Le città post-carbone: una strada per affrancarsi dal disastro c’è ma ci si ostina a non volerla vedere

Sconvolgente, senza controllo, ferite enormi che si aprono a spaccare un paese già piegato, prosciugato, seviziato. E’ quanto sta accadendo al nord, risucchiato dalle correnti di acque impetuose che cancellano interi borghi. Vogliamo città post-carbone e post-cemento e non sono solo un’utopia.alluvione_alessandria

Ora si affronta l’emergenza, per dare sollievo alla disperazione, ma ci siamo accorti che ogni giorno è diventato un’emergenza?L’eurodeputato dei 5 Stelle Dario Tamburrano non ha dimenticato quel volume che lui stesso ha regalato a tanti amministratori locali italiani, l’edizione italiana di “Post Carbon Cities”. “Abbiamo inviato il link del testo a migliaia di amministratori locali italiani. Nessuno ci ha risposto – spiega – L’ho regalato anche ad Ignazio Marino quando ancora non era sindaco di Roma. In questi anni l’insicurezza energetica e i danni causati dalla contemporanea incuria del territorio e dai cambiamenti climatici sono aumentati esponenzialmente. Mentre le città (non solo italiane) si alluvionano una volta a settimana e i rischi di una crisi Russa ci portano a seri rischi di approvvigionamento energetico, quello che sento in Commissione Energia Ricerca e Industria e in Seduta Plenaria al Parlamento Europeo mi fa cascare le braccia: i decisori politici vivono davvero in un altro pianeta e in un altro secolo. Anche a Bruxelles, infatti, la stragrande maggioranza degli Eurodeputati sembra stare in una bolla di sapone; sono convinti della possibilità di mantenere in piedi e risanare un sistema economico completamente fallito e dalle fondamenta marce. Ma non è mai troppo tardi per scaricare e diffondere questo testo ed agire, almeno per limitare (ormai) i danni nel futuro”.

Scarica qui “POST CARBON CITIES COME AFFRONTARE L’INCERTEZZA CLIMATICA ED ENERGETICA: UNA GUIDA AL PICCO DEL PETROLIO E AL RISCALDAMENTO GLOBALE PER GLI AMMINISTRATORI LOCALI”.

Fonte: ilcambiamento.it

E’ lo spreco di cibo il vero disastro ecologico mondiale avverte la FAO

La FAO avverte che lo spreco alimentare è pari a un disastro ecologico, perché i Paesi ricchi producono più cibo di quel consumano175628202-594x350

Il rapporto FAO Foodwastage footprint Impacts on naturalresources pubblicato oggi rivela che lo spreco alimentare e agricolo costa ogni anno al Pianeta 750 miliardi di dollari ossia 565 miliardi di euro. Si spreca così non solo cibo ma acqua, pari a tre volte quella contenuta nel Lago di Ginevra, ma anche suolo agricolo impegnato per colture che saranno poi gettate via con emissioni sono pari a quelle di Cina o Stati Uniti in 6 mesi. Gettiamo via ogni anno 1,6 miliardi di tonnellate di prodotti alimentari che vanno a costituire così una montagna di spreco appunto definita dalla Fao come disastro ecologico.  Nel rapporto si legge:

A livello globale, l’acqua potabile sprecata rappresenta quasi tre volte il volume del lago di Ginevra o al volume di flusso annuale del Volga.

Ma sopratutto la FAO afferma che la riduzione delle perdite in agricoltura e di cibo potrebbe contribuire in modo significativo al raggiungimento dell’obiettivo di aumento del 60% in cibo disponibile per soddisfare le esigenze della popolazione globale nel 2050. Secondo la FAO, il 54% delle perdite sono registrate nelle fasi di produzione, raccolta e stoccaggio. Il resto è spreco alimentare in senso proprio, in fase di preparazione, distribuzione o consumo. Nei paesi ricchi, è il secondo tipo di spreco a dominare. Gli esperti hanno cercato di determinare quali sono le regioni e prodotti agricoli che causano gli impatti ambientali In Asia si sprecano più cereali e ciò a causa degli alti volumi di produzione nel Sud-Est asiatico e l’Oriente e del peso del riso, che emette grandi quantità di metano. I ricchi paesi dell’America Latina sono responsabili dell’80% dello spreco di carne, che:

hanno un forte impatto in termini di uso del suolo e di emissioni di anidride carbonica.

Mentre lo spreco di frutta in Asia, America Latina ed Europa sono tra le principali cause di spreco di acqua. Per rimediare a questa situazione, la FAO raccomanda di migliorare le pratiche agricole e gli impianti di stoccaggio e di trasporto nei paesi in via di sviluppo e sottolinea che i paesi ricchi hanno: una grande responsabilità per i rifiuti alimentari a causa del loro modo di produzione e di consumo non durevoli.

