Lucia Cuffaro: “L’autoproduzione? La mia via per la felicità”

Attivista e presidente del Movimento per la Decrescita Felice, Lucia Cuffaro è da anni appassionata al mondo dell’autoproduzione, come scelta consapevole per un benessere fatto di semplicità. Autoproduce praticamente tutto e attraverso i suoi libri, un blog ed una rubrica in tv spiega agli altri come creare da soli ciò che serve. Ha lavorato tanti anni in Rai ed è sempre stata appassionata di ambiente, spreco, rifiuti, autoproduzione. Poi ad un certo punto lascia il lavoro a Report e inizia la sua vera vita: quella dell’attivista, impegnata all’interno del Movimento di Decrescita Felice di cui oggi è presidente e sui temi del riutilizzo e della decrescita felice. È Lucia Cuffaro, che parla dell’autoproduzione come del suo personale percorso di felicità, iniziato quando era bambina: “Credo sia iniziato quando i miei genitori, per potermi istruire ad uno stile di vita sobrio ed ecologico, mi comprarono una Barbie in costume da bagno, la più semplice di tutte”, ride Lucia. “Così ho iniziato a inventare abitini per la mia Barbie e a riutilizzare tutti i materiali possibili”.

Quando Lucia faceva ancora le elementari, forse non immaginava che la sua (auto)produzione di vestiti per la Barbie fosse già un segno di ciò che sarebbe successo. Ma così è stato. Da quando è piccola, infatti, tutta un’altra serie di fattori si è aggiunta a cementare il suo interesse iniziale e a farlo diventare passione: si è trasferita con la sua famiglia vicino Malagrotta, conoscendo così cosa significhi vivere vicino ad una discarica; ha frequentato l’Università del Saper fare del Movimento per la Decrescita Felice sotto consiglio di un amico; è venuta a contatto con realtà come la Città dell’Utopia a Roma che le hanno permesso di portare avanti questo percorso. Oggi Lucia autoproduce tutto: dal detersivo per la casa alle tinte per i capelli alla crema per il viso. È contenta di poter dire che non distingue più fra lavoro e attivismo: “Il lavoro non poteva essere un lavoro che mi portasse a casa lo stipendio e basta; io avevo bisogno di altro”, spiega Lucia, parlando di come fosse strano – agli occhi degli altri – la sua (volontaria) dimissione da “Mamma Rai”. “Ho lavorato con la Città dell’Utopia e man mano è arrivato il percorso con la decrescita felice: un attivismo sempre più presente, un appassionarsi in modo folle all’autoproduzione, al creare con le mani cose semplici che fanno bene a me, ai miei vicini, alla natura, che creano circolazione del denaro nel modo giusto che valorizza le piccole aziende. Poi mi sono presa un anno sabbatico, mi sono data all’associazionismo e mi sono impegnata anche per il mio quartiere a Malagrotta”.

Da sette anni gestisce una rubrica televisiva su Rai1 che parla di decrescita felice. Proprio come a dire che tutto è circolare e ogni cosa si rimette al posto giusto nel momento giusto. “C’è un interesse sempre crescente legato al tema dell’autoproduzione e questo purtroppo lo si deve alle malattie che derivano dai prodotti per il corpo, per la casa e dagli alimenti che si trovano in commercio. Sta crescendo la consapevolezza che forse dobbiamo tornare alla semplicità”. Anche la comunicazione di ciò che si fa, di un mondo diverso, è possibile, soprattutto perché “la decrescita felice è un concetto di buon senso ma dirompente, ribelle, che da molti è ancora ostacolato”. 

Se adesso il suo impegno è legato principalmente al mondo dell’autoproduzione, non per questo Lucia si ferma qua: “Il prossimo obiettivo è quello di lavorare sempre di più per aumentare il mio tempo liberato. Sembra un controsenso, ma è questo: in realtà a me piace semplicemente fare attivismo e voglio che questa sia la parte predominante della mia vita: stare a contatto con persone che portano progetti legati a questo mi rende felice”. E alla tematica del riutilizzo e dell’autoproduzione aggiungere quella degli animali: “Sono tendenzialmente vegana, ma mi rende felice riuscire a mangiare solo cibo vivo e che non viene da tortura, per cui vorrei trovare il modo di comunicare questa mia felicità. Spesso chi parla di animalismo e veganismo lo fa in modo molto aggressivo, ma io penso che non possa essere quello il modo giusto di comunicare”.

E non è un caso che partecipi ogni anno a Scirarindi, il Festival indipendente Benessere, Buon Vivere e Sostenibilità in Sardegna, dove l’“l’energia è diversa, è quella di persone che partecipano e contribuiscono al cambiamento”. Qui si vede l’Italia che cambia, che per Lucia non è altro che “l’insieme dei progetti che creano bellezza sul territorio” e che, creando una propria personale “impalcatura di felicità”, contribuiscono al bene comune.

Intervista e realizzazione video: Paolo Cignini

 Fonte: http://www.italiachecambia.org/2019/01/lucia-cuffaro-autoproduzione-via-felicita-meme-16/?utm_source=newsletter&utm_campaign=general&utm_medium=email&utm_content=relazioni

La decrescita e l’occupazione. Un matrimonio che s’ha da fare

Ospiti da tutta Italia alla conferenza nazionale del Movimento per la Decrescita Felice. Il tema della giornata sono occupazione e lavoro, temi particolarmente cari al movimento; perché decrescita non vuol dire recessione379503

