Pensa 2040: “Costruiamo una rete di buone pratiche contro le mafie”

Italia che Cambia è tra gli organizzatori di Pensa 2040, un incontro nazionale ed un’iniziativa volta alla creazione di una rete di buone pratiche artistiche e culturali come strumento di promozione della responsabilità civile e della lotta alla criminalità organizzata. Associazioni, cooperative, imprese sociali e comitati sono invitati a partecipare. Cultura e cittadinanza attiva rappresentano uno strumento fondamentale per la lotta alle mafie. È a partire da questo presupposto che prende vita l’iniziativa “Pensa 2040”, il primo incontro nazionale tra gli amministratori locali della rete di Avviso Pubblico e di Anci e le associazioni che si occupano di queste tematiche per avviare un percorso finalizzato alla costruzione di una rete di scambio di buone pratiche che abbia come orizzonte la definizione di un piano nazionale culturale straordinario decennale di contrasto al crimine organizzato. L’incontro si terrà il 20 e 21 novembre 2020 a Firenze ed è organizzato da Avviso Pubblico, Biennale Democrazia, CO2 Crisis Opportunity Onlus, la Fondazione Giancarlo Siani Onlus e Italia che Cambia.

Foto di CO2 Crisis Opportunity Onlus

“Sei un’associazione, una cooperativa, un’impresa sociale o un comitato che si occupa di antimafia? Usi la cultura e soprattutto le arti performative come strumento di sensibilizzazione sociale? Ti piace sperimentare metodi innovativi per mobilitare le comunità locali?  Oppure hai organizzato dei laboratori che coinvolgono le scuole (di ogni ordine e grado) sperimentando buone pratiche di promozione della responsabilità civile e della lotta alla criminalità organizzata?”. Gli organizzatori stanno cercando su tutto il territorio nazionale buone pratiche che utilizzino le arti performative e la cultura come strumento per promuovere la responsabilità civile e contrastare la criminalità organizzata. Tutte le proposte che riceveremo verranno inserite, previa approvazione del Comitato Scientifico, all’interno di una mappa realizzata da Italia che Cambia con l’obiettivo di costruire una rete nazionale utile per la promozione e la diffusione di buone prassi che possano essere implementate su più larga scala. Alcuni dei progetti inviati saranno selezionati per una presentazione pubblica durante le due giornate di Firenze. Alcuni dei progetti inviati saranno selezionati per una presentazione pubblica durante le due giornate di Firenze. Per partecipare è necessario compilare il questionario entro il 5 settembre 2020.

Fonte: https://www.italiachecambia.org/2020/07/pensa-2040-costruiamo-rete-buone-pratiche-contro-mafie/?utm_source=newsletter&utm_medium=email

Clean Up Italia: la rete dei cittadini che ci liberano dai rifiuti abbandonati

Clean Up Italia è una rete informale comprendente circa sessanta associazioni in Italia, composte da quei gruppi di persone che si prodigano attivamente per la rimozione di rifiuti abbandonati nell’ambiente. Gabriele Vetruccio ne è uno dei fondatori, insieme a Gianluca Parodi. In questo articolo e nel video al suo interno, ci spiega le caratteristiche di questa rete e l’esperienza di Clean Up Tricase, il gruppo pugliese di cui Gabriele fa parte. Ha un sapore beffardo, in queste ore, scrivere questo articolo e montare il video che vedrete qui sotto. Per raggiungere Tricase, comune salentino situato nel Capo di Leuca, abbiamo fatto un viaggio molto lungo da Roma: in queste ore di quarantena forzata rimpiango (fortemente!) questi momenti che abbiamo vissuto. È stato un lungo viaggio, ma ripagato completamente dalla scoperta di un gruppo di persone splendide: quello di Clean Up Tricase e la realtà che ci ospita, lo spazio “Celacanto Bene Comune” del quale vi racconteremo nelle prossime settimane. Il motore di questo incontro è stato Gabriele Vetruccio, che oltre a essere il Presidente di Clean Up Tricase è il co-fondatore, insieme a Gianluca Parodi, della rete nazionale Clean Up Italia.

«Io ho un’abitudine – ci racconta Gabriele – che è quella di fare il bagno al mare tutto l’anno. Ogni volta che andavo, raccoglievo ogni giorno la stessa quantità di rifiuti. Tramite un post Facebook, proposi un incontro pubblico nella quale parteciparono i primi membri della rete di Clean Up Tricase. Probabilmente questo stesso bisogno credo sia alla base della creazione delle altre realtà territoriali, così come le differenti problematiche legate al tema dei rifiuti nei diversi territori italiani».

