile, sostenibile e trasparente a costruire un pianeta migliore”, si legge ancora nel sito. Cartone? Anche i bambini sanno che l’acqua scioglie il cartone. Non è quindi cartone, è tetrapak, un poliaccoppiato composto da tre strati: cartone, plastica e alluminio, la cui modalità di smaltimento varia da Comune a Comune: il 28% dei Comuni italiani, come ammette anche il sito, non prevede neppure modalità di riciclaggio e quindi il brick finisce nell’indifferenziata. Un riciclaggio che implica procedimenti complessi e dispendiosi di energia e non tutto il materiale poi viene effettivamente riciclato. A questo si aggiunga il tappo, che in una percentuale “alta” deriva da fonti vegetali – canna da zucchero, dichiarata sostenibile. Ammettendo che la canna da zucchero sia sostenibile, il trasporto dall’altro capo del mondo a noi, per fare un tappo, è davvero così sostenibile? C’è davvero bisogno di questo viaggio e della relativa emissione di CO2 per bere la stessa acqua che sgorga dai nostri rubinetti?
Ma non tutti hanno l’acqua buona, si dirà. Su questo ci sono tantissimi pregiudizi, perché di fatto l’acqua dell’acquedotto è sempre potabile, controllata, oligominerale, i dati sono trasparenti e pubblicati sui siti comunali. Anche ammettendo che l’acqua che sgorga direttamente dal rubinetto non sia “gradevole”, si possono utilizzare filtri e purificatori oppure comprare acqua da bottiglie di vetro vuoto a rendere.
“Sempre meglio il tetrapak della plastica”? Non proprio. Se siamo in ambito di raccolta differenziata e riciclo, è decisamente meglio la plastica PET del tetrapak, poiché polimero di valore e riciclabile. L’UE ha imposto l’obiettivo del 90% di raccolta differenziata della plastica e farà introdurre i sistemi di deposito cauzionale a cui il tetrapak sfugge. Il tetrapak si ricicla male – per questo paga addizionale CAC di 20 euro/t a COMIECO – e solo quattro cartiere in Italia sono in grado di recuperarne la carta.
Rimane infine il problema del 30% di plastica e alluminio, con cui si può fare ecoallene, che non ha molto mercato. All’inefficienza operativa conclamata del riciclo del tetrapak, l’acqua in brick contrappone un “progetto di ricerca” sicuramente interessante, ma prima di inondare i Comuni con i brick, non sarebbe meglio attendere i risultati della ricerca stessa?
Noi continuiamo a sostenere che il riciclo è l’ultima scelta per la sostenibilità: occorre infatti ridurre a monte i rifiuti, non solo chiudere il cerchio, ma ridurre il diametro del cerchio. Non dobbiamo combattere solo la plastica, ma la cultura dell’usa e getta che sta contribuendo a distruggere l’ecosistema. E l’acqua in brick non ci aiuta.
Uno spazio di cooperazione e innovazione che
promuove le condizioni per la ricerca, l’educazione e la pratica del vivere
sostenibile. Passa per la Slovenia il secondo di sette appuntamenti con alcune
tra le più importanti comunità intenzionali d’Europa. Le interviste sono state
realizzate durante la conferenza europea degli ecovillaggi che si è svolta dal
14 al 17 luglio scorso in Toscana. L’ecovillaggio Sunny Hill è situato
nell’incantevole borgo di Hrvoji, nell’Istria slovena, a meno di un’ora da
Trieste e a poco più di mezz’ora da Capodistria. “È uno spazio di cooperazione
e innovazione la cui missione è creare la giusta atmosfera per la ricerca,
l’educazione e la pratica del vivere sostenibile.” Ce lo dice Nara Petrovic,
fondatore dell’ecovillaggio nel 2014 insieme ad altri 5 pionieri da lui
conosciuti attraverso forum ecologisti.
Nara Petrovic
racconta Sunny Hill (sottotitoli in italiano disponibili)
L’idea è nata quasi
per gioco. Alzi la mano chi non ha mai fantasticato di mettere insieme qualche
decina di migliaia di euro insieme ai propri amici per comprare un piccolo
borgo da ristrutturare e diventare il più possibile autosufficienti. Ecco,
la differenza è che Nara e i suoi amici non stavano scherzando. E così oggi,
attraverso la cooperativa “Sunny Hills of Istria”,
sono proprietari di un edificio di 200 anni da loro stessi ristrutturato. Un
contenitore che ha la funzione di mostrare, a chiunque passi per quel luogo
magico, le più interessanti soluzioni per ridurre gli sprechi e l’impatto
sull’ambiente attraverso l’uso integrate di conoscenze tradizionali e
tecnologia. Un’opera di ristrutturazione e di “rigenerazione” del borgo dove si
sono insediati che non è affatto terminata, visto che dopo l’edificio
principale hanno iniziato a ristrutturare anche quelli circostanti.
Nara è piuttosto
conosciuto in Slovenia. Nel 2009 ha infatti lanciato l’evento “puliamo la
Slovenia in un giorno”, cui hanno aderito circa 200mila suoi connazionali che
hanno ripulito 20mila tonnellate di rifiuti dalle strade e dalle discariche
abusive delle maggiori città del Paese in uno stesso giorno. Da allora vive e
cammina scalzo, che è solo la più visibile delle scelte radicali che ha fatto
per avvicinarsi alla natura. Sul suo stile di vita ha scritto più di un libro,
sono stati girati due documentari ed è spesso invitato a divulgare le sue
ricerche a seminari e conferenze in tutto il paese. Nonostante ciò, Nara
rifiuta categoricamente il ruolo di leader spirituale o quello di figlio dei
fiori. È semplicemente un fautore della semplicità volontaria, o downshifting.
Tutto ciò non deve far pensare a Sunny Hill come un luogo privo di qualsiasi
comodità. Al contrario, essendo una comunità formata da circa 15 membri,
diventa persino più facile permettersele, e senza dipendere da lavori ed
apporti monetari esterni. Il principio di base, comune a tutte le comunità
intenzionali, è infatti quello della condivisione. “Quando condividi con
altre persone spazi, mezzi di trasporto, utensili, apparecchi ad alta
tecnologia, ripari e ricicli tutto il possibile, autoproduci il tuo cibo e una
buona parte dell’energia che ti occorre, puoi diminuire drasticamente la
quantità di denaro di cui necessiti per vivere con agio. È in questo modo che
noi riusciamo a vivere quella che noi chiamiamo la semplicità lussuosa”, ci
dice.