Fonte:  Le Monde

Stress test nucleari: “disattesa la lezione di Fukushima”

La lezione di Fukushima non è stata appresa e molti degli impianti restano profondamente insicuri. A lanciare l’allarme è un nuovo rapporto di Greenpeace sugli “stress test” ai quali sono state sottoposte le centrali nucleari europee.

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Un nuovo rapporto di Greenpeace sugli “stress test” ai quali sono state sottoposte le centrali nucleari europee lancia un allarme: la lezione di Fukushima non è stata appresa e molti degli impianti restano profondamente insicuri. Questo anche perché molti problemi dipendono da limiti intrinseci dei progetti, difficili, se non impossibili, da risolvere. A giungere a tali conclusioni è il rapporto “Updated review of EU nuclear stress-tests”, opera del fisico Oda Becker, già coautore dell’analisi indipendente dei risultati degli “stress test” commissionata da Greenpeace nel 2012. Dopo il disastro di Fukushima, nel 2011, gli Stati Membri dell’Unione Europea hanno progettato una serie di “stress test” per rassicurare i cittadini europei in merito ai pericoli che potevano derivare dalla presenza nell’UE di 132 reattori nucleari (più altre 5 in Svizzera). Doveva essere un esercizio trasparente, per condurre a piani d’azione nazionali in grado di fronteggiare le possibili criticità emerse dagli stress test. Ma proprio l’analisi di tali piani porta a risultati sconfortanti: a dispetto di investimenti anche ingenti, infatti, numerosi aspetti importanti e ben noti non sono stati affrontati; alcune delle questioni che pure sono state affrontate, poi, saranno risolte tra anni, lasciando nel frattempo i cittadini europei esposti al rischio. Il rapporto di Greenpeace si focalizza in particolare sui problemi di alcune centrali nucleari estremamente problematiche, in Belgio, Francia, Germania, Repubblica Ceca, Slovacchia, Slovenia. Spagna, Svezia, Svizzera e Regno Unito. Queste centrali sono una fonte di rischio non solo per i cittadini del Paese che le ospita, ma anche per quelli degli Stati confinanti. In particolare, non si sta tenendo conto dell’invecchiamento degli impianti e tutto ciò rischia di cancellare le migliorie che saranno effettuate. Tra le centrali menzionate nel rapporto di Greenpeace ce ne sono due, Krsko in Slovenia e Muleberg in Svizzera, che minacciano anche gli italiani per ragioni comuni: i terreni sismici sui quali sono costruite e il pericolo di inondazioni. Nel caso di Muleberg, in particolare, il disegno strutturale è limitato, l’età avanzata, il sistema di raffreddamento in caso di emergenza non è adeguato, e la prevenzione per la produzione di idrogeno (gas esplosivo) insufficiente: un impianto da chiudere senza ulteriori discussioni. L’Italia è pericolosamente coinvolta in un’altra delle centrali “a rischio”, quella di Mochovche, in Slovacchia, che minaccia anche Austria, Ungheria e Repubblica Ceca. Si tratta infatti di un impianto di proprietà dell’italiana Enel, esposto a rischio di terremoti fino a quando, nel corso del decennio, non saranno realizzate adeguate protezioni. L’eventuale installazione di sistemi di ventilazione filtrati sarà oggetto di analisi, anche se la loro necessaria presenza è una delle lezioni più importanti di Fukushima. La Slovacchia inoltre rifiuta di analizzare cosa potrebbe succedere se il “guscio” del reattore si rompesse e molte delle misure dedotte dagli stress test verranno implementate solo nei prossimi anni. Greenpeace ha dimostrato che esistono valide alternative al nucleare che aiutano anche nella lotta contro il cambiamento climatico, oltre che nel raggiungimento di altri obiettivi come l’indipendenza energetica e la sicurezza degli approvvigionamenti di energia. “Una progressiva eliminazione del nucleare combinata con misure di efficienza energetica e sviluppo di fonti rinnovabili è l’opzione più sicura – conclude Giuseppe Onufrio, direttore esecutivo di Greenpeace Italia – Gli impianti più vecchi e rischiosi devono essere chiusi immediatamente”.

Fonte: il cambiamento

Sibari come Pompei, intervenire prima che sia troppo tardi

Il 18 gennaio un’ondata di piena dovuta alla straripamento del fiume Crati, ha ricoperto l’area archeologica di Sibari, vicino Cosenza. Un immenso patrimonio storico giace sotto strati di fango e i danni, se non si interviene subito, potrebbero essere inestimabili.