Il Movimento per la Decrescita Felice non ha propri parlamentari né tantomeno vuole proporsi come un partito politico, eppure crede profondamente nel ruolo delle istituzioni e la conferenza di oggi ha come target proprio la politica.
In Italia c’è una fortissima disoccupazione, ma anche tantissimi lavori che non si fanno. Chi ha il poter politico ha quindi il dovere di ascoltare le nostre proposte”, ha dichiarato in apertura Maurizio Pallante, presidente MDF. “Non è più possibile uscire dalla crisi aumentando la produttività come negli anni 30. All’epoca infatti non c’era una crisi ambientale da affiancare a quella economica”. Entrambe le crisi sono causate dall’aumento dei consumi e tutte le tensioni internazionali e le guerre sono scatenate dal bisogno di controllare i paesi in cui sono presenti le materie prima necessarie alla crescita e consumo. Fondamentale per uscire dalle crisi sarà iniziare ad investire nel lavoro “utile”, su nuove competenze e sulle piccole e medie imprese, fondamentale è capire che gli strumenti tradizionali della politica economica continuano a dimostrare di non essere in grado di risolvere il problema. Si dovrà quindi mirare ad un nuovo modello che punti all’efficentamento energetico e materiale piuttosto che sul rinnovo continuo poiché solo riducendo i consumi a parità di servizi, si può recuperare il denaro necessario a pagare l’occupazione in attività lavorative che attenuano la crisi energetica, climatica ed ambientale. L’efficentamento energetico degli edifici, ad esempio, crea tra i 13 ed i 15 nuovi posti di lavoro per ogni milione di euro investo, contro i 2/4 delle rinnovabili e gli 0,5 della costruzione di grandi opere infrastrutturali. Ristrutturando 15.000 scuole ed investendo 8,2 miliardi di euro si otterrebbe un risparmio energetico annuo di 420 milioni di euro dando lavoro a 150.000 persone.   La speranza del movimento è quella di spingere verso una Bioeconomia che riprenda in considerazione anche la vita delle persone. “Questo tipo di economia – racconta Giordano Mancini formatore industriale – viene considerata utile dalle persone, non crea probemi sociali e genera nuovi posti di lavoro, fa diminuire le emissioni di CO2 e la quantità di rifiuti prodotta, non genere altro debito pubblico e consuma meno energia e materie prime”. Parla invece di “dramma di una generazione” il Professor Luciano Monti dell’università LUISS di Roma che propone un nuovo paradigma economico fondato sulla sostenibilità integrata che mira a riequibrare il saldo negativo accumulato ai danni del Pianeta e delle giovani generazioni.
Ama le future generazioni come te stesso” era lo slogan di Nicolas Georgescu Roegen, padre della bioeconomia e della decrescita e per farlo sarà necessario abbandonare il mito della crescita del PIL che non registra realmente il benessere di una popolazione né tantomeno quello dell’ambiente che abitano.

Fonte: ecodallecittà.it

“L’Europa? Noi la vogliamo local, al servizio del cittadino”

Ha al suo attivo una campagna di editoria civica, un grande impegno sul fronte della decrescita e dell’ambiente, progetti di aiuto e solidarietà ai quali affianca la sua professione di dentista declinata in una maniera tutta sua, fatta di vicinanza ai pazienti e di umanizzazione delle relazioni. Dario Tamburrano, romano, 45 anni, si candida all’Europarlamento per il Movimento 5 Stelle. E di cose da dire ne ha veramente tante.dario_tamburrano