A Sunny Hill
si organizzano eventi, workshop e raduni, viene offerto supporto a tutti coloro che vogliono
adoperarsi per effettuare la transizione verso una vita più consapevole degli
effetti delle nostre azioni sull’ambiente, sugli altri umani e sulle
altre creature viventi. Inoltre il piccolo borgo istriano ospita volontari,
“volonturisti” (come li chiamano loro) e iniziative come il programma europeo
per la formazione sul campo Erasmus+, l’incubatore per ecovillaggi CLIPS e molte altre. Inoltre, è membro delle rete europea
degli ecovillaggi GEN Europa, di ECOLISE e di altri network.
Per entrare in
contatto con l’ecovillaggio basta scrivere a sunnyhill.slovenia@gmail.com.
Incarna lo spirito della guerriera, combatte
contro la povertà globale e sostiene le lotte per il diritto alla salute delle
persone in tutto il mondo, denunciando le multinazionali che avvelenano il cibo
e rendono sterile il suolo. Ecco la nostra intervista all’attivista indiana
Vandana Shiva, esperta mondiale di ecologia sociale. Incontriamo Vandana Shiva a Roma il 7 e l’8
marzo. Conoscerla di persona in questa data dedicata al femminile sembra
una coincidenza interessante. Questa donna indiana, laureata in Canada in
Fisica, da quasi 40 anni sta portando avanti un movimento internazionale contro
la povertà globalizzata, promuovendo in tutto il mondo sistemi di ecologia
sociale basati su alternative agro-ecologiche rispettose della biodiversità,
della salute e della dignità dei popoli. Lo fa dirigendo diversi centri
scientifici, interessandosi di bioetica, biotecnologie e ingegneria genetica e
in qualità di presidente di Navdanya – il braccio operativo di Vandana in India
– e di Navdanya International, la onlus che sostiene le lotte delle comunità per il
diritto ad una alimentazione sana, all’autodeterminazione e alla cura del
pianeta in tutto il mondo.
Alcuni stati e
regioni del mondo stanno già portando avanti quest’alternativa basata
sull’agricoltura biologica e sulle economie locali, capace di proteggere i
territori e la biodiversità. Le comunità hanno infatti un ruolo centrale nel contrastare
le lobby della chimica e dell’agro-industria, per questo è necessario che
conquistino strumenti di democrazia reale. Solo sistemi agro-alimentari sani
possono liberarci dalla povertà, combattere i cambiamenti climatici e
promuovere la salute di tutti. L’occasione della sua presenza a Roma è quella
della presentazione e partenza del “Tour di mobilitazione per un cibo e
un’agricoltura senza veleni” che ha toccato varie località italiane, da Campobasso
a Bassano del Grappa, Bolzano, Malles, Trento e Torino. Un viaggio e tanti
eventi in occasione dei quali Vandana ha incontrato esempi concreti di buone
pratiche, testimonianze di come non solo sia possibile, ma addirittura più
efficiente e conveniente produrre e consumare senza ricorrere a sostanze
chimiche velenose. Ma ha anche potuto constatare l’estensione e l’impatto delle
monocolture intensive sulle comunità del nostro paese, incontrando i tanti
cittadini che stanno facendo rete contro questa deriva tossica e contro lo
sfruttamento del territorio.
Foto tratta dalla
pagina Facebook di Navdanya International
Risuonano le parole
che Vandana Shiva ha pronunciato al fianco di Don Ciotti nella tappa torinese:
“Se siamo seri, quando diciamo di voler mettere fine alla povertà allora
dobbiamo mettere fine ai sistemi che creano la povertà derubando i
poveri dei loro beni comuni, dei loro stili di vita e dei loro guadagni. Prima
di poter far diventare la povertà storia dobbiamo considerare correttamente la
storia della povertà. Il punto non è quanto le nazioni ricche possono dare, il
punto è quanto meno possono prendere”.
In questo contesto,
la Campagna internazionale di Navdanya International Per un’alimentazione e
un’agricoltura libera da veleni si propone di sviluppare un movimento
globale coeso per un cambiamento del paradigma produttivo. I cittadini italiani
e di tutto il mondo sono pronti per una transizione basata su un modello
economico che garantisca tutti un’alimentazione nutriente, sana, che non
faccia esclusivamente gli interessi delle grandi multinazionali
dell’agrobusiness e della grande distribuzione organizzata.
“Penso che l’Italia
e l’India siano due civiltà che hanno riconosciuto che il cibo è centrale
e che hanno riconosciuto che il cibo è cultura, ecologia, che il cibo è eredità
e tradizione, che il cibo riguarda come gestisci la terra e il cuore di un
territorio, il cibo è identità”, ci dice Vandana. “Quindi il punto di partenza,
sia per l’Italia che per l’India, è molto ‘alto’, ma c’è un’aggressione globale
ai sistemi alimentari e alle colture, attraverso la produzione di prodotti
tossici e fraudolenti causati dall’utilizzo di pesticidi, che vede i piccoli
produttori, così come le api, come nemici da sterminare. E vede inoltre le
economie locali basate sulla sovranità come una minaccia. Tutto questo dovrebbe
farci riflettere sul sistema alimentare globale che è stato creato, considerato
che anche in Italia l’impatto economico globale è molto alto.
C’è un’economia
globalizzata, distorta e disonesta, che è sotto il controllo di compagnie
tossiche come Cargill, che scarica fertilizzanti tossici che distruggono la
pasta italiana, oppure delle aziende che trasformano il cibo buono che cresce
nei nostri campi in rifiuti tossici come la Nestlè, la Coca Cola e la Pepsi, le
compagnie chimiche come Yara e le grandi multinazionali come Walmart, Amazon e
Carrefour che lavorano insieme e si fanno chiamare ‘Fresh Alliance’. Loro
vogliono la fine del cibo fresco. Quindi ci troviamo a fronteggiare una
minaccia comune che è ormai ovunque. Ma Italia e India hanno molto da perdere
perché hanno di più”.
Vandana Shiva
incarna lo spirito della guerriera, combatte contro la povertà globale,
sostiene le lotte al diritto alla salute delle persone in tutto il mondo
denunciando le multinazionali che avvelenano e rendono sterile il suolo.
