India: tribù cacciata e parte la ricerca di uranio

Una tribù indiana cacciata dal Governo con la “scusa” di salvare le tigri; ma poi per quell’area arriva il sì alle esplorazioni per la ricerca di uranio.9584-10349

I Chenchu vivono a fianco delle tigri nella Foresta di Nallamala, che comprende la Riserva della tigri di Amrabad, da tempi immemorabili, spiega l’organizzazione Survival International, che difende i diritti dei popoli nativi.

«Ora nel nome della conservazione, i funzionari indiani minacciano di sfrattare i Chenchu da una riserva delle tigri – spiegano dall’organizzazione – Tuttavia hanno anche appena approvato l’esplorazione per la ricerca di uranio all’interno della stessa riserva. La mossa ha fatto infuriare gli attivisti, che accusano le autorità di ipocrisia. La tribù dei Chenchu, nella Riserva delle tigri di Amrabad, supplica di poter restare nella terra che ha gestito e abitato per millenni».

“Il Dipartimento alle Foreste vuole sfrattarci da qui. Ma noi non vogliamo andare da nessun altra parte. Noi proteggiamo la nostra foresta. Andar via sarebbe come mettere un pesce fuor d’acqua: morirebbe…” hanno dichiarato. “Ma ora il governo, per suo profitto, sta separando i Chenchu dalla foresta ed è come separare un figlio dalla madre.”

E hanno aggiunto “Il governo sta vendendo la foresta alle compagnie minerarie. Se andremo nelle pianure, diventeremo dipendenti dall’alcool, berremo e moriremo. In futuro, i Chenchu esisteranno solo in fotografia o nei video.”

“Noi viviamo nella foresta e lì moriremo. La foresta è nostra madre e la nostra vita. La fauna è la nostra vita: senza non possiamo vivere.”

«Le autorità indiane – spiega Survival – giustificano gli sfratti forzati dei popoli tribali, che sono illegali secondo la legge nazionale e internazionale, sostenendo che ogni presenza umana nelle riserve è dannosa per le tigri. Tuttavia, in India, in molte riserve delle tigri, ai turisti paganti è consentito entrare in grandi gruppi, e sono state condotte anche attività come l’esplorazione mineraria, la costruzione di strade e persino alcuni scavi minerari».

“Questo è il colmo dell’ipocrisia: le autorità sfrattano le tribù che hanno gestito questo ambiente per millenni, con il pretesto che la popolazione delle tigri ne risentirà se gli indigeni resteranno, e poi permettono l’ingresso ai prospettori di uranio” ha commentato Stephen Corry, Direttore generale di Survival International. “È una truffa. E sta danneggiando la conservazione. I turisti della Riserva di Amrabad dovrebbero rendersi conto che stanno sostenendo un sistema che potrebbe portare allo sfratto dei popoli tribali – i migliori conservazionisti – dalle loro terre ancestrali, e che un giorno le miniere di uranio potrebbero prendere il loro posto.”

Chi sono i Chenchu

– I Chenchu sono solo una delle molte tribù dell’India che rischiano lo sfratto dalla terra ancestrale. Molte comunità Baiga sono già state sfrattate nell’India centrale, per essere poi abbandonate a se stesse oppure trasferite dal governo in campi di reinsediamento dove le condizioni di vita sono spesso tremende.

– La legge indiana prevede che ogni sfratto debba essere volontario e che le comunità siano risarcite. Tuttavia, le tribù raramente sono consapevoli di avere il diritto di restare, e di frequente ricevono minacce. Raramente il risarcimento in denaro è sufficiente a permettere loro di adattarsi a una vita fuori dalla foresta e spesso non ricevono quanto gli è stato promesso.
– La riserva delle tigri di Amrabad si trova nello stato di Telengana, nell’India meridionale.

