Food Coop: il docu-film che cambia il modo di vendere e comprare

Come si può risparmiare gestendo in prima persona, con modalità cooperative nel significato vero del termine, il reperimento, la vendita e l’acquisto dei prodotti? In un certo senso si riscoprono valori distorti nel tempo: è quanto ci racconta Food Coop il docu-film di Thomas Boothe.foodcoop

Nel 1973 a New York nasce un supermercato, il Park Slope Food Coop, gestito totalmente dai clienti-soci, impegnati in prima persona nel lavoro di organizzazione e di sviluppo del progetto. I soci, cioè, sono anche impiegati come magazzinieri, operai, contabili, commessi, con un tot di 3 ore mensili che devono obbligatoriamente prestare all’interno del negozio. Si tratta di una vera e propria rivoluzione e i vantaggi sono molteplici: minori costi e, di conseguenza, prezzi più bassi, qualità dei prodotti maggiormente garantita, tracciabilità e trasparenza dal produttore al cliente finale, maggiore equità per i fornitori. Al momento, il punto vendita di Brooklyn coinvolge migliaia di soci cui è affidata la maggior parte del lavoro ma vi sono anche impiegati regolarmente stipendiati dalla cooperativa. La quota annuale per essere soci è di circa 100 euro e viene reinvestita nel progetto stesso. Thomas Boothe, regista del film Food Coop, ci racconta con il suo lavoro dettagliatissimo questa esperienza che sta ormai ispirando molti paesi anche in Europa. Egli stesso ha ripetuto l’esperienza di Brooklyn creando, dopo il film, un supermercato cooperativo a Parigi, dove vive. Boothe incontra le persone, una per una, parla con loro, ci fa la spesa insieme e le segue poi nel loro viaggio verso casa. Alcune volte si tratta di viaggi lunghissimi, da un capo all’altro della città, con i mezzi pubblici e a piedi, magari a sera tardi e dopo una giornata di lavoro. E’ come se la dimensione personale fosse il vero focus di questo film e l’esistenza del supermercato solo il pretesto per il racconto delle vite che ci girano attorno o, meglio, ci entrano dentro. C’è la vita delle coppie che fanno i conti a fine mese e i soldi non bastano ma, scontrini alla mano, con la cooperativa, riescono a risparmiare il 40 per cento rispetto a un normale supermercato. Ci sono i soci che trovano nella coop una nuova dimensione di socialità e ne escono diversi, nuovi, più contenti: riuscire a trovare il cibo che cerchi, discuterne con gli altri, scambiarsi le ricette, essere direttamente responsabili in prima persona di un progetto comune, ti cambia. D’altra parte, sappiamo bene che la dimensione e la natura stessa di un sistema come quello del supermercato non ha al centro la persona ma il prodotto: che deve costare meno possibile a un consumatore veloce, distratto, poco interessato a ciò che mette nel carrello, non importa cosa ci sia dietro in termini di qualità dei prodotti e di costi umani e ambientali. Né importa quanti siano i passaggi del cibo per arrivare sugli scaffali del supermercato, finalmente disponibile ai clienti finali. Soltanto chi ha la possibilità economica, in alcune zone degli Stati Uniti, come viene evidenziato bene nel film, riesce a nutrirsi di cibo fresco e di buona qualità, di verdure e frutta di stagione, di cereali non conservati né trattati. I prodotti industriali la fanno da padrone e in molti quartieri non c’è scelta: o il grande mall o niente. Il film ascolta i soci mentre lavorano tra gli scaffali: insegnanti, registi, artisti, psicologi, operai, coppie che si ritrovano insieme a parlare scaricando la merce. Non ci sono divisioni sociali o differenze tra loro: il desiderio di accedere a un cibo buono, fresco ed equo è qualcosa che accomuna tutti. Si tratta di un modo per prendersi le proprie responsabilità sul cibo che mangiamo senza delegare ad altri le nostre scelte e fornendo alla cooperativa, senza barare, il proprio tempo con regole ed orari da rispettare, pena l’esclusione dal progetto. Si tratta di iniziare a immaginare un modello nuovo, pur con tutte le difficoltà, imperfezioni o contraddizioni legate all’idea stessa di supermercato. Un modello che recuperi la persona e le sue necessità. Ne parliamo con Giovanni Notarangelo, tra i responsabili del progetto, che ci dice che la strada è ancora in salita ma che i soci cominciano ad arrivare, almeno formalmente. Si prevede di riuscire a partire nel 2018 anche se, dice, è necessario fare le cose con calma perché il progetto poggi e si sviluppi su basi solide.

Quante persone al momento hanno aderito al progetto per l’ emporio di comunità?

Al momento la cooperativa deve essere ancora costituita ma lo statuto è stato definito e abbiamo raccolto circa 200 adesioni ma ne stanno arrivando altre. C’è riscontro e molte persone si dicono pronte a partecipare. Il film ci sta aiutando a far conoscere il progetto e c’è entusiasmo e interesse.

Cosa c’è al centro del progetto?

