Salone del Libro, Serge Latouche racconta i precursori della decrescita felice

Il filosofo francese a Torino per il lancio della nuova collana di Jaca Book dedicata ai precursori della decrescita

Fare mezz’ora di coda al Salone Internazionale del Libro di Torino per assistere a una conferenza sulla decrescita felice è un buon segno, ma la folla non stupisce se a parlare èSerge Latouche, universalmente riconosciuto come uno dei principali, se non il principale fautore della decrescita e del localismo. Il filosofo è arrivato a Torino nella giornata inaugurale del Salone Internazionale del Libro per presentare insieme a Giulio Marcon la nuova collana dedicata da Jaca Book alla decrescita. L’idea di Sante Bagnoli e Vera Minazzi è quella di evitare la consunzione di un termine che è stato abusato tanto a destra quanto a sinistra. Come? Andando alla radici della decrescita per scoprire che quest’idea è tutt’altro che innovativa e ha padri nobili. Con grande umiltà e onestà intellettuale, Serge Latouche allontana da sé qualsiasi “copyright” e spiega come l’idea alla base della sua filosofia sia tutt’altro che originale: i precursori della decrescita si chiamano Epicuro e Diogene, ma sono anche i taoisti e gli amerindi (il buen vivir degli Aymara è uguale in tutto per tutto alla nostra decrescita). A livello politico uno degli esponenti della decrescita è il presidente uruguaiano José “Pepe” Mujica. Precursori furono i socialisti pre-marxisti, William Maurice, il nostro Aurelio PecceiAlex Langer, ma anche personaggi universalmente noti come Lev Tolstoj Ghandi possono essere ascritti a questo filone di pensiero. Lo stesso Pier Paolo Pasolini con gli Scritti corsari e Tiziano Terzani, il romanziere Aldous Huxley. Per restare nel campo filosofico Zygmunt BaumanSlavoj ZizekMax HorkheimerWalter BenjaminTheodor Adorno hanno sfiorato, chi più chi meno, il tema della decrescita.

Al cospetto di questi giganti del pensiero Latouche sostiene che

i pensatori della crescita sono una piccola parentesi nella storia del pensiero dell’umanità. I grandi pensatori sono sempre stati molto duri contro il produttivismo.

A questa famiglia apparteneva anche Enrico Berlinguer, protagonista del saggio di Giulio Marcon. Il leader del Pci viene descritto come un uomo molto sobrio, del quale vanno evitati i “santini” come quelli fatti di recente in campo documentaristico, ma del quale non si può non sottolineare la lungimiranza di vedute. L’austerità di Berlinguer era agli antipodi rispetto a quella proposta da Angel Merkel: per il primo austerità significava ricorso all’intervento dello Stato e protezione dei beni comuni, per la Cancelliera è governo del mercato, precarizzazione, aumento dei consumi.

Ma, come conclude Latouche,

i popoli felici non consumano, sono quelli infelici a rifugiarsi nel consumo.

Latouche prende le distanze dalle accelerazioni del progresso:

Ivan Ilic diceva che possiamo salvarci solo grazie a un tecno-digiuno. Non dobbiamo diventare schiavi della nostra creazione, capovolgendo il rapporto tra soggetto e oggetto.

Latouche si è poi congedato con una riflessione:

Quando è stata scritta la dichiarazione dei diritti dell’uomo, avrebbero dovuto scrivere anche quella dei doveri. La libertà dell’uomo non può essere assoluta: l’umanità deve porsi dei limiti.Immagine14-620x345

Video e foto : Davide Mazzocco
Fonte: ecoblog.it

Manifesto per un’Europa decrescente

E’ nato il Manifesto per un’Europa decrescente e tra i primi firmatari si sono personaggi noti per il loro impegno su questo fronte: Francesco Gesualdi, Maurizio Pallante, Serena Pellegrino, Jean-Louis Aillon, Laura Cima, Pietro Del Zanna, Domenico Finiguerra, Roberta Radich, Ezio Orzes. Diamo loro la parola perchè spieghino anche ai lettori de Il Cambiamento quanto importante sia andare in questa direzione.europa_decrescente

«I processi di integrazione europea sono oggetto di forte contestazione, anche perché stanno gravemente penalizzando alcune nazioni provate dalla crisi economica, e in tutti i paesi membri si stanno affermando movimenti politici ostili alla moneta comune o addirittura alla ragion d’essere dell’Unione – scrivono i promotori del Manifesto – Come decrescenti, da una parte non possiamo accettare la logica di chi vuole riportare indietro l’orologio della storia proponendo soluzioni peggiori dei mali che vorrebbe curare, dall’altra non possiamo tapparci gli occhi e non constatare che l’Unione Europea, così come è configurata attualmente, non solo non risponde alle esigenze delle sfide che l’umanità si vede costretta ad affrontare – i cambiamenti climatici in primis – ma sostiene attivamente il degrado ecologico e la disintegrazione sociale. Come europei, consapevoli del fatto che gran parte dei problemi che attualmente attanagliano il mondo derivano da degenerazioni del pensiero occidentale, siamo altresì convinti che il Vecchio Continente abbia tutte le carte in regola proporre un’importante inversione di tendenza che possa servire eventualmente da spunto anche per altre civiltà».
«Nel Manifesto per un’Europa decrescente non ci siamo limitati a riproporre i classici capisaldi della decrescita (la critica del PIL, la differenza tra decrescita e recessione, l’elogio dell’autoproduzione, la decolonizzazione dell’immaginario), ma abbiamo cercato di abbozzare un progetto politico compatibile con gli ideali di questa filosofia. Ne è uscita fuori quella che si potrebbe chiamare, con un gioco di parole, ‘riforma rivoluzionaria’: inevitabilmente rivoluzionaria, perché la decrescita segna un vero e proprio cambio di paradigma, che coinvolge inevitabilmente anche le tradizionali forme di governo. D’altro canto, quasi tutte le proposte evocano la sensazione che si potrebbero applicare ‘qui e ora’, perché non comportano né tecnologie avveniristiche né particolari stravolgimenti della vita delle persone; tendono anzi a rafforzare tutti quegli aspetti che rendono la vita umana un’esperienza meritevole di essere vissuta. Il manifesto è volutamente un passo iniziale, un work in progress che chiediamo di condividere a tutte le persone di buona volontà. Un’alimentazione più sana, un ambiente pulito, una nuova concezione del lavoro slegata dal produttivismo, maggior libertà e autonomia… sono tutti obiettivi a portata di mano, a patto di abbandonare per sempre la logica perversa della crescita infinita. Invitiamo chi contesta le presunte privazioni derivanti dall’adozione della decrescita a riflettere seriamente sui sacrifici, quelli sì veramente dolorosi, necessari per mantenere in vita un Moloch che diventa sempre più crudele ed esigente all’aggravarsi dei sintomi della sua fine – riscaldamento del pianeta, perdita di biodiversità, picco del petrolio ed esaurimento di materie prime. Il Manifesto per un’Europa decrescente è il nostro modo di dissociarci e di proporre un’altra economia, un’altra politica, un’altra società».
Clicca qui per leggere il testo integrale del Manifesto.

