Federico: “La persone con disabilità sono percepite come eterni bambini, ma vogliamo decidere per la nostra vita”

Per la prima intervista della sua rubrica This Abilità, la nostra Elena chiacchiera con un suo amico di lunga data, Federico Feliziani. Il tema sul piatto è l’autonomia, l’indipendenza vista non tanto dal punto di vista pratico, quanto piuttosto come una condizione morale necessaria perché venga garantita la dignità di ogni persona. Io e Federico ci conosciamo da quasi quindici anni e da quasi quindici anni ho sempre seguito da vicino le sue ambizioni e ascoltato i suoi ideali. Parlando di autonomia e indipendenza, mi fa entrare nel suo pensiero e inizia a raccontarmi la sua quotidianità.

Prima di arrivare alla scelta del suo progetto di vita indipendente però vorrei raccontarvi un po’della nostra amicizia, perché la parola autonomia abbiamo iniziato a conoscerla insieme, facendo esperienze che inevitabilmente ci hanno portati alle scelte che stiamo realizzando e vivendo oggi. Per anni ci siamo frequentati molto spesso abitando vicini e anche adesso che ognuno ha una propria casa e una routine molto ricca, la spaghettata in compagnia, un film al cinema o un aperitivo insieme non ce li toglie nessuno. Se dovessi ricordarmi l’inizio della nostra amicizia lo collegherei sicuramente alla Città Eterna: andammo un weekend alla scoperta di Roma a bordo del camper della mia famiglia durante le festività pasquali. Mi ricordo che la prima cosa che mi colpì di Federico furono i capelli bianchi, perché nella mia vita li avevo visti solo alle persone anziane e non riuscivo a capire come mai un ragazzo, mio coetaneo, potesse già averli. Mi piacevano molto, li trovavo magici.

«É albino», mi spiegò mia mamma. Non feci altre domande, ma da quel giorno imparai una parola nuova che mi sembrava fosse appena uscita da un mondo fantastico e dissi: «Wow! Lui non invecchierà mai!».

Inizialmente non parlavamo tantissimo io e Federico, ma ci capivamo a gesti ed eravamo in sintonia su moltissime cose – tranne sui tortellini ordinati in un ristorante tipico romano durante la nostra vacanza – e dopo quei giorni passati insieme ai nostri genitori, vivendo a stretto contatto, iniziammo a vederci sempre più spesso e a capirci sempre meglio. Avevamo moltissime cose da dire al mondo!

Federico è nato a Bologna nel 1993 e dopo una sofferenza neonatale ha riportato difficoltà nel linguaggio e nel movimento. Ha conosciuto da subito le sue particolarità e ha iniziato a prenderle per mano convivendoci, facendo compromessi e impegnandosi laddove pensava di poter superare i propri limiti. La formazione più importante gli è arrivata al liceo quando, grazie a due professori, ha capito di cosa si volesse occupare nella vita: temi sociali e politici.

Così, finite le scuole superiori, si è iscritto a Scienze Politiche conseguendo una laurea triennale. Nel frattempo la sua vita si svolgeva in più luoghi e facendo svariate attività, dallo stare sul palco come componente di una compagnia teatrale allo scrivere una raccolta di poesie; dall’essere redattore per una testata locale al diventare consigliere comunale di Sasso Marconi: ruolo che svolge tutt’ora dopo la rielezione due anni e mezzo fa.Nel 2008 ha deciso di aprire un blog che è diventato subito un prezioso biglietto da visita in grado di scalfire quel velo di pregiudizio dato dall’apparenza. Attualmente si occupa di cronaca politica per un sito di cultura e società nato nel 2019. Nonostante la sua vita super impegnata, ci siamo sempre riusciti a ritagliare, anche a distanza, dei momenti per raccontarci le nostre giornate e discutere di temi che ci toccano da vicino e toccano le “nostre” ruote. Uno di essi, probabilmente il più ricorrente negli anni, è stato sempre quello dell’autonomia. Iniziammo a fare dei weekend insieme per essere pronti al famigerato “dopo di noi”. La nostra amicizia la conoscevano i nostri educatori e i servizi che ci seguivano e proprio per questo ci venne proposto di iniziare un percorso dove passare insieme del tempo per capire se fossimo stati compatibili nel diventare coinquilini con le nostre potenzialità. Questo percorso durò svariati anni fino all’idea di proporci di andare a vivere insieme anche durante la settimana. Pur trovandoci molto bene decidemmo, con la nostra autodeterminazione e la nostra testa “dura”, di far capire a chi gestiva questo servizio che volevamo essere indipendenti e i nostri progetti per il futuro erano diversi e personali per entrambi nonostante il nostro bel rapporto. Fede ama seguire la politica e stare spesso da solo a godersi la tranquillità casalinga, mentre io amo poco la politica, ma mi piace molto avere gente intorno e uscirei quasi ogni sera. Non è stato facile far capire questo concetto a chi ci stava intorno perché quando si parla di vita indipendente e sei una persona con disabilità si tende a far andare bene a molti la risposta che in realtà può andare bene a una sola persona, scavalcando le scelte e i gusti che invece per ognuno possono essere diversi. Noi però non ci facemmo convincere e andammo per la nostra strada. Federico è stato uno dei miei primi amici a lasciare il nido ed andare a vivere da solo, facendo una scelta di vita indipendente, personalizzata e autogestita. Mi sono fatta raccontare nei dettagli il suo percorso. L’ho fatto perché penso che una scelta come quella di Federico debba essere raccontata. Una possibilità che lui si è costruito è diventata una risposta possibile. Mi auguro che si possa sempre più parlare d’indipendenza, perché è un passo che può compiere anche chi non sarà mai totalmente autonomo. Una scelta da coltivare per far crescere nuove opportunità.

Quando hai scelto di andare a vivere da solo? Come hai pensato di strutturare il tuo progetto di vita?

La decisione è arrivata dopo diversi anni, nel corso dei quali ho partecipato a diversi progetti di autonomia proposti dai Servizi: momenti in cui veniva simulata la vita quotidiana nella quale mi veniva chiesto di provare a svolgere faccende quotidiane, dall’apparecchiare al preparare i pasti. Grazie a questi progetti, portati avanti insieme ad alcuni amici, ho potuto verificare quali fossero le mie abilità, molte delle quali nascoste dal fatto di vivere con i miei genitori e quindi in una situazione confortevole. Ormai tre anni e mezzo fa, al termine dell’ultimo di questi percorsi, ebbi la possibilità di utilizzare un appartamento accessibile e nel paese dove sono cresciuto. Così con il supporto dei servizi educativi arrivai a costruire un progetto individuale di vita indipendente. Un progetto ricco di obbiettivi da raggiungere: dal fare la spesa al sistemare la casa essendo io l’unico inquilino. Siamo partiti con dieci ore di intervento educativo a settimana con tre accessi a settimana, per poi ridurre progressivamente la presenza degli educatori arrivando, adesso, a quattro ore a settimana.

Un’esperienza che avrebbe dovuto durare sei mesi sta proseguendo ancora oggi, nello stesso appartamento in cui ho conseguito sempre più autonomie. Il prossimo passo, in parte già in atto, sarà delegare quelle mansioni che non riesco a gestire da solo trovando le persone giuste che mi possano supportare.