Proprio dal cibo, dal sistema agroalimentare si possono rigenerare i
territori e le comunità. E nella rigenerazione del suolo, nel ritrovare la
fertilità della terra, le donne possono giocare un grande ruolo: “Il
primo ruolo delle donne è non mollare mai. Abbiamo un’intelligenza che solo noi
conosciamo. In India è nato un grande movimento di non-cooperazione contro il
sistema alimentare distruttivo, fatto dalle donne che dicono ‘noi sappiamo
cos’è il buon cibo e non vi lasceremo cancellarlo e criminalizzarlo. Non
permetteremo che un’economia distruttiva ci nutra con cibo spazzatura,
avvelenato e tossico’.
Foto tratta dalla
pagina Facebook di Navdanya International
Non solo le donne
hanno una buona conoscenza del cibo, ma sanno anche che la vita è intelligente,
che ogni cellula del nostro corpo è intelligente. Quando si perde
l’intelligenza si perde la capacità di autoregolazione e arriva il cancro. Il
cancro non è altro che una malattia derivante dal collasso del processo
regolatore del nostro corpo. Stiamo uccidendo la capacità delle nostre cellule,
dei nostri batteri, del nostro corpo, della terra di regolare sé stessa. Le
donne hanno questa conoscenza, anche se è spesso attaccata da un sistema
antiscientifico che dichiara che la natura è morta e le donne sono ignoranti,
ma il sistema antiscientifico non è stato in grado di uccidere la vera
conoscenza e ciò che le donne hanno appreso nel corso dei secoli e che la
scienza adesso valida: che l’ecologia è la scienza della relazione e ciò che
danneggia la terra danneggia il nostro corpo. Qui è dove abbiamo una
connessione con la rigenerazione. La rigenerazione della salute delle donne,
dei bambini, della terra è anche la liberazione delle donne, che deve andare
avanti e non può essere separata dalla liberazione della terra.
La nostra intervista
a Vandana Shiva presso la Casa delle Donne di Roma
Le crisi dei
rifugiati, dei cambiamenti climatici, della sovranità alimentare e della salute
globale dipendono dalle comunità agricole, dalle economie locali, dal sistema
di produzione di cibo e dalla gestione delle sementi che ormai sono in mano a
pochissimi. Infatti sono quattro gruppi industriali (Monsanto, Bayer, DuPont,
Dow Chemical) che controllano il monopolio mondiale della chimica e delle
sementi. Ingegnerizzando, e quindi brevettando, semi e piante si detiene
il potere sulla vita del pianeta e sulla libertà dei popoli”.
L’esperta mondiale
di ecologia sociale denuncia che queste sono battaglie di democrazia. Il principio
di sussidiarietà è il diritto di poter scegliere le priorità per la tutela
dei propri diritti. “Bisogna decolonizzare corpi e cervello, essere capaci di
pensarsi liberi. La libertà ha a che vedere con il ristabilire le relazioni di interdipendenza
tra noi, il cibo, l’agricoltura e il pianeta. Siamo cicli di una rete alimentare,
si dà e si riceve. La terra va protetta, custodita e ringraziata”.
Intervista e riprese: Daniela
Bartolini e Annalisa Jannone
Montaggio: Paolo Cignini
Un’area di incubazione artistica, ecologica e
sportiva in cui i cittadini, giovani ma non soltanto, possano aggregarsi ed
esprimersi con lo scopo di realizzare i propri talenti, apprendendo e diffondendo
buone pratiche. È questo l’obiettivo di Eclettica, centro polifunzionale di
Caltanissetta composto di spazi aperti e chiusi che è stato riqualificato dopo
15 anni di degrado. Fino a diventare uno dei più innovativi progetti di
coesione urbana e sociale presenti oggi in Sicilia.
“Eclettica è un
polmone urbano e sociale. No, anzi, un centro di aggregazione. No, aspetta,
rifacciamola. Eclettica è una piattaforma. Anzi, un’oasi. Meglio, una fucina.
No, scusa, rifacciamola ancora.” Inizia più o meno così la nostra intervista ad
Alessandro Ciulla, presidente di Eclettica, associazione sportiva e di promozione sociale di
Caltanissetta. Ma è colpa nostra, che gli abbiamo fatto questa domanda
nonostante di questa divertente indecisione Alessandro ci aveva avvertiti fin
da subito. “Non mi vorrete domandare cos’è Eclettica, vero? No, perché non lo
so nemmeno io”, aveva scherzato appena dopo averci stretto la mano. Un’indecisione
perfettamente giustificabile, però, vista la quantità di significati sociali
che riveste questo progetto nel tessuto urbano della città nissena.
L’associazione, infatti, non ha soltanto ristrutturato una vecchia pista di
pattinaggio abbandonata da 15 anni, ma ha cambiato completamente, a tempo
di record e senza alcun finanziamento pubblico, i connotati di un’area di 3mila
metri quadrati vicina al centro storico che era diventata una piazza di spaccio
e uno dei luoghi più degradati della città, trasformandolo in uno spazio verde
polifunzionale.
È la fine del 2015
quando Alessandro, insieme a Federica, Silvia e Francesco – età media 27 anni,
tutti di ritorno da esperienze di studio e lavoro fuori dalla Sicilia – vincono
il concorso di idee “Boom Polmoni Urbani” promosso dal Farm Cultural Park di Favara (AG) e dal Movimento 5 Stelle Sicilia, che
metteva in palio 120mila euro in tre anni (soldi in gran parte provenienti
dalla decurtazione volontaria degli stipendi dei deputati regionali del M5S)
per tre progetti di riqualificazione urbana sul territorio dell’isola.
Il nome del progetto? Street Factory Eclettica.
L’associazione
viene costituita proprio per partecipare al bando. Aiutata dalle donazioni dei
cittadini nisseni che rispondono a un immediato appello pubblico da parte dei quattro
giovani, essa inizia da subito raccogliere risorse umane e materiali
(provenienti soprattutto dal riciclo) sufficienti a ripulire l’area, a
riqualificarla e ad aprirla al pubblico in meno di un anno, utilizzando solo la
prima delle tre tranche di finanziamento di 40mila euro previste dal bando e
destinando quindi le altre due tranche per le migliorie e gli ampliamenti degli
anni successivi.
Ma in cosa consiste
una street factory (letteralmente “fabbrica di strada”)? Alessandro alla
fine supera ogni reticenza nel cimentarsi in una sintesi, e ce lo dice. “Per
street factory”, chiarisce, “intendiamo un’area di incubazione artistica,
ecologica e sportiva, in cui i giovani possano esprimersi con l’obiettivo di
realizzare i propri talenti. Si tratta di un luogo in cui avvicinarsi allo
sport, all’arte, alla musica, agli eventi e alla socialità in un contesto di
legalità, dove le persone possono venire a studiare, giocare, dipingere,
rilassarsi, imparare e farsi sensibilizzare dalle buone pratiche che Eclettica
vuole promuovere: riciclo, sostenibilità, riduzione dei rifiuti, agricoltura
urbana ed economia circolare”.
