Diossine dall’Ucraina in Italia in mais per animali: chi è stato contaminato?

La Rasff il sistema di allerta rapido europeo ha lanciato un alert per una partita di mais proveniente dall’Ucraina e contaminato da diossine. L’alimento era destinato agli allevamenti animali italiani: dove è stato distribuito? Il ministero della Salute tace

La RASFF Rapid Alert System for Food and Feed, il sistema di alert rapido europeo sulle contaminazioni dei prodotti che acquistiamo è sempre attivo e quotidianamente pubblica i suoi bollettini pubblici. Capita poi che per un motivo o per un altro testate varie o associazioni si interessino nell’immensità di questi dati a alcune segnalazioni piuttosto che a altre. E’ il caso della contaminazione da diossine su un carico di mais proveniente dall’Ucraina superiore di quasi 4 volte ai limiti di legge e tracciata nell’alert della RASFF diffuso non solo in Italia, ma anche in Montenegro e Grecia.FRANCE-AGRICULTURE-CORN-FEATURE

La domanda è: questo mais a chi è stato distribuito? Allevamenti di animali? fabbriche per cibo di animali? Come è entrato nella catena alimentare? Quanto ha contaminato gli alimenti?

Da ricordare che le contaminazioni da diossina non sono rare e anche in Italia tra le produzioni di latte da Cuneo, a Acerra o a Taranto. Proprio a Taranto un paio di anni fa alcuni ragazzi hanno proposto il marchio Dioxin Free progetto premiato anche dal Senato italiano, come progetto di tutela degli alimenti e cibi liberi da diossine. In effetti le diossine sono piuttosto presenti nell’alimentazione umana a partire proprio dal latte materno. Si tenga presente che gli alimenti che maggiormente ne restano contaminati sono quelli ricchi di grassi animali, quindi latte, burro e formaggi, le uova per cui spesso possono scattare anche allerta ingiustificati o nelle cozze. Ma come si formano le diossine? Sono emesse durante la combustione a basse temperature e con la presenza di varie sostanze clorurate e assenza di zolfo, ad esempio. Se ne conoscono circa 200 e in genere però ci riferiamo a furani, diossani e PCB, sono composti cancerogeni e altamente solubili nei grassi. Dunque esiste l’effetto bioaccumulo e entrano dai grassi nella catena alimentare. Ma se come sostiene il prof. Antonio Malorni del CNR che non sia possibile avere cibi esenti al 100 per cento dalle diossine, come potrebbe un marchio come Dioxin Free attestarne la non presenza?

Aggiornamento
Il ministero della Salute Pubblica risponde così alle richieste di chiarimento(grazie a Daniela Patrucco per la segnalazione):

I controlli del Piano Nazionale Alimentazione Animale hanno portato al riscontro di una partita di mais ad uso zootecnico, proveniente dall’Ucraina, non conforme per presenza di diossine. Il mais in questione, viene normalmente miscelato con altri componenti in una percentuale variabile, a seconda della specie animale a cui è destinato, per la produzione dei mangimi completi. A seguito della positività riscontrata il 10 giugno, sono state attivate già l’11 giugno tutte le procedure operative previste dal sistema di “allerta rapido alimenti e mangimi” (RASFF), che hanno portato, grazie al tempestivo intervento delle Autorità sanitarie locali, al rintraccio ed al blocco dei mangimi a rischio. Con i rappresentanti delle Regioni interessate, il NAS ed Laboratorio Nazionale di Riferimento per le Diossine e PCB in mangimi e alimenti, sono state inoltre definite ulteriori misure a tutela della salute pubblica che hanno previsto, tra l’altro, il blocco cautelativo di alimenti provenienti da animali che hanno consumato mangime contenente una percentuale a rischio di mais ucraino.

Il Comando Carabinieri per la Tutela della salute è stato prontamente coinvolto nella vicenda.