Anche l’associazione Paea è impegnata sul fronte della decrescita e dello scollocamento: clicca qui per sapere quali sono i prossimi appuntamenti da non perdere.

Fonte: il cambiamento.it

La Decrescita Felice
€ 15

Breve Trattato sulla Decrescita Serena

Voto medio su 1 recensioni: Da non perdere

€ 10

Io faccio così #14 – Decrescita, autodeterminazione e sovranità: la Sardegna di Roberto Spano

Strana terra la Sardegna. Antiche tradizioni che trasudano innovazione più degli scintillanti grattacieli delle metropoli del Nord Italia. Umili pastori che con poche parole trasmettono concetti di saggezza pari a quelli spiegati nei libri di illuminati saggisti. Terra di attaccamento, abitata da un popolo che con fierezza rivendica la libertà di autodeterminarsi e di aprirsi al mondo. Terra di cambiamento, dove vecchio e nuovo si uniscono in una sintesi che rappresenta il futuro non solo dell’Isola, ma di tutta Italia, dell’Europa e del Pianeta.

Dieci anni fa Roberto Spano è tornato a Orroli, un piccolo paese dell’entroterra cagliaritano, dopo aver vissuto per vent’anni in giro per l’Italia e per il mondo. Dal ritorno a casa, che per molti giovani sardi rappresenta un’involuzione, ha tratto la forza e l’ispirazione per cambiare la propria vita e quella della comunità in cui vive. Non solo ha ritrovato la sua Terra, ma ha anche scoperto il pensiero di due intellettuali che hanno fatto scattare in lui una molla, risvegliando una consapevolezza che in realtà dentro di sé già possedeva. Ma andiamo con ordine. «Aver passato l’infanzia nella Sardegna di quarant’anni fa – spiega Roberto –, significa aver avuto accesso a uno stile di vita che ancora manteneva i caratteri di comunità, di sostenibilità, di autoproduzione, di scambio, di filiera corta, di ricerca di una vita in comune che permetteva a tutti di vivere bene. Era però un’impostazione che mancava ancora di consapevolezza e non ci si rendeva conto che nel giro di poco tempo sarebbe cambiato tutto». La globalizzazione, giunta con prepotenza anche sull’Isola, avrebbe reso presto obsoleta questa visione.orto-300x168Ma i semi erano stati piantati e, decenni più tardi, è bastato poco perché germogliassero. «La decisione di tornare a Orroli è nata da una inconsapevole ricerca di un modo di vivere diverso, che fosse più sostenibile e che mi permettesse di avere maggiore equilibrio, sia materiale che spirituale». Poi, qualche anno fa, l’incontro con Maurizio Pallante e con il suo messaggio di decrescita: «Mi sono reso conto che le mie scelte – farmi un orto, vivere nella mia casa, risparmiare energia, diminuire l’uso dell’auto e così via – non erano soltanto un gesto individuale, ma potevano avere anche una valenza politica, sociale, collettiva. Pallante è riuscito a dare loro una sistematizzazione, a spiegarne il valore in prospettiva, chiarendo perché sono fondamentali per la costruzione di una nuova società». Ancora prima di Pallante però, un altro grande pensatore, un sardo doc, aveva toccato il cuore e l’animo di Roberto: «Alla fine degli anni novanta, lessi “Manifesto delle comunità di Sardegna”di Eliseo SpigaIn questo libro, egli spiega per quale motivo nell’identità, nella sardità, nella nostra cultura tradizionale ci sono elementi di modernità in grado di dare risposte per il futuro, non solo quello della Sardegna. Lo stesso Pallante ha sottolineato come il ”Manifesto” sia in grado di parlare a tutta l’umanità, perché i concetti che esprime – comunità locale, sovranità alimentare ed energetica, capacità di resilienza – sono universalmente validi e applicabili». Maturata questa consapevolezza, Roberto è diventato un convinto praticante della decrescita felice. «Ho aumentato la qualità della vita di me stesso e della mia famiglia diminuendo la dipendenza dal denaro e dall’acquisto delle merci. Siamo quasi autosufficienti dal punto di vista alimentare, produciamo tutto quello che è possibile in casa, facciamo molta attenzione al risparmio energetico, curiamo i rapporti con i nostri vicini e con la comunità locale. Decrescita felice per me è avere di più con meno, non rinunciando a qualche cosa, ma semplicemente togliendoci quei pesi che abbassano la qualità della vita e dando spazio a ciò che veramente conta». In Sardegna le contraddizioni del modello improntato sulla crescita infinita sono lampanti ed esigono un tributo salatissimo: «L’ottanta per cento di quello che mangiano i sardi è importato dall’estero, nonostante la nostra terra sia in grado di fornire sostentamento a tutti coloro che la abitano. È chiaramente una situazione insostenibile, come possiamo immaginare di continuare in questo modo? E così la sovranità energetica: la nostra isola produce il 30% in più dell’energia necessaria per soddisfare i propri fabbisogni, la vendiamo in Italia a un prezzo più basso e quando ne abbiamo bisogno la riacquistiamo a un prezzo più alto. È una politica non solo ingiusta, ma anche miope, perché punta esclusivamente sull’ampliamento dell’offerta, nonostante produciamo già più energia di quella che ci serve. Pensiamo a risparmiarla, piuttosto che continuare a sprecarne un sacco, sia direttamente sia indirettamente, per via di un sistema economico che privilegia gli sprechi, i trasporti sulla lunga distanza rispetto alle filiere corte, all’autoproduzione e agli scambi in loco”.