Ecologia, arte e
sport sono dunque i tre rami convergenti
del progetto. “Il legame tra questi tre elementi è venuto fuori naturalmente”,
continua Alessandro, “sia perché il progetto è eclettico per natura, visto che
vuole abbracciare diversi ambiti, ma soprattutto perché la loro unione soddisfa
la possibilità di creare un’oasi urbana per il tempo libero che guardi alla
ricreazione, alla diffusione di buone pratiche, alla formazione.” Ecco perché,
mentre piccoli orti urbani crescono assieme al giardino botanico allestito in
loco, diversi artisti di strada – siciliani e anche internazionali – lasciano
segni del loro passaggio con l’obiettivo di nutrire il “giardino d’arte”
presente nei sogni di Alessandro e dei suoi compagni di avventura.
Ma è il ramo
sportivo quello che l’associazione considera principale e il fiore
all’occhiello del progetto. “Appena partiti abbiamo invitato i nostri
concittadini a venire per cimentarsi con i vari sport di strada che proponiamo,
primi fra tutti quelli rotellistici nel nostro skate-park (pattinaggio,
skateboarding, monopattino, overboard, hockey, mini-hockey), che qui a
Eclettica possono finalmente essere praticati in maniera sicura sia a
livello dilettantistico sia da chi coltiva il sogno di affacciarsi un giorno all’agonismo”.
Un invito che non è passato inosservato, stante i numeri raggiunti fin da
subito. Inaugurato a giugno del 2016, in soli 3 mesi Eclettica contava già 600
tesserati, ossia più dell’1% dell’intera popolazione di Caltanissetta, senza
considerare gli utenti non tesserati che usufruiscono della struttura. Intanto,
a distanza di quasi tre anni, il progetto si sviluppa e, oltre ai campi di
mini-basket e free-climbing realizzati nel frattempo, stanno per essere
inglobati nel progetto anche diversi terreni incolti contigui all’impianto,
alcuni dei quali sequestrati alla mafia. Lo scopo è quello di trasformare
questi terreni in orti urbani e di rifornire la microfiliera produttiva
che sta già dando i suoi frutti, visto che i primi prodotti degli orti sono
serviti a rifornire i vicini ristoranti del centro storico di Caltanissetta.
“Più chilometro zero di così…”.
Come trascurare,
poi, l’indotto sociale sui quartieri limitrofi, a cominciare dalla
partecipazione dei pensionati del quartiere, coinvolti in qualità di
sorveglianti e di diffusori di saperi? Una valenza sociale sottolineata ancor
più dal fatto che la Street Factory Eclettica è fruibile a condizioni
estremamente vantaggiose proprio per consentire l’accesso anche alle fasce di
popolazione più disagiate. Se per la parte sportiva è stata prevista
un’assicurazione annua per i tesserati e un contributo di appena 1 euro per
poter entrare senza limiti di tempo sugli impianti (e di 1 altro euro per
l’eventuale noleggio delle attrezzature sportive), tutto il resto della
struttura e, difatti, accessibile gratuitamente. Oltre agli impianti
all’aperto, Eclettica oggi dispone di sale chiuse quali spogliatoi, snack bar e
una sala attività in grado di produrre un reddito minimo per la struttura, che
si regge sostanzialmente sul lavoro volontario dei membri dell’associazione e
di tutti coloro che danno una mano. Proprio la sala attività, attrezzata di
impianto audio e video, è uno dei vanti di Alessandro: “È a disposizione non
solo degli utenti ma anche di altre associazioni alle quali la carenza di spazi
in città non permette di riunirsi e di alimentare la propria capacità
progettuale”. Già, perché ad Eclettica chiunque può utilizzare la sala per
corsi, presentazioni, seminari, prove per musicisti, riunioni di comitati. “Una
cosa che procura anche lavoro e reddito a coloro i quali si impegnano per
organizzare le iniziative che mantengono viva e dinamica la città”.
Approda in Italia, nel
prossimo mese di luglio, la Conferenza Europea degli Ecovillaggi (GEN eu) per
il 2019. L’appuntamento è alla Comune di Bagnaia, comunità attiva da tempo in
Toscana.
L’edizione del 2019
della Conferenza Europea degli ecovillaggi (GEN eu) si terrà in Italia e
per la precisione alla Comune di Bagnaia, comunità da tempo attiva in
Toscana.
Si tratta del
raduno annuale aperto a chi vive in ecovillaggio, a chi sogna di viverci e
anche a chi sente affinità con il movimento e per il ritrovo i partecipanti
provengono da tutta Europa e da tutto il mondo.
Dopo alcune
edizioni in svariate nazioni del mondo, l’importante momento di confronto e
condivisione delle esperienze torna quindi nel nostro paese, facendo cadere la
scelta su un luogo particolarmente significativo per la realtà dell’abitare
condiviso. La Comune di Bagnaia ONLUS è una comunità intenzionale attiva da
molto tempo in Toscana e «non ha mancato di ispirare nel tempo numerosi
ecovillaggisti, fautori del cambiamento, ricercatori e cittadini del mondo da
tutta Europa e oltre con le soluzioni innovative sperimentate giornalmente»
spiegano dalla Rive, la Rete Italiana degli Ecovillaggi.
Fondata nel 1979,
gli obiettivi principali di Bagnaia sono vivere in modo autosufficiente, avere
cura dell’ambiente e sostenere trasformazioni sociali positive attraverso la
pace e la giustizia sociale.
«Guidati da questi
valori, il raduno del 2019 porrà l’attenzione sulla partecipazione attiva,
l’azione e la solidarietà, così che possiamo restare uniti di fronte alle
grandi sfide del nostro tempo, rafforzati dalla nostra coesione nella
diversità» spiegano ancora dalla Rive.
E ancora: «Nutrendo
l’azione concreta attraverso un apprendimento pratico, la partecipazione e la
creazione di reti, intendiamo generare una reazione a catena che vada oltre il
raduno stesso, e che contribuisca alla costruzione di comunità e a una più
ampia guarigione, così da favorire l’avvento di quel mondo ideale a cui tutti
noi aspiriamo».