Cosa significa per te indipendenza?

Nel corso del tempo è cambiato molto il mio concetto d’indipendenza: penso non ci si debba soffermare tanto sull’indipendenza pratica, poiché essere indipendenti non significa farsi la lavatrice da soli per capirci. Essere indipendenti significa soprattutto avere autonomia nelle scelte, decidere per la propria vita senza cercare approvazione dagli altri.

Spesso le persone con disabilità sono percepite come eterni bambini: percezione talmente dominante che molte volte ho finito per crederci. Invece no: dobbiamo essere ragazzi e adulti che progressivamente si stacchino dalla costante approvazione altrui. È un obbiettivo su cui sto ancora lavorando, ma credo sia la vera essenza dell’indipendenza, l’elemento di cui si ha davvero bisogno preparandosi a una vita senza genitori.

Foto di Sergio Marchioni

Si parla sempre più spesso del “Dopo Di Noi” ma penso sia importante concentrarsi sul “Durante Noi”. Che proposte metteresti in campo per parlare di questo tema – la vita indipendente – e per far sì che entri sempre di più nella quotidianità in cui viviamo diventando per tutti una reale possibilità?

Credo sia complesso trovare un nome alle cose, ma “Dopo di Noi” suggerisce secondo me una prospettiva sbagliata. Nasce cioè dal dilemma che attanaglia i genitori di persone con disabilità che, immaginando un futuro senza la loro presenza, sono preoccupati per la vita dei figli. Questa idea è totalmente fuorviante perché a essere sbagliata è la prospettiva: il “Dopo di Noi” suggerisce il prendere in considerazione le speranze dei genitori. In quel “noi” c’è l’errore perché il futuro sarà vissuto dai figli e non dalle loro famiglie: quindi sarebbe bene cambiare radicalmente prospettiva ponendo al centro le opinioni delle persone con disabilità e non quelle dei loro genitori.

Può sembrare un dettaglio, ma è sostanza. Pensiamo ad esempio se iniziassimo a pensare al “Dopo di Voi” o al “Durante voi”. Cambierebbe qualcosa? Sì, cambierebbe il soggetto degli interventi: non sarebbero più le risposte alle preoccupazioni dei genitori ma delle risposte alle ambizioni personali dei figli. Cambierebbe profondamente l’approccio al tema suggerendo ad esempio come le persone con disabilità non saranno eterni figli, ma persone che devono trovare una loro indipendenza secondo i loro principi, le loro esperienze e le loro ambizioni. Fonte: https://www.italiachecambia.org/2021/11/federico-persone-disabilita/?utm_source=newsletter&utm_medium=email

Palestra dei Fighters: le persone con disabilità da paralisi cerebrale infantile non sono più sole

Storie di vita che mescolano coraggio e sofferenza e che si scontrano spesso con una diffusa indifferenza dettata dall’ignoranza. Eppure da oggi questo non è più uno scenario ineluttabilmente familiare per i giovani colpiti da paralisi cerbale: Francesca Fedeli, Ashoka fellow e fondatrice di Fight The Stroke, si batte al loro fianco proponendo percorsi riabilitativi colmi di affetto, rispetto e comprensione ed economicamente alla portata di tutti.

 “Considera quello che hai come un dono e quello che ti manca come un’opportunità”.

Francesca Fedeli e Roberto D’Angelo sono i genitori di Mario. Dalla sua nascita, nel 2014, è iniziata anche l’avventura della Fondazione Fight The Stroke e della sua Palestra dei Fighters per supportare i giovani sopravvissuti all’ictus e con paralisi cerebrale infantile, proprio come loro figlio. Ma partiamo dal principio. FightTheStroke crede nella possibilità di regalare una vita dignitosa anche per chi ha sperimentato un trauma importante, nella condivisione di esperienze per dare supporto alle famiglie, nella cura individuale e personalizzata, nel ruolo della famiglia all’interno del percorso riabilitativo, nella cultura, nello sport e nel valore della tecnologia, come fattori abilitanti, nella diffusione della conoscenza in ambito medico-scientifico e nei principi di sostenibilità delle proprie attività.

Roberto e Francesca insieme a loro figlio Mario

La diagnosi precoce e le nuove tecniche riabilitative basate sull’applicazione della tecnologia alla medicina rappresentano solo alcune delle battaglie portate avanti da FightTheStroke. Tra i vari progetti in quest’ambito ricordiamo l’Applicazione per l’epilessia MirrorHR e la piattaforma di tele-riabilitazione Mirrorable. La fondazione partecipa attivamente alle conversazioni internazionali su innovazione scientifica e sociale e fa parte del Board of Directors dell’International Alliance for Pediatric Stroke. È stata inoltre selezionata come finalista a numerosi premi locali e internazionali, tra cui l’Eisenhower Fellowship per l’Innovazione, la prima Ashoka Fellowship, la Global Good Fund Fellowship italiana, entrando a far parte della più grande rete globale di imprenditori sociali. Nel 2017 ha sostenuto l’apertura del primo Centro Stroke per il neonato e il bambino, in collaborazione con l’Ospedale Gaslini di Genova.

Tra i progetti di FightTheStroke, la Palestra dei Fighters mi ha molto colpita. Un luogo virtuale e innovativo raggiungibile da chiunque che offre delle esperienze su più fronti a chi vive con una PCI (paralisi cerebrale infantile). Da giovane donna con PCI mi batto da sempre per fare capire che questa è una multi disabilità e che c’è bisogno di un supporto completo e non solo focalizzato su determinate difficoltà. Ma come risponde a questi dubbi il progetto di Francesca? «La Palestra dei Fighters – mi racconta lei – è la nostra iniziativa più recente, lanciata a metà dell’aprile 2020 sulla scorta dell’esperienza passata con le attività adattate per le persone con disabilità ed è stata subito accolta con grande interesse».

Francesca prosegue: «È un progetto destinato a persone di tutte le età e con disabilità permanenti o temporanee di tipo motorio, sensoriale o intellettivo-relazionale, ma abbiamo scoperto che molti lo utilizzano anche solo a scopo preventivo, per avere la possibilità di fare sport adattati da casa, con i migliori professionisti e a tariffe democratiche. La Palestra dei Fighters ha riunito in un unico ambiente online le professionalità più richieste nell’ambito delle attività motorie adattate – come il personal trainer per multisport, taekwondo, danza – e della cura e riabilitazione, come nel caso di fisioterapia, terapia occupazionale e musicoterapia».

Foto realizzata nell’ultima edizione del Fight Camp 2019 da Eleonora Rettori

Accedere alla palestra online da casa è facilissimo, basta un computer con una buona webcam e un collegamento di rete: una volta entrati nel sito e poi nella stanza virtuale del professionista scelto, si può decidere di prenotare una sessione gratuita di orientamento o una sessione a pagamento di 45 o 60 minuti, si sceglie la data più comoda a calendario e si completa la transazione online. A processo ultimato, si riceverà una mail di conferma con i dettagli utili per il collegamento online.