orroli-300x200

 

Ma per cambiare bisogna avere coraggio, mettersi in gioco, assumersi delle responsabilità. In Sardegna c’è poi un ulteriore ostacolo da abbattere, un ostacolo culturale. «Dobbiamo liberarci del luogo comune che ci fa credere di essere poveri, morti di fame, gente senza capacità, che se non è aiutata da qualcun altro più forte e più grande non può andare avanti. Questa è una menzogna: la Sardegna è una terra ricchissima a livello culturale, spirituale e materiale, che se riuscisse a recuperare la consapevolezza delle proprie possibilità e del suo ruolo attivo nel mondo diventerebbe una grande palestra e un grande esempio positivo per tutta l’umanità. Ma il primo passo non è combattere fuori, bensì crescere dentro». Dalle parole di Roberto traspare un amore dirompente per la propria terra e per il suo popolo, che si traduce in un ragionamento lucido e preciso, che possiede anche una grande valenza politica. «Io sono indipendentista perché credo nel diritto storico, politico, culturale, linguistico, nazionale di avere una rappresentanza anche istituzionale per la mia terra. Oggi ritengo necessario attivare un processo di governo che porti il popolo sardo a rendersi conto che solo attraverso l’autodeterminazione delle proprie scelte possiamo avere un futuro e soprattutto possiamo parlare al resto del mondo alla pari, dando il nostro contributo. L’indipendentismo moderno, quello in cui mi riconosco, è tutt’altra cosa rispetto al separatismo: noi non vogliamo separarci, vogliamo piuttosto uscire dalla gabbia regionale in cui ci ha chiuso lo Stato italiano per aprirci allo scambio col mondo. Non pensiamo di essere né migliori né peggiori di nessuno. Siamo uguali a qualunque altro popolo e, proprio per questo, abbiamo anche noi diritto ad avere la nostra nazione libera e sovrana».sardi_indipendenti-300x155

Quello che sta accadendo in Sardegna negli ultimi anni è straordinario: con un’alchimia quasi magica, si stanno mescolando forte identità nazionale, fame di autodeterminazione e di sovranità, spinte innovative che sanno quasi di rivalsa nei confronti di chi ha sempre considerato questa terra come una riserva da sottomettere e sfruttare, nuovi modi di vivere la comunità e il rapporto con la natura che, partendo da un retaggio antico, forniscono soluzioni estremamente attuali. «Ci sono dei forti segnali di cambiamento – conclude Roberto –, a partire dalla consapevolezza dell’importanza della nostra identità, della nostra autodeterminazione, dai movimenti che si battono per l’indipendenza e per la sovranità. Ci sono tanti gruppi e associazioni che lavorano in direzione della sovranità alimentare ed energetica, della ricostruzione delle comunità locali, delle filiere corte, del rapporto diretto fra produttori e consumatori. C’è un primo percorso di de-urbanizzazione e tante persone cominciano a lasciare le periferie delle città per tornare ad abitare nei paesi e nelle comunità locali dell’interno, che sono a rischio di spopolamento. Il lavoro da fare è ancora tantissimo: a livello politico vanno prese decisioni coraggiose, lungimiranti, graduali e democratiche, che abbiano la capacità di pensare a un futuro che in realtà è vicinissimo. Contemporaneamente, vanno adottati nuovi stili di vita a livello personale». La Sardegna, dopo essere stata considerata per anni un brutto anatroccolo, si sta apprestando a diventare uno splendido cigno, pronto a spiccare il volo e a indicare al resto d’Italia la direzione da seguire.

Francesco Bevilacqua

Fonte: italia che cambia

Il picco dei rifiuti in Italia

I rifiuti sono cresciuti più rapidamente del PIL fino al 2006, poi hanno iniziato a decrescere ed ora come effetto della crisi economico-energetica sono già calati del 10%. Una buona notizia per l’ambiente, una cattiva per chi aveva sognato un futuro di inceneritoriPicco-rifiuti

In Italia la produzione di rifiuti è cresciuta per molti anni più rapidamente del prodotto interno lordo e il disinteresse della società italiana per questo problema ha causato i disastri che conosciamo nelle mani della criminalità organizzata.

Oggi c’è però una netta inversione di tendenza, anche se nessuno ne parla. Il picco dei rifiuti, osservato da Ugo Bardi già qualche anno fa per la Germania, è arrivato anche da noi. Dai550 kg all’anno per abitante (1) del 2006, l’anno più sprecone della nostra storia recente, siamo calati a poco più di 500 kg nel 2012 e la tendenza è con ogni probabilità proseguita nel 2013 (dati ISPRA). Per ora si tratta di una diminuzione del 10% circa, ma la tendenza è inequivocabile. A differenza della Germania, che ha iniziato già dall’inizio degli anni 2000 un percorso consapevole di decrescita degli imballaggi e di molti oggetti inutili, la decrescita italiana dei rifiuti è avvenuta a nostra insaputa, ed è stato un effetto collaterale della crisi economica: meno disponibilità di petrolio uguale meno consumi uguale meno rifiuti. Le minori disponibilità economiche e le maggiori incertezze sul futuro hanno fatto ritornare in auge un po’ di prudenza e parsimonia, per cui la riduzione dei consumi e il riuso dei materiali (vedi ad esempio i mercatini dell’usato) stanno conquistando lo spazio mentale che fino a ieri era occupato solo dal consumo e dallo scialo. La crescita, seppur lentissima della raccolta differenziata (un misero 40% a livello nazionale) permette inoltre di riciclare e quindi di recuperare materiali che sarebbero andati altrimenti sprecati nelle discariche, a partire da vetro, metalli, carta e plastica.