Dario Tamburrano è, sì, di professione dentista, ma a definirne “forma e contenuto” sono soprattutto altre credenziali. Cofondatore nel 2009 del Circolo della decrescita Felice di Roma e di Transition Italia, nodo italiano del Transition Network, ecologista a tutto tondo, Tamburrano ha approfondito il tema delle pratiche sostenibili in quasi ogni declinazione, dall’agricoltura ai trasporti, dallo sfruttamento delle risorse alle politiche economiche. E oggi si candida all’Europarlamento per il Movimento 5 Stelle (nella circoscrizione Italia Centrale, Marche – Lazio  – Umbria – Toscana), nato sotto l’egida di Beppe Grillo, che porta a Strasburgo richieste precise, tra le quali la ricontrattazione del fiscal-compact (il Trattato sulla stabilità, sul coordinamento e sulla governance firmato da 25 paesi il 2 marzo 2012), il no al forzato pareggio di bilancio degli Stati, un’attenzione all’agricoltura che dia risposte concrete alle esigenze vere dei coltivatori italiani, una maggiore presenza,  rappresentatività e attenzione sia all’interno dello stesso Parlamento europeo sia nell’ambito delle commissioni. «Mi sono ormai ben reso conto che il passaggio di paradigma all’interno del sistema economico neoliberista è impossibile  – spiega Tamburrano – e che il contrasto ai “neolib” è fondamentale per permettere la transizione culturale oggi più che mai necessaria. La propaganda ha funzionato per parecchio. Si diceva: quando il bicchiere straborderà, di ricchezza ce ne sarà anche per gli ultimi. Ma questo bicchiere non straborda più, anzi oggi  è l’esatto contrario. Il neoliberismo ha portato alla verticalizzazione del benessere, ha creato una piramide dove a star bene sono quelli in cima, pochi, troppo pochi. La ricchezza è  concentrata nelle mani di poche persone; ci sono indiviui nel mondo in grado di comprarsi stati interi e masse intere che non possono permettersi ciò che si permette uno di quegli individui. E’ evidente che c’è qualcosa che non va. Il neoliberismo, che permea ogni scelta di politica economica anche nel nostro paese, è deregulation completa delle attività umane ed economiche, va a braccetto con l’economia della crescita che contrasta con i limiti stesso di questo pianeta e con i suoi ecosistemi. Non porta affatto democrazia, perché la mano invisibile del mercato non genera equilibrio. Ed è proprio in questo campo che si giocano le sfide di questo secolo, dato che abbiamo ormai raggiunto e superato i limiti fisici delle risorse. C’è un’urgente e immediata necessità di redistribuzione di risorse e ricchezze e per far questo occorrono sia un processo culturale dal basso che un’azione politica dall’alto, perché nulla avviene in maniera automatica». Altro punto caro a Tamburrano e ai candidati 5 Stelle e il superamento della soglia di indebitamento degli Stati al 3% del bilancio, un vincolo che rischia di soffocare il tessuto sociale ed economico dei paesi. «L’indebitamente di uno Stato non sempre è negativo – spiega – dipende se il denaro viene utilizzato positivamente per superare le difficoltà del momento oppure è un debito fine a se stesso generato da spreco di denaro per finalità che non hanno nulla a che fare con il benessere del paese. Le valute moderne sono create dal nulla, non sono più collegate ad un valore concreto, come poteva essere l’oro, come invece avveniva nel passato. Questo trucco, chiamiamolo così,  può portare a due diverse conseguenze: permettere di superare le difficoltà del momento creando energia sociale per la prosperità di tutti oppure può essere strumento di schiavizzazione. Il denaro è un mezzo e dipende da come viene usato. Questo ha a che fare strettamente anche con il lavoro. Il lavoro non è scomparso; tutti continuano ad avere bisogno di servizi e prodotti che vengono garantiti dal lavoro. In realtà ci sarebbe tantissimo lavoro da fare, perché da riconvertire un intero sistema per permettergli di affrontare le sfide del ventunesimo secolo. Ma manca il mezzo per scambiarsi il lavoro che è la moneta, perché è stata resa scarsa in maniera strumentale per impadronirsi delle risorse reali. E si badi bene: anche se si passasse ad una moneta nazionale abbandonando l’euro, non si risolverebbero i problemi se il meccanismo dovesse rimanere lo stesso. La produzione e la circolazione della moneta devono essere un nuovo patto sociale tra le varie espressioni della comunità, il tutto diretto al progresso: sia le politiche di austerità che le politiche espansive dell’economia della crescita sono morte, non sono adatte a questo momento storico. Noi abbiamo bisogno di politiche che espandano la decrescita o, ancora meglio, di progettazione sociale e produttiva. Il nostro potenziale di prosperità sta nella riconversione, in una prosperità senza crescita». Transazione economica e transazione ecologica, entrambe legate a maglie strette, strettissime, l’una non può aversi senza l’altra. Dario Tamburrano lo ha ben chiaro e professa anche «un giusto mix di local e global, ossia una rivalorizzazione delle reti produttive locali e il mantenimento delle economie di scala di più vasto respiro solo per i prodotti complessi per i quali non esiste alternativa». «I paesi dell’area mediterranea, come ovviamente l’Italia, avevano un fantastico tessuto produttivo basato sulla piccola e media impresa; ebbene, è necessario invertire l’attuale modello che invece tende a concentrare la ricchezza, la capacità produttiva e i profitti in mano a poche grosse aziende per ritornare al modello precedente. Ragionamento analogo va fatto per l’agricoltura. Occorrono incentivi ad un’agricoltura e a un allevamento diretti ai consumi interni. Finora il mondo agricolo italiano non è stato difeso dagli europarlamentari e si è dato spazio al concetto di libero mercato che impedisce la realizzazione completa della cosiddetta filiera corta. Senza voler arrivare al protezionismo, bisogna però pensare ad una salvaguardia reale delle economie caratterizzanti, che vanno rilocalizzate dove si può; questa è la via per creare comunità resilienti con flussi di denaro locale. L’Europa che abbiamo oggi è stata fondata nel momento del boom dell’economia della crescita e tutto è stato basato su questo; se non la si trasforma, non sarà in grado di affrontare le sfide che ci attendono. In questo il movimento della transizione si è dimostrato saggio: occorre rilocalizzare tutto ciò che è possibile. Vi sono attività produttive che per motivi di scala devono essere regionali, nazionali o europee ma questo può valere per prodotti complessi non per pomodori o generi di prima necessità. Il giusto sta nel mezzo». Tamburrano non risparmia poi quella che potrebbe suonare come una provocazione ma che in fondo si rivela una riflessione su una opportunità, che è plausibile valutare. «Il trattato di Lisbona prevede che dall’Europa si possa uscire e che si possa poi chiedere di entrare nuovamente senza però dover forzatamente aderire all’eurozona. Un po’ la situazione dell’Inghilterra, che è nell’Unione Europea ma non ha aderito all’euro. E’ una possibilità, perché non la si dovrebbe considerare? Eppure quando la spieghiamo ci accusano con un’aggressività incredibile». Non manca un cenno alla voglia di rappresentare, di esserci. «La nostra intenzione, come europarlamentari, se saremo eletti, è di informare preventivamente gli italiani di tutto quello che avviene e che si sta preparando. Finora non abbiamo mai imposto le ragioni del nostro paese e la ragione sta anche nel fatto che l’Europarlamento viene interpretato dai più come un luogo di parcheggio di politici, spesso con bassissime percentuali di presenze, anche nelle commissioni. Basti pensare al deficit di rappresentanza che abbiamo avuto in materia di agricoltura, oltre alla totale mancanza di comunicazione di ciò che succedeva.  Noi invece vogliamo raccontare e spiegare tutto, mettendo in allerta la popolazione. Per esempio, proseguono le trattative per il TTIP (http://ec.europa.eu/trade/policy/in-focus/ttip/), contro cui stiamo combattendo. Se passa questo trattato, nella sua attuale versione, assisteremmo all’invasione dei privati nella sanità con un’impostazione all’americano, dovremmo sottostare ai diktat delle lobby per quanto riguarda i prodotti alimentari e agricoli in particolari; insomma, sarebbe un disastro». Tanti, dunque, i punti sui quali si muovono Dario Tamburrano e gli altri candidati dei 5 Stelle all’Europarlamento. Questioni che sono molto meno lontane da noi di quanto potrebbe sembrare e che hanno e avranno ripercussioni notevolissime sulla nostra vita. «Intanto cominciamo da qui, dalla campagna elettorale – aggiunge Tamburrano – è già un processo di informazione, é occasione di visibilità, si costruiscono relazioni, passano temi e concetti. E’ già un passo avanti, una vittoria. Già informando si può cambiare qualcosa, se solo si lasciano da parte la propaganda e gli interessi di cordata».

SCELTE, PROPOSTE E IDEE: GUARDA IL VIDEO

Fonte: il cambiamento.it

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Salone del Libro, Serge Latouche racconta i precursori della decrescita felice

Il filosofo francese a Torino per il lancio della nuova collana di Jaca Book dedicata ai precursori della decrescita

Fare mezz’ora di coda al Salone Internazionale del Libro di Torino per assistere a una conferenza sulla decrescita felice è un buon segno, ma la folla non stupisce se a parlare èSerge Latouche, universalmente riconosciuto come uno dei principali, se non il principale fautore della decrescita e del localismo. Il filosofo è arrivato a Torino nella giornata inaugurale del Salone Internazionale del Libro per presentare insieme a Giulio Marcon la nuova collana dedicata da Jaca Book alla decrescita. L’idea di Sante Bagnoli e Vera Minazzi è quella di evitare la consunzione di un termine che è stato abusato tanto a destra quanto a sinistra. Come? Andando alla radici della decrescita per scoprire che quest’idea è tutt’altro che innovativa e ha padri nobili. Con grande umiltà e onestà intellettuale, Serge Latouche allontana da sé qualsiasi “copyright” e spiega come l’idea alla base della sua filosofia sia tutt’altro che originale: i precursori della decrescita si chiamano Epicuro e Diogene, ma sono anche i taoisti e gli amerindi (il buen vivir degli Aymara è uguale in tutto per tutto alla nostra decrescita). A livello politico uno degli esponenti della decrescita è il presidente uruguaiano José “Pepe” Mujica. Precursori furono i socialisti pre-marxisti, William Maurice, il nostro Aurelio PecceiAlex Langer, ma anche personaggi universalmente noti come Lev Tolstoj Ghandi possono essere ascritti a questo filone di pensiero. Lo stesso Pier Paolo Pasolini con gli Scritti corsari e Tiziano Terzani, il romanziere Aldous Huxley. Per restare nel campo filosofico Zygmunt BaumanSlavoj ZizekMax HorkheimerWalter BenjaminTheodor Adorno hanno sfiorato, chi più chi meno, il tema della decrescita.