Idee per il futuro? «Ora siamo concentrati sulle attività della Palestra online – spiega Francesca – e con lo stesso team, tutto al femminile, stiamo cercando di organizzare la quarta edizione del FightCamp, un camp di attività intensive tra sport e riabilitazione. Poi c’è il nostro laboratorio online, Mirror-labs, che è una fucina di sviluppo di nuove idee a favore delle persone con Paralisi Cerebrale». Fonte: https://www.italiachecambia.org/2021/06/palestra-dei-fighters-paralisi-cerebrale-infantile/?utm_source=newsletter&utm_medium=email

WeGlad: la app che mappa buche e locali per aiutare i “gladiatori in carrozzina”

WeGlad è un’app creata da Petru Capatina e Paolo Bottiglieri, due giovani torinesi, e ha come obiettivo quello di mappare locali, strade, buche e gradini delle città per favorire la circolazione delle persone in carrozzina. Abbiamo intervistato uno dei suoi co-fondatori per saperne di più su questo progetto a vocazione sociale, che promuove una maggior collaborazione e responsabilità dei cittadini, affinché le città possano essere alla portata di tutti, senza esclusioni. Paolo Bottiglieri è un ragazzo che vive a Torino e, dopo aver intrapreso il percorso di studi in ingegneria, concluso successivamente con la laurea in Economia, ha deciso di focalizzarsi sul mondo dell’imprenditoria sociale. Dopo qualche esperienza lavorativa, ha compreso che il “perché” era un fattore fondamentale per vivere il lavoro come qualcosa di stimolante e per sentire che il suo tempo e le sue energie stavano lasciando anche un piccolo segno positivo nel mondo. Da questa intuizione è nato WeGlad, un progetto che ha l’obiettivo di facilitare la vita quotidiana di chi ha disabilità motorie.

 Ci racconti di WeGlad? Come è nata l’idea?

Un ruolo fondamentale nella nascita dell’idea di WeGlad lo hanno avuto entrambi i miei nonni paterni. Per motivazioni diverse hanno vissuto disabilità motorie che li hanno portati a spostarsi più o meno frequentemente in carrozzina. Sono stato loro molto vicino fino agli ultimi giorni e da lì ho compreso e sperimentato le sfide che affronta un caregiver nel prendersi cura dell’assistito, nel muoversi in città e nel districarsi nel mare di burocrazia. La mia sensibilità verso questo problema si è ulteriormente ampliata quando ho lavorato all’aeroporto di Caselle di Torino come addetto ai PRM (passeggeri a mobilità ridotta). Mi occupavo dell’on-boarding e dell’accoglienza delle persone con diverse tipologie di disabilità. In questo lavoro ho parlato con persone che arrivavano da tutto il mondo, ho sentito le loro storie, le loro paure, ma anche le loro speranze. Sicuramente è stata un’esperienza che mi ha arricchito, ma al tempo stesso mi ha anche motivato nell’avere un ruolo nella risoluzione di questi problemi, qui ho trovato il mio “perché”.

Quali esperienze hanno ispirato il vostro lavoro?

Come mi ha insegnato il basket, la squadra è la cosa più importante per vincere una partita e Petru Capatina, mio socio in questa avventura, è arrivato proprio nel momento giusto. Ci siamo conosciuti sui banchi dell’università e da lì è nata un’amicizia e un rapporto professionale che si è unito in WeGlad. Con Petru abbiamo vissuto tante avventure in tutta Italia e in Europa spingendoci fino a Bruxelles in un vero e proprio viaggio per la comprensione del problema, dello stato dell’arte e per esaminare le soluzioni. Abbiamo parlato con i policy maker, esperti di turismo accessibile, con le persone che vivono tali problematiche e abbiamo condotto centinaia di ore di interviste e analisi, fino ad arrivare alle tre parole che ci permettono nel modo più veloce di descrivere WeGlad.  WeGlad lo definiamo come Open Social Navigator, un’app per la mobilità che parte dal soddisfacimento delle esigenze più severe e che di riflesso sono risolte anche per le persone normodotate.  WeGlad è la contrazione di “Welcome Gladiator”, è così che vediamo le persone con disabilità motoria e non solo: “gladiatori” che scendono nell’arena della vita e che ogni giorno vincono battaglie contro ostacoli contro cui non dovrebbero neanche combattere. 

Quali sono le tre parole che descrivono WeGlad?

L’app è “Open” ovvero, accessibile a tutti, proprio perché tutti possano contribuire. Il problema è grande e la soluzione non può essere scaricata solo sulle persone con disabilità. Per questo abbiamo deciso di uscire da una logica ghettizzante e vogliamo responsabilizzare tutta la società civile, anche incentivandola con meccanismi a gioco, un ottimo modo per imparare e sensibilizzare. Tutti gli utenti ampliano i dati oggettivi sulla mobilità segnalando barriere della viabilità cittadina (ad esempio gradini, strade dissestate, rampe troppo ripide), ma anche informazioni sull’accessibilità di locali attraverso le foto. È “Social” perché gli utenti possono interagire tra di loro o in gruppi, condividere e consigliare locali in cui si sono trovati bene e, in ultima, fare o rispondere a domande poste dalla community.  Infine, è “Navigator” perché guiderà gli utenti da un punto A a un punto B attraverso i percorsi più sicuri personalizzati sulle esigenze dell’utente e sfruttando i dati degli ostacoli inseriti in mappa dalla community.

In che modo la app vuole ripensare la definizione di disabilità in città?

Abbiamo sostanzialmente invertito il flusso del processo di progettazione rispetto a ciò che succede nella maggior parte delle soluzioni offerte, dove si parte dalla mobilità di molti e solo dopo si riadatta alla mobilità delle persone con difficoltà più severe, facendole sentire un’“aggiunta” e non parte della mobilità. Parlando con un ragazzo in carrozzina mi è stato detto: «Quando entro nei ristoranti o in qualsiasi struttura, mi sono stufato di entrare dalla porta laterale quasi sempre nascosta per l’accesso delle persone con disabilità. Voglio entrare dalla porta d’ingresso, come tutti gli altri. Idealmente ciò che vogliamo fare è proprio questo: creare uno strumento che acceleri il raggiungimento di un mondo accessibile per tutti, tale da rendere superflua la definizione stessa di persona con disabilità. Tutti devono poter entrare dalla stessa porta per accedere al mondo».

Foto di Jung Ho Park tratta da Unsplash

Come sta andando la sperimentazione? Avete trovato qualche difficoltà?

La sperimentazione, nonostante le limitazioni di movimento causate dal Covid, sta andando bene: abbiamo coinvolto diverse persone, per la maggior parte in carrozzina che stanno sperimentando e inserendo dati per migliorare l’app e per prepararla per i futuri utilizzatori. C’è un grande senso di responsabilità e voglia di riscatto e noi vogliamo valorizzarlo. Il test ci sta dando dei feedback molto utili e stiamo comprendendo come rendere l’app più performante e chiara. Siamo aperti a tutte le persone che vogliono portare il loro contributo nei test, il problema è grande e la squadra deve esserlo altrettanto, oltre che forte! È possibile scrivere sulla pagina WeGlad di Facebook e parlare direttamente con me, per partecipare ai test e utilizzare l’app! Le associazioni di categoria ci stanno dando una mano nel trovare nuovi gladiatori, la CPD (Consulta Persone in Difficoltà), già storicamente molto attiva sulle battaglie per l’accessibilità e per i diritti delle persone con disabilità, grazie a Giovanni Ferrero e al suo team con cui stiamo collaborando, ci appoggia in questo percorso.