Novara, uno dei capoluoghi di provincia con la più alta raccolta differenziata d’Italia, la produzione di rifiuti pro capite è pari a 440 kg, quindi esiste sicuramente un buon margine per ridurre ulteriormente il nostro impatto sull’ambiente senza particolari sacrifici. Insomma, ottime notizie per l’ambiente, un po’ meno buone per chi aveva sognato (e lucrato) su un futuro fatto di inceneritori

(1)  Stiamo parlando dolo sei rifiuti solidi urbani, cioè dei rifiuti prodotti direttamente dalle economie domestiche. I rifiuti speciali dell’industria e delle costruzioni, tra cui quelli pericolosi, assommano invece a oltre 2000 kg per abitante. Le statistiche si fermano al 2010, per cui non è così evidente il trend decrescente osservato per i RSU.

fonte: ecoblog

Colloqui di Dobbiaco: etica e bene comune per il futuro dell’imprenditoria

Intraprendere la Grande Trasformazione. Questo il tema centrale dell’edizione 2013 dei Colloqui di Dobbiaco, ideati e organizzati da Hans Glauber al fine di proporre soluzioni concrete alle principali questioni ambientali. Da Paolo Cignini, un resoconto della sua partecipazione ai Colloqui, dove si è discusso in particolare del rapporto tra imprenditoria e bene comune.sostenibilita_ambientale1

Come sarà la società del futuro? Ci sarà sicuramente una società post-fossile, post-crescita, basata su una riscoperta del locale e sulla riduzione dei consumi: ma che caratteristiche avrà? E in questo nuovo contesto, che ruolo avranno gli imprenditori cosiddetti “virtuosi”? Con questi interrogativi, illustrati in apertura dall’ideatore e moderatore Karl-Ludwig Schibel, si è aperta l’edizione 2013 dei Colloqui di Dobbiaco, una serie di convegni e relazioni che cercano di proporre delle soluzioni concrete alle tematiche ambientali di maggior rilievo. Quest’anno il tema dei Colloqui, ideati da Hans Glauber nel 1985, sono stati incentrati sul tema “Intraprendere la grande trasformazione”; le discussioni tra i vari relatori e il pubblico, spesso discordanti e ricche di contenuti, hanno ruotato intorno a come continuare a produrre in maniera ecologicamente e socialmente sostenibile, senza per questo rinunciare ad un giusto profitto dalla propria attività imprenditoriale. Come ricordato dallo stesso Schibel all’apertura dei lavori, la società dei consumi nata alla fine del diciannovesimo secolo avrà una fine ma non è ancora chiaro da quale tipo di nuova civiltà sarà sostituita e quali saranno le nuove linee guida che la caratterizzeranno. Wolfgang Sachs, anche lui tra i curatori della rassegna, è dello stesso avviso. L’aspetto maggiormente interessante dell’edizione 2013 dei Colloqui, per chi come noi ha partecipato per la prima volta, è stata la forte presenza imprenditoriale tra il pubblico partecipante. Alcuni tra i più interessati di questi imprenditori erano di origine brianzola, e come sappiamo nella tabella dei luoghi comuni italiani, la figura dell’imprenditore brianzolo non ha un’ottima fama: testimonianza che la realtà è molto più complessa delle semplificazioni.dobbiaco

Diverse sono state le analisi e le soluzioni proposte, con un punto in comune: per i cambiamenti in corso e a venire servirà la collaborazione di tutti e non una dipendenza totale dai governi e dai poteri alti. In questo contesto, il ruolo degli imprenditori che mettono la sostenibilità ambientale e sociale al centro della loro attività diventa fondamentale per trovare delle soluzioni alle prossime sfide ambientali. Dopo questo principio di base, le questioni intorno alle quali si sono incentrate le maggiori discussioni sono state: come far conciliare le pratiche virtuose imprenditoriali con la sostenibilità economica? E soprattutto, come spingere i prodotti delle imprese “non sostenibili” fuori dal mercato? In questo, il geografo e scienziato della sostenibilità Daniel Dahm è sembrato il più critico: partendo dal fatto che dagli anni Settanta l’overshoot mondiale è stato superato sempre più presto, Dahm ha sostenuto che il drastico calo della produttività biologica del pianeta Terra dipende soprattutto da alcune attività imprenditoriali e da logiche legate al profitto ad ogni costo. Tutto questo si trasforma in un deficit enorme di beni collettivi a disposizione dell’umanità, che però allo stesso tempo si trasforma in un utile sempre più grande per l’impresa sfruttatrice. Dunque le imprese “esternalizzano”, scaricandoli all’esterno, i costi delle loro attività, privandoci di un futuro sereno; ma è proprio esternalizzando che, secondo Dahm, le imprese possono produrre una gran quantità di merci a prezzi più bassi, perché non esiste nessun sistema giuridico o legislativo in grado di far pagare a queste imprese il prezzo delle loro azioni, che paradossalmente diventano le uniche ad essere economicamente convenienti. C’è dunque un forte contrasto alla base tra il capitalismo odierno e il futuro della nostra umanità, che bisogna risolvere cambiando le leggi e le regole che disciplinano le attività imprenditoriali. La relazione di Christian Felber, autore e fondatore del ramo austriaco di ATTAC, è sembrata il naturale proseguimento di quanto detto da Dahm. Felber ha illustrato la sua soluzione ai problemi spiegati da Dahm, che si chiama “economia del bene comune”, un vero e proprio modello di economia alternativo all’economia di mercato capitalista e all’economia pianificata. In questo modello il bene comune non è qualcosa da esternalizzare come scarto indesiderato di un’attività volta solo al profitto economico, ma diventa lo scopo fondamentale di ogni iniziativa imprenditoriale.