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Migliaia di anni di storia ricoperti da una spessa coltre di fango. È quanto accaduto all’area archeologica di Sibari(Cosenza), perla della Calabria ionica e antichissimo crocevia di popoli e culture. Dopo lo straripamento del fiume Crati, duecentomila metri cubi di acqua e fango hanno inghiottito tutto, dal Parco del Cavallo alle fontane monumentali, fino ad un impianto termale del I secolo. Sul caso è stata aperta un’indagine per accertare eventuali responsabilità e parte dell’area è stata messa sotto sequestro. L’allarme era stato già lanciato nel 2010 dalla sovrintendenza regionale che a gran voce aveva richiesto la manutenzione dei canali di bonifica a causa dell’elevato rischio di inondazione. L’appello è rimasto inascoltato e l’ondata di piena è arrivata puntuale il 18 gennaio a ricoprire pezzi di storia di inestimabile valore. L’ennesimo disastro annunciato, spettacolo tristemente noto, frutto di mala gestione e noncuranza a cui, dopo Pompei, è difficile abituarsi. Un gruppo di intellettuali, su proposta del Quotidiano di Calabria, ha deciso di rivolgersi direttamente al Presidente della Repubblica, al nuovo governo e agli enti competenti per salvare uno dei patrimoni culturali più importanti d’Italia. Chiedono che vengano destinati fondi e mezzi straordinari per la ripulitura, la messa in sicurezza ed il ripristino dello scavo archeologico, perché, come si legge nell’appello, una volta pompata via l’acqua: “il problema più grave sarà l’enorme quantità di fango che rimarrà sulle strutture e sugli strati antichi e che dovrà essere rimossa immediatamente, prima che abbia il tempo di solidificarsi e rendere tutte le operazioni di verifica dei danni, scavo, pulizia e restauro molto difficili o, addirittura, impossibili”. Il 23 e il 24 marzo, il Fai ha aperto il Parco al pubblico in occasione della ventunesima Giornata di Primavera, “affinché tutti, calabresi e italiani, possano vedere i danni della stupidità e della disonestà umana”, come dichiarato dal vicepresidente del FAI, Marco Magnifico. Sul sito web del FAI è inoltre in corso una raccolta firme “ Anch’io per Sibari”. Lo scopo è quello di non far spegnere i riflettori sulla vicenda. Secondo il FAI infatti, le aree golenali, ossia le aree di sfogo di un’eventuale piena non sono ‘libere’ ma bensì occupate da piantagioni di aranceti e, per questo motivo, non possono svolgere il loro compito di contenimento delle acque esondate. Sottoscrivendo l’appello, si chiede il ritorno della legalità nelle aree golenali e demaniali dell’area archeologica di Sibari. Una battaglia che mira, dunque, a diventare da stimolo per costruire basi solide perché una simile tragedia non si ripeta.

Fonte: il cambiamento

 

Fukushima, a due anni dal disastro nessuna compensazione per le vittime

A due anni dal disastro nucleare a Fukushima la situazione è ben lungi dall’essere stata risolta. Da Greenpeace i report con tutti i dati: “ancora nessuna compensazione per le vittime”. E intanto Legambiente promuove l’appello lanciato da un gruppo di donne giapponesi e invita tutti a inviare messaggi di solidarietà su Twitter.

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Due anni fa, l’11 marzo 2011 si verificava il disastro di Fukushima, il secondo più grave della storia dell’industria nucleare dopo Cernobyl. Sono 160 mila i cittadini che sono stati evacuati forzatamente e decine di migliaia quelli che lo hanno fatto volontariamente. Vite distrutte, senza che ancora una sola persona abbia avuto una compensazione adeguata per i danni sofferti. A loro sono dedicate le iniziative intraprese in questi giorni da Greenpeace in varie parti del mondo. Secondo il nuovo rapporto di Greenpeace “Fukushima Fallout” non solo la responsabilità civile di chi fornisce le tecnologie nucleari è pari a zero – dunque chi ha fornito i reattori o le componenti tecnologiche non è legalmente chiamato a rispondere in caso di incidente – ma paradossalmente due delle imprese che hanno fornito le tecnologie che hanno contribuito a provocare l’incidente – Toshiba e Hitachi – sono coinvolte nelle operazioni di bonifica, dunque lucrano su un incidente di cui sono in qualche modo corresponsabili.