– I Chenchu hanno vissuto come cacciatori-raccoglitori nell’India meridionale e centrale per millenni, fino quando la caccia è stata vietata negli anni ‘70. Gli sforzi del governo per farli iniziare a coltivare la terra hanno generalmente incontrato l’opposizione della tribù stessa.

– I Chenchu possiedono un’incredibile conoscenza della loro foresta e degli animali con cui la condividono. Raccolgono 20 diversi tipi di frutti e 88 diversi tipi di foglie. Considerano tutti gli animali sia come loro parenti sia come divinità. I loro costumi impongono che non si prenda mai più dello stretto necessario, e che non si sprechi nulla. Un Chenchu ha dichiarato: “quando gli esterni vengono nella foresta, tagliano tutti gli alberi e portano via tutti i frutti… Noi invece non tagliamo gli alberi, e prendiamo solo i frutti che ci occorrono.”

Fonte: ilcambiamento.it

Ecco le banche che finanziano la violazione dei diritti umani e delle norme ambientali

La campagna “Non con i miei soldi” punta il dito contro le banche che continuano a finanziare la violazione dei diritti umani e delle norme ambientali. A stigmatizzare il fenomeno è anche il rapporto “Dirty profits” di Facing Finance.9499-10239

Per il quinto anno consecutivo Facing Finance ha pubblicato un report sulle violazioni delle norme e degli standard ambientali e sociali ad opera di multinazionali, evidenziando come troppo spesso le banche, così come i loro clienti, beneficiano dalla violazione dei diritti umani, dallo sfruttamento e dalla distruzione dell’ambiente e dalla corruzione associata a queste aziende. A stigmatizzare il fenomeno è anche la campagna “Non con i miei soldi”, che da anni fa informazione critica sulla finanza italiana e internazionale. «La dimensione delle transazioni finanziarie, secondo Facing Finance, supera i 52 miliardi di euro – spiega Claudia Vago di “Non con i miei soldi” – Il report “Dirty Profits” (Profitti sporchi) conferma, secondo il direttore di Facing Finance Thomas Küchenmeister, che l’autoregolamentazione di banche e aziende, fatta a porte chiuse, è largamente insufficiente e non permette di assicurare il rispetto dei diritti umani, dell’ambiente e degli standard anti corruzione. Il report è stato redatto con la collaborazione di importanti organizzazioni internazionali, come Transparency International, Greenpeace e Human Rights Watch. Dodici autori di otto diversi paesi hanno documentato decine di casi di violazione di diritti umani, corruzione, sfruttamento e distruzione dell’ambiente, compresi contributi ai cambiamenti climatici). Sono state analizzate quattordici aziende multinazionali, tra cui Bayer, VolksWagen, BP e Hewlett Packard Enterprise Co., e cinque tra le principali banche europee (Deutsche Bank, UBS, ING, BNP Paribas e HSBC). I servizi finanziari forniti dalle cinque banche alle quattordici aziende sono analizzati nel dettaglio nel report. Le cinque banche detengono azioni e obbligazioni delle aziende analizzate per un totale di 5,8 miliardi di euro. Deutsche Bank, UBS, ING, BNP Paribas e HSBC hanno fornito alle aziende considerate capitali per 46,9 miliardi di euro tra il gennaio 2013 e l’agosto 2016, attraverso la sottoscrizione di azioni, obbligazioni e la fornitura di prestiti. Questi prestiti sono spesso forniti per “generici scopi aziendali”, senza richiedere alcun genere di sostenibilità alle operazioni aziendali. Dal report emerge che queste banche hanno continuato a fornire prestiti consistenti a VolksWagen anche dopo la scoperta dello scandalo delle emissioni. Un atto inaccettabile, secondo Jan Schultz di Facing Finance». «Il 64% delle aziende analizzate ha uno o più casi documentati di coinvolgimento nella distruzione dell’ambiente e del clima. Per il 42% sono stati documentati casi di corruzione nelle loro operazioni e il 57% è coinvolto in violazioni dei diritti umani. Il fatto che otto delle quattordici aziende siano firmatarie dell’UN Global Compact, che specifica una serie di standard ambientali e sociali minimi, evidentemente non impedisce questi comportamenti. Per Lesly Burdock, editor di Dirty Profits 5, questo report punta a fare pressione per ottenere una migliore regolamentazione sulla sostenibilità e trasparenza dell’industria finanziaria. In particolare in un momento in cui affrontiamo una preoccupante deregolamentazione, anche del settore finanziario, negli Stati Uniti».