Al cospetto di questi giganti del pensiero Latouche sostiene che

i pensatori della crescita sono una piccola parentesi nella storia del pensiero dell’umanità. I grandi pensatori sono sempre stati molto duri contro il produttivismo.

A questa famiglia apparteneva anche Enrico Berlinguer, protagonista del saggio di Giulio Marcon. Il leader del Pci viene descritto come un uomo molto sobrio, del quale vanno evitati i “santini” come quelli fatti di recente in campo documentaristico, ma del quale non si può non sottolineare la lungimiranza di vedute. L’austerità di Berlinguer era agli antipodi rispetto a quella proposta da Angel Merkel: per il primo austerità significava ricorso all’intervento dello Stato e protezione dei beni comuni, per la Cancelliera è governo del mercato, precarizzazione, aumento dei consumi.

Ma, come conclude Latouche,

i popoli felici non consumano, sono quelli infelici a rifugiarsi nel consumo.

Latouche prende le distanze dalle accelerazioni del progresso:

Ivan Ilic diceva che possiamo salvarci solo grazie a un tecno-digiuno. Non dobbiamo diventare schiavi della nostra creazione, capovolgendo il rapporto tra soggetto e oggetto.

Latouche si è poi congedato con una riflessione:

Quando è stata scritta la dichiarazione dei diritti dell’uomo, avrebbero dovuto scrivere anche quella dei doveri. La libertà dell’uomo non può essere assoluta: l’umanità deve porsi dei limiti.Immagine14-620x345

Video e foto : Davide Mazzocco
Fonte: ecoblog.it

Agricoltura su piccola scala: in preparazione un libro per la difesa della sovranità alimentare e il ritorno alla terra

Lanciata una raccolta di fondi per finanziare dal basso il progetto di un libro autoprodotto sull’agricoltura contadina, quell’agricoltura che costituisce ancora oggi gran parte della struttura produttiva alimentare anche nel nostro paese e in molti altri del mondo. Un libro per affermare con vigore la necessità di politiche agro-igienico-alimentari che permettano anche al piccolo produttore, e a chi sceglie di ritornare a vivere nella natura, di prodursi e vendere i suoi prodotti trasformati senza vincoli legali e fiscali che impedirebbero a chiunque di sopravvivere. Un libro importante per scardinare false certezze e impostare nuove soluzioni al fine di favorire una decrescita di scala cosciente e una deurbanizzazione ormai necessariacabras_agricoltura