Gabriele ci introduce così alla scoperta di Clean Up Italia, una rete informale e virtuale che si prefigge di accogliere al suo interno tutti quei gruppi di persone che si prodigano attivamente per la rimozione di rifiuti abbandonati nell’ambiente. Provenienti da diverse parti d’Italia, le circa sessanta associazioni attive nella rete, tramite una pagina Facebook e un gruppo Whatsapp, si scambiano così informazioni, conoscenze ed esperienze e si attivano con i propri membri per ripulire i luoghi invasi dai rifiuti, per valorizzare alcune aree delle città e dei paesi abbandonate al degrado e soprattutto per sensibilizzare i cittadini ad agire piuttosto che a subire questa pratica criminale nei territori.

«Anziché cercare di trovare scusanti, abbiamo deciso di passare all’azione e Clean Up Italia è il contenitore di tutte queste realtà che hanno in comune questa visione», ci spiega Gabriele. «L’obiettivo è unire le forze, mantenendo ognuno la propria indipendenza organizzativa, per essere più incisivi anche a livello nazionale riguardo le possibili soluzioni dal basso per risolvere il problema dei rifiuti abbandonati».

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Le linee guida: spinta dal basso e Bene Comune

A Tricase ci accoglie e conosciamo una parte attiva degli oltre cento iscritti alla rete Clean up locale. Una parte di attivisti del gruppo, solitamente ogni due domeniche del mese, si riunisce per andare a pulire un’area, precedentemente individuata, dove ci sono dei rifiuti abbandonati. Oppure per riqualificare una parte del paese che versa in stato di malora. Inoltre, Clean Up Tricase incontra le scuole e la cittadinanza per sensibilizzare costantemente su questo tema.

L’intervento di pulizia, solitamente, viene comunicato anticipatamente all’amministrazione comunale, ma Gabriele ci tiene a specificare un messaggio che è molto importante anche per la rete nazionale: «Non ci interessa sopperire ad una mancanza di tipo amministrativo: anche quando ci arrivano delle segnalazioni da parte dei cittadini riguardo probabili interventi da effettuare, noi solitamente rispondiamo loro di creare un gruppo, che si prende poi la responsabilità di intervenire in prima persona. Noi forniamo tutto l’aiuto di cui la nostra rete è capace: l’obiettivo è che l’iniziativa porti alla responsabilità delle persone, non che si deleghi tutto a noi per poi non agire».

Questo perché uno degli obiettivi principali di ogni gruppo che fa parte della rete di Clean Up è quello di educare le persone alla scoperta del valore del Bene Comune: «Il fatto che solitamente si pulisca fino alla soglia della propria casa, disinteressandosi della strada antistante, significa che non abbiamo ben chiaro il concetto di Bene Comune. La strada è di tutti noi, quello che ci circonda è di tutti, è nostro dovere lasciare pulito». Il gruppo di Clean up Tricase è oggi un gruppo molto variegato, sia in termini di età (si va dai venti ai settantacinque anni) che in termini di status sociale.

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«L’obiettivo, oltre all’espansione della nostra rete al quale stiamo lavorando costantemente, è quello di far capire alle persone che, oltre all’Istituzione, non esiste solo la lamentela ma anche la possibilità di cambiare le cose, impegnandosi con responsabilità in prima persona per risolvere i drammi legati all’abbandono dei rifiuti. Bisogna recuperare la cultura della Bellezza e, se ci focalizziamo solamente sulla paralisi che a volte sembrano dimostrare le amministrazioni in alcune aree delle nostre città, viene meno il nostro ruolo di cittadinanza attiva e, peggio ancora, il problema rimane. È un nostro punto fisso: la promozione delle attività di rimozione rifiuti dei singoli gruppi, al fine di stimolare la partecipazione locale delle rispettive iniziative».

Fonte: https://www.italiachecambia.org/2020/04/clean-up-italia-rete-cittadini-ci-liberano-dai-rifiuti-abbandonati-io-faccio-cosi-286/?utm_source=newsletter&utm_medium=email

Città Creative Unesco: Biella rappresenta il Piemonte nella corsa alla candidatura 2019

Proprio in questi giorni si è tenuta la conferenza stampa della Candidatura di Biella a Città Creativa UNESCO 2019 presso la Sala Stampa Regione Piemonte di Piazza Castello 165 a Torino. Scopriamo quanto emerso dall’incontro attraverso gli interventi dei relatori. Biella, Trieste, Bergamo e Como: è questa la lista delle città che hanno ottenuto il sostegno ufficiale della Commissione italiana UNESCO per l’ingresso nel network delle Creative cities. Il Consiglio Direttivo della Commissione Nazionale Italiana per l’UNESCO, che si è riunito giovedì 13 giugno, ha infatti deliberato sulle candidature, che entreranno nella Rete delle Città Creative e ha deciso all’unanimità di sostenere le città di Bergamo per la gastronomia, Biella e Como per l’artigianato e Trieste per la letteratura. Nel corso della conferenza stampa in Regione è stata recentemente presentata la candidatura di Biella quale città creativa UNESCO. Il Presidente della Regione Piemonte, Alberto Cirio ha dichiarato: “Quella di Biella è una candidatura che si inserisce a pieno titolo nel nostro progetto di valorizzazione dell’economia, della cultura e del turismo del Piemonte. Il riconoscimento Unesco è un esempio dei risultati importanti che un territorio può ottenere, quando unisce tutte le sue forze e vede le istituzioni pubbliche e i soggetti privati lavorare insieme per la condivisione di un obiettivo comune. Adesso l’obiettivo sarà poter vantare Biella come terza ‘Città creativa Unesco’ del Piemonte, dopo Alba per la gastronomia e Torino per il design. Metterò personalmente a disposizione l’esperienza e i rapporti maturati in questi anni con l’Unesco e sono certo che, insieme, vinceremo questa nuova sfida per il nostro territorio”