«La Conferenza
Europea degli Ecovillaggi è un evento realmente co-creato – spiegano i
promotori – il nostro programma attinge dalla saggezza di tutte le reti
di comunità associate e da tutti i movimenti collegati al GEN d’Europa e del
mondo. Coloro che parleranno e che terranno laboratori durante la
conferenza offrono le loro capacità in dono, per la creazione di quel mondo
ideale a cui tutti noi aspiriamo. Le tematiche che si intrecceranno nel
programma di quest’anno rappresentano tre valori particolarmente cari alla
Comune di Bagnaia Onlus: la pace, l’ecologia e la giustizia sociale. Il
programma metterà in mostra progetti, soluzioni e conoscenze che possano
ispirare un’azione concreta e un cambiamento duraturo in queste tre aree di
applicazione, sia all’interno degli ecovillaggi che nel mondo esterno».
PACE
La Comune di
Bagnaia Onlus ha una lunga tradizione di attività per la costruzione della
pace. «Verranno messe in gioco le esperienze di coloro che hanno dedicato le
loro vite a questa causa e insieme ideeremo delle strategie per creare una
cultura globale di pace» spiegano i promotori.
ECOLOGIA
«La conferenza cercherà
di onorare la Madre Terra e quel meraviglioso e misterioso universo che ci
sostiene e provvede per noi attraverso rituali, celebrazioni, pratiche
spirituali, insegnamenti e azioni concrete».
GIUSTIZIA SOCIALE
«Attraverso il
nostro impegno per la solidarietà internazionale, cercheremo di porci
interrogativi profondi sul nostro movimento e di diffondere trasformazioni
sociali positive che abbiano la giustizia sociale come base».
L’ecologia è «la scienza dell’insieme dei
rapporti degli organismi con il mondo circostante, comprendente in senso lato
tutte le condizioni dell’esistenza», scriveva nel 1866 il tedesco Ernst
Haeckel. Creando un nome e una scienza. Haeckel è morto nel 1919, un secolo fa.
E nel frattempo…
L’ecologia è «la
scienza dell’insieme dei rapporti degli organismi con il mondo circostante,
comprendente in senso lato tutte le condizioni dell’esistenza», scriveva nel
1866 il tedesco Ernst Haeckel. Creando un nome e una scienza.
Haeckel è poi morto nel 1919, cento anni fa. Un secolo dopo la sua scomparsa il
nome e soprattutto la scienza che ha inaugurato sono di stringente attualità. Il
nome ecologia è diventato di senso comune, quanto alla scienza è chiamata
ad affrontare il problema maggiore che l’umanità ha di fronte in questo secolo,
il suo rapporto con l’ambiente. Il nome ecologia, inventato da Haeckel,
deriva dal greco οίκος, che vuol dire casa. E ha la medesima radice
etimologica di economia. Che, in fondo, è la scienza della gestione della casa,
sia pure un po’ allargata. Per analogia, l’ecologia può essere definita come la
scienza della gestione dell’ambiente, che è la casa di tutti gli organismi
viventi.
Quanto al concetto scientifico, molti sostengono che l’ecologia non nasce nel
XIX secolo con la definizione e il progetto scientifico di Haeckel, ma nasce
già nel XVIII secolo, con l’idea cara a Carlo Linneo di «economia della
natura». La quale, come una madre, gestisce la casa comune assegnando a ogni
specie vivente il suo giusto posto, il giusto accesso al cibo, il giusto tasso
di crescita demografica. Nel quadro di quell’armonia insieme razionale e
provvidenziale con cui lei, la natura, crea e governa la rete di
interdipendenze tra le sue singole parti. In realtà già Aristotele aveva
prestato attenzione all’armonia della natura e, in particolare, all’armonia tra
le specie viventi. E, dopo Linneo, molti naturalisti si erano dedicati allo
studio delle catene alimentari e del controllo delle popolazioni biologiche.
Cosicché le radici culturali della scienza ecologica sono profonde e
ramificate. Tuttavia è solo nella seconda parte del XIX secolo che
l’ecologia può iniziare a essere o, almeno, a proporsi come scienza. Solo dopo,
cioè, che la scoperta delle grandi estinzioni di massa ha iniziato a minare
alla base l’idea provvidenziale di armonia della natura. E solo dopo che Charles
Darwin ha riformulato in termini dinamici e, per certi versi drammatici,
l’idea razionale di armonia della natura. Nella teoria darwiniana di selezione
del più adatto, infatti, la natura non è sempre una madre. In ogni caso la
natura non ha alcun fine. La casa comune dei viventi è in costante cambiamento.
E i rapporti tra le specie non sono solo di armonica interdipendenza, ma anche
di fiera competitività. In definitiva, nella teoria darwiniana le specie e
l’ambiente coevolvono alla ricerca perenne di un adattamento reciproco che è
cieco (non sa dove va) e non è mai concluso.
È a questa visione del tutto nuova della natura che Ernst Haeckel,
pioniere dell’evoluzionismo in Germania, fa riferimento quando inaugura
l’Oekologie, la scienza, appunto «dell’insieme dei rapporti degli organismi con
il mondo circostante, comprendente in senso lato tutte le condizioni
dell’esistenza». I lavori sul campo dei primi ecologi riguardano il rapporto
tra la fisiologia e geografia delle piante. Ma nasce subito una ecologia
teorica che si interroga sui fondamenti di questa disciplina. Partendo dal
presupposto che l’ecologia non è una semplice branca della biologia. John S. Burdon Sanderson, nel 1893, sostiene per esempio che l’ecologia
costituisce certamente, insieme alla fisiologia e alla morfologia, una delle
tre grandi parti in cui si divide la biologia. Ma l’ecologia si distingue dalla
fisiologia e dalla morfologia perchè rappresenta «la filosofia della natura
vivente».
Ecco, dunque, cosa
ha inventato Haeckel: una «filosofia della natura vivente».