Per il futuro cosa vi aspettate?

Stiamo raccogliendo fondi per partire con una startup costituita e che ci consenta di potenziare tutte le attività che stiamo conducendo. La startup sarà a vocazione sociale. Uno dei prossimi obiettivi sarà portare l’app allo step successivo migliorandola con i feedback che abbiamo ricevuto fino ad ora. Nel prossimo futuro ci saranno ulteriori collaborazioni con aziende, associazioni e municipalità che condividono i nostri valori e che vogliono dare il loro contributo. Siamo molto contenti di vedere che si muovano energie molto positive da questo punto di vista e che la squadra stia diventando eterogenea e forte. In futuro ci aspettiamo di concludere il test su Torino, crearne un modello e replicarlo in tutta Italia. Il nostro sogno è renderlo un progetto globale, il coronamento della nostra visione aziendale.

Fonte: https://www.italiachecambia.org/2021/02/weglad-app-mappa-buche-locali-aiutare-gladiatori-carrozzina/?utm_source=newsletter&utm_medium=email

La Matota: un servizio pubblico per evitare lo spopolamento nei piccoli Comuni

Nel basso Piemonte, in provincia di Cuneo, è stata avviata la parte conclusiva di un progetto a sostegno di chi vive in zone decentrate a rischio di spopolamento. “La Matota” è un servizio di porta a porta destinato all’assistenza a domicilio e promosso dall’Unione montana di Ceva all’interno di 7 Comuni ormai desertificati dove gli esercizi commerciali, la posta e altri servizi stanno progressivamente scomparendo.

«Gli abitanti di questi comuni devono percorrere fino a 20 km per trovare una farmacia, un negozio o la posta» ci spiega Alessandro Nan, un dipendente pubblico dell’Unione Montana delle Valli Mongia e Cevetta Langa Cebana Alta Valle Bormida.
«Per questo motivo, la mattina, dalle 8.00 alle 10.00, una signora assunta apposta per questo progetto riceverà per telefono le prenotazioni dei servizi postali, farmaceutici, il ritiro dei referti ospedalieri e l’acquisti di alimenti, con l’obiettivo di aiutare chi non può utilizzare la macchina. Non si tratta esclusivamente di anziani ma anche di famiglie, in alcuni casi temporaneamente impossibilitate a spostarsi. Il servizio che offriamo vuole essere aperto a tutti».

Nel dialetto del luogo la Matota è la giovinetta di famiglia, la bambina che nella tradizione aiutava a fare le commissioni spostandosi per il paese. Il progetto è stato finanziato dallo Stato, tramite la Regione Piemonte che ha fatto da filtro, per alleggerire il disagio di chi abita in questi luoghi.

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Un’altra parte del progetto prevede la messa a disposizione di un furgone che nei giorni del mercato passa per i paesi a prendere le persone per poi riaccompagnarle a casa In questo modo non solo si facilitano materialmente gli spostamenti ma si offre un’opportunità per migliorare il senso di comunità contrastando l’isolamento a cui potrebbero andare incontro questi abitanti.

«Per ripopolare il territorio e creare un’economia basata sulle produzioni locali e sul turismo sono stati aperti anche due esercizi di vicinato, cioè due punti vendita di prodotti locali caratteristici. Sono prodotti che fanno fatica ad avere spazio sul mercato nonché eccellenze del territorio che nella maggior parte dei casi si conoscono solo per mezzo del passa parola. Ma ora abbiamo messo a disposizione, qui a Castelnuovo di Ceva, nel Centro Servizi, un locale chiamato “Radici del Territorio” e uno a Rocca Ciriè, dove poterli conoscere e avere informazioni su come acquistarli».

Ci racconta Alessandro che l’area dell’Unione Montana è un ente pubblico che serve 18 comuni e promuove attività sul territorio per valorizzarlo e proteggerlo.

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«Noi ci occupiamo anche della manutenzione delle risorse paesaggistiche. Cerchiamo di far ripartire le economie perché gli abitanti sono una risorsa, sono le sentinelle del territorio. Se il territorio si spopolasse si andrebbe in contro a consistenti problemi idrogeologici poiché solo chi vi abita può concorrere a gestire, come nel caso di strade e ruscelli.
Fortunatamente e sempre più spesso capita che qui arrivino giovani che, avendo scelto di cambiare vita, sono emigrati dalle città per diventare agricoltori e allevatori». Così stanno anche rinascendo lavori abbandonati trenta o quaranta anni fa e nuove produzioni attente a mantenere vive le tradizioni.

Foto copertina
Didascalia: Spesa
Autore: Pixabay
Licenza: CCO Creative Commons

Fonte: http://piemonte.checambia.org/articolo/matota-servizio-pubblico-evitare-spopolamento-piccoli-comuni/?utm_source=newsletter&utm_campaign=general&utm_medium=email&utm_content=relazioni

Orti sociali per coltivare le diverse abilità e sradicare gli stereotipi

Un’esperienza di lavoro, di sana vita e di gruppo e soprattutto un’occasione di crescita personale. I ragazzi del Centro Diurno Disabili di Voghera raccontano la loro esperienza a contatto con la terra nell’ambito del progetto “Orti Sociali di Voghera” promosso dalla rete Agricoltura Sociale Lombardia. La rete Agricoltura Sociale Lombardia dà voce ad alcune storie di riscatto rese possibili grazie alle esperienze di inclusione concretizzate attraverso l’agricoltura sociale. L’ultimo report parla di ben 1.967 persone con svantaggio che attraverso la rete regionale hanno trovato un’opportunità di riscatto. Di queste 1.096 sono disabili e coinvolte a vario titolo nelle attività agricole. Approdando sul territorio pavese brilla una testimonianza particolarmente speciale perché in grado di scardinare numerosi luoghi comuni sulla disabilità senza edulcorazioni ma con il solo ingrediente dell’esperienza diretta a contatto con la natura, i suoi ritmi e non da ultima la sua bellezza. Tutto accade nell’ambito del progetto “Orti Sociali di Voghera” – appartenente alla rete regionale ASL – della Fattoria sociale Baggini che si mette in sinergia con il Centro Diurno Disabili di Voghera.

Da questo intreccio virtuoso scaturisce l’intento di coinvolgere cinque giovani con disabilità intellettiva e motoria in un’attività di orto sociale. Un’esperienza partita a metà ottobre 2018 e che sta prendendo sempre più quota sul fronte dei risultati come racconta Elisa Castelli, una delle referenti del progetto oltre che educatrice del centro gestito dalla cooperativa onlus Marta: “Abbiamo ideato questa iniziativa formativa con un obiettivo ben chiaro: volevamo portare i ragazzi fuori dalle mura protettive e abitudinarie del centro per metterli a contatto con qualcosa di nuovo. Desideravamo trasmettere loro la percezione di non essere più solo dei fruitori di aiuto ma di poter diventare loro stessi dei portatori di una vera e propria ‘cura’ nei confronti di qualcosa che ha bisogno di essere seguito con motivazione, attenzione e pazienza. Nell’orto imparano che bisogna seminare bene ora per raccogliere frutti più avanti”. 