Parole significative anche da parte di Francesca Leon, Assessore alla cultura di Torino Città creativa Unesco: “Ogni volta che un luogo di cultura del nostro Paese si candida per ottenere un riconoscimento internazionale, non possiamo che esserne orgogliosi e sentirci parte di un corpo che si muove all’unisono per il raggiungimento di una meta comune. Ci auguriamo, come Città di Torino, che Biella possa vincere la sfida, convinti del potenziale che il suo territorio racchiude, dell’attenzione che ha saputo investire sull’arte e l’artigianato quali strumenti di sviluppo del proprio tessuto cittadino. La proiezione sulla Mole Antonelliana del logo della candidatura è il nostro segnale di amicizia e sostegno a Biella, perché ottenga un meritato successo e il Piemonte abbia una nuova città che entra nelle creative city dell’Unesco”.

Entusiasta degli ultimi sviluppi anche Presidente della Fondazione Cassa di Risparmio di Biella Franco Ferraris: “Si tratta di un risultato straordinario e che conferma la grandissima forza del territorio biellese che, in linea con gli obiettivi dell’agenda ONU 2030, ha sviluppato da sempre innovazione, sostenibilità e creatività. Oggi questo primo successo dimostra che un territorio che sa lavorare e comunicare unito è un territorio vincente, grazie a tutti gli Enti e alle persone che stanno lavorando al progetto”.

Per il Biellese la candidatura rappresenta uno strumento nuovo di trasformazione sociale, attraverso i temi dell’arte e della sostenibilità oltre che della maestria tessile. A testimoniarlo è stato il processo di costruzione del dossier, che ha interessato una vastissima rete di soggetti pubblici e privati, a cominciare dalle 140 lettere di sostegno raccolte da tutta Italia e dal mondo, dalle 74 firme dei sindaci del Biellese, uniti per un obiettivo comune, passando attraverso centinaia di ritratti di cittadini, istituzioni e aziende, visibili sul sito. Una realtà che dimostra che qualcosa è cambiato e che, nonostante le difficoltà della crisi economica, c’è molta voglia di raccontarsi in modo nuovo, di mettere al centro i valori della condivisione e del cambiamento ispirati dagli obiettivi ONU 2030 e riassunti magistralmente nel simbolo del Terzo Paradiso di Michelangelo Pistoletto che mette al centro la sintesi tra natura e artificio.

Biella ha scelto dunque di affidare il proprio messaggio di rinnovamento a un progetto ‘su misura’ di alta sartoria artistica e sociale fatto di fili intrecciati tra la città e le associazioni e tra queste e i cittadini che rendono vivo e vero il territorio. La sfida tra le città finaliste si giocherà a Parigi dove Biella si presenterà come la candidata ufficiale del Piemonte, incarnandone i valori. “Credo con forza – ha commentato il neo sindaco della città Claudio Corradino che ha raccolto il passaggio del testimone dall’uscente Marco Cavicchioli che ha firmato il dossier di candidatura – nelle potenzialità della candidatura di Biella e questo risultato è davvero importante. Sono convinto che Biella abbia tutte le carte in regola per superare anche la selezione della Commissione Unesco a Parigi e mi spenderò personalmente in ogni sede istituzionale per raggiungere questo risultato”.

Alla conferenza stampa è intervenuto anche Paolo Naldini, direttore di Cittadellarte: “Biella Città dell’arte e dell’Impresa. Il Simbolo del Terzo Paradiso – ha argomentato – che indica la sintesi di natura e artificio, rispettivamente primo e secondo Paradiso, adottato dalle Nazioni Unite e da più di 200 Ambasciate in tutto il mondo, è il simbolo della candidatura Unesco della città di Biella. Quest’ultima è riconosciuta nel mondo come una capitale della lana ed è conosciuta come sede della Fondazione Pistoletto, la Cittadellarte, dove un complesso di archeologia industriale ex lanificio è stato riconvertito in fabbrica di cultura per il tessuto sociale, di innovazione e sostenibilità, benchmark internazionale prodotto dalla sinergia di privato e pubblico, grazie anche al sostegno di una strutturale convenzione con la Regione Piemonte. Biella – ha concluso il direttore – coniuga l’Arte dell’Impresa e l’Impresa dell’Arte in una sintesi innovativa, capace di indicare prospettive di prosperità sia al territorio, sia nel concerto globale di pratiche per uno sviluppo sostenibile e condiviso”.