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A fronte di un danno stimato fino a 169 miliardi di euro, è stata nazionalizzata l’azienda proprietaria dell’impianto: a pagare il conto saranno i contribuenti giapponesi. Se guardiamo le convenzioni sulla responsabilità civile in campo nucleare, vediamo che o esistono limiti molto ridotti alle compensazioni cui è tenuta l’azienda esercente dell’impianto oppure di fatto non esistono strumenti finanziari di protezione. Nel caso di catastrofe nucleare a pagare sono i cittadini, sia in termini di salute e distruzione delle loro vite che economici. A Fukushima la situazione è ben lungi dall’essere stata risolta: la catena alimentare contaminata, enorme la quantità di rifiuti radioattivi provenienti dalle operazioni di bonifica (29 milioni di metri cubi), lunghi i tempi e i costi dello smantellamento dei reattori, la cui situazione è tuttora precaria con grandi quantità di acqua radioattiva di raffreddamento da dover stoccare. In Europa, il progetto del reattore nucleare francese EPR – che doveva coinvolgere anche l’Italia con quattro reattori – ha finalmente rivelato il suo costo: 8,5 miliardi di euro – non i 3,2-3,5 con cui era stato proposto in Finlandia e poi in Italia propagandato da Enel, che è di recente dovuta uscire dal progetto di Flamanville in Francia per i costi esorbitanti. L’azienda francese EDF per costruire reattori nel Regno Unito chiede un acquisto garantito dell’elettricità per 40 anni a un prezzo circa doppio di quello attuale. Un sussidio economico che dura persino più di quello concesso alle rinnovabili. L’industria nucleare dunque non solo non paga per i danni che provoca, ma è un vicolo cieco dal punto di vista delle prospettive future. Esistono alternative più sicure e pulite su cui basare un futuro sostenibile.

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Intanto Legambiente promuove l’appello lanciato da un gruppo di donne giapponesi e invita tutti a inviare messaggi di solidarietà su Twitter, con l’hashtag #rememberFukushima e su http://www.acandleforfukushima.com. “A due anni dal disastro di Fukushima – dichiara in una nota l’associazione – mentre 160 mila persone sono ancora costrette a vivere lontano da casa per le radiazioni (e molte non ci torneranno mai più), il governo giapponese vuole riaccendere le centrali atomiche, riaprire quelle spente in seguito al disastro di Fukushima e realizzarne di nuove”. Nel secondo anniversario della tragedia nucleare giapponese, Legambiente si unisce quindi all’appello delle donne di Fukushima contro le centrali perché, come recita l’appello: “Nessuna dichiarazione di cessato allarme del governo né la sua promessa dell’energia nucleare più sicura del mondo potrà mai restituirci le vite perdute, le famiglie frammentate, gli amici strappati, le abitazioni, il lavoro, la salute e la pace interiore devastati, né la nostra amata Fukushima….”. Gli italiani con il referendum del 2011 hanno espresso chiaramente la loro volontà contro l’utilizzo dell’energia nucleare. Ma l’impegno italiano non può fermarsi entro i nostri confini: è importante continuare a lottare fino a quando l’ultima centrale nel mondo sarà spenta. Per questo, nel secondo anniversario del disastro di Fukushima, Legambiente, insieme a ‘Semi sotto la neve’, aderisce e promuove in Italia l’appello delle donne giapponesi e invita tutti a far arrivare un messaggio di solidarietà ai bambini, alle donne e agli uomini di Fukushima che continuano a soffrire, e a tutto il popolo giapponese, con l’augurio che anche loro possano liberarsi presto delle loro pericolose centrali nucleari.

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“Le alte concentrazioni di cesio 137 rinvenute nei giorni scorsi nei cinghiali in val Sesia mostrano inequivocabilmente la durata nel tempo e la gravità dei danni del nucleare – ha dichiarato il presidente nazionale di Legambiente Vittorio Cogliati Dezza-. Continuare a percorrere la strada dell’atomo oggi risulta illogico, vista la possibilità di utilizzare le nuove tecnologie rinnovabili in grado di sostituire in modo più sicuro e pulito le centrali nucleari e di condurci sulla via dell’uscita anche dalle fonti fossili”. “La tragedia nucleare di Fukushima – spiega Angelo Gentili, responsabile nazionale Legambiente solidarietà – ha molte similitudini con l’incidente avvenuto ventisei anni fa a Chernobyl. Non soltanto per la mancanza di informazioni nei confronti delle popolazioni locali e per la mancanza di un monitoraggio costante sulla presenza delle radiazioni, ma anche per la diffusa contaminazione e la dissennata e inconcepibile scelta di continuare a utilizzare l’atomo senza un forte e significativo segnale di tutela della salute dei cittadini. Questo dimostra che occorre una pressione molto forte da parte dei movimenti antinuclearisti di tutto il mondo per fare chiarezza e cercare di arrestare questa scelta inconcepibile”.

Fonte: il cambiamento