Cinque valori di riferimento (dignità umana, solidarietà, equità, sostenibilità e democrazia) diventano le fondamenta del “bilancio del bene comune”, in base al quale ogni azienda può ottenere un punteggio fino a mille: quanto migliore è il suo bilancio del bene comune, tanti maggiori vantaggi potrà avere questa azienda virtuosa in termini di tasse più basse, crediti più agevolati e precedenza negli appalti pubblici. Così, anche da un punto di vista economico, i prodotti etici diventano più convenienti di quelli non etici, la crescita a tutti i costi non sarebbe la strategia principale di un’impresa così come sarebbe la collaborazione, e non la competizione a tutti i costi, a poter migliorare il bilancio comune di ognuna delle aziende.sostenibilita6

Una favola? Non proprio, dato che dal 2009 a oggi questo modello è sostenuto da più di seicento imprese in quindici paesi diversi e nel 2011 sessanta di queste hanno compilato il bilancio del bene comune. Il problema? Lasciare il contesto così com’è oggi, con leggi e costituzioni non applicate, non servirebbe a nulla: secondo Felber alcune Costituzioni degli Stati europei hanno già al proprio interno l’assunto fondamentale, cioè che l’economia dovrebbe avere come obiettivo il bene comune. La stessa Costituzione Italiana citata da Felber recita all’articolo 41 che l’iniziativa economica privata è libera ma non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale. Basterebbe dunque far applicare realmente i dettami costituzionali e non permettere invece l’incostituzionalità del profitto di pochi che danneggia l’utilità sociale. Ma una grande assente è sicuramente la politica, soprattutto quella dei governi: la sensazione dell’inazione legislativa rispetto a queste problemi ha messo tutti d’accordo i partecipanti. Nella brillante e amaramente ironica presentazione dell’imprenditore Gabriele Centazzo, presidente della Valcucine e autore del manifesto “Per un nuovo Rinascimento italiano”:, alcune slide realizzate molti anni fa mostravano caricature dei politici più conosciuti a livello nazionale: gli stessi di oggi, un simbolo di un rinnovamento finora in larga parte mancato. Centazzo ha illustrato la sua ricetta per cercare di dare una rotta a quella che lui ha chiamato “Nave Italia”, che si deve basare sulle due colonne della bellezza e della creatività, delle quali le Piccole e Medie imprese italiane possono farsi costruttrici e motori fondanti. Le due colonne però non potranno mai tenersi in piedi se alla base non esiste l’etica, spesso grande assente di questi anni nella politica, ma soprattutto nell’odierna finanza, che secondo Centazzo è una delle maggiori responsabili del caos odierno avendo perso completamente qualsiasi collegamento con l’industria reale, l’economia, il lavoro. Molto interessanti sono stati anche i continui rimandi di Centazzo alla Decrescita, considerata come una filosofia positiva da prendere comunque in considerazione come reazione forte al modello distruttivo dell’attuale società; una presa di posizione da parte di una figura imprenditoriale non è sempre così scontata. Stefan Schaltegger ha invece approfondito i concetti di sostenibilità ecologica e sociale come parte integrante degli obiettivi d’impresa. Secondo Schaltegger non esiste la sostenibilità totale: qualsiasi azione umana ha delle conseguenze ecologiche negative. Obiettivo futuro dell’imprenditoria e in generale dell’essere umano è cercare, a piccoli passi, di trasformare in meglio la nostra società verso un maggior rispetto dell’ambiente. Schaltegger è convinto però, al contrario di Centazzo, che siano i grandi a dover diventare i motori del nuovo cambiamento: se una grande impresa diventa più sostenibile, avrebbe una maggiore possibilità di incidere e cambiare le sorti del mercato rispetto all’azione del piccolo.bene__comune

Reinhard Pfriem, dopo aver ricordato che gran parte dei processi strutturali e culturali legati al capitalismo (si pensi ad esempio all’individualizzazione o alla commercializzazione) sono stati ai tempi sinonimo di emancipazione dall’oppressione e dallo sfruttamento, ha citato Henry Ford come chiave di questo paradigma. Ford è oggi ricordato come l’ideatore di una svolta anti-ecologica della mobilità collettiva, ma ai suoi tempi fu visto come un innovatore per aver permesso alle masse di poter acquistare un’automobile a prezzo contenuto. Secondo Pfriem oggi è dunque necessario cambiare dall’interno ilsistema di valori delle aziende, anche qui insistendo su modelli più sostenibili che possano farle cambiare in modo radicale ma senza alienarsi dal Mercato. A tal punto, molto interessanti anche i“Fish Bowl” mediati da Eva Lotz: tutto il pubblico partecipante ha potuto interagire e partecipare attivamente a un dibattito con alcuni imprenditrici e imprenditori portati come esempio di equilibrio di successo tra mercato e responsabilità, che hanno potuto illustrare i casi delle loro aziende storiche che operano nel locale (Lukas Meindl dell’omonima azienda calzaturiera di secolare tradizione, o Ander Schanck della catena di negozi biologici lussemburghese NATURATA), nel settore delle energie alternative (Federica Angelantoni di Archimede Solar Energy) o nel biologico (Valentino Mercati di Aboca Spa, leader nel settore agro-farmaceutico, e Alois Lageder responsabile dell’omonima azienda vitivinicola a vocazione biologico-dinamica). In sintesi, non sono emerse soluzioni concrete e valide per tutti dai tre giorni di dibattito: come detto in apertura, nessuno ha in mano soluzioni o ricette precostituite. Ma il beneficio del dubbio ha sicuramente favorito un aperto confronto tra tutti i partecipanti, una maggiore ricchezza d’informazioni alla fine dei lavori e una notizia importante e forse indiscutibile: esistono imprenditori consci del loro impatto e del loro ruolo sulle vite di tutti, che stanno cercando di mettersi in discussione per trovare una soluzione diversa rispetto a un mercato solo orientato al profitto. Ci è sembrata un’ottima notizia.