Articolo tratto da: Journal Cittadellarte

Nasce a Torino la Biblioteca Condivisa del quartiere, dove i libri sono di tutti

Nel quartiere Mirafiori Sud di Torino è recentemente nato un luogo molto speciale. Si chiama Biblioteca Condivisa ed è uno spazio pensato per raccogliere i libri abbandonati ed inutilizzati di coloro che vogliono disfarsene, per metterli a disposizione degli abitanti del quartiere. Un progetto sociale ed inclusivo realizzato proprio in periferia, che dà la possibilità a tutte le persone di condividere un libro, una lettura, un momento di compagnia. Un buon libro e una tazza di the sono un rimedio essenziale per fare una pausa dalla routine di tutti i giorni, una vera e propria medicina per l’anima. Ma se ci troviamo in un bar e teniamo tra le mani un libro che è stato donato da qualcun altro, ciò acquisisce un significato ancora più grande. A Mirafiori Sud è nata recentemente la “Biblioteca Condivisa”, un luogo accogliente e aperto a tutti, un bar in cui fermarsi, sorseggiare una bevanda e stare in compagnia di un buon libro che qualcuno, a noi sconosciuto, ha gentilmente messo a disposizione. Lo spazio è pensato con lo scopo di rendere la lettura accessibile a tutti e si basa su un principio fondamentale: la condivisione dei libri.

La biblioteca nasce e cresce grazie alla partecipazione di tutti i cittadini che decidono volontariamente di donare i libri cartacei che non utilizzano più, i manuali abbandonati negli scaffali e nelle cantine della propria abitazione, così come i volumi non più utilizzati a cui si vuole dare una seconda possibilità mettendoli a disposizione di altre persone.
L’iniziativa dà vita ad una vera e propria Biblioteca Condivisa di Quartiere, uno spazio che vuole creare coesione, scambio, collaborazione. L’idea ha un valore sociale molto forte poiché scommette sull’inclusione attiva della comunità che vive nella periferia, ponendosi come filo conduttore capace di far conoscere, dialogare ed avvicinare le persone.

“Potrete venire in qualunque momento e leggere un libro sul posto – affermano gli organizzatori – oppure potrete prendere liberamente un libro, portarvelo a casa, leggerlo con calma e riportarlo quando lo avrete finito. Senza tessera, senza registrazione, nella massima libertà e nella inevitabile fiducia che ci deve essere tra persone che condividono la passione per la cultura”.

Il progetto è stato realizzato all’interno di un bar con l’obiettivo di gestire contemporaneamente la biblioteca e la caffetteria. Nell’immaginario comune il bar rappresenta un luogo di sosta, di ristoro ed è in questo caso pensato per permettere alle persone di sedersi, conoscersi e condividere con amici o sconosciuti la lettura di un buon libro.
Caratteristica molto apprezzata è il fatto che lo spazio accoglie chiunque, senza obbligo di consumazione. L’obiettivo primario rimane infatti quello di valorizzare la funzione aggregativa e culturale.  In virtù della sua vocazione sociale, “la Biblioteca Condivisa organizzerà presto una lunga serie di incontri, appuntamenti a tema, presentazioni di libri, momenti per condividere passioni. Sempre con al centro i libri e le persone”. Le attività sono pensate per tutte le fasce di età e ne sono esempio gli incontri di letture di quartiere che regolarmente coinvolgono i residenti, le attività coi più piccoli e gli incontri con gli scrittori.

La Biblioteca Condivisa di Mirafiori Sud è uno di quei luoghi in continua crescita e trasformazione che si rinnova ogni giorno grazie al quotidiano scambio di libri ed al contribuito di chi vive nel quartiere e che crede fortemente nella bellezza della lettura.

Foto copertina
Didascalia: Libreria
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Toward 2030: La street art di Torino racconta gli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile

Ha recentemente preso avvio a Torino il progetto “TOward 2030”, la cui finalità è promuovere la diffusione dei Global Goals, gli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile definiti delle Nazioni Unite, attraverso la street art. Sono 17 gli artisti che interpreteranno i rispettivi 17 Sustainable Develpoment Goals, attraverso un’iniziativa volta a conciliare arte, sostenibilità e cambiamento.

TOward 2030. What Are You Doing?“. È una domanda, una provocazione, uno spunto di riflessione sul ruolo che noi tutti abbiamo nei confronti dell’ambiente e della salute del nostro pianeta. È un progetto che nasce a Torino e che, entro il 2019, vedrà i muri della città colorarsi di messaggi pro-positivi, di buone pratiche e spunti di riflessione: obiettivo è trasformare i luoghi di Torino in 17 opere urbane, permettendo agli street artist torinesi, italiani e internazionali di reinterpretare ognuno uno dei 17 Obiettivi di Sviluppo Sostenibile delle Nazioni Unite in un’ottica nuova, creativa e personalizzata.