“Uno spettro si aggira per l’Europa” diceva qualcuno molto tempo fa annunciando così l’avvìo di una lunga stagione di lotte e di speranze, anche di immani tragedie, ma certamente di entusiasmo e della fiducia di poter cambiare il mondo. Oggi sta forse ripartendo, più silenziosa, una diversa spinta radicale al cambiamento che prende le distanze dal modello di vita imperante e ne costruisce uno diverso. Più che uno spettro è uno spirito, di vita e non di morte, anche se la falce in mano potrebbe averla. E, come per uno spettro, si tratta di qualcosa che risorge, riappare, dopo esser venuta meno, essere stata data per estinta: è l’agricoltura contadina, familiare, su piccola scala, di sussistenza o come vogliamo chiamarla, ma un modello sostenibile di quell’interazione produttiva, quel dialogo infinito tra umani e Natura che è (o dovrebbe essere) l’agricoltura. Sono sempre di più le persone che, di fronte alla crisi profonda (e forse al collasso imminente) della “civiltà” consumista cercano altre basi sulle quali vivere, senza consumarsi in militanze, combattimenti e progetti da “sol dell’avvenire”, senza aspettare che il mondo cambi per cambiare la propria vita, e così contribuendo qui ed ora a una riconversione più generale. Restando sulla terra, per chi ci è nato, tornandoci o, meglio, facendone il proprio futuro per chi viene dalla città. Quando l’ho fatto io, alla fine degli anni ’70, andare in campagna era additata da molti, impegnati nelle lotte politiche, come niente più che una fuga dalla realtà. Non lo era, e oggi queste scelte sono all’ordine del giorno come alternativa radicale e credibile, mentre il concetto di rivoluzione sociale in cui si credeva allora lo è molto meno. Ma fuga non poteva essere anche perché la realtà del Sistema in cui viviamo non trascura di venirci incontro a ogni passo, anche in campagna, a presentarci il conto a ogni buona occasione. Da Roma mi ero trasferito sul Monte Peglia, in Umbria, dove c’era (e tuttora resiste) una comunità di persone (allora un centinaio) sparse in una ventina di casolari e terreni demaniali abbandonati cui era stata ridata vita, occupandoli: molto lavoro di ricostruzione dei casali e bonifica dei pascoli, allevamento, lavoro dei campi… Ma ciò che più ci rendeva e rende tuttora difficile la vita è il rapporto con le istituzioni (Comunità Montana, Regione) che fra tentativi di sgombero e poi affitti precari, non hanno mai concesso un contratto di lungo periodo che consentisse di poter fare progetti con tranquillità. Mentre nella stessa zona ci sono decine di migliaia di ettari abbandonati ed oltre cento casolari disabitati già crollati. Le politiche sul demanio (che sarebbe un bene comune) volte a favore di disegni speculativi anziché per un’ottica di ripopolamento rurale, si son sempre presentate ai nostri occhi come dei pericoli più che come delle opportunità. Anni dopo, avevo cominciato a coltivare un oliveto e ho avuto un’idea: avrei potuto imbottigliare a casa il mio olio e venderlo al mercato in paese: vivere producendo cibo sano e, vendendone una parte, guadagnare quanto mi serviva di denaro liquido. Niente di nuovo, del resto, ciò che si è sempre fatto per generazioni. Non era una buona idea? E un’attività onesta? No: è un’atto criminale, si incaricarono di informarmene dopo non più di due ore i carabinieri che vennero a sequestrarmi l’olio e a farmi una bella multa. Anche solo per imbottigliare l’olio serve una procedura HACCP (1) e un laboratorio con l’approvazione della ASL e, per ottenere le attrezzature e i requisiti necessari, bisogna spendere decine di migliaia di euro che, per un piccolo produttore, sono impossibili da recuperare. Eppure il frantoio dove eran state spremute le olive era in regola e nella mia cucina io posso preparare cibo sia per me che per degli ospiti, anche per dei bambini, e (lasciatemelo dire) la qualità del mio olio (che è bio per davvero) sarà mica inferiore a quello del supermercato? Niente da fare: la legge è la legge. Certo, ma c’è anche un’altra cosa da sapere: che la legge è politica, non sta scritta nelle stelle, siamo noi umani che la facciamo, e possiamo cambiarla. E allora, durante trent’anni di vita in campagna, mi son sempre chiesto perché ancora in pochi vedono una scelta di vita contadina oggi come un’alternativa possibile. Che è importante, perché una cosa è anacronistica, isolata e marginale quando è praticata da poche persone, altrimenti diventa un’opzione normale. Ho pensato che non a tutti piace vivere sempre sul filo dell’illegalità, senza poter lavorare alla luce del sole e vendere tranquillamente i propri prodotti, indefinibili professionalmente, ignorati dalle normative che concepiscono solo la figura dell’“Imprenditore Agricolo Professionale”. Ho pensato che, tra le varie cose che riesco ad autoprodurmi, ci mancava un libro. Un libro in cui dar voce a chi lavora da anni per far valere le ragioni dei contadini tradizionali nel mondo e di quelli nuovi, che hanno scelto di esserlo. Un libro per dire, ad esempio, che l’agricoltura su piccola e piccolissima scala è ben lungi dall’essere estinta o residuale: il cibo che sfama l’umanità in tutto il pianeta, infatti, è tuttora prodotto al 75% da piccoli agricoltori e in Italia l’85% delle aziende sono a conduzione familiare, nella stragrande maggioranza piccole e senza dipendenti. L’estensione media per azienda è vicina ai 7 ettari, per l’85% è inferiore a 10 e nel 47% di questa quota è inferiore a 2; solo nel 2,2% dei casi l’estensione è superiore ai 50 ettari. Più che “marginale” si tratta forse solo di una realtà che non ha l’“onore” dell’attenzione dei media, dunque. Che per la PAC (2) 2014-2020, appena varata in via definitiva, dopo tanto parlare di sostegno ai piccoli agricoltori si è finito per destinargli solo qualche spicciolo (circa 500 € l’anno) senza invece mettere un tetto ai contributi diretti ai grandi latifondisti (3); che solo quest’anno son stati tolti dalle categorie beneficiarie degli aiuti in denaro i proprietari di terreni usati come aeroporti, campi da golf e simili, ma accatastati come agricoli, che hanno ottenuto (legalmente) per decenni soldi destinati all’agricoltura, ma si è lasciato alla discrezione dei vari stati nazionali come definire chi va considerato “agricoltore attivo” e quindi avente diritto agli aiuti o meno e che tra i soggetti meritevoli di sostegno allo sviluppo rurale son state inserite anche le compagnie di assicurazioni (4). Un libro per dire che la biodiversità agricola (e alimentare) è in serio pericolo se è vero che il mercato globale delle sementi è controllato all’80% dalle prime 10 aziende multinazionali del settore e al 53% dalle prime 3 (Monsanto ha da sola il 27%), che sono anche le corporations leader dell’agrochimica e dell’ingegneria genetica applicata in campo agricolo; che nel mondo si è passati in pochi decenni da migliaia di varietà di piante ad uso alimentare a pochissime e sempre più artificiali e iperselezionate; ma anche per raccontare della risposta di tante organizzazioni contadine, de La Via Campesina, del miglioramento genetico partecipativo dello scienziato italiano Salvatore Ceccarelli; per parlare della rapina della terra nel mondo attraverso il land-grabbing, ma anche delle “dismissioni” del demanio in Italia per far quadrare i conti con l’Europa e con le banche d’affari mentre è in corso un evidente processo di concentrazione della proprietà fondiaria (5). Un libro per analizzare le leggi vigenti, soprattutto in materia igienico-sanitaria e sulla vendita diretta, e dimostrare tutta la questione di volontà politica e di interessi che sta dietro al modello unico della produzione agroalimentare industriale e della Grande Distribuzione. Una ricerca atta a segnalare che esistono diverse proposte di legge che vanno nella direzione di un’apertura di spazi di agibilità legale per le produzioni contadine (come quella di agricoltura contadina a livello nazionale e altre presentate in diverse Regioni italiane) e che vi sono inoltre già alcune leggi esistenti (come nella Provincia di Bolzano e nella Regione Abruzzo). Inoltre, con questo lavoro avanzo io stesso personalmente alcune idee inedite di soluzione della questione, il cui scopo è soprattutto quello di dare un contributo a una discussione su temi che ci riguardano tutti e che credo sia molto importante e urgente affrontare.

Per arrivare alla pubblicazione di questo libro è attualmente in corso una raccolta fondi di produzione dal basso/crowd funding sul sito:

www.limoney.it

ed è anche attiva una pagina Facebook: Terra e futuro, l’agricoltura contadina ci salverà

1. Un sistema creato dalla NASA per assicurare l’igienicità del cibo nelle navicelle spaziali e ora richiesto dai regolamenti europei sulle produzioni alimentari che non distinguono tra le piccole produzioni contadine e l’agroindustria.

2. Politica Agricola Comune europea; le è destinato quasi il 50% dei fondi pubblici europei.

3. I dati relativi ai contributi PAC del 2011 ci dicono che in Italia il 93,7% delle aziende agricole (1.170.000 aziende) ha ricevuto il 39,5% dei fondi a disposizione, per una media di 1000 € (mille euro) ad azienda, il 18% è andato allo 0,29% delle aziende e il 6% è stato diviso tra lo 0,0001% che sono 150 aziende alle quali è toccata una media di 1.589.000 € ognuna.

4. Per polizze contro i disastri provocati dai cambiamenti climatici e dalla volatilità dei prezzi sui mercati globali/speculazioni finanziarie sul cibo – problemi a cui si dovrebbero trovare ben altri tipi di soluzione che non le coperture assicurative.

5. Tra il 2000 e il 2010 le aziende con una superficie agricola tra i 2 e i 10 ettari sono diminuite del 20% circa. Questa tipologia di aziende ha perso in questo decennio un totale di circa 550.000 ettari e nello stesso periodo le aziende di oltre 100 ha hanno registrato un incremento di 270.000 ha e quelle tra i 50 ed i 100 ha di altri 360.000. Oggi l’1% delle aziende ha il 30% dei terreni agricoli e la tendenza è in aumento.