“Un’altra bella esperienza agli Orti Sociali di Voghera – evidenzia Moreno Baggini, responsabile del progetto omonimo e coordinatore del territorio pavese per la rete ASL – Si tratta di un modello di intervento innovativo studiato dal CDD di Voghera che recupera l’elemento storicamente inclusivo che è innato in agricoltura e che spesso garantisce ottimi risultati dal punto di vista terapeutico e del reinserimento sociale. Grazie alle educatrici del CDD e all’orto-terapista Emanuele Carcò i ragazzi coinvolti stanno avendo opportunità per fare le loro prime esperienze di lavoro e sana vita di gruppo ma anche e soprattutto esperienze di vita e crescita personale”.

Diverse abilità in campo

I giovani coinvolti – di età compresa tra i 30 e i 35 anni, di cui quattro ragazzi e una ragazza – in passato hanno già maturato esperienze di cura delle piante nell’ambito del servizio del centro. “L’entusiasmo era tale che volevamo replicarlo in un luogo diverso dove poter sperimentare nuove relazioni e mansioni che consentissero la scoperta di competenze” spiega Elisa Castelli.  

La terra come base di inizio per una nuova esperienza di formazione. Una volta a settimana per circa due ore i ragazzi del CDD di Voghera imparano i rudimenti del mestiere grazie alla guida dell’orto-terapista della fattoria Baggini che mostra i vari passaggi da eseguire. Vengono utilizzati diversi attrezzi, tranne gli strumenti a motore, ed eseguite operazioni che richiedono concentrazione, come conferma Elisa: “Recentemente abbiamo, ad esempio, tolto tutte le piante di pomodori per lasciare spazio alle fragole che arriveranno a primavera. Un bell’esercizio di cura e attesa da parte dei nostri ragazzi che hanno anche usato la vanga. Tutto questo insieme a noi educatori perché svolgiamo tutti i medesimi compiti senza differenze”.  

Un’esperienza che ha destato interesse, gratificazione ed entusiasmo negli stessi ragazzi. “All’orto mi diverto con Riccardo che mi insegna cosa fare” racconta ad esempio Alessandro che partecipa all’attività. “Andare a lavorare con i miei compagni è bello” commenta Luca, confermando le impressioni del suo collega. “Mi piace molto fare l’orto e raccogliere le verdure, oggi ho portato a casa i finocchi” sottolinea Alberto che ha potuto toccare con mano la soddisfazione di vedere i risultati del proprio impegno. “È bello prendersi cura di qualcosa… poi lo mangi e sei contenta!” riflette Chiara con entusiasmo a questo proposito.

Stereotipi da sradicare, capacità da coltivare

Possiamo dire che l’orto sociale permette coltivare abilità nascoste? “Certamente – è la risposta convinta di Elisa – I benefici sono concreti e riscontrabili su vari livelli. Dal punto di vista relazionale ci si confronta con gli altri e si impara a lavorare insieme imparando a conoscere l’altro e rispettando i ritmi della natura. Saper attendere i risultati del proprio impegno senza fretta ma con pazienza è qualcosa di fondamentale e fortemente educativo. Accade così anche per noi operatori che ci confrontiamo con la disabilità, consapevoli che i risultati non arrivano subito ma che con l’impegno prima o poi ci saranno e questa è la più grande soddisfazione: dare tempo con fiducia”. 

Altro tassello importante è quello cognitivo soprattutto perché parliamo di persone con disabilità intellettiva: “Ogni ragazzo ha modo di contribuire secondo le capacità di cui dispone.  Il lavoro permette di acquisire autonomia e maggior responsabilizzazione in un contesto con ritmi tranquilli e adatti a questo tipo di fragilità. Inoltre la metodologia iniziale strutturata ad imitazione delle tecniche proposte dall’orto-terapista favorisce l’acquisizione di competenze e stimola la memoria potenziando l’aspetto cognitivo e riducendo nettamente le stereotipie che spesso assorbono i nostri utenti. Il contatto con la natura, i suoi cambiamenti e ritmi, migliora la percezione di se stessi”. 

Parliamo di luoghi comuni. Qual è lo stereotipo che questa esperienza di agricoltura sociale è finora riuscita a scardinare di più riguardo alla disabilità mentale? “Ha dimostrato che queste persone non sono bambini ma adulti e che al di là di giuste necessità di routine e attenzione familiari hanno diritto e possibilità di confrontarsi con nuove realtà e persone creando una vera e propria rete relazionale: aspetto importante per la vita di tutti noi. Perché uscire dagli schemi abitudinari ci permette di crescere”. 

Elisa, da educatrice, qual è la più grande soddisfazione derivata finora da questo progetto di orto sociale? “Vedere i nostri ragazzi felici e coinvolti in qualcosa che va al di fuori delle solite attività quotidiane. Siamo stati molto fortunati a trovare un ambiente piacevole e accogliente che li rende sereni e appagati, senza stereotipie o disagi. Il lavoro agricolo è davvero terapeutico: svela abilità”.

Fonte:  http://www.italiachecambia.org/2018/12/orti-sociali-coltivare-diverse-abilita-sradicare-stereotipi/?utm_source=newsletter&utm_campaign=general&utm_medium=email&utm_content=relazioni

Scampia, pneumatici fuori uso diventano campo da calcio intitolato ad Antonio Landieri

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Da rifiuto a risorsa per la comunità: così, a Scampia, tonnellate di gomma riciclata ricavate da pneumatici fuori uso abbandonati si sono trasformati in un campo di calcio dedicato ad Antonio Landieri, disabile venticinquenne ucciso nel 2004 dalla camorra.

Un segnale importante per i cittadini: i vecchi campetti in disuso situati nell’area in cui oggi sorge il moderno stadio, che vuole essere un simbolo di legalità, erano infatti diventati negli ultimi anni tappa abituale di giovani tossicodipendenti. I lavori di realizzazione del nuovo manto erboso del campo, erba sintetica di ultima generazione realizzata con 77mila chili di gomma riciclata da pneumatici fuori uso, sono iniziati a luglio e terminati ad ottobre. Il progetto è frutto di un protocollo d’intesa contro l’abbandono di pneumatici nella Terra dei Fuochi, siglato nel 2013 da Ministero dell’Ambiente, Prefetture, Comuni di Napoli e Caserta, il consorzio di gestione degli pneumatici fuori uso Ecopneus, l’incaricato del Ministro dell’Interno ed il Ministero dell’Ambiente stesso. Protocollo sulla cui attuazione ha vigilato un Comitato presieduto e coordinato sempre dal Ministero dell’Ambiente, nell’ambito delle attività svolte dalla Direzione per i Rifiuti e l’inquinamento.

L’inaugurazione dello stato Antonio Landieri – ha commentato il Ministro Gallettioltre a costituire un esempio di come i rifiuti possano trasformarsi in risorsa, è anche un modo per comunicare ai cittadini che rispetto dell’ambiente e legalità viaggiano di pari passo, e un segnale importante in un territorio segnato da indubbie difficoltà”.