Ma cosa sono questi “Obiettivi di sviluppo sostenibile”, ormai sulla bocca di tutti?

I Global Goals sono un insieme di visioni ed al contempo veri e propri obiettivi contenuti in un grande piano d’azione che coinvolge i governi dei 193 Paesi membri dell’ONU. Si tratta di importanti questioni per lo sviluppo globale tra le quali la lotta alla povertà, l’eliminazione della fame e il contrasto al cambiamento climatico, che dovranno essere raggiunti da tutti gli Stati entro il 2030. Sono obiettivi che riguardano tutti i Paesi e gli individui, capaci insieme di costruire un futuro migliore ed un pianeta più sostenibile.

Torino diventa la prima città al mondo ambasciatrice dei 17 Obiettivi di Sviluppo Sostenibile delle Nazioni Unite, convogliandoli in opere artistiche disseminate per la città.  Il progetto, ideato dalla Città di Torino e da Lavazza, fa emergere ancora una volta la grande responsabilità della cultura, intesa come motore di rigenerazione urbana e cambiamento.
“È un’iniziativa di Street Art che parla di sostenibilità e che entro la fine del 2019 renderà la città, dal centro alla periferia, un amplificatore dei 17 Goals delle Nazioni Unite. È proprio il linguaggio universale della street art a voler scuotere e spingere all’azione, così si rivolge ai cittadini, ai passanti e ai turisti con una domanda diretta e provocatoria – What are you doing? E tu, che cosa stai facendo? – per ricordare a tutti come il 2030 sia dietro l’angolo, mentre la strada da percorrere per salvaguardare il pianeta sia ancora tutta in salita”.

L’iniziativa è pensata come un progetto replicabile che possa essere riprodotto anche in altre città, attraverso nuove ed originali forme di pura creatività. Al momento sono state realizzate le prime cinque opere a cui seguiranno le successive, che verranno realizzate entro il 2019.

Global goal 1: “No Poverty”

Sconfiggere la povertà nelle diverse forme in cui questa si presenta quali fame, guerre e condizioni sociali. Si tratta di una lettura approfondita quella dell’artista ZED1 che, in Lungo Po Antonelli, ha creato un’opera che cattura fortemente l’attenzione grazie ai numerosi dettagli che la compongono: un portafoglio ricolmo di terra come sfondo; delle zone all’ombra dove sono riposti degli oggetti che ricordano inquinamento, corruzione, mancanza di salute e di educazione; un sole in posizione centrale che simboleggia la speranza ed un futuro prospero e positivo in cui porre fine ad ogni forma di povertà.

Global goal 2: “Zero Hunger”

Ridurre ed eliminare la fame, raggiungere la sicurezza alimentare, migliorare la nutrizione e promuovere un’agricoltura sostenibile: questi sono gli obiettivi previsti per il 2030, proprio come raccontato dall’opera del collettivo torinese Truly Urban Artists che ha realizzato in Porta Palazzo un’opera che, partendo dal termine latino “cultus”, rimanda alla stretta corrispondenza tra i concetti di coltivazione/coltura e cultura/educazione.

Global goal 4: “Education: the Perfect Circle”

È l’opera dello street artist Vesod, noto a livello internazionale, che sottolinea il diritto ad un’istruzione di qualità, rafforzata dal contesto nella quale si inserisce, ovvero il Campus Universitario Luigi Einaudi. L’opera dà forma a uno speciale ciclo vitale in cui uomo, natura e conoscenza vivono in equilibrio, crescendo insieme. “Ho voluto mettere l’accento sull’educazione alla sostenibilità – ha spiegato Vesod – e sul diritto di tutti ad un’istruzione di qualità che è la base per migliorare la vita delle persone. Nella mia opera l’uomo è albero e la biblioteca, simbolo della conoscenza, è natura. Perché uomini, natura e conoscenza possono crescere insieme in un ciclo virtuoso. D’altra parte, gli uomini hanno imparato a fare la carta dagli alberi e dalla carta i libri, strumento principe della conoscenza”.

Global goal 11: Sustainable cities and communities

Rendere le città e gli insediamenti umani inclusivi, sicuri, duraturi e sostenibili: queste sono le sfide delle città, immaginate come portatrici di opportunità, prosperità e crescita per tutte le persone.  L’opera, realizzata da Ufo5, nonché dall’artista Matteo Capobianco, ritrae un cervo, simbolo di fecondità e del rinnovo continuo della vita e dei ritmi di crescita, morte e rinascita. Nella parte superiore dell’opera, afferma l’artista, “una città si eleva sopra tutto, la città ideale, che non può esistere senza il suo essere sostenibile, se non in armonia con il ciclo della vita naturale“.

Global goal 14: Life Below Water

L’obiettivo è tutelare la vita sott’acqua, proprio come racconta il goal 14: “conservare e utilizzare in modo durevole gli oceani, i mari e le risorse marine per garantirne lo sviluppo”.