Fonte: ilcambiamento.it

Caccia al petrolio: in Perù gli indigeni fanno causa al governo

Un’organizzazione indigena del Perù ha fatto causa al governo per non aver protetto le tribù incontattate dalle invasioni e dalle prospezioni petrolifere. Perché il denaro non valga più dei diritti umani…9487-10228

AIDESEP, l’organizzazione nazionale indigena, sta portando in tribunale il Ministero della Cultura del Perù per non aver rispettato l’obbligo legale di mappare e creare cinque nuove riserve indigene, e di proteggere i popoli estremamente vulnerabili che vi vivono. Lo fa sapere l’organizzazione Survival International.

«Nel 2007, il Perù aveva concesso alla compagnia petrolifera canadese Pacific E&P il diritto di effettuare esplorazioni a Yavari Tapiche, un’area all’interno della frontiera dell’Amazzonia incontattata già proposta come riserva indigena – spiega l’associazione per i diritti del popoli indigeni –  L’AIDESEP chiede da 14 anni che la riserva venga istituita, mentre Survival International sta conducendo una campagna internazionale per il diritto dei popoli incontattati a determinare autonomamente il proprio futuro. I ricercatori temono che gli Indiani incontattati che vivono nell’area possano essere spazzati via dalla violenza di esterni e da malattie verso cui non hanno difese immunitarie. Gli operai che lavorano all’estrazione del petrolio rischiano di entrare in contatto con i popoli isolati; inoltre, il processo di prospezione petrolifera prevede la detonazione di migliaia di cariche sotterranee che fanno fuggire la selvaggina da cui gli Indiani dipendono».
«I Matsés, che vivono vicino all’area proposta come riserva, protestano contro il governo, che non ha proibito le prospezioni petrolifere. Nel corso di una recente riunione indigena, un uomo della tribù ha dichiarato: “Non voglio che i miei figli siano distrutti dal petrolio… Ecco perché ci stiamo difendendo… E perché noi Matsés ci siamo uniti. Le compagnie petrolifere… ci stanno insultando e noi non resteremo in silenzio mentre ci sfruttano nelle nostre terre ancestrali. Se necessario, moriremo lottando contro il petrolio.” Un’altra organizzazione indigena, ORPIO – prosegue ancora Survival – sta portando in tribunale un altro caso contro la minaccia di prospezioni petrolifere». «Le tribù incontattate sono i popoli più vulnerabili sul pianeta, ma sembra che le autorità del Perù considerino i profitti della compagnia petrolifera più importanti della terra, delle vite e dei diritti umani dei popoli” ha commentato Stephen Corry, Direttore generale di Survival. «Il fatto di non aver creato riserve indigene non è solo una catastrofe ambientale, ma potrebbe anche spazzare via per sempre intere popolazioni».

In sintesi:

– AIDESEP è l’organizzazione nazionale del Perù per gli Indiani amazzonici. Lavora per difendere i diritti umani degli indigeni peruviani.

– AIDESEP ha presentato una Domanda legale di Adempimento (Demanda de Cumplimiento) alla Corte Superiore di Giustizia di Lima, con il sostegno dell’organizzazione legale IDL.

– Il Ministero peruviano della Cultura è responsabile della mappatura e della protezione dei territori indigeni. In Perù, le terre delle tribù incontattate dovrebbero essere protette per legge ma, in realtà, questa protezione è spesso inadeguata o inesistente.
– Il Perù ha inoltre ratificato la Convenzione ILO 169, la legge internazionale per i popoli indigeni, che richiede di rispettare i diritti umani e territoriali dei popoli indigeni.