Fonte:  Speziapolis

© Foto Getty Images

 

Coltivare canapa per salvare i terreni contaminati da diossina e metalli pesanti. Succede in Puglia

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Purificare i terreni dalla diossina, grazie a una piantagione di canapa. È questo l’obiettivo che si è prefissato Vincenzo Fornaro, un allevatore della provincia di Taranto che a causa dell’inquinamento del terreno ha perso tutto. Vincenzo non è il primo che utilizza la canapa per purificare un’area in cui è presente un eccessivo quantitativo di inquinanti. Già l’anno scorso, infatti, Andrea Carletti, socio di Assocanapa e presidente del consiglio di amministrazione dell’impresa agricola Le Terre del Sole, aveva destinato 12 ettari di terreno alla coltivazione di una particolare varietà francese “Futura 75”, un incrocio di semi a bassissimo contenuto di thc (0,2%). Un progetto sperimentale che, affermava Carletti, potrebbe avere un significato molto importante per la zona di Brindisi, considerate le notevoli proprietà della canapa. Questa pianta, infatti, funziona come una sorta di pompa che assorbe dal terreno le sostanze inquinanti e i metalli pesanti, stoccandoli poi nelle foglie e nel fusto. Un ulteriore vantaggio della coltivazione della canapa è che la pianta, oltre che per bonificare i terreni, può essere impiegata successivamente per altri usi, come la bioedilizia e la produzione di olio. Un processo di purificazione del suolo in cui nulla va perduto. Una sfida che adesso è stata abbracciata da Vincenzo Fornaro.

Nel 2008, l’allevatore tarantino fu costretto ad abbattere duemila pecore, a causa della contaminazione da diossina, generata probabilmente dal vicino polo industriale. Un’intera attività, portata avanti dalla sua famiglia da oltre un secolo, annientata in battito di ciglia a causa dell’inquinamento. Nonostante tutto, Vincenzo è tornato alla carica e ha deciso di tentare un’altra via: la coltivazione di canapa. Tre ettari del suo terreno ora sono coltivati con questa pianta. Sfruttando il processo di fitodegradazione – che, come abbiamo spiegato prima, permette ad alcune piante erbacee a rapido accrescimento di assorbire inquinanti organici dal terreno – ha deciso di donare un futuro a un’area distrutta dall’industria. Il processo viene spiegato anche da Angelo Massacci, direttore dell’Istituto di biologia agro-ambientale e forestale del Cnr di Porano. Secondo Massacci: “Le piante hanno evoluto efficienti sistemi di difesa e tolleranza verso gli inquinanti del suolo. Alcune specie vegetali, dette “escludenti”, riescono a evitare l’effetto tossico dei metalli pesanti in eccesso, preservano i frutti e le parti edibili ed eliminano il rischio di diffusione nella catena alimentare. Altre, definite “iperaccumulatrici”, sono invece capaci di assorbire e immagazzinare nei propri tessuti quantità di metalli pesanti da decine a migliaia di volte superiori a quelle tollerate da altri organismi”.

L’unico dubbio rimane solo quello legato alle condizioni a cui il terreno andrà incontro durante i mesi più caldi. La masseria, infatti, sarà ben presto soggetta a temperature che supereranno costantemente i 30 gradi. Questo potrebbe condizionare l’umidità del terreno, prerogativa essenziale per la crescita delle piante di canapa. La partita decisiva, quindi, sarà giocata nei prossimi mesi. Per chi è preoccupato di un pericolo derivante dalle sostanze psicotrope contenute nella canapa, va detto che il principio attivo Thc è presente in percentuale bassissima. La stessa strada è stata percorsa in questi giorni da altri allevatori provenienti dalla provincia di Brindisi, le cui terre sorgono nei pressi del parco naturale Punta della Contessa, a ridosso della centrale Enel di Cerano e il polo petrolchimico, una zona ad altissimo tasso di inquinamento ambientale. Qui, Tommaso Picella, 70 anni, e il nipote 34enne Andrea Sylos Calò, hanno deciso di convertire la propria attività in piantagione di canapa destinata alla creazione di fibre tessili o all’edilizia. Una scelta fatta per evitare la morte di una terra la cui contaminazione ha reso inservibile a scopo alimentare.

Tutto è ovviamente legale e autorizzato.

(Foto: cdn.livenetwork.it)

Fonte: ambientebio.it

Inceneritori, diossina e salute: Atia Iswa Italia risponde ai comitati anti inceneritore

L’Associazione Tecnici Italiani Ambientali che aderisce all'(International Solid Waste Association ribatte alle affermazioni dei comitati anti inceneritore, riprese negli ultimi giorni anche da Beppe Grillo. Di seguito il botta e risposta fra le associazioni, su inquinamento, diossine e conseguenze per la salute376053