Un’attenta gestione di questa fondamentale risorsa globale è alla base di un futuro sostenibile: gli oceani assorbono circa il 30% dell’anidride carbonica prodotta dagli umani, mitigando così l’impatto del riscaldamento sulla Terra ed inoltre la loro temperatura, la composizione chimica, le correnti influenzano i sistemi globali che rendono la Terra un luogo  ivibile per il genere umano. In Corso Regina Margherita si parla di salvaguardia degli oceani e delle risorse marine attraverso l’opera dello street artist Mr Fijodor che raffigura una balena, che l’artista ci ricorda essere il più grande mammifero marino, ma anche uno dei più vulnerabili, che rappresenta la fragilità dell’ecosistema marino e la vittima dello sfruttamento degli uomini.

Foto copertina
Didascalia: Toward 2030: Global Goal 1
Autore: Pagina fb Zed1

Fonte: http://piemonte.checambia.org

BeeGreen: il festival della sostenibilità a Torino e dintorni

Il BeeGreen è il Festival della sostenibilità organizzato nel torinese dall’InQubatore Qulturale, ed è alla sua prima edizione. Un mese di incontri, laboratori, conferenze proiezioni ed escursioni alla scoperta del mondo della sostenibilità, tra maggio e giugno 2018, sotto diversi angoli di vista e in collaborazione tra le varie realtà del territorio.beegreen-festival-sostenibilita-torino-e-dintorni

Una serie di appuntamenti gratuiti legati alla sostenibilità ambientale, con ben un mese di eventi collegati a questo tema e che spaziano dall’escursionismo alla mobilità sostenibile, dai temi legati all’alimentazione fino alla scoperta della street art torinese. Ed infine proiezioni di film, documentari e molto altro.

Il BeeGreen è il Festival della sostenibilità con sede a Torino e dintorni e organizzato e curato dall’InQubatore Qulturale, uno spazio partecipato e aperto ai cittadini nato allo scopo di porsi come polo culturale e luogo di incontro per privati, aziende, enti pubblici e organizzazioni che perseguono valori sociali, culturali, ambientali e artistici. Il festival sarà presentato con una conferenza stampa il 23 aprile 2018, presso la Casa dell’Ambiente di Torino.
Quest’anno è alla sua edizione “numero zero”, come lo definisce uno dei suoi organizzatori, Fabio Dipinto: “attraverso una serie di eventi, incontri, proiezioni, laboratori e varie attività, per tutto il mese di maggio, BeeGreen si propone di intrattenere, educare e sensibilizzare le persone riguardo le tematiche della mobilità sostenibile, dell’economia circolare, del turismo responsabile e della conoscenza del territorio, così come la conoscenza e lo sviluppo dei territori in cui viviamo, le energie alternative e l’agricoltura urbana”.

Il Festival partirà il 3 maggio e terminerà il 1 giugno, gli eventi a esso collegati non avranno sede solo a Torino, ma anche nei comuni di Alpignano, Avigliana, Druento, Grugliasco, Collegno, Rivalta e Venaria Reale. “L’idea del Be Green è nata in maniera molto semplice: da una semplice chiacchierata con Chiara Bruzzese, una delle socie fondatrici dell’associazione InQubatore Qulturale, emerse la volontà di organizzare un evento che aiutasse a diffondere il tema della sostenibilità. Abbiamo inviato alcune mail ad alcune realtà del territorio che lavorano in questo campo, per capire la loro disponibilità ad organizzare una cosa del genere: abbiamo avuto un ottimo riscontro e alla prima riunione organizzativa del BeeGreen hanno partecipato molte realtà del territorio, e siamo riusciti insieme ad organizzare un evento che ci auspichiamo possa facilitare la messa in rete tra di esse, nella quale noi svolgiamo il ruolo di coordinamento, facendo in modo che ognuno possa fare la propria parte.”beegreen-festival-sostenibilita-torino-e-dintorni-1522398047

“Abbiamo scelto l’ape come simbolo del festival perché le api sono uno dei principali rilevatori della sostenibilità, non solo ambientale, ma anche economica e sociale. Non è un’esagerazione dire che le api assicurano le condizioni ideali per la nostra esistenza: si è calcolato, infatti, che circa il 70% delle piante commestibili abitualmente consumate dall’uomo dipendano dall’azione impollinatrice degli insetti pronubi tra i quali l’ape è in assoluto il più efficiente. Inoltre essendo un animale molto sensibile alla qualità dell’ambiente in cui vive si rivela un vero e proprio bioindicatore dell’inquinamento”.

Il progetto del BeeGreen festival coinvolgerà ben venticinque realtà tra associazioni, aziende private ed enti pubblici, ed Italia che Cambia e Piemonte che Cambia saranno media partner dell’evento.
La speranza, nelle parole di Fabio Dipinto, è che questo evento si ponga come modello e che riesca a coinvolgere sempre più partner interessati a valorizzarlo nelle prossime edizioni: “Non abbiamo sostegni economici al momento, è un evento auto-organizzato completamente a costo zero e speriamo il prossimo anno di poter trovare sponsorizzazioni e finanziamenti, perché ci auguriamo di farlo diventare un modello per il territorio nei prossimi anni.”