Complessivamente, per l’attività di gestione degli pneumatici fuori uso abbandonati ed altre complementari come quelle informative della cittadinanza, il Protocollo ha messo a disposizione circa 4 milioni di euro. Dalla data di sottoscrizione al 31 agosto 2017, sono state raccolte circa 8.000 tonnellate di Pfu abbandonati per una spesa complessiva per la corretta gestione degli stessi di circa 1.400.000 €. Sempre nell’ambito della complessiva operazione di gestione di pneumatici fuori uso è stata condotta l’attività di svuotamento di Pfu di circa 6.000 tonnellate nel sito di via Gianturco in Napoli, di circa 10.000 tonnellate nel comune di Marcianise e di circa 8.000 tonnellate nella discarica di Scisciano. Parallelamente all’attività di prelievo degli Pfu dal territorio, è stata promossa e messa in atto la campagna contro l’abbandono dei pneumatici fuori uso dal titolo “Io scelgo la strada giusta” tramite la quale il Comitato conduce l’attività di sensibilizzazione della popolazione per dare impulso alle corrette pratiche di gestione degli pfu, anche da parte di ogni singolo cittadino, di cui il campo di Scampia rappresenta una delle massime espressioni. All’inaugurazione odierna, di fronte ad abitanti, studenti e associazioni del quartiere, sono intervenuti il Sindaco di Napoli Luigi de Magistris, il Consigliere del Ministro dell’ambiente Vittorio Sepe, il Vicesindaco di Napoli e Assessore all’ambiente Raffaele Del Giudice, il Prefetto incaricato dal Ministro dell’Interno per il contrasto ai roghi in Campania Michele Campanaro e Giovanni Corbetta, Direttore Generale di Ecopneus.

Fonte: ecodallecitta.it

Hackability: designer e disabili per una tecnologia “dal basso”

L’artigianato digitale si mette a disposizione dei disabili per progettare ausili capaci di venire incontro alle loro esigenze. Il progetto Hackability fra proprio questo, coinvolgendo competenze trasversali e mettendo i risultati a disposizione di tutti grazie all’open source. Fabbricazione artigianale, tecnologia e confronto multidisciplinare: sono questi gli ingredienti che hanno dato vita ad Hackability, un punto di incontro per professionisti che impiegano la proprie conoscenze per cercare di migliorare la vita dei disabili.Di-Culo-2

Oggi è un’associazione ma nasce come una community e il primo hackaton di Hackability si è svolto nel 2015 a Torino. Gli hackaton sono gare non competitive tra team composti da designer, maker e informatici che progettano ausili super personalizzati insieme ai disabili per rispondere alle esigenze della vita quotidiana garantendo un prodotto ideato“su misura”.

L’idea di kackability nasce dall’osservazione di quanto sia diffusa la richiesta di presidi,  oggetti o telecomandi che si adattino a richieste e problematiche specifiche. Da qui la consapevolezza che le risposte non possono che essere adattamento e personalizzazione di oggetti comunemente in commercio, l’autocostruzione o la realizzazione di nuove soluzioni supportate da tecnici o da piccoli artigiani. La produzione industriale non può essere in alcun modo la strada da percorrere, sia perché alcuni adattamenti sono così specifici da non essere spendibili per una linea seriale, sia perché i costi di produzione per oggetti che si diffonderebbero solo su strettissima scala sarebbe enorme.Polito4

La soluzione è dunque la diffusione del principio che guida i fablab, utilizzando i migliori strumenti dell’alta tecnologia per la co-progettazione e lo sviluppo di oggetti dal “design for each” (un design su misura per ogni esigenza specifica). In questo modo macchine di prototipazione, stampanti 3D e schede open  source possono essere utilizzati per produrre presidi nuovi (o migliorati) e oggetti a basso costo per supportare le persone con disabilità nella vita quotidiana, facilitandone l’inclusione, l’autonomia lavorativa e la riabilitazione. Ma il bello non finisce qui, perché una volta realizzato il prototipo i modelli sono gestiti in un regime di totale open source, i file di progettazione sono messi on-line e chiunque potrà riprenderli e adattare a sua volta l’oggetto alle proprie necessità.

Fonte: http://www.italiachecambia.org/2017/02/hackability-designer-e-disabili-per-una-tecnologia-dal-basso/?utm_source=newsletter&utm_campaign=general&utm_medium=email&utm_content=relazioni

La battaglia di due amici disabili in difesa del pianeta

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Wenji e Haxia sono disabili, ma hanno deciso di non arrendersi. Hanno unito le forze e piantato oltre 10.000 alberi in un’area devastata dall’inquinamento atmosferico, dove flora e fauna continuavano a morire. Hanno trovato la ragione della propria esistenza nel prendersi cura del pianeta.

«Anche se abbiamo delle limitazioni nel corpo, i nostri spiriti sono senza limiti». Sono le parole di Wenji Jia, uomo semplice ma dai grandi ideali. Viene dalla contea di Jingxing, nella provincia di Hebei, in Cina. Ha 54 anni e, all’età di 3, ha perso entrambe le braccia in un incidente: fulminato dai cavi dell’alta tensione. Malgrado ciò, ha deciso di dare un senso alla propria vita e salvare il Pianeta. E ha deciso di farlo insieme al suo amico di infanzia, Haxia Jia, 55 anni, che ha perso la vista nel 2000 per un incidente in miniera. Insieme, hanno già piantato più di 10mila alberi in 10 anni.10000-alberi-1

«Tu sarai le mie braccia, io sarò i tuoi occhi: insieme salveremo il Pianeta»

Haxia racconta che lui e Wenji sono amici fin dall’infanzia. Le loro famiglie sono molto unite: i loro padri sono a loro volta grandi amici. Quando dopo l’incidente il medico gli comunica che ha perso la vista e che non l’avrebbe più recuperata, cade nella disperazione: non ha più senso vivere e comincia a pensare anche al suicidio.

«Se fossi nato con questa disabilità, forse sarebbe stato diverso, me ne sarei fatto una ragione», ammette. «Ma io era abituato a guardare da molto lontano e a leggere il giornale tutte le volte che volevo».

Poco dopo l’incidente, Wenji torna nel suo Paese natio, da dove era partito diversi anni prima. Fino ad allora aveva lavorato in una compagnia di artisti disabili, finché suo padre non si era ammalato. È quindi ‘costretto’ a lasciare il lavoro per prendersi cura del genitore.10000-alberi-7

Appena tornato in paese, si rende conto dello stato di depressione di Haxia. Mosso a compassione, decide di offrirgli la sua “manica”. Un giorno, mentre sono insieme gli fa una proposta: «Io sarò i tuoi occhi, se tu sarai le mie braccia».10000-alberi-2

«Vivere significa avere uno scopo»

A causa della loro disabilità, non hanno molta scelta. Le opportunità di lavoro sono scarse, ma i due amici decidono di non arrendersi. Non vogliono essere un peso per la società e pensano che l’esistenza di ciascuno abbia senso solo grazie a uno scopo. Si sono così chiesti come possono dare un contributo alla comunità che li ha accolti e cresciuti. La risposta è arrivata in maniera semplice: «Piantiamo alberi», si sono detti. Di lì a poco, si ritroveranno a salvare il pianeta. Wenji e Haxia sanno molto bene che gli uccelli si stanno estinguendo: ne scompaiono circa tre specie ogni anno. La causa? L’inquinamento atmosferico causato dal lavoro nelle cave. In passato la loro regione era florida: sulle montagne c’erano prati e alberi, ma da quando è iniziata l’attività estrattiva, tutto si è trasformato in una landa incolta. Una triste riproduzione, in piccolo, di quanto sta succedendo al Pianeta: tutto peggiora a causa di attività economiche senza scrupoli.10000-alberi-5

Nella regione in cui vivono, ogni volta che si alza il vento, le polveri provenienti dalle miniere si diffondono nell’aria e si riversano nel fiume.10000-alberi-6

Questo danneggia gravemente l’ecosistema, perché le polveri uccidono i pesci, i gamberi, le tartarughe e qualsiasi altro essere vivente, provocandone l’estinzione. L’aria diventa via via irrespirabile. Piantare alberi è necessario per salvare la loro terra.