– Tra le tribù incontattate della frontiera dell’Amazzonia incontattata che potrebbero essere spazzate via senza una solida protezione territoriale ci sono anche membri incontattati dei Matsés.

– Molti Matsés furono contattati con la forza dai missionari americani nel 1969, a seguito di violenti scontri con i coloni dell’area. Il contatto ha portato violenze e malattie, e ha ucciso molti membri della tribù.

– Le cinque riserve proposte sono: Yavari Tapiche, Yavari Mirim, Sierra del Divisor Occidental, Napo Tigre e Cacataibo.

Delle tribù incontattate sappiamo molto poco. Ma sappiamo che nel mondo ce ne sono oltre un centinaio. E sappiamo che intere popolazioni sono sterminate dalla violenza genocida di stranieri che le derubano di terre e risorse, e da malattie, come l’influenza e il morbillo, verso cui non hanno difese immunitarie. I popoli incontattati non sono arretrati o primitivi, né reliquie di un remoto passato. Sono nostri contemporanei e rappresentano una parte essenziale della diversità umana. Quando i loro diritti sono rispettati, continuano a prosperare. Le loro conoscenze, sviluppate nel corso di migliaia di anni, sono insostituibili. Sono i migliori custodi dei loro ambienti. E le prove dimostrano che i territori indigeni costituiscono la migliore barriera alla deforestazione.

 

Fonte: ilcambiamento.it

 

Socially Made in Italy: moda etica e saper fare per il riscatto delle donne detenute

Socially Made in Italy si definisce come “una comunità tra etica, fashion e diritti umani”. Nasce nel 2015 allo scopo di creare una sorta di distretto produttivo tra i laboratori delle cooperative sociali che si occupano di inserimento lavorativo per le donne in carcere, coinvolgere direttamente i marchi dell’alta moda a collaborare per rendere questi laboratori all’altezza del made in Italy, per dar vita ad una filiera produttiva socialmente rispettabile e soprattutto in grado di essere competitività in termini di qualità e prezzo del prodotto.

Esistono mondi apparentemente lontani, inconciliabili. Esistono anche mondi nascosti, di cui si sa poco, come il mondo delle carceri e delle detenute che tentano di riscattare la propria vita, di non vivere di passato ma di cercare una possibilità per un presente e un futuro di riscatto, umano e sociale. La storia che vi raccontiamo questa settimana è una prova tangibile che anche i mondi all’apparenza più distanti possono creare valore unendosi, e che l’idea di una funzione rieducativa della pena non è affatto un’astrazione, ma può concretizzarsi grazie al lavoro. Di qualità.

Socially Made in Italy  si definisce come “una comunità tra etica, fashion e diritti umani” (“a community between ethics, fashion & human rights”).