Fonte: il cambiamento

Deindustrializzazione dell’Italia: ovvero la decrescita infelice

Il rapporto sulla competitività Ue è stato impietoso e descrive la situazione italiana come una “vera e proprie deindustrializzazione”: siamo alla decrescita infelice.129076460-594x350

E’ la notizia del giorno: Italia deindustrializzata e fanalino di coda nella Ue, questo in sintesi il senso del Rapporto sulla competitività presentato a Bruxelles. Siamo in decrescita ma infelice, ossia quella non programmata per cui la sperequazione sociale è attualmente vistosa. La produttività è al meno 20% e Spagna e Grecia ci hanno superato. Da noi influisce il costo dell’energia e l’eccessiva pressione fiscale, le difficoltà di accesso al credito e l’eccessiva burocrazia. Ma d’altronde ognuno di noi in merito è testimone di qualche storia legata ai punti critici individuati dalla Ue. Ma ciò non toglie che questa decrescita infelice non possa rappresentare una buona occasione per riconvertirla in decrescita felice. Partendo dall’energia e dal taglio di quegli incentivi che sono proprio inutili, ossia a quel capitolo noto come CIP6 tenuto in vita in extremis proprio dall’ex ministro Passera. Sapete quanto ci è costato nel 2012? Ce lo dice l’Autorità per l’Energia nella sua relazione: 918 milioni di euro per le rinnovabili e 2.239 milioni di euro per le assimilate. E per assimilate si intendono anche gli inceneritori, che nella bizzarra visione dei politici, sono fonti di energia assimilata alle rinnovabili e non macchine di morte.

Scrive nel suo rapporto l’Autorità:

Nel 2011 i costi totali dei ritiri del GSE per l’energia CIP6 sono stimabili in circa 3,3 miliardi di euro, in prevalenza (circa il 72%) legati alla remunerazione dell’energia CIP6 prodotta da impianti assimilati. Per quanto riguarda le fonti assimilate, sulla base delle dichiarazioni degli operatori che hanno risposto all’Indagine dell’Autorità, risulta che otto operatori effettuano la quasi totalità della generazione elettrica in convenzione CIP6; le quote maggiori spettano ai gruppi Edison (20,8%), Saras (18,4%) ed Erg (16,8%). Per i ritiri, invece, dell’energia prodotta da fonti rinnovabili, la società A2A realizza quasi un terzo (30,9%) della generazione rinnovabile, seguita da Ital Green Energy Holding (14,1%), Api (7,7%) e International Power (5,8%). Complessivamente i primi dieci operatori coprono oltre l’80% dell’energia totale rinnovabile in convenzione CIP6.

Ma questa pioggia di soldi non potrebbe essere usata diversamente?

Fonte: ecoblog

“Gli esseri umani tornino a essere il fine”. Intervista a Maurizio Pallante

Crisi economica ed energetica, sprechi e decrescita, futuro e possibilità di cambiamento. Olivier Turquet ha incontrato e intervistato Maurizio Pallante in occasione di una conferenza di divulgazione della Decrescita Felice tenuta dal fondatore del movimento a Fosdinovo. maurizio_pallante2_

“Nella crisi che stiamo vivendo confluiscono molte crisi: quella economica e occupazionale, quella ambientale, quella energetica, quella internazionale, quella morale, quella della politica”

Ho incontrato Maurizio Pallante a Fosdinovo durante una delle sue conferenze di divulgazione della Decrescita Felice. Instancabile, preciso, chiaro. Abbiamo fatto due chiacchiere e deciso di costruire quest’intervista insieme; cercando di non partire, come al solito, dall’inizio ma di approfondire alcune tematiche care a tutti e due.

Maurizio, ci sono segnali e si alzano voci, da varie parti, che dicono che l’attuale sistema economico ed energetico sia vicino a un punto di rottura, tu cosa ne pensi?

Preferisco riportare alcuni dati:

– dal 1987 la specie umana consuma prima del 31 dicembre una quantità di risorse rinnovabili pari a quelle rigenerate annualmente dal pianeta e, da allora, si avvicina di anno in anno la data del loro esaurimento: è stata il 21 ottobre nel 1993, il 22 settembre nel 2003, il 20 agosto nel 2013;

– nel settore petrolifero il rapporto tra l’energia consumata per ricavare energia e l’energia ricavata (eroei: energy returned on energy invested) tra il 1940 e il 1984 (data dell’ultima rilevazione pubblicata da una rivista scientifica internazionale), è sceso da 1 a 100 a 1 a 8; dal 1990 ogni anno si consuma una quantità di barili di petrolio molto superiore a quanta se ne trovi in nuovi giacimenti: 29,9 miliardi di barili a fronte mediamente di meno di 10 miliardi (dato 2011);

– le emissioni di anidride carbonica eccedono in misura sempre maggiore la capacità dell’ecosistema terrestre di metabolizzarle con la fotosintesi clorofilliana, per cui se ne accumulano quantità sempre maggiori in atmosfera: sono state 270 parti per milione negli ultimi 650 mila anni, sono diventate 380 nel corso del XX secolo, nel mese di maggio del 2013 hanno raggiunto il valore di 400, lo stesso del Pliocene, circa 3 milioni di anni fa, quando la specie umana non era ancora comparsa, la temperatura media del pianeta era più calda dell’attuale di 2 – 3 °C, il livello dei mari era più alto di 25 metri; in conseguenza dell’aumento delle concentrazioni di anidride carbonica in atmosfera, nel secolo scorso la temperatura media della terra è aumentata di 0,74 °C e, secondo l’Unione Europea, se si riuscirà a ridurre le emissioni del 20 per cento entro il 2020, obbiettivo pressoché impossibile da raggiungere, l’aumento della temperatura terrestre in questo secolo potrà essere contenuto entro i 2 °C, quasi il triplo del secolo scorso;

– negli oceani Atlantico e Pacifico galleggiano enormi ammassi di frammenti di plastica, con una densità di 3,34 x 10 6 frammenti al km², estesi come gli Stati Uniti;

– la fertilità dei suoli agricoli si è drasticamente ridotta e la biodiversità diminuisce di anno in anno.