«Dove va l’acqua, lì andremo noi»

Durante il loro primo autunno insieme riescono a piantare circa 800 alberi. In primavera però, quando tornano per controllare il frutto del proprio lavoro, ricevono un grande choc. Degli 800 alberi piantati, ne sono sopravvissuti solo due. I due amici credevano che si trattasse di un lavoro più semplice. Pensavano bastasse piantare dei rami nel terreno per veder crescere alberi alti e forti. Ma la mano dell’uomo si è spinta troppo oltre nella sua furia distruttrice: il terreno è troppo arido e non permette la sopravvivenza di piante, alberi e fiori. Haxia oggi ammette che davanti a quella visione catastrofica è preso dallo sconforto: vuole mollare. Ma Wenji è mentalmente più forte di lui: ha passato una vita intera ad affrontare sfide durissime, a causa della sua disabilità. Convince l’amico a resistere e suggerisce una strategia ancora più drastica: «Deviamo il corso del fiume: così potremo piantare gli alberi vicino all’acqua».10000-alberi-8

«Se si lavora insieme, si può raggiungere qualsiasi risultato»

All’inizio della loro avventura non hanno semi o alberelli da piantare, perché non hanno soldi per acquistarli. Decidono così di utilizzare i rami, tagliandoli dagli alberi. Non molte persone usano questa tecnica, perché molto scomoda e ardua. A maggior ragione è difficile per loro che hanno oggettive difficoltà ad arrampicarsi. Ma la forza della disperazione li spinge a tentare.10000-alberi-9

Dopo qualche tempo, si rendono conto che alcuni rami avevano messo radici: iniziano finalmente a crescere i primi germogli. Così, ormai da 10 anni, i due amici continuano nel loro folle progetto di salvare la loro terra e tutto il pianeta dalla distruzione.10000-alberi-10

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In questo lasso di tempo, hanno piantato più di 10.000 alberi, trasformando terreni incolti in un’area boschiva. Il loro progetto arriva presto anche al comitato di villaggio, che concede loro un’area di oltre 100 acri sulle colline per proseguire l’opera di rimboschimento.10000-alberi-12-681x387

«Speriamo di poter inspirare e motivare le persone. Se si lavora insieme e per gli stessi valori, possiamo fare qualsiasi cosa. Se ciascuno di noi piantasse uno o due alberi ogni anno, immaginate la differenza che potrebbe fare per il pianeta. Vorremmo che le generazioni future vedano ciò che due disabili sono riusciti a realizzare. Dopo la nostra morte, potranno vedere che un cieco e un uomo senza braccia hanno lasciato in eredità una foresta».10000-alberi-14

Fonti: periodismo.com, GoPro

Agricoltura sociale e disabilità: il progetto “Evergreen Fare impresa”

“Evergreen Fare Impresa” è un progetto di floricoltura e agricoltura sociale supportato dal comune di Lerici (in provincia di La Spezia) e dalla Fondazione Manlio Canepa. Tra i principali obiettivi vi è quello di costituire un contesto sociale e lavorativo in cui si possano inserire le persone con disabilità e, all’interno di una dinamica cooperativa, possano essere valorizzate le competenze di ogni persona. Avviare un percorso di acquisizione di competenze nell’ambito della floricoltura e dell’agricoltura. Con questa finalità prende il via nel 2008 il progetto “Evergreen Fare Impresa” che coinvolge una decina di persone con disabilità del territorio della provincia di La Spezia. Il progetto nasce grazie ad un contributo della Provincia di La Spezia, alla volontà della Fondazione Manlio Canepa e del comune di Lerici, in partenariato con le cooperative che gestiscono il progetto.  Grazie agli educatori che indirizzano il lavoro del gruppo e ad esperti del settore agricolo, vengono valorizzate le competenze di ognuno.

Agricoltura sociale per una società più equa e collaborativa

“L’agricoltura sociale (AS) valorizza l’agricoltura multifunzionale nel campo dei servizi alla persona e si caratterizza per legare la produzione di beni e servizi tradizionali alla creazione di beni e reti informali di relazioni. Accanto alla produzione di prodotti alimentari e servizi tradizionali dell’agricoltura, l’AS interviene a sostegno della produzione di salute, di azioni di riabilitazione/cura, dell’educazione, della formazione, dell’organizzazione di servizi utili per la vita quotidiana di specifici gruppi di utenti, nonché nella creazione di opportunità occupazionali per soggetti a più bassa contrattualità …”
(Manifesto dell’Agricoltura Sociale – Progetto Social Farming – Uni Pisa).

La redistribuzione dell’economia su scala mondiale e la progressiva scarsità delle risorse naturali, hanno prodotto un movimento di mutamento nell’organizzazione dei processi di produzione e distribuzione dei valori economici nella nostra Società. Allo stesso tempo, la crisi ambientale impone la riflessione su un uso responsabile delle risorse naturali, che assicuri una gestione equilibrata del territorio non urbanizzato, per salvaguardare l’uso della terra e prevenire le possibili crisi che potranno derivare da una rinnovata difficoltà di accesso al cibo.serra-e-panorama

La mobilizzazione dai territori di nuove risorse, materiali ed immateriali, vecchie e nuove, specialistiche e non, si realizza attraverso processi di innovazione sociale volti a generare una crescita inclusiva, intelligente e sostenibile (EU 2020) e pensare a risposte di migliore tenuta sociale rispetto ai bisogni esistenti. Alla base di percorsi di innovazione sociale c’è un diverso coinvolgimento della società civile, della responsabilità delle imprese, ma anche un diverso modo di operare delle pubbliche amministrazioni, come dei soggetti istituzionali. In questa rinnovata capacità di coinvolgimento attivo, l’ipotesi da costruire è quella che parte dall’organizzazione di sistemi di economia civile, dove l’interdipendenza e le relazioni di comunità (la core economy) divengono meccanismi di supporto al funzionamento di mercati più etici e di uno Stato meno paternalistico e gerarchico e più collaborativo e aperto al confronto, nelle Istituzioni centrali come in quelle locali.