La posizione di Atia IswaLa concentrazione media delle polveri inquinanti nei fumi prodotti dagli impianti di incenerimento si sono ridotte in 50 anni di 1.000 volt ee quella delle diossine di oltre 5.000 volte
“Molti cittadini pensano che gli inceneritori siano inquinanti”, evidenzia David Newman – Presidente di Atia Iswa Italia, “e lo erano sicuramente negli anni passati (vedi tabella in allegato), ma oggi svedesi, tedeschi, danesi, austriaci, francesci, belgi, norvegesi, bresciani, bolognesi, milanesi (e l’elenco potrebbe continuare) convivono tranquillamente con questi impianti, anche nei centri delle loro pulitissime città. Occore capire perché Beppe Grillo semina una paura che i nostri concittadini europei non condividono; è interessante notare che nelle aree del mondo in cui esistono gli inceneritori la gente non ne ha paura, mentre laddove non ci sono impianti la gente convive con i disagi delle discariche e spesso con i rifiuti per strada. E’ un paradosso davvero strano. Grazie all’efficacia delle battaglie ambientaliste e all’evoluzione normativa degli ultimi quattro decenni le emissioni legate alla termovalorizzazione dei rifiuti si sono sensibilmente ridotte. Quindi, mangiate tranquillamente il parmiggiano e il prosciutto di Parma, usate meno l’automobile, non bruciate in modo incontrollato i rifiuti e non utilizzate i fuochi d’artificio”.
“Per capire il reale impatto delle emissioni degli inceneritori – si legge nella nota di Atia– è utile confrontare queste emissioni con le altre fonti. Gli inceneritori di ultima generazione inquinano complessivamente meno dei fuochi d’artificio, del traffico stradale o della generazione di elettricità. (Vedi tabella2). Prendendo in considerazione, ad esempio, le fonti delle emissioni inquinanti in atmosfera in Gran Bretagna nel 2012, appare evidente che il contributo all’inquinamento proveniente dal trattamento rifiuti è veramente ridotto rispetto ad altre fonti industriali e al traffico. Senza contare i danni associati alla combustione abusiva dei rifiuti solidi all’aria aperta. Numerose ricerche hanno evidenziato che la combustione di rifiuti all’aperto crea un rischio sanitario elevato. Addirittura, negli inventari delle fonti inquinanti compilati dall’UNEP sugli inquinanti organici persistenti, la combustione all’aria aperta di rifiuti rappresenta la più grande sorgente di emissioni di diossine (PCDD/F) per le nazioni povere o in via di industrializzazione: fino all’80% del totale delle emissioni di diossine. Uno studio dell’USEPA ha stimato che bruciare i rifiuti giornalieri di circa 30 – 40 famiglie produce emissioni di PCDD/PCDF comparabili a quelle di un inceneritore attrezzato con tecnologie di abbattimento ad alta efficienza dalla capacità di 200 t/g, che cioè serve circa 150.000 famiglie: da 50.000 a 4.000 volte superiori”.