Il 12 aprile del
1913, infine, nasce a Londra la prima società di ecologia, la British
Ecological Society. Gli studiosi di ecologia iniziano a formare una comunità
scientifica che si autoriconosce. Che propone i suoi modelli di interpretazione
della natura. Negli anni ‘20, per esempio, Alfred Lotka e Vito Volterra
propongono i primi modelli matematici per spiegare le relazioni tra prede e
predatori in natura. E Vladimir Vernadsky propone il primo modello di
ecologia globale: la Terra come casa comune di tutti gli organismi viventi e di
tutti i rapporti tra gli organismi viventi. Vernadsky considera la Terra come
un solo e inscindibile sistema ecologico. Tuttavia molto utile si rivela il
concetto limitato di ecosistema che, nel 1935 con un articolo sulla rivista
Ecology, introduce Arthur Tansley, definendolo come l’insieme degli
organismi viventi e delle componenti non biologiche necessarie alla loro
sopravvivenza in una certa area. Ora lo studio integrato delle componenti
biotiche e delle componenti abiotiche degli ecosistemi, siano essi grandi come
la foresta amazzonica o il deserto del Sahara, o piccoli come un laghetto di
montagna, è decisivo per comprendere la complessità irriducibile che
caratterizza i sistemi ecologici. Tuttavia è la scoperta delle dimensioni
globali dell’ecologia che pone questioni fondamentali alla scienza ecologica.
Questa scoperta, come abbiamo detto, va riconosciuta a Vladimir Vernadsky e,
dunque, risale agli anni ’20. Tuttavia, come rileva Eugene Odum, è solo
intorno agli anni ’60 che diventa un concetto diffuso, anche a livello di
grandi masse. La scoperta di massa dell’ecologia e dell’ecologia globale
coincide e fortemente dipende dalla constatazione che l’uomo è (anzi, è
diventato) un attore ecologico globale. Capace di influenzare non solo singoli
ecosistemi, ma l’intera ecosfera. È negli anni ’60, infatti, che i mezzi di
comunicazione di massa scoprono i primi problemi ecologici globali. Come, per
esempio, l’inquinamento radioattivo generato dagli esperimenti nucleari in
atmosfera. O come l’inquinamento chimico, denunciato come problema emergente e
globale nel 1963 da Rachel Carson con un fortunato libro, La primavera
silenziosa. Ed è, infine, nel 1968 che il biologo Paul Ehrlich pubblica il suo
libro, The Population Bomb, in cui dimostra che, tra i problemi
ecologici globali, c’è l’esplosiva capacità riproduttiva conseguita dalla
specie umana. Moltiplicandosi con un successo senza precedenti, l’uomo
rappresenta una minaccia per gli equilibri ecologici locali e globali. Negli
ultimi anni l’impronta umana sui cambiamenti del clima globale e sull’erosione
della biodiversità, un’erosione così rapida da indurre alcuni ecologi a parlare
di grande estinzione di massa, è stata riconosciuta non solo in termini
scientifici, ma anche in termini politici. Nella Conferenza sull’Ambiente e lo
Sviluppo organizzata dalle Nazioni Unite nel 1992 a Rio de Janeiro,
praticamente tutti gli stati della Terra si sono impegnati solennemente a
cercare di ridurre l’influenza umana sulla dinamica del clima e sulla dinamica
della biodiversità.
L’emergere dei problemi ecologici globali e della necessità di una politica ecologica
globale pone non pochi problemi all’ecologia, alla scienza della gestione
dell’ambiente. Il primo e, forse, il più immediato di questi problemi veniva
sollevato già nel 1978 da Paul Colinvaux. E consiste nel rischio che
l’ecologia si dimentichi, in qualche modo, di essere la scienza della
coevoluzione globale del mondo vivente e dell’ambiente che lo ospita e si
riduca a scienza dell’inquinamento. Tuttavia ci sono altri problemi teorici
connessi allo studio dell’ecologia globale. Perché questa visione dell’ecologia
si fonda su una constatazione inoppugnabile: l’uomo è una specie tra le
specie. E tuttavia questa constatazione, inoppugnabile, comporta delle
conseguenze. L’uomo e i suoi comportamenti, compresi quelli morali e politici,
l’uomo e la sua coscienza ecologica, sono parte dell’ecosistema globale e,
quindi, sono oggetto di studio da parte dell’ecologia. Questa conseguenza ne
genera, a cascata, molte altre. C’è, per esempio, un’esigenza di specificare
meglio cosa intendiamo per specie tra la specie. Perché non c’è dubbio che
l’uomo è una specie biologica come infinite altre e, in particolare, una specie
predatrice tra tante altre specie predatrici esistenti. Tuttavia vi sono ci
sono almeno due condizioni a contorno che rendono l’attività predatrice
dell’uomo diversa da ogni altra. La prima è che l’innovazione tecnologica
fondata sulle conoscenze scientifiche rende particolarmente efficace, come
rileva Jean-Paul Deleage, la sua opera di predazione. La seconda è che
l’uomo ha coscienza della efficacia enorme e della pericolosità della sua
attività predatrice. Sa che ha iniziato a tagliare il ramo su cui è seduto. E
che, se il ramo cade, egli stesso si farà male. Poche altre specie, nella
storia della vita, hanno avuto un’efficacia enorme nella dinamica ecologica
globale. E, in ogni caso, nessun’altra ne ha mai avuto coscienza. Ciò rende
l’ecologia una scienza davvero particolare. Molto diversa, per esempio,
dall’astronomia: che è una scienza fondata sull’osservazione di una parte
dell’universo su cui l’osservatore non ha praticamente influenza. Ma è molto
diversa anche dalla chimica: noi, infatti, possiamo conoscere e persino
sfruttare tecnologicamente le leggi chimiche. Non possiamo però modificarle. In
ecologia, invece, l’osservatore partecipa inevitabilmente all’esperimento che
osserva. Anzi, l’uomo mentre osserva la dimensione ecologica del mondo genera
una costellazione di feedback molto difficile da dirimere. Tutto ciò pone un
grande problema di obiettività. Nessun osservatore può essere obiettivo quando
osserva sé stesso. Inoltre, la dimensione ecologica del mondo coinvolge
l’esistenza stessa dell’uomo. L’organizzazione della sua società. L’ecologia
scientifica inaugurata da Haeckel è la presa di coscienza di questo
coinvolgimento. Cosicché l’ecologia scientifica è, inevitabilmente, ecologia
politica. E, quindi, economia politica. In definitiva possiamo legittimamente
chiederci che razza di scienza sia l’ecologia. Ma, quale che siano le opinioni
sul suo statuto epistemologico, abbiamo un bisogno sempre più impellente di
conoscere «l’insieme dei rapporti degli organismi con il mondo circostante,
comprendente in senso lato tutte le condizioni dell’esistenza». Perché tra
quelle condizioni dell’esistenza individuate da Haeckel ci sono anche le
condizioni di esistenza della specie umana. Specie biologica con un ruolo
sempre più globale. Ma pur sempre specie biologica, per la quale l’ecologia,
la «gestione della casa», è una questione di sopravvivenza.