Fonte: il cambiamento

Per fortuna c’è una…“Generazione decrescente”

Un quadro solido di valori che fa comprendere perfettamente perché non sia più possibile produrre, consumare e sprecare come si è fatto finora. E’ quello che esce dal libro di Andrea Bertaglio “Generazione decrescente” (Edizioni L’Età dell’Acquario). E Andrea sa bene di cosa sta parlando…generazione_decrescente

Andrea Bertaglio appartiene a quella generazione che oggi sta a metà del guado, fra i 30 e i 40 anni. “La prima generazione che non avrà più di ciò che i genitori hanno avuto” come ha detto Maurizio Pallante, che ha curato la prefazione del libro. Ma è proprio questa condizione che sta rendendo una generazione consapevole del fatto che non si può più produrre, consumare e sprecare come si è fatto finora. Andrea è partito dalla sua esperienza di vita per spiegare come la decrescita non sia solo una critica radicale a un sistema in recessione, ma rappresenti i valori sui quali costruire il futuro. Andrea Bertaglio è tra i portavoce nazionali del Movimento per la Decrescita Felice, ha 34 anni; nato a Milano, dopo aver vissuto anche in Germania e Gran Bretagna, da alcuni anni si è trasferito nella campagna piemontese. Giornalista, laureato in sociologia, ha lavorato nel 2007 in Germania al Centre on Sustainable Consumption and Production. È co-autore del documentario «Presi per il PIL». Il Cambiamento lo ha intervistato.

Il libro mi pare di capire che è una sorta di specchio di quanto hai vissuto e stai vivendo tu sulla tua pelle. Quindi tu sei un esponente della generazione decrescita? Come lo definiresti il contesto in cui questa(e) generazione(i) si trova(no) a vivere? Ti senti più come una generazione di passaggio che viene da qualcosa e va verso qualcos’altro o come una generazione capolinea che non ha una nuova sponda sulla quale approdare?

La mia “generazione”, che io considero quella di chi è nato dagli anni ’70 in poi, si trova ad affrontare una situazione molto particolare: ha più aspettative rispetto a quelle precedenti, ma ha meno possibilità per realizzarle. Se ci si pensa è un mix micidiale, fonte di una sensazione di frustrazione e inadeguatezza enormi: voglio di più, ma in un periodo in cui ho meno possibilità di ottenerlo. O almeno si pensa sia così, perché se si cambia la propria prospettiva, questo periodo offre molte possibilità. Possibilità di cambiamento, innanzi tutto. Appartengo alla generazione decrescente, quindi, quella che si sta accollando le conseguenze delle scelte fatte in passato dai suoi padri, che l’hanno portata a mangiare tre volte al giorno, ma a vivere in un mondo ultra-inquinato, completamente impazzito a livello economico e promotore di un vuoto esistenziale da levare il fiato. Mi spiace si possa pensare che la mia è una generazione senza una sponda sulla quale approdare, perché penso sia esattamente il contrario: è adesso che siamo in mare aperto, e abbiamo bisogno di impegnarci se non ci vogliamo restare a vita, bloccati in una eterna adolescenza da precari che non possono, non sanno o non vogliono crescere, appunto. Come possiamo uscirne? Secondo me partendo dalle piccole cose, dalla quotidianità, perché non è vero che è già stato tutto detto o fatto. C’è ancora molto da fare: andare avanti, progredire (nel vero senso della parola, che non è legato solo al “consumare”), ripulendo allo stesso tempo il mondo dalla sozzura che lo ammorba. Ridando a quest’ultimo una forma, per poi riempirlo ancora di sostanza.

La decrescita: tutti ne parlano, viene definita inderogabile e necessaria per invertire una rotta che ci porta al collasso. Ma chi ci vive in mezzo cosa ne dice?

Che è così, soprattutto se la si smette di pensare che la decrescita sia un ritorno al carro e alla candela. Queste sono balle diffuse da chi non si vuole levare il paraocchi ideologico che gli fa credere di vivere ancora nel ventesimo secolo. Non è più così, e crescere all’infinito è pura utopia, anche per i cinesi. Per vivere la o nella decrescita non c’è bisogno di rifugiarsi nei boschi, cosa che io per primo non saprei e non vorrei fare. Basta smetterla di consacrare la propria vita al consumo, allo spreco, all’accettazione di stili e modelli di vita insostenibili, sotto ogni aspetto. Per poi rendersi conto che non è così male, e che la famigerata crisi potrebbe anche scomparire, senza una serie di bisogni indotti ed inutili che ci hanno portati ad avere. Per cosa? Per essere comunque tutti stressati, infelici, e disoccupati!

A chi consiglieresti la lettura di questo libro? A chi ha perso le speranze e vuole ritrovarne? E’ un libro che lascia intravedere una speranza e che fornisce una lettura propositiva?

Lo consiglierei a tutti. Soprattutto a chi si è sentito in qualche modo a disagio, nel corso della vita, perché non si sentiva d’accordo con le idee dominanti. Una lettura propositiva? Certo, su questa è incentrata l’intera terza ed ultima parte del libro. Vanno bene la critica e la riflessione, sono fondamentali. Ma senza un approccio propositivo non si va da nessuna parte. E questo libro non avrebbe avuto motivo di esistere.

Fonte: il cambiamento

Deindustrializzazione dell’Italia: ovvero la decrescita infelice

Il rapporto sulla competitività Ue è stato impietoso e descrive la situazione italiana come una “vera e proprie deindustrializzazione”: siamo alla decrescita infelice.129076460-594x350

E’ la notizia del giorno: Italia deindustrializzata e fanalino di coda nella Ue, questo in sintesi il senso del Rapporto sulla competitività presentato a Bruxelles. Siamo in decrescita ma infelice, ossia quella non programmata per cui la sperequazione sociale è attualmente vistosa. La produttività è al meno 20% e Spagna e Grecia ci hanno superato. Da noi influisce il costo dell’energia e l’eccessiva pressione fiscale, le difficoltà di accesso al credito e l’eccessiva burocrazia. Ma d’altronde ognuno di noi in merito è testimone di qualche storia legata ai punti critici individuati dalla Ue. Ma ciò non toglie che questa decrescita infelice non possa rappresentare una buona occasione per riconvertirla in decrescita felice. Partendo dall’energia e dal taglio di quegli incentivi che sono proprio inutili, ossia a quel capitolo noto come CIP6 tenuto in vita in extremis proprio dall’ex ministro Passera. Sapete quanto ci è costato nel 2012? Ce lo dice l’Autorità per l’Energia nella sua relazione: 918 milioni di euro per le rinnovabili e 2.239 milioni di euro per le assimilate. E per assimilate si intendono anche gli inceneritori, che nella bizzarra visione dei politici, sono fonti di energia assimilata alle rinnovabili e non macchine di morte.