L’obiettivo principale non è il prezzo più basso come molti pensano ma, piuttosto, vogliamo valorizzare il fatto che intorno a questa iniziativa possono nascere molti aspetti positivi di socialità e percorsi possibili per le persone. Si può immaginare un nuovo protagonismo per il cittadino.

Che numero di soci vi siete prefissi di raggiungere? E con quale quota?

Tra i 300 e i 500 soci per iniziare. La quota non è fissa ma una tantum e l’abbiamo fissata, per iniziare a minimo 125 euro, lasciando la possibilità a chi può versare di più. I soci dovranno essere persone attive e non semplici simpatizzanti del progetto.

Riguardo agli spazi?

Ci servirà uno spazio piuttosto grande di almeno 200 metri quadri e questo significa, volendo affittare uno spazio da privati, fare un passo impegnativo. Un’altra idea può essere quella di iniziare in un posto anche più piccolo e poi ingrandirci in seguito. Al momento ci stiamo lavorando e stiamo cercando spazi anche non commerciali, in comodato d’uso o con un affitto calmierato. Stiamo inziando a lavorare anche sui prodotti e i produttori ma anche alle iniziative extra legate alla cultura e la socialità dei cittadini.  Non solo, quindi,  consumo ma le persone al centro della cooperativa.

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Fonte: ilcambiamento.it

“Il giorno che verrà”, Brindisi e la vita ai tempi del carbone

Non solo Taranto. In Puglia vi è anche un altro territorio devastato dall’inquinamento industriale. Il regista brindisino Simone Salvemini svela nel suo docufilm “Il giorno che verrà”, ansie, paure e speranze di chi ogni giorno a Brindisi, convive con il nemico “silenzioso”.

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Come si vive in una città stretta dalla morsa dell’inquinamento di una centrale a carbone? Quali sono gli effetti sulla vita e sulla salute delle persone? Ce lo spiega il giovane regista brindisino Simone Salvemini, nel suo “Il giorno che verrà”, un docufilm amaro che racconta attraverso la forza delle sole immagini la realtà del territorio brindisino che da anni convive con la presenza ingombrante ma silenziosa di una centrale a carbone fra le più grandi e inquinanti d’Europa. L’opera, prodotta da La Kinebottega in coproduzione con AIACE Brindisi e Metaluna production, è stata realizzata con il sostegno della Apulia Film Commision e del Salento Film Fund. Nel 2011 ha vinto il bando Euro Connection ed il progetto  è stato presentato al Festival Internazionale di Clermont Ferrand , in Francia, la più importante manifestazione europea di cinema breve. “La centrale Enel a carbone di Cerano, vicino Brindisi, è una realtà subdola, nascosta, non la vedi, ma la senti nell’aria. Ubicata nelle campagne, è lontana dalla vista dei brindisini e dei leccesi, che però ne subiscono gli effetti, ogni giorno. Ho provato a dare un’impronta cinematografica al documentario, non ci sono commenti, le immagini parlano da sole”.

Simone Salvemini, giovane regista brindisino, formatosi, come quasi tutti al Nord, racconta: “Ho ripreso la vita quotidiana di quattro persone: c’è Paola che sta per incidere un disco, Pierpaolo, che ha censito tutti gli impianti industriali della zona, Gianni che ha un blog che parla del suo paese, Torchiarolo, il più colpito dalle terribili polveri della centrale. E infine Daniela, una donna incinta che porta avanti una gravidanza in una città dove la percentuale di malformazioni neonatali supera del 18 per cento il dato europeo complessivo, e passa i mesi della gravidanza a chiedersi che futuro sta offrendo al suo bambino”.
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Alle storie dei personaggi principali si affiancano informazioni sui rischi ambientali prodotti dal carbone: “Ho raccolto tutti i dati ufficiali sulla movimentazione del carbone e gli studi sulle patologie neonatali presenti sul territorio. Uno studio sul rapporto tra inquinamento industriale e malformazioni neonatali, pubblicato quasi un anno fa dell’Istituto Fisiologia Clinica del Cnr di Lecce , in collaborazione con l’Università di Pisa, ha ottenuto la pubblicazione nella rivista BMC Pregnancy and Childbirth e ha dimostrato che qui le malformazioni neonatali qui sono più frequenti che in altri posti”. Quei dati, a un anno dalla pubblicazione e di cui aveva dato notizia anche Il Cambiamento, il 27 dicembre scorso hanno assunto validità scientifica e sono entrati a far parte delle banche dati della letteratura scientifica mondiale. Perché un docufilm su questo argomento? “L’obiettivo è quello di informare e aumentare la consapevolezza dei brindisini sul problema. La preoccupazione non è evidente, la comunità non si ribella e le manifestazioni di dissenso sono limitate ai movimenti. È una battaglia impari, stiamo parlando di grandi gruppi industriali in grado di comprare e coprire tutto”. Intanto a Brindisi è in corso il primo processo a carico di alcuni dirigenti Enel per reati ambientali: “Si sono accorti che l’Ilva inquinava dopo 25 anni. Bisogna reagire insieme, subito e non aspettare che prima si ammalino i bambini”.
Fonte: il cambiamento

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