Fonte: http://piemonte.checambia.org/articolo/beegreen-festival-sostenibilita-torino-e-dintorni/?utm_source=newsletter&utm_campaign=general&utm_medium=email&utm_content=relazioni

Milano Food City, dal 7 al 13 maggio sette giorni per scoprire le virtù del cibo tra talk, cultura, arte, degustazioni e solidarietà

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L’invito di Tajani e Guaineri: “Bar, ristoranti e mense approfittino degli sconti Tari previsti per chi dona le eccedenze ai bisognosi” . Dopo il successo della prima edizione e per celebrare l’anno del cibo italiano nel mondo torna, dal 7 al 13 maggio, Milano Food City. L’appuntamento voluto dal Comune di Milano in collaborazione con Camera di Commercio di Milano, Monza, Brianza e Lodi, Confcommercio Milano, Fiera Milano, Coldiretti, Fondazione Giangiacomo Feltrinelli e Fondazione Umberto Veronesi. Sette protagonisti del mondo economico, culturale, professionale e istituzionale milanese insieme propongono un calendario di sette giorni tra talk, percorsi, eventi, arte, cultura, degustazioni e solidarietà, rivolto a professionisti, appassionati gourmand, cittadini, turisti e famiglie per scoprire le sette “virtù del cibo” – gusto, incontro, energia, diversità, nutrizione, risorsa e gioco – che animeranno la città dalla periferia al centro nel segno di una nuova cultura alimentare.

Gusto inteso come piacere e ricerca della qualità e dell’estetica del cibo. Incontro come elemento di convivialità, tradizioni e multiculturalità. Energia che attraverso le risorse ci riconnette ai territori e ai processi produttivi e di coltivazione. Diversità come conoscenza della biodiversità dei territori e ponte tra le diverse culture. Nutrizione ossia una nuova cultura alimentare attenta alla ricerca, alla salute, al benessere e alla qualità della vita. Risorsa quando il cibo diventa strumento di lotta allo spreco, attenzione alla filiera e all’ambiente. Infine Gioco ossia il cibo diventa uno strumento ludico per veicolare una nuova cultura alimentare, soprattutto nelle nuove generazioni.

La grande affluenza di pubblico fatta registrare dalla prima edizione di Milano Food City dimostra come sia stata vincente la scelta di raccontare il cibo, la cultura alimentare e contrastare lo spreco – commentano gli Assessori Cristina Tajani (Politiche per il Lavoro, Attività produttive e Commercio) e Roberta Guaineri (Turismo e Sport) -. Oltre a coordinare tutti gli appuntamenti e il programma di questa settimana dedicata alla nuova cultura alimentare, siamo tra i primi comuni italiani ad applicare la legge Gadda, che consente sconti sino al 20% sulla Tari agli operatori della grande distribuzione, bar, ristoranti e mense che attuano politiche di lotta allo spreco alimentare destinando le eccedenze ai bisognosi della città. Invitiamo tutti gli interessati ad usufruirne, c’è tempo sino al prossimo 30 aprile per accedere agli sconti Tari scaricando tutta la documentazione dal portale del Comune di Milano”.

Nel palinsesto ideato da Fiera Milano e TUTTOFOOD la novità è la partnership con Fondazione Umberto Veronesi attraverso mostre, laboratori e incontri in cui gli esperti illustreranno il ruolo fondamentale della corretta alimentazione per mantenersi sani senza trascurare l’aspetto della convivialità.

Palazzo Giureconsulti sarà il quartier generale di questo autentico fuori salone dedicato al food, completato dalla cornice della Festa del Bio in collaborazione con FederBio. TUTTOFOOD sarà inoltre promotore di Taste of Milano, il festival degli chef, dal 10 al 13 maggio al The Mall; di Salumiamo, il 10 maggio a Palazzo Bovara, che reinterpreta la grande tradizione dei salumi italiani oltre a proporre ogni sera i nuovi Aperitivi in terrazza. Tra i premi si segnala Cheese for People Award che farà votare i migliori formaggi tipici italiani direttamente ai consumatori. Sempre in tema caseario, All’ombra della Madonnina alla Cascina Cuccagna premierà i migliori formaggi e yogurt di latte di capra. Il Desita Award, concorso internazionale che coniuga design e food, proporrà il tema Pizza & Gelato Experience. Da non perdere, infine, dal 7 al 13 maggio al Cinema Colosseo, il Biografilm Festival.

Numerose poi le degustazioni, le colazioni, happy hour e showcooking, approfondimenti culturali, percorsi di arte cibo e cultura e i progetti di solidarietà promosse da Confcommercio Milano, Lodi, Monza e Brianza per Milano Food City.