Scrive nel suo rapporto l’Autorità:

Nel 2011 i costi totali dei ritiri del GSE per l’energia CIP6 sono stimabili in circa 3,3 miliardi di euro, in prevalenza (circa il 72%) legati alla remunerazione dell’energia CIP6 prodotta da impianti assimilati. Per quanto riguarda le fonti assimilate, sulla base delle dichiarazioni degli operatori che hanno risposto all’Indagine dell’Autorità, risulta che otto operatori effettuano la quasi totalità della generazione elettrica in convenzione CIP6; le quote maggiori spettano ai gruppi Edison (20,8%), Saras (18,4%) ed Erg (16,8%). Per i ritiri, invece, dell’energia prodotta da fonti rinnovabili, la società A2A realizza quasi un terzo (30,9%) della generazione rinnovabile, seguita da Ital Green Energy Holding (14,1%), Api (7,7%) e International Power (5,8%). Complessivamente i primi dieci operatori coprono oltre l’80% dell’energia totale rinnovabile in convenzione CIP6.

Ma questa pioggia di soldi non potrebbe essere usata diversamente?

Fonte: ecoblog

God Save the Green: il verde alla riconquista di città e metropoli

Il documentario di Michele Mellara e Alessandro Rossi racconta la rinascita dell’orticoltura urbana, fra necessità e consapevole decrescitaGod1-586x328

Ecoblog vi ha parlato del boom degli orti urbani e dell’autoproduzione fra necessità e scelta, crisi e decrescita consapevole. Al Salone Internazionale del Libro è stato presentato God Save the Green, il documentario di Michele Mellara e Alessandro Rossi, prodotto da Mammut Film con Ethnos e Cefa, la sponsorizzazione dell’Università di Bologna e Dista e il contributo di Cineteca di Bologna, Regione Emilia Romagna Apq Geco e Film Commission Torino Piemonte. In questo lavoro pensato per il cinema (75 minuti) e per la televisione (52 minuti). Il documentario di Mellara e Rossi va alla ricerca di storie di “riconquista” ambientale che sta avvenendo nelle città e nelle metropoli di tutto il mondo, dove le persone hanno ripreso a coltivare gli orti in posti prima impensabili: terrazze, balconi, giardini pubblici, giardini pensili. E così si va dalla storia dell’orto coltivato dalla famiglia di Abdellah nel più grande slum di Casablanca (Marocco) alla coltivazione idroponica (ovverosia fuori suolo) di un gruppo di donne di Teresina (Brasile), dagli orti comunitari di Kreuzeberg, quartiere berlinese una volta attraversato da un muro, all’orto dentro i sacchi di una famiglia residente nello slum di Nairobi (Kenya). Non manca una finestra sull’Italia: a Torino un giardiniere appassionato ha creato un lussureggiante giardino pensile nell’attico a terrazze di un condominio di 10 piani posto in un quartiere residenziale di Torino. La passione ha fatto miracoli: in 150 metri quadrati sono concentrate duemila specie di piante, fiori e ortaggi. Un altro capitolo è quello dedicato al guerrilla gardening messo in atto da due ragazzi berlinesi che con azioni tanto utopistiche quanto determinate si lanciano alla riconquista dei fazzoletti di terra “superstiti” della cementificazione.

Fonte:  Mammut Film

 

Decrescita felice alla Biennale Democrazia: la lezione sul consumo intelligente di Mercalli e Pallante

Alla Biennale Democrazia di Torino tutto esaurito per l’incontro dei due teorici della decrescita felice

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Se decresce il debito pubblico quella è una decrescita negativa? Senza il cibo che, in Italia, finisce nella pattumiera avremo un PIL del 2% più basso: sarebbe un male questo?

Comincia con domande retoriche l’intervento di Maurizio Pallante, fondatore del movimento della decrescita felice, in un Piccolo Regio stracolmo all’inverosimile per la terza giornata di Biennale Democrazia. Con lui Paolo Griseri a fare da moderatore e Luca Mercalli, meteorologo, ecologista e, anche lui, decrescente praticante. Si parla di decrescita felice e il fondatore del movimento fa esempi molto pratici raccogliendo consensi senza l’aggressività del capopolo che questi temi è riuscito a portarli in Parlamento:

La nostra società crede di vivere nel migliore dei mondi possibili. Faccio un esempio: una casa che in Italia consuma 20 litri di gas perché è costruita male e disperde il calore, in Germania non avrebbe l’abitabilità dopo lo sforamento dei 7 litri. Il fatto è che in Germania il consumo medio è di 1,5 litri… A questo fatto si aggiunge il fatto che le nostre metriche di misura del benessere sono una follia: stare in coda in macchina ci fa consumare più benzina dunque accresce il PIL, comprare più cibo di quello che ci è necessario fa crescere il PIL ma questo è benessere? La voce del PIL è quella di  un imprenditore che alle tre di notte chiama il suo socio in affari e ride del terremoto appena avvenuto in Abruzzo…

Pallante sa che gli scettici non mancano e che i detrattori di questa teoria sostengono che sia l’anticamera di una crisi ben peggiore, ma i dati parlano chiaro: negli ultimi 50 anni la popolazione italiana è passata da 47 a 60 milioni ma l’occupazione è rimasta stabile. Perché la crescita economica è accompagnata a una competizione tecnologica che sottrae occupazione e posti di lavoro. Pallante stoppa anche chi semplifica, assimilando la recessione alla decrescita: la recessione è la riduzione indiscriminata di merci, la decrescita è la riduzione di merci che non sono beni. Volendo metaforizzare la recessione è colui che non mangia perché non ha nulla da mangiare, la decrescita è colui che non mangia perché si è messo a dieta.

Luca Mercalli cita Kenneth Boulding:

Chi crede che una crescita esponenziale possa continuare all’infinito in un mondo finito è un folle, oppure un economista. 

Poi, le cifre, implacabili, di un mondo che dalla seconda metà degli anni Ottanta ha iniziato a bruciare il proprio capitale di risorse e non, come accadeva prima di quella data, i suoi “interessi”. Nel 2040, quando saremo 8 miliardi, saranno necessarie due Terre per mantenere gli standard attuali di consumo energetico e alimentare. Il meteorologo porta la propria esperienza di autonomia energetica, di auto-produzione e di mobilità sostenibile. Quali soluzioni? Per Pallante le due vie maestre della decrescita sono: 1) la riduzione dei consumi alla fonte grazie al risparmio energetico, 2) il ritorno a forme di baratto già collaudate dai nostri avi. Secondo il movimento della decrescita felice la giornata tipo dovrebbe essere divisa in tre fasi: 1) autoproduzione: cioè produrre cibi e strumenti che ci permettano di non dipendere totalmente dal mercato, 2) lavoro: occorre guadagnare per poter acquistare ciò che non può essere autoprodotto, 3) contemplazione e relazioni umane. Ovviamente nel dibattito non può non entrare la politica e quel Movimento Cinque Stelle che è in sintonia – quantomeno a livello teorico – con i principi e le regole della decrescita felice. Pallante sgombera il campo da qualsiasi “affiliazione” del suo movimento che resta apolitico pur facendo proposte che sono, di fatto, politiche, ma riconosce come in Parlamento vi sia, per la prima volta, una forza che non fa del modello di sviluppo industriale e “ottocentesco” il proprio schema di Governo.