Per comprenderla a fondo sono necessari alcuni passaggi: nel 1992 nasce l’esperienza della Cooperativa Alice (attualmente capofila del progetto Socially) che all’interno del carcere di San Vittore sviluppa progetti di inserimento lavorativo per donne detenute in vari ambiti, tra cui l’abbigliamento e la sartoria forense. Sigillo è invece il marchio del DAP (Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria) nato qualche anno fa sulla base di una proposta specifica della Cooperativa Alice insieme ad altre cooperative, con cui si certificano la qualità e l’eticità dei prodotti realizzati all’interno delle sezioni femminili di alcuni dei più affollati penitenziari italiani, nel quale si è cominciato a parlare per la prima volta di lavoro detentivo per le donne in un’ottica unitaria in termini di immagine, comunicazione e azione. Socially made in Italy nasce nel 2015 ed è il ragionamento immediatamente successivo all’esperienza di Sigillo: creare una sorta di distretto produttivo tra i laboratori delle cooperative sociali che si occupano di inserimento lavorativo per le donne in carcere, coinvolgere direttamente i marchi dell’alta moda a collaborare per rendere questi laboratori all’altezza del made in Italy, per dar vita ad una filiera produttiva socialmente rispettabile e soprattutto in grado di essere competitività in termini di qualità e prezzo del prodotto. “Siamo una community tra l’etica, il fashion e i diritti umani. Prima di tutto offriamo un network di laboratori che utilizzano il lavoro come strumento di riabilitazione sociale, attingendo la forza lavoro dagli istituti penitenziari, partiamo dal nostro know-how specifico che è quello penitenziario” ci spiega Caterina Micolano, fondatrice di Socially made in italy. “Vogliamo proporci come interlocutori autentici del made in Italy, è un obiettivo ambizioso ma che stiamo sperimentando e che è possibile raggiungere solo se c’è la complicità di chi quel saper fare l’ha saputo diffondere e promuovere nel sistema economico mondiale: i marchi dell’alta moda.

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Non più da considerare come clienti da conquistare, a cui chiedere di affidare delle lavorazioni, ma da coinvolgere direttamente in questa sfida: riuscire, mettendoci insieme, ciascuno per la propria parte, ad accompagnare questi laboratori ad essere all’altezza del made in italy. Per quanto riguarda i diritti umani, il tema è correlato al lavoro: quando parliamo di lavoro penitenziario noi intendiamo il lavoro retribuito nel rispetto dei contratti sindacali. Non c’è dignità senza partire dai diritti inviolabili dell’uomo.”

Attualmente le cooperative e i relativi laboratori coinvolti con Socially sono quattro, si trovano a Catania, Venezia, Milano e Vigevano. I prodotti principali al momento di Socially sono soprattutto borse, in parte anche gadgettistica. Mediamente ogni laboratorio ha tra le quindici e le venti persone impiegate dalle cooperative che lo gestiscono, per un totale di circa cinquanta lavoratrici coinvolte nel progetto Socially. Ma c’è di più: “Le persone che lavorano hanno un periodo di formazione che dura più o meno un anno, a volte retribuite quando ci sono delle borse lavoro offerte da istituzioni o fondazioni” ci spiega Luisa della Morte, autrice del progetto Socially Made in Italy “al termine di questo periodo le persone vengono assunte, hanno un contratto di riferimento delle cooperative sociali, e sono anche socie lavoratrici, assumendosi diritti e doveri nei confronti della cooperativa, è un processo di accrescimento e di responsabilizzazione grande ma che da i suoi frutti.”OBC0378

Carmina Campus e la sostenibilità dei brand

Il valore aggiunto di Socially è quello di proporre una filiera produttiva socialmente responsabile, ed in questa caratteristica rientra anche l’attenzione alla sostenibilità ambientale che il progetto intende conseguire. L’esempio paradigmatico è la collaborazione con il marchio Carmina Campus : “E’ Il marchio con cui è nata la sperimentazione e sta continuando la collaborazione” spiega Caterina Micolano “un marchio di riferimento perché utilizza esclusivamente scarti di lavorazione che vengono reinterpretai stilisticamente e dimostrano come la creatività possa riportare in un ruolo di protagonista ciò che la logica di lavorazione ordinaria considera scarto. Lo scarto diventa materiale che racconta una storia, quella dell’azienda che l’ha prodotto, e questa è la visione che ci vede comuni perché noi raccontiamo la storia dei nostri laboratori, le storie delle persone che accompagniamo, le storie delle nostre imprese. Un’abbinata vincente tra sostenibilità e creatività”.