Chi è Pietro Greco
Pietro Greco,
laureato in chimica, è giornalista e scrittore. Collabora con numerose testate
ed è tra i conduttori di Radio3Scienza. Collabora anche con numerose università
nel settore della comunicazione della scienza e dello sviluppo sostenibile. E’
socio fondatore della Città della Scienza e membro del Consiglio scientifico di
Ispra. Collabora con Micron, la rivista di Arpa Umbria.
Non molti se ne rendono conto, purtroppo. Ma la natura offre all’uomo una serie di servizi che hanno un enorme valore, ma non di mercato. Ci sembrano gratuiti. E tali li considerano, ancora una volta purtroppo, anche gli economisti che aderiscono alla scuola classica.
Ma gratuiti non lo sono affatto, perché quasi tutti i beni che la natura ci offre sono soggetti a depletion (esaurimento) e/o a pollution (inquinamento). Sentono l’impronta umana. È nostro interesse e, insieme, nostro dovere morale dare un valore ai beni della natura che sfuggono all’unico sistema di valutazione universalmente conosciuto o, almeno, concretamente applicato: il valore di mercato. Perché solo se ne riconosciamo il valore possiamo utilizzarli, quei beni della natura, in maniera sostenibile. Di recente gli economisti ecologici hanno trovato un metodo – perfettibile, per carità – per dare un valore ai beni della natura al di là di quello di mercato: lo chiamano willingness to pay (WTP), che potremmo tradurre in “disponibilità a pagare”. Quanti quattrini sei disposto a tirar fuori per una spiaggia pulita e per un’aria tersa e per fermare l’erosione della biodiversità e per contrastare i cambiamenti climatici? Chi studia il rischio sa bene quanto conti la sua percezione. Se noi percepiamo che una spiaggia sporca o un’aria inquinata o la perdita di biodiversità o i cambiamenti del clima sono un rischio, allora siamo disponibili a impegnarci per minimizzarlo. Il willingness to pay altro non è che un modo di quantificare la percezione del rischio o anche, se volete, a valorizzare i capitali della natura che non hanno un valore di mercato. Ebbene, molte analisi, sia teoriche che empiriche, hanno dimostrato che la willingness to pay, la disponibilità a pagare per un bene naturale che non ha mercato cresce con il reddito. Con il reddito familiare, per una persona singola. Con il Prodotto interno lordo per una nazione. Più si è ricchi, più si è disposti a pagare. Ma la disponibilità a pagare e a riconoscere un valore ai beni della natura che non hanno un valore di mercato, dicono da tempo gli economisti ecologici, non cresce indefinitamente con il reddito. Al contrario, tende asintoticamente a un valore soglia. Non è sorprendente. A tutte le cose attribuiamo un valore massimo, che dipende sì dal nostro reddito, ma non solo da esso. Per una bella giornata al mare siamo disposti a pagare molto, ma non più di tanto. Per la sicurezza di un nostro figlio non c’è prezzo. È evidente che nell’attribuire un valore a beni – come una bella giornata al mare o a un figlio – intervengono altri fattori che non sono solo economici. Così è anche per la willingness to pay per i beni della natura. Quando attribuiamo (o non attribuiamo) loro un valore, entrano in gioco fattori economici ma anche fattori di altro tipo. Già, ma di che tipo?
Per quanto strano possa sembrare, pochi finora hanno tentato di rispondere a questa domanda. Alcuni, di recente, hanno tentato di farlo per via teorica. Ma solo ora abbiamo un’analisi che sia di tipo teorico che empirico: l’hanno resa pubblica nei giorni sulla rivista Ecological Economics il tedesco Moritz A. Drupp, dell’Università di Amburgo, e un gruppo di suoi collaboratori. Ed è una risposta inattesa, almeno in apparenza: oltre che dal reddito la willingness to pay dipende dal tasso di equità sociale del Paese in cui si vive. Il che significa che a parità di reddito, uno svedese o un tedesco (che vivono in paesi con alto tasso di uguaglianza sociale) è disponibile a pagare di più per un bene della natura di un americano o di un italiano, Paesi dove la disuguaglianza sociale è altissima. La risposta è solo in apparenza sorprendente, perché è chiaro che la percezione dei beni comuni è maggiore proprio lì dove la ricchezza individuale è meglio distribuita. È evidente, concludono Drupp e colleghi, che per diminuire l’impatto umano sull’ambiente e consumare meno e con maggiore oculatezza i capitali della natura dobbiamo lavorare anche per abbattere l’indice di Gini, ovvero il tasso di disuguaglianza di una società. Non è una proposta nuova, a ben vedere. In fondo lo sappiamo dai tempi del Rapporto Brundtland reso pubblico nel 1987 da una commissione indipendente proposta dalle Nazioni Unite che prendeva il nome dal suo presidente, la signora Gro Harlem Brundtland, primo ministro di Norvegia. Il rapporto sosteneva, né più e né meno, che non c’è sostenibilità possibile se non è, nel medesimo tempo, ecologica e sociale. E che il miglior modo per tutelare l’ambiente è costruire una società più giusta.
Pietro Greco
Laureato in chimica, giornalista scientifico e scrittore. È responsabile del Centro Studi di Città della Scienza e direttore della Rivista Scienza&Società. È autore di oltre venti monografie sulla scienza e sulla storia della scienza. È conduttore di Radio3Scienza. Collabora con le università Bicocca di Milano e Sapienza di Roma. Ha fondato, insieme ad altri, il Master in comunicazione della scienza della SISSA di Trieste. È membro del consiglio scientifico di ISPRA. Collabora con la rivista Micron
Le attuali crisi ambientali, economiche e sociali sono imputabili a un sistema giuridico lontano dalla società e dai processi naturali. Eppure, facendo propri alcuni concetti della scienza più avanzata e della visione sistemica, il diritto può divenire parte integrante del miglioramento del mondo. Ne abbiamo parlato con Ugo Mattei, giurista e scrittore, autore insieme al fisico Fritjof Capra del libro “Ecologia del diritto”. Siamo a Panta Rei, centro di sperimentazione ambientale, e intervistiamo il professor Ugo Mattei, giurista e scrittore, in occasione della presentazione del libro “Ecologia del diritto” edito da Aboca, scritto insieme al fisico Fritjof Capra divulgatore del paradigma ecologico sistemico. Scopo del libro è quello di indagare le radici comuni tra pensiero scientifico e giuridico in un momento di svolta del paradigma culturale e sociale. Mattei denuncia la separazione tra il diritto e la società, l’alienazione del diritto dai processi trasformativi culturali, politici, economici e sociali che invece dovrebbero governarlo.