Il comunicato della Associazione Gestione Corretta Rifiuti e Risorse di Parma  GCR
Due righe di Beppe Grillo sul rischio diossina-inceneritore e scoppia il mondo. Il web ribolle di notizie, repliche, rilanci, indignazione. Ma come, un camino emette diossina (e metalli pesanti, furani, ed altri mille infinitesimi veleni) e si deve far finta di nulla? Ancora la storia della sordina per il bene di Parma e della food valley? Quanti anni abbiamo passato a ripetere lo stesso identico concetto: il forno è un rischio per la food valley. Lo abbiamo detto a tutti gli incontri, con politici, sindacalisti, imprenditori, partiti, associazioni, cooperative, industriali, commercianti, sindaci, assessori, preti, vescovi. Lo abbiamo ripetuto agli incontri pubblici, nelle trasmissioni televisive, alle manifestazioni, nelle interviste radiofoniche, nelle migliaia di articoli pubblicati, sui siti, nei blog, nei social networks. Sono anni (il Gcr è nato nell’aprile 2006, quando Ugozzolo era un campo agricolo rigoglioso e fiero di prodotti della terra) che andiamo cocciutamente a scandire il nostro tam-tam sempre uguale: “Dovete scegliere tra la valle del cibo buono e la valle delle grige ceneri”. Non è servito a niente. Si accende il camino, finalmente hanno detto in tanti, e scoppia il caos. La food valley sull’orlo del baratro. E di chi è la colpa? Ma di Grillo, naturalmente. Che ha avuto il coraggio di raccontare la verità che tutti conoscono. Che questi impianti sono industrie insalubri di classe prima.  A Torino, dopo la recente inaugurazione dell’altro inceneritore Iren nuovo di zecca, siamo al quarto fermo impianto. A Parma ad aprile Arpa ha mandato un esposto in procura per le emissioni fuori norma di Ugozzolo in fase di prova di accensione. Un inceneritore è una minaccia, una pistola carica costantemente puntata alla tempia. A Montale le diossine hanno inquinato i campi e i prodotti dei campi. A Pietrasanta il camino ha inquinato i torrenti a fianco dell’impianto, 3 km dalla spiaggia, l’inceneritore è stato sequestrato, il processo iniziato, gli imputati hanno chiesto il patteggiamento. A Colleferro 13 arresti per dati di emissione taroccati e traffico illecito di rifiuti pericolosi. L’elenco potrebbe continuare a lungo. Del resto, aldilà delle evidenze penali e dei casi di sequestro, sono i medici che da tempo hanno lanciato l’allarme su questo tipo di impianti. Le alte temperature di esercizio, motivate dal tentativo di abbattere la produzione di diossine (quindi le diossine si producono eccome) provoca il classico altro lato della medaglia. La massiccia produzione di polveri ultrafini che oggi sono state riconosciute a livello mondiale dall’Oms come responsabili certe di molte malattie respiratorie e cardiovascolari, ma anche degenerative, ormai abituali dei tempi contemporanei. E’ per questo che l’ordine dei medici dell’Emilia Romagna fece richiesta nel 2007 di una moratoria sui nuovi impianti di incenerimento, mettendo in allarme la comunità scientifica ma non riuscendo nel loro intento. Moratoria chiesta di nuovo nel 2012. Anche gli studi ufficiali come Moniter, nonostante i limiti insiti nella metodologia, hanno evidenziato una diretta correlazione tra vicinanza agli impianti e parti pre termine, un indice di sofferenza del feto che non possiamo ignorare. Le polveri ultrafini, impossibili da bloccare nemmeno per i filtri più efficienti e con maglie fittissime, entrano direttamente negli alveoli polmonari, opprimendo gli organi, addirittura mettendo a rischio la corretta trasmissione del Dna, con la loro capacità di “confondere” le nostre cellule più preziose.  Nelle grida di queste ore non abbiamo letto da nessuna parte un approfondimento sulla reale incidenza degli inceneritori nella salute delle popolazioni che abitano nel raggio della loro azione. La salute dovrebbe invece porsi davanti a tutto il resto. E’ per questo motivo che la nostra associazione non attenuerà la propria opposizione a questo impianto pericoloso e porrà in atto tutte le strategie per farlo chiudere nel più breve tempo possibile. Per il bene di Parma. E della food valley.ecodallecitta

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Fonte: eco dalle città

Non solo Ilva: ecco tutti gli impianti a rischio

Sono 1142 gli stabilimenti a rischio di incidente rilevante (Rir) in Italia: ovvero stabilimenti e impianti industriali che, in caso di incidente, potrebbero compromettere e danneggiare irrimediabilmente l’ambiente circostante. E che rappresentano un potenziale pericolo per la sicurezza della popolazione che vive nel territorio. A svelarlo è un rapporto dell’Ispra, l’Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale, elaborato in collaborazione con il Ministero dell’Ambiente. Il pericolo correlato a questi impianti viene spesso identificato come“rischio Seveso”, richiamando alla mente il disastro ambientale del 1976, che causò la fuoriuscita di una nube tossica di diossina che investì una vasta area di territori della bassa Brianza, in seguito all’esplosione in un reattore chimico. L’incidente indusse i paesi della comunità europea a elaborare una normativa, la direttiva Seveso, volta proprio a evitare che si verificassero simili eventi in futuro. Si sente parlare spesso di Ilva Taranto, ma i comuni italiani con stabilimenti a rischio Seveso sono ben 756, e in 40 di questi ci sono quattro o più impianti Rir, ognuno dei quali rappresenta un potenziale fattore di rischio ambientale. Il 50% degli stabilimenti Rir, spiega il rapporto, si trova distribuito tra quattro regioni del nord Italia, LombardiaEmilia RomagnaVeneto e Piemonte, mentre La Valle d’Aosta, con soli 6 stabilimenti, è invece la regione che ne ha di meno. In quasi tutte le province italiane poi c’è almeno uno stabilimento Rir, ma il primato va a Milano per quanto riguarda il nord Italia, con 69 stabilimenti, nel centro a Roma, con 26 stabilimenti, e al sud a Napoli, che sul territorio ne conta 33. Aree di particolare concentrazione sono state individuate in corrispondenza di tradizionali poli di raffinazione e/o petrolchimici. Per quanto riguarda le tipologie di stabilimenti Rir più diffuse, il primato va a chimici e petrolchimici, che rappresentano il 25% del totale e sono concentrati in particolar modo nel nord Italia, seguiti da depositi di gas liquefatti come il Gpl (24%) soprattutto in Campania e in Sicilia. In prossimità di grandi aree urbane e nelle città con importanti porti industriali, come Genova e Napoli, risultano molto concentrate anche industrie della raffinazione e depositi di oli minerali. Il rapporto non ha analizzato solo il numero di stabilimenti Rir, ma anche le tipologie e le caratteristiche di quelli individuati, quali appunto la distanza da corpi idrici superficiali come fiumi, laghi e torrenti, il rischio sismico associato agli impianti e i quantitativi di sostanze pericolose per l’ambiente detenute. detail-mappe rischi