Mi pare che questi dati documentino in modo inequivocabile che siamo molto vicini al punto di non ritorno. Nonostante tutto è ancora possibile invertire questa tendenza. Le tecnologie per ridurre gli sprechi di risorse ed energia ci sono. Occorre applicarle. Questo è il compito della politica, ma molto si può fare anche attraverso gli stili di vita individuali. Gandhi diceva: Sii il cambiamento che vuoi vedere nel mondo.energia4

“I nostri consumi di fonti fossili si suddividono in tre grandi voci, ognuna delle quali ne assorbe circa un terzo: riscaldamento degli edifici, produzione di energia elettrica e autotrasporto”

Tu ti occupi specialmente di energia e sottolinei, nelle tue conferenze, come ci sia uno spreco energetico molto consistente, potresti fare qualche esempio?

I nostri consumi di fonti fossili si suddividono in tre grandi voci, ognuna delle quali ne assorbe circa un terzo: riscaldamento degli edifici, produzione di energia elettrica e autotrasporto.

Riscaldamento degli edifici. La media dei consumi italiani è di 20 litri di gasolio o 20 metri cubi di metano al metro quadrato all’anno. In Germania e, in Italia in Alto Adige, non è consentito superare un consumo di 7 litri / metri cubi al metro quadrato all’anno, ma gli edifici migliori si limitano a 1,5 litri / metri cubi. Come minimo in Italia, a causa della scarsa coibentazione degli edifici, si sprecano 2/3 dell’energia utilizzata per il riscaldamento. Se il raffronto si fa con gli edifici più efficienti, se ne sprecano più di 9 /10.

Produzione di energia termoelettrica. Il rendimento delle centrali tradizionali è di circa il 33 per cento. Ciò vuol dire che nel processo entrano 100 unità di energia chimica sotto forma olio combustibile ed escono 33 unità di energia elettrica, mentre 67 si disperdono, sotto forma di calore a bassa temperatura, nell’aria o nell’acqua di un fiume, a seconda del sistema di raffreddamento utilizzato. Nelle centrali a ciclo combinato il rendimento sale al 55 per cento. Se si utilizzassero impianti di cogenerazione, il calore a bassa temperatura che oggi viene disperso verrebbe riutilizzato per riscaldare degli edifici, per cui sommando il rendimento in energia elettrica e il rendimento in calore, il potenziale energetico del combustibile si utilizzerebbe al 95 per cento.

Autotrasporto. Le automobili trasformano prima in energia meccanica e poi cinetica non più del 15 per cento dell’energia chimica contenuta nel carburante. A questa inefficienza tecnologica occorre aggiungere l’inefficienza comportamentale perché in ogni automobile che può portare almeno 4 persone ne viaggia quasi sempre una sola.

Lo spreco totale di energia nel nostro paese è quindi superiore al 70 per cento.petrolio_barili3

“La prospettiva di durata del petrolio non la sa nessuno con ragionevole precisione e può variare sensibilmente se si riducono gli sprechi e si sviluppano le fonti rinnovabili”

Tu sei uno dei pochi che va in giro e parla di petrolio estraibile, nel senso del petrolio che per estrarne un barile si consuma meno di un barile. Come sta andando la curva dell’energia necessaria ad estrarre petrolio? Quali sono le prospettive di durata del petrolio?

Ho già risposto in parte più sopra. Comunque la prospettiva di durata del petrolio non la sa nessuno con ragionevole precisione e può variare sensibilmente se si riducono gli sprechi e si sviluppano le fonti rinnovabili. Quello che conta non è fare previsioni più o meno approssimate, ma sviluppare le tecnologie più efficienti e adottare comportamenti consapevoli.

Tu proponi un’azione di base, a partire da ognuno di noi per decrescere dallo spreco e dall’insensatezza e crescere nella qualità della vita e dei rapporti umani: dalla nascita del MDF a ora quali sono stati i risultati più significativi?

MDF ha cercato di dare una sistemazione organica dal punto di vista teorico e una struttura organizzativa a un movimento variegato, sparso su tutto il territorio nazionale, composto di gruppi autonomi impegnati in vari settori. Mi sembra che l’esperienza più significativa sia quella dei gruppi d’acquisto solidale, che si sono moltiplicati in questi anni. Per quanto riguarda MDF, il nostro movimento conta ormai una trentina di circoli regolarmente costituiti mentre altrettanti si stanno costituendo. La fascia d’età più rappresentata è quella tra i 25 e i 30 anni. Inoltre abbiamo gruppi di lavoro tematici nazionali: Decrescita e salute, Decrescita e agricoltura, Decrescita e insediamenti umani, Decrescita e tecnologie, ecc. L’obiettivo di questi gruppi è organizzare seminari nazionali d’approfondimento su questi temi per dare un contributo all’elaborazione di un paradigma culturale alternativo a quello sviluppato dalle società della crescita. Tutto questo mi fa dire che qualche risultato l’abbiamo ottenuto. Meno di quanto sarebbe necessario, ma comunque non insignificante.

Se qualcuno del MDF fosse al governo da qualche parte tu cosa gli suggeriresti di fare?

Suggerirei di impostare una politica economica e industriale finalizzata a ridurre gli sprechi di energia: si creerebbe un’occupazione utile e numerosa, il costo delle retribuzioni sarebbe pagato dai risparmi economici conseguenti ai risparmi energetici, si svilupperebbero innovazioni tecnologiche importanti, si ridurrebbero le emissioni di CO2 e l’effetto serra, si ridurrebbero le tensioni internazionali per il controllo delle fonti fossili.crisi_finanziaria4

“Se chi governa l’economia e la politica mondiale e delle singole nazioni continuerà a pensare che la crisi è solo economica e le misure tradizionali di politica economica finalizzate a superarla prima o poi ci riusciranno, andremo dritti verso il cro

L’economia umanista denuncia fortemente la speculazione finanziaria e dà valore alla produzione dei beni utili alla società e alla proprietà compartecipata delle aziende: tu cosa pensi di questi temi?