Esperto di Beni Comuni, è stato uno dei promotori del referendum sull’acqua pubblica, da giurista propone che essi si costituiscano in un nuovo genere di soggetto giuridico. Una nuova configurazione proprietaria che liberi i Beni Comuni (primi fra tutti acqua, terra, scuola e informazione) dalla sovranità del privato e/o dello Stato finalizzata alle reali esigenze di chi li vive. Propone così ad esempio la costituzione di aziende dei lavoratori, la catena di produzione di cibo in mano a piccoli finanziatori, servizi di conservazione delle terre, banche di comunità e cooperative di credito. L’idea è che il diritto non deve essere subito dalla comunità ecologica ma vivere per essere rigenerativo e a garanzia dei valori della vita. Il cambiamento deve superare la logica, definita “estrattiva”, meccanicistica, predatoria neoliberista legata alla quantità verso un paradigma sistemico volto a creare una comunità giuridica a rete, ecologica capace di generare tempo comune e beni comuni per proteggere il pianeta terra e l’accesso di tutti alla disponibilità delle risorse condivise.
Mentre la scienza più avanzata sta percorrendo questo processo evolutivo il diritto ne è completamente avulso. Dovrebbe invece imparare dai processi naturali ritornando a rapportarsi con la vita. Costituire le diverse soggettività della comunità ecologica nel suo insieme complessivo, per operare processi trasformativi dal basso. Già molte persone in Italia stanno creando realtà legate alla qualità delle relazioni con visioni di lungo periodo ma manca ancora la visione della sovranità di questi luoghi, di una soggettività politica. Ora più che mai per contrastare il processo di finanziarizzazione e globalizzazione economica che incombe bisogna uscire dalla logica del potere della maggioranza, della legge formale, unica e gerarchica che espropria il bene comune e favorire un riconoscimento dei diritti di chi accede alle risorse, di chi le vive. Mattei propone una gestione virtuosa dei Beni Comuni attraverso competenze ecologiche legate alle comunità di riferimento e libere dall’arbitrio dei confini giurisdizionali dello Stato e degli enti territoriali consentendo l’organizzazione reale in base alle reali necessità della comunità e di tutti viventi. Un ordine dialettico e spontaneo che superi le dicotomie soggetto-oggetto, privato-pubblico e che riconosca il valore delle relazioni di qualità tra tutti i soggetti coinvolti in funzione dell’interesse comune. Insomma le leggi della natura e degli uomini e delle donne dovrebbero seguire le medesime logiche. È necessario imparare a mettere a sistema le capacità organizzative, le resistenze collettive e le competenze della scienza più evoluta per riuscire ad integrare meccanismi rigenerativi e crescere in libertà.
Una recente ricerca dell’Osservatorio Compass ha confermato tutta l’attenzione degli italiani nei confronti delle case ecosostenibili, dai materiali di costruzione, fino al riciclo e al riuso. Ma c’è un altro elemento chiave: la tinteggiatura delle pareti con vernici ecologiche. Una recente ricerca dell’Osservatorio Compass ha confermato tutta l’attenzione degli italiani nei confronti delle case ecosostenibili: secondo il rapporto, il 28% degli intervistati ha dichiarato di nutrire grande interesse per questo argomento. Non è un caso, dunque, che la creazione di un mondo più ecologico parta proprio da noi e dalle nostre abitazioni. Sono diversi gli aspetti domestici che possono favorire questa missione green: dai materiali di costruzione, fino ad arrivare all’importanza del riciclo e del riuso. Fra i punti chiave di una gestione ecosostenibile della casa troviamo un altro elemento, nonché uno dei più importanti: la tinteggiatura delle pareti, che ci permette di dare nuova vita alla casa senza per questo contaminare l’ambiente. Ecco perché si tratta di un tema che merita un ulteriore approfondimento.
Ecologia e case: come applicare questo concetto con le vernici
Le vernici ecologiche e naturali sono degli strumenti indispensabili per chi desidera vivere senza inquinare e, al tempo stesso, vivere in una casa curata nel minimo dettaglio. Non a caso il concetto di ecologia può essere facilmente applicato anche alle nostre abitazioni: quando si tratta di doverle rinnovare, esistono dei modi e delle misure che ci permetteranno di farlo senza causare ulteriori danni al Pianeta. Le vernici ecologiche sono perfette per questo scopo. I motivi? Sono realizzate solo ed esclusivamente con elementi naturali, dunque non posseggono alcuna sostanza pericolosa per noi e per l’ambiente. Questo non si può dire delle vernici chimiche che, al contrario, sono particolarmente pericolose per entrambi: vengono difatti realizzate con sostanze tossiche, che possono inquinare l’atmosfera e al tempo stesso mettere a rischio la salute di chi abita in casa. Fra l’altro, rimodernare il proprio appartamento con le vernici eco è molto facile e davvero poco costoso: per la tinteggiatura delle pareti interne basta affidarsi ad uno dei tanti specialisti, ottenendo così un risultato perfetto, sostenibile ma anche economico.
Vernici chimiche ed ecologiche: un approfondimento
Le vernici chimiche vengono prodotte utilizzando delle sostanze di origine petrol-chimica: ciò vuol dire che, utilizzandole, si mette in primis a rischio la salute di chi frequenta l’abitazione. Inoltre, queste sostanze sono particolarmente nocive in quanto volatili: tendono infatti ad inquinare velocemente l’aria che respiriamo, specialmente quando vengono utilizzate per tinteggiare i muri interni della casa. Al contrario, le vernici naturali sono totalmente sprovviste di sostanze VOC (volatili) e dunque sicure per l’ambiente e per chi vi abita. Questo perché non producono effetti secondari potenzialmente gravi come le emicranie, la nausea e le irritazioni cutanee. Inoltre, non rilasciando alcun tipo di rifiuto tossico, non causano danni all’ambiente. Fra le altre cose, il ciclo produttivo necessario per realizzare le vernici chimiche produce tonnellate di elementi inquinanti che finiscono nell’atmosfera. Ecco perché ognuno di noi dovrebbe ragionare prima di usare pennello e spatola: ricorrere alle vernici ecologiche, insieme a tutti gli altri prodotti sostenibili, può aiutare noi e sostenere l’ambiente. Inoltre questo può garantire un futuro migliore alle prossime generazioni che abiteranno il nostro pianeta, e che non dovranno così fare i conti con gli errori sin qui commessi dall’uomo.