Emerge così come i prodotti petroliferi come benzina, gasolio e cherosene sono presenti in modo cospicuo su tutto il territorio nazionale, insieme a metanolo, cloro, formaldeide, triossido di zolfo e nitrati di ammonio e potassio lasciati dai fertilizzanti. Circa il 22% degli stabilimenti Seveso notificati inoltre, e soggetti ai controlli previsti dalla normativa, detengono prodotti classificati come pericolosi per l’ambiente in quantità superiore alle soglie consentite. Ma non solo: queste sostanze si trovano entro 100 metri da un corpo idrico superficiale (circa il 46% per i prodotti petroliferi regolarmente notificati). L’edizione precedente del Report analizzava i dati tra il 2007 e il 2012, ed è stata utilizzata per un confronto così da individuare le regioni più virtuose che avevano effettuato le riduzioni maggiori nel numero di stabilimenti Rir. Le vincitrici risultano essere principalmente regioni del centro sud, Lazio e Umbria, a fronte di un Nord che in alcuni casi, come Piemonte, Liguria, Veneto e Friuli Venezia Giulia, ha invece presentato un aumento nel numero di impianti. Rispetto al rapporto precedente, inoltre, è aumentato significativamente il numero di stabilimenti per il trattamento superficiale e la lavorazione dei metalli, dei depositi di esplosivi e degli impianti di trattamento e recupero. Sensibilmente calato infine è il numero dei depositi di oli minerali (da 271 nel 2004 a 110 nel 2012) e delle centrali termoelettriche, che si sono più che dimezzate.

Fonte: galileonet.it

Diossina nel latte materno: la denuncia delle mamme del Molise

La scoperta grazie all’iniziativa di un’associazione di Venafro104677458-620x350

Diossina nel latte materno. A far scattare l’allarme è stata l’associazione Mamme per la salute e per l’ambiente di Venafro, piccola cittadina del Molise. Dopo il ritrovamento del gennaio 2012 di tracce di diossina nel latte bovino in due allevamenti della zona, le mamme dell’associazione hanno cominciato a interrogarsi sulla relazione fra inquinamento ambientale e salute, commissionando le analisi del latte materno per conoscerne il contenuto e capire se vi siano casi di contaminazione. All’inizio del 2013 alcuni campioni di latte sono stati prelevati da mamme nello stato di allattamento, le successive analisi sono state effettuate dal Consorzio interuniversitario nazionale la chimica per l’ambiente di Marghera. Purtroppo i sospetti sono stati confermati dai risultati delle analisi che hanno dato esito positivo. Paolo di Laura Frattura, presidente della Regione Molise, si è detto sconcertato per i dati emersi dalle analisi e ha dichiarato che non è ammissibile mettere a repentaglio la salute dei neonati e che la Regione prenderà tutte le misure necessarie per monitorare i livelli di inquinamento ambientale della zona. Il governatore si è inoltre impegnato a una nuova raccolta dati sul latte materno e alla predisposizione di interventi mirati da parte di Arpam e Asrem. La situazione richiede interventi immediati: in questi giorni partirà un progetto per il quale sono già stati siglati un protocollo di intesa con i comuni dell’area e una convenzione con un laboratorio specializzato. L’obiettivo è di raccogliere tutti i dati relativi al tasso di inquinamento atmosferico per diossina e di altre sostanze nocive, ed avere un quadro completo nel giro di pochi mesi.

Fonte:  Gaia News