Sono completamente d’accordo, sia sulla necessità di contrastare la speculazione finanziaria con opportune misure, per esempio la Tobin Tax, sia sulla necessità di far ripartire la produzione incentivando la produzione di beni utili, sia sul coinvolgimento dei dipendenti in forme di condivisione della proprietà delle aziende in cui lavorano. È importante per gli esseri umani ed è importante per aumentare la redditività delle aziende.

Crisi come possibilità di cambiamento: come ti immagini il futuro?

Io penso che siamo alla fine dell’epoca storica iniziata 250 anni fa con la rivoluzione industriale. Lo penso perché nella crisi che stiamo vivendo confluiscono molte crisi: quella economica e occupazionale, quella ambientale, quella energetica, quella internazionale, quella morale, quella della politica. Quando un’epoca storica finisce ci sono due possibilità: o il crollo, come è accaduto con l’Impero romano, o una faticosa e anche drammatica evoluzione verso una fase storica più evoluta. Se chi governa l’economia e la politica mondiale e delle singole nazioni continuerà a pensare che la crisi è solo economica e le misure tradizionali di politica economica finalizzate a superarla prima o poi ci riusciranno, andremo dritti verso il crollo. Se invece si capirà che occorre costruire un’economia e una società diverse da quella attuale, in cui gli esseri umani non siano più il mezzo e la crescita economica il fine, ma gli esseri umani tornino a essere il fine e l’economia il mezzo di cui si servono per soddisfare le loro esigenze materiali, allora la crisi sarà stata il punto di svolta e l’inizio di un cammino verso una società più giusta e più umana.

La bibliografia tratta dal sito ufficiale

Articolo tratto da Pressenza

Decrescita, “che confusione”

‘Decrescita’, una parola che a molti non piace, un concetto ancora troppo spesso frainteso. Non è importante come la chiamiamo, scrive Paolo Ermani, Presidente PAEA, in commento ad un articolo del giornalista Furio Colombo, “l’importante è mettere in pratica, per realizzare una società dove il PIL non sia la fede a cui prostrarsi”.

decrescita1

 

In un recente articolo sul Fatto quotidiano si legge una analisi di Furio Colombo, giornalista e scrittore, su crescita e decrescita. Per giustificare in qualche modo il termine crescita cita la solita storia che in natura tutto cresce, anche i bambini, gli alberi, etc. Peccato che non prosegue il ragionamento logico che ci dice che in natura tutto cresce ma non all’infinito, cosa di cui invece il meccanismo della crescita economica imperante necessita. In natura non c’è nulla che cresce all’infinito, quindi il bambino cresce e muore, così come l’albero, etc. Lo stesso cancro si espande in tutto il corpo ma poi quando muore il corpo, muore anche lui, non si espande all’infinito. E il meccanismo della crescita infinita in un mondo finito è esattamente come il cancro, si espande fino alla morte del mondo e conseguentemente di sé stesso. E questo piccolo grande particolare, che capirebbe chiunque tanto è banale e lampante, è proprio quello che rende l’attuale meccanismo di crescita economica infinita in un mondo dalle risorse finite, qualcosa di folle, impossibile e suicida. Bisognerebbe distinguere fra ‘crescita in natura’ con regole e limiti ben precisi e ‘crescita infinità dell’economia, e le due cose mai dovrebbero essere paragonate visto che non c’entrano assolutamente nulla l’una con l’altra. Colombo cita poi chi sta nella parte salva del mondo, cioè dove la crescita produce opulenza, senza citare il fatto che questa opulenza è figlia di uno sfruttamento pesante di persone e ambiente nei vari paesi di appartenenza e ancora più pesantemente in tante altre parti del mondo, quindi se si considera il genere umano come un tutt’uno il sistema della crescita è fallimentare in toto anche da questo punto di vista. Che qualcosa non gli torni del suo stesso ragionamento sulla crescita, Colombo se ne accorge forse involontariamente, quando cita il caso delle automobili dove è evidente che non si possano vendere automobili all’infinito se non altro perché non sappiamo più dove metterle già adesso. Non piace il termine decrescita? Come la si voglia chiamare a mio avviso non è particolarmente importante, molto più importante è mettere in pratica una società della decrescita o della post-crescita, o della a-crescita, comunque una società dove il PIL(anche quello tinteggiato un po’ di verde) non sia la fede e il dio a cui prostrarsi. Colombo prosegue scrivendo di una futura e auspicabile immaginazione al potere, come se le alternative praticabili, i modi, il lavoro che va in una direzione di un mondo “bello e desiderabile” siano qualcosa di là da venire, un araba fenice, un sogno. L’Associazione PAEA ed altri soggetti simili, da anni praticano, lavorano e propongono progetti concreti che dimostrano che un’altra strada è possibile ma non abbiamo sponsor di case automobilistiche, milioni di euro dallo Stato, grandi media per poterlo sbandierare ai quattro venti e quindi lo stesso Colombo evidentemente non ne è al corrente. Nella nostra povertà di mezzi economici ma ricchezza di contenuti, continuiamo a costruire; e prima o poi volenti o nolenti si dovranno fare i conti con la realtà e allora, le analisi, le teorie, gli intellettualismi, le chiacchiere, le zuffe per il potere, lasceranno il passo ai fatti concreti. Nel frattempo consiglio a Colombo due libri: Pensare come le montagne e Ufficio di Scollocamento, dove troverà tutte le indicazioni pratiche per la realizzazione di una nuova società senza aspettare fantomatiche immaginazioni al potere.

Fonte: il cambiamento