Fonte: ecoblog

Maurizio Pallante al Teatro Rossi Aperto di Pisa

Nell’ambito degli eventi culturali e delle iniziative che animano il Teatro Rossi Aperto di Pisa, Maurizio Pallante – massimo esponente della decrescita in Italia – è stato invitato dal Gruppo pisano della Decrescita a tenere una presentazione sull’economia del dono, in vista della Festa del presente che avrà luogo a Pisa il prossimo 5 Maggio.

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In vista della festa del presente organizzata dal Gruppo della Decrescita di Pisa per il prossimo 5 Maggio, Maurizio Pallante, massimo esponente della decrescita in Italia, è stato invitato a tenere una presentazione sull’economia del dono al Teatro Rossi Aperto di Pisa lo scorso 14 Marzo. L’intervento si è posto in continuità con il workshop che ha visto protagoniste a Febbraio numerose personalità della cultura e dell’arte interessate al recupero del Teatro Rossi. Nella platea affollata, ancorché fredda, Pallante ha trattato la rilevanza del dono badando a tracciare una serie di distinzioni che da sempre caratterizzano la sua opera. Anzitutto occorre non confondere fra loro la recessione – fase di stallo generalizzata, quella che viviamo attualmente -, e decrescita. Se la prima è caratterizzata da una riduzione generalizzata ed indiscriminata della produzione delle merci, causando livelli esponenziali di disoccupazione, la seconda è invece una diminuzione guidata e mirata della produzione ed è foriera di occupazione qualificata. Alla base di questo ragionamento Pallante colloca la distinzione, già marxiana, fra bene e merce, in base alla quale le merci sono oggetti di scambio e di vendita, mentre i beni soddisfano bisogni essenziali che non sono sempre, né necessariamente riducibili alla mercificazione. Anche se beni come il gas o il carbone possono essere trasformati in merci, un uso non oculato di questi ultimi è all’origine degli sprechi e del danno ambientale. Inoltre esistono beni che non sono mai trasformabili in merci (come i valori, i principi, gli affetti). Di conseguenza beni e merci non si equivalgono, mentre è fondamentale identificare le funzioni e le finalità che li caratterizzano per capire se la loro produzione soddisfi o meno bisogni reali ed essenziali. In tale contesto si colloca il senso stesso della decrescita: chiedersi, come spesso si usa fare, se il prefisso “de” abbia o meno una valenza negativa è fuorviante, poiché in questione è piuttosto la nozione di “crescita” che si vuole difendere. Si tratta di interrogarsi se il progresso da instaurare sia all’insegna della produzione incontrollata ed indiscriminata di merci, o piuttosto di un aumento selezionato e qualificato di quelle merci che non si mutano in sprechi. Per Pallante la decrescita è espressione della possibilità di costruire un’alternativa sociale ed economica, imperniata sul rilancio della domanda mediante il debito al fine di creare occupazione qualificata. Da dove prendere il denaro? “Il denaro – dice Pallante si può recuperare solo riducendo gli sprechi, che non sono quelli della pubblica amministrazione (perché in questo caso si va a colpire delle persone e quindi si influisce sul salario), bensì quelli che arrechiamo in natura. Bisogna ridurre gli sprechi delle risorse naturali per ridare lavoro, modificando gli stili di vita dei paesi occidentali e recuperando i talenti perduti nel corso delle ultime tre generazioni”. A questo proposito, rifacendosi al filosofo Richard Sennett, Pallante ha ricordato il significato del lavoro manuale come dimensione formativa, che coinvolge tutte le facoltà, affinando particolarmente quelle tattili, che veicolano informazioni più precise di quelle trasmesse dalla vista. In una società basata sulla capacità di collaborare e resa indipendente dal Pil si apre, allora, la possibilità di ricorrere al baratto e al dono come forme alternative allo scambio economico. I doveri sarebbero quelli della gratuità, che comporta l’obbligo di ricevere e di restituire più di quello che si è ottenuto. In questo caso il dono più importante è quello del tempo e la comunità potrebbe diventare la realizzazione più compiuta della collaborazione fondata sul munus, ovvero sul dono. Le idee di Pallante e gli esempi da lui proposti, per lo più concentrati su dimensioni locali (come gli sprechi nei consumi delle abitazioni, l’orto, le attività manuali), fanno capire che in gioco è soprattutto l’affermazione di un diverso paradigma culturale. Si è spesso ripetuto che, al fine di cambiare un modello, occorre proporne un altro altrettanto persuasivo ed indubbiamente il discorso di Pallante fa riflettere su quelli che sono gli scopi dell’economia politica e sulla direzione da intraprendere. Detto altrimenti, il problema che si presenta in una fase di recessione come quella in corso in Italia non si può affrontare prescindendo dalle domande relative a quale crescita ed a quale lavoro siano necessari. Al tempo stesso, se è vero che ogni modello culturale si regge su dei principi e su dei valori, il paradigma del dono prospettato da Pallante si presta anche ad un ulteriore dibattito, come quello sollevato da Tommaso Luzzati nel corso della presentazione pisana. Siamo sicuri che il dono resista alla logica del do ut des e che l’essere vincolato all’obbligo di dare e restituire non produca una regressione a modalità di collaborazione esclusivamente parentali, basate sulla conoscenza reciproca come avviene per la raccomandazione e la corruzione? Gli esempi di autoproduzione e di autosufficienza proposti da Pallante si reggono, ad esempio, sul modello della famiglia, che spesso rappresenta il solo baluardo per chi vive in situazioni di difficoltà. Ma non soltanto la gratuità offerta dalla famiglia non è esente da condizionamenti, che sono meno evidenti di quelli materiali (spesso di natura psicologica), più importante ancora è chiedersi se il dono possa essere immune dall’obbligo. La festa del presente, organizzata dal Gruppo della Decrescita per la prima volta a Pisa (Piazza Santa Caterina) il prossimo 5 Maggio, potrebbe allora essere l’occasione per ripensare questa modalità di interazione liberandola dagli stereotipi con l’esercizio dal vivo.

Fonte: il cambiamento

Debiti Pubblici, Crisi Economica e Decrescita Felice
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