L’Ethical Fashion Brand creato da Ilaria Venturini Fendi si è fatto molto partecipe del progetto, arrivando ad interpretare stilisticamente le borse realizzate dai laboratori che partecipano a Socially partendo dall’interpretazione dell’economia carceraria. Infatti, la prima linea di Carmina Campus realizzata con Socially utilizza materiali di riciclo (come nel dna di Carmina Campus) ma che arrivano dal sistema penitenziario: le coperte fuori uso del carcere, su cui sono state effettuate le prime lavorazioni in feltro completamente riviste dal punto di vista creativo e abbinate con i tessuti di rimanenze di magazzini abituati a fornire i brand dell’alta moda, che vengono poi lavorati per le fodere interne o per i dettagli in pelle delle borse.ilaria-venturini-fendi

Ilaria Venturini Fendi durante la sua prima visita al Carcere di Rebibbia

Il valore del lavoro in carcere: nella qualità del lavoro un processo di riscatto
Caterina Micolano e Luisa della Morte, durante il nostro incontro, hanno più volte sottolineato l’importanza di concepire Socially Made in Italy più come un progetto culturale che un semplice progetto di lavoro: secondo Caterina Micolano “una delle ambizioni centrali del progetto è l’invito fatto a noi stessi cooperatori a cambiare mentalità per essere in grado di stare sul mercato, cambiare nel senso di credere fermamente di poter essere competitivi sul mercato in termini di qualità della lavorazione, competitività del prezzo”.

Un progetto culturale dunque perché non ambisce a far leva sulla detenzione come leva morale per far conoscere il brand, ma al contrario parte dall’idea di lavoro di qualità come occasione di riscatto per dimenticare il passato e costruire il presente e il futuro: “Il segmento della detenzione aiuta a volersi scrollare di dosso la tentazione di provare a essere più competitivi sul mercato raccontando che se compri quell’oggetto stai facendo qualcosa di buono: la detenzione non è un segmento di società che ispira necessariamente dei sentimenti positivi, questo per noi è la base del lavoro perché vorremmo che lo scopo della cooperazione sociale tornasse ad essere quello di restituire dignità attraverso il lavoro. E la restituzione della dignità è quella di poter dimostrare di saper far bene qualcosa”.

 

Il sito di Socially Made in Italy 

 

Fonte:  http://www.italiachecambia.org/2016/04/io-faccio-cosi-116-socially-made-in-italy-moda-etica-saper-fare-per-riscatto-donne-detenute/

 

 

Diritti umani e clima: multinazionali del carbone sul banco degli imputati

Si apre domani la prima inchiesta che potrebbe arrivare a portare sul banco degli imputati le maggiori compagnie dei combustibili fossili, che sono tra i principali responsabili dei cambiamenti climatici e degli eventi meteorologici estremi.

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La Commissione per i diritti umani delle Filippine ha annunciato che domani 10 dicembre (Giornata mondiale per i diritti umani) aprirà un’inchiesta che potrebbe mettere sul banco degli imputati i grandi inquinatori. Tra le cinquanta compagnie sotto inchiesta compaiono le italiane Eni ed Italcementi, insieme ad  ExxonMobil, BP, Shell e Chevron. Fanno tutte parte delle novanta realtà considerate responsabili della maggior parte delle emissioni di CO2 e di metano, come ha mostrato la ricerca “Carbon Majors”, pubblicata nel 2014 dopo aver superato il vaglio della peer review.

QUI il testo integrale del rapporto.