Il progetto “Evergreen Fare Impresa”

“Evergreen” nasce dalle attività del Centro Diurno Antares di Lerici (SP), nel 2007 come percorso formativo. Si concretizza poi in un contesto pre-lavorativo protetto per persone con disabilità, orientato esattamente in questa direzione: nato come progetto formativo nell’ambito della floro e ortocultura, diventa nel 2011 una struttura florovivaistica alla Serra di Lerici, con annessi terreni agricoli coltivati a ortaggi e alberi da frutto, grazie all’Amministrazione Comunale di Lerici (SP) e la Fondazione Manlio Canepa O.N.L.U.S.  Le cooperative sociali C.O.C.E.A. e Lindbergh, proseguono la gestione del progetto che accoglie persone con disabilità dei distretti sanitari 17, 18 e 19 della Regione Liguria.luca-e-stefano

La scansione temporale del progetto e la sua attuazione avviene su base stagionale, permettendo a chi ne prende parte di affrontare il lavoro di semina, cura e raccolta in base a carichi orari personalizzati. Le serre e il terreno agricolo adiacente sono gestiti in funzione delle richieste di mercato, ma anche in modo attento rispetto alle diversità delle persone coinvolte. Tutti gli utenti, i borsisti e gli operatori hanno ormai acquisito sufficienti competenze sulle specifiche mansioni di volta in volta assegnate. L’attività che si sviluppa durante tutto l’anno, si svolge 5 giorni la settimana, sia in serra che presso alcuni mercati di settore per avviare la vendita dei prodotti coltivati, dal lunedì al venerdì, dalle 8.30 alle 12.30. La struttura florovivaistica e gli orti accolgono gli utenti del progetto e diverse persone in regime di borsa lavoro, come percorso di acquisizione delle competenze pre-lavorative e lavorative specifiche per il settore. Molte sono poi le collaborazioni con le scuole per i progetti di alternanza scuola-lavoro per studenti con disabilità e non (nello specifico con l’Istituto Agrario di Sarzana -SP-), o con le scuole elementari per i progetti legati all’attività di “serra didattica” che in primavera e in autunno accoglie i bambini che vengono seguiti nei vari laboratori dagli educatori e dalle persone con disabilità. Quotidianamente tutti vengono supportati da operatori/educatori esperti, da operai giardinieri del Comune di Lerici, costituendo in tal modo un’efficace rete fra le diverse istituzioni preposte (Servizi Sociali del comune e Asl).al-lavoro-a-lerici

La terapia occupazionale

La terapia occupazionale (definita anche ergoterapia) è una disciplina riabilitativa e conseguentemente una professione centrata sullo sviluppo e il mantenimento della capacità di agire delle persone. Contribuisce al miglioramento della salute e della qualità di vita. Facilita la partecipazione alla società permettendo di prendere parte alle attività quotidiane. (ASE, 2011). La modalità del laboratorio occupazionale permette di confrontarsi con un’attività molto vicina a quella lavorativa anche a chi non è in grado di affrontarla in autonomia (attraverso ad esempio una borsa lavoro, un tirocinio o un progetto di formazione in situazione), poiché in un contesto protetto e supportati in modo adeguato alle diverse necessità, si ha la possibilità di imparare a sostenere le proprie responsabilità e a svolgere compiti e mansioni assegnati rispetto ai ruoli, con impegno e coinvolgimento, mettendo a frutto le proprie potenzialità.

Gli obiettivi principali della Terapia occupazionale sono:
– Aumento della percezione positiva di sé come individuo attivo e produttivo, utile nel suo ruolo sociale, con un conseguente recupero dell’autostima.
– Facilitazione del lavoro di gruppo nella concretizzazione del pensiero: “quello che faccio io sommato quello che fai tu e che facciamo assieme, diventano un prodotto completo e di valore”.
– Ampliamento della capacità attentiva e dell’assunzione di responsabilità nella presa in carico, con ruoli specifici, di tutto ciò che inerisce gli strumenti e il materiale necessario per il lavoro.
– Conferimento di competenze spendibili nel mondo del lavoro o del pre-lavoro in contesti protetti.
– Miglioramento delle competenze relazionali con persone conosciute e nella presentazione di sé con chi non si conosce.serra

I vantaggi dell’attività agricola

L’attività agricola, molto efficace per chiunque, lo è soprattutto per coloro che hanno degli svantaggi: la possibilità di stare all’aria aperta, di veder crescere una pianta e raccoglierne i frutti è sicuramente positiva. Altro fattore di beneficio è quello di lavorare in un contesto che ha a che fare con tempi biologici. I tempi con cui si sviluppano i processi di produzione agricola sono molto lunghi rispetto ad altri settori lavorativi. La relativa “lentezza” dei cicli di produzione agricoli rende il settore Primario un ambito nel quale i ritmi di lavoro non sono quasi mai incalzanti; consente di poter modulare la “velocità” di esecuzione delle varie operazioni e anche di fermarsi, di concedersi pause, senza compromettere la qualità del prodotto finale.

Fonte : italiachecambia.org

Parole di incoraggiamento bellissime e inaspettate

La famiglia di Riley England, un bimbo di 8 anni di China Grove (North Carolina), si trovava a cena in un ristorante della città, quando una cameriera si è avvicinata ad Ashey, la mamma di Riley, e, piangendo a dirotto, le ha comunicato che uno sconosciuto aveva già pagato il conto per tutta la famiglia e che l’aveva pregata di dar loro un biglietto.Riley-England-Note-609x350

Sorpresa per le lacrime della cameriera, Ashley England ha aperto il bigliettino e incredula ha letto il seguente messaggio: “Dio affida i bambini speciali solo alle persone speciali”. Il piccolo Riley – il bel bambino che sorride nella foto a lato – soffre di epilessia, non riesce ad esprimersi attraverso le parole ed ha subito ben tre delicati interventi al cervello e, durante la cena, stava diventando piuttosto impaziente ed irrequieto.

“Le ultime settimane”, ha spiegato Ashley alla stampa, “sono state piuttosto difficili e spossanti per noi, specialmente fuori casa. Riley cominciava ad urlare e a battere i pugni sul tavolo e so che a qualcuno dà molto fastidio. Ma se uno non si trova nei nostri panni, non ha diritto di giudicare. Perché dà per scontato anche un semplice “ti voglio bene” da parte del proprio figlio”.

Perciò, dopo che la cameriera si è avvicinata al tavolo dicendo “Cercherò di dirvelo senza piangere, ma un altro cliente vi ha già pagato la cena e vuole che vi dia questo biglietto”,Ashley è scoppiata a piangere, sopraffatta da tanta gentilezza ma, soprattutto, per le inaspettate parole di incoraggiamento.

“Vedere che qualcuno ha fatto questo per noi, ci dimostra che c’è chi capisce perfettamente ciò che proviamo e quanto sia difficile per noi, a volte, stare in mezzo alla gente. Mi ha fatto piangere, è stata una vera benedizione, più di quanto possa immaginare. Mi ha fatto dimenticare tutti i commenti negativi e cattivi. Li ha spazzati via completamente. Esistono ancora persone che hanno un cuore!”

Ashley, infine, ha voluto ringraziare pubblicamente la persona che ha pagato la cena, ma soprattutto per le bellissime parole di incoraggiamento nei loro confronti: “Non poteva sapere quali difficoltà abbiamo dovuto affrontare ultimamente e in quel momento avevamo davvero bisogno di una parola di conforto. Grazie!”

Fonte: buone notizie.it