Proprio a poche ore dalla conclusione del summit sul clima di Parigi, parte dunque un’indagine che potrebbe portare alla ribalta delle cronache internazionali sviluppi non ancora del tutto immaginabili. La Commissione per i diritti umani delle Filippine ha aperto l’inchiesta in seguito ad una petizione promossa da Greenpeace insieme ad altre 14 organizzazioni che ha raccolto oltre centomila firme. Tra i sottoscrittori della petizione ci sono i sopravvissuti al tifone Haiyan nel 2013 che ha ucciso 6.300 persone nelle sole Filippine producendo 13 miliardi di dollari di danni. «L’iniziativa rappresenta un punto di svolta nella lotta contro i cambiamenti climatici» ha affermato Kumi Naidoo, direttore esecutivo di Greenpeace International. «Si apre un nuovo filone nella battaglia contro le compagnie dei combustibili fossili, responsabili dei disastri causati dal riscaldamento globale. Ci auguriamo che altre commissioni per i diritti umani in tutto il mondo intraprendano inchieste analoghe». Le Filippine, un insieme di isole nel Pacifico meridionale, sono particolarmente vulnerabili all’impatto dell’innalzamento del livello dei mari e agli eventi meteorologici estremi causati dall’aumento dei gas serra. E proprio per questo la Commissione ha deciso di procedere nella direzione dell’inchiesta. Malgrado la evidente emergenza legata all’utilizzo dei combustibili fossili e all’altissimo rischio cui sono esposte le isole del Pacifico, il governo filippino  ha approvato di recente oltre 50 centrali a carbone che saranno costruite nel paese nei prossimi anni e che, evidentemente, rappresentano la risposta dell’esecutivo alla domanda di approvvigionamento energetico. Considerando che una centrale a carbone ha una vita media di 40-45 anni, ciò significa che le Filippine continueranno sicuramente a immettere nell’atmosfera i residui della combustione del carbone mentre il mondo sta “discutendo” su come superare l’utilizzo delle fonti energetiche più inquinanti.

Fonte: ilcambiamento.it

 

Tutti nello stesso piatto 2014: a Trento un festival dedicato ad ambiente e diritti umani

Quarantuno titoli provenienti da trenta paesi per riflettere su agroalimentare, ambiente, diritti umani e sostenibilità. Nasce nel mondo della cooperazione, grazie all’impegno di Mandacarù Onlus, cooperativa di commercio equo, e al consorzio Ctm Altromercato, la principale organizzazione di commercio equo-solidale d’Italia, Tutti nello stesso piatto Film Festival, la rassegna di film e documentari che ha inaugurato ieri sera la sesta edizione con Il lato oscuro dei pomodori italiani di Mathilde Auvillain e Stefano Liberti. Se l’asse portante della rassegna – che propone 41 titoli girati e/o prodotti in 30 Paesi e quattro continenti – è il racconto della complesso sistema agroalimentare, parlare di cibo significa aprire un dibattito sul tema ambientale in senso più ampio. La rassegna trentina – ospitata dal cinema Astra e dal Teatro Sanbapolis – proporrà, fino alla serata finale di sabato 29 novembre, 65 ore di programmazione, suddivise in quattro aree tematiche. Focus Asia proporrà un itinerario nelle problematiche ambientali e della filiera agroalimentare, fra India, Taiwan e Tailandia. Focus Ambiente è la sezione più ampia, quella che spazia dalle opere di denuncia alle testimonianze di chi si impegna nella difesa del propri territorio. Focus La rivoluzione nel piatto propone otto documentari sulle complessità del sistema agroalimentare. Focus Diritti umani (in collaborazione con Amnesty International) propone riflessioni sui diritti negati ai cittadini di tutto il mondo. La sezione Schermi e Lavagne proporrà una selezioni di documentari nelle scuole trentine. Fra i documentari in programma segnaliamo I cavalieri della laguna di Walter Bencini, Seeds of Time di Sandy McLeod, il bellissimo My Name is Salt che noi di Blogo avevamo visto aCinemambiente 2014Il Sale della Terra diretto da Wim Wenders e da Juliano Ribeiro Salgado. E, ancora, Gmo Omg di Jeremy Seifert, La Deutsche Vita di Alessandro Cassigoli e Tania Masi, Schiavi di Stefano Mencherini e The Toxic Burden di Patrizia Marani. Quattro le opere di fiction: La nostra terra di Giulio Manfredonia, Love and Lemons di Teresa Fabik, Resistenza Naturale di Jonathan Nossiter e In grazia di dio di Edoardo Winspeare.1-620x399

Fonte:  Tutti nello stesso piatto