Un palinsesto, in costante aggiornamento, realizzato grazie al contributo e all’impegno degli operatori delle associazioni di categoria aderenti. Nel cortile di Palazzo Bovara, il Circolo del Commercio in corso Venezia 51 aperto al pubblico per l’occasione, tutti i giorni “In viaggio con il caffè”, colazioni e approfondimenti con i maestri del caffé di Altoga, showcooking e aperitivi; una giornata dedicata all’alternanza scuola-lavoro e alla pizza gourmet con i giovani del Capac, il Politecnico del Commercio e del Turismo, e sostenibilità con la “Foody Bag”. Al Casello Ovest di porta Venezia, sede della Filiera agroalimentare, “Le Masterclass di WineMi”, il “Gioco delle Essenze, degli Aromi e delle Spezie” con panificatori, erboristi, gelatieri, macellai e dettaglianti ortofrutticoli e “Mini tartare con aromi e spezie” con i maestri macellai. Iniziative anche nei tre mercati comunali coperti con la “Notte Golosa” al mercato di Wagner, “Una cena al mercato” al Morsenchio e la “Giornata della Convenienza” al mercato di piazza Ferrara. Proposti più di 30 percorsi guidati tra cultura, arte e cibo con le guide turistiche di Gitec. Immancabile anche la presenza di Coldiretti Lombardia con l’iniziativa “Campagna Amica”, dall’11 al 13 maggio, che tingerà di giallo Piazza Castello: ogni giorno, dalle ore 9 alle 20, una cinquantina di aziende agricole provenienti da tutta la regione proporranno il meglio dell’agroalimentare del territorio nel farmers’ market di Campagna Amica, mentre le ricette della tradizione saranno protagoniste degli show cooking con gli agrichef contadini degli agriturismi Terranostra. Spazio anche ai più piccoli con le attività delle fattorie didattiche, a cominciare da quelle dedicate al latte. Nella mattinata di venerdì 11 maggio a Palazzo Turati si svolgerà poi la festa conclusiva del percorso di educazione alimentare promosso da Coldiretti in varie scuole delle province di Milano e Monza Brianza. Spazio anche al sapere e alla diversità del cibo, da quella biologica a quella culturale. Questo il tema della seconda edizione di Food for All!, il palinsesto culturale di Milano Food City organizzato da Fondazione Giangiacomo Feltrinelli. Dal 7, giorno dell’inaugurazione istituzionale in viale Pasubio 5, al 12 maggio un programma denso di incontri e approfondimenti: ogni giorno si alternano Talk, momenti di discussione, e SolutionsLab, tavoli di lavoro, poi laboratori didattici e itinerari per la città, proiezioni e appuntamenti performativi. Attraverso linguaggi e format originali, il programma di Food for All! è rivolto a tutta la cittadinanza: dal pubblico generico a scuole di primo e secondo grado, da imprese e start-up, ad associazioni e istituzioni, esperti e portatori di buone pratiche. Tra i protagonisti scienziati e chef, scrittori e divulgatori, imprenditori e startupper, policy maker, artisti e formatori.

Per scoprire tutti gli appuntamenti e il calendario completo di Milano Food City nelle prossime settimane sarà attivo www.milanofoodcity.it

Fonte: ecodallecitta.it

 

LOC, un laboratorio di arte e creatività in Sicilia

Un viaggio in una nuova idea di fruizione del museo e dello spazio culturale. Nato a Capo d’Orlando, in Sicilia, nel 2013, il Laboratorio Orlando Contemporaneo (LOC) si è evoluto nel tempo in uno spazio dedicato alla cultura e all’arte in tutte le sue forme. Ne abbiamo parlato con Giacomo Miracola, responsabile del centro. Un centro culturale dedicato all’arte contemporanea e alla diffusione della cultura e della creatività, in un luogo della Sicilia che non aveva mai avuto centri simili. Uno spazio che è diventato un fulcro di incontro con artisti di caratura internazionale in residenza. Uno spazio fondato sull’auto-recupero dei materiali e dei locali e l’auto-organizzazione di eventi e workshop grazie al lavoro dei dipendenti pubblici precari del comune di Capo d’Orlando, alcuni dei quali sono i famosi “ASU” che attendono una stabilizzazione contrattuale da oltre venti anni. Eppure è prevalsa la rassegnazione e la lamentela, nonostante ci fossero e ci siano motivi validi: piuttosto è emersa la voglia di costruire un centro interessante e funzionale, in un contesto spesso rappresentato come scialbo e privo di iniziativa. Bisogna riconoscere che per far girare una macchina così difficile serve una spinta importante: qui è stata decisiva quella di Giacomo Miracola, anch’egli artista e promotore del Laboratorio Orlando Contemporaneo (LOC).

Facciamo un passo indietro: il Laboratorio Orlando Contemporaneo è nato a metà del 2013, quando il comune di Capo d’Orlando, con un progetto presentato intorno al 2009 alla Comunità Europea, aveva avuto accesso ad un finanziamento europeo, il POR FESR 2007-2013, finalizzato alla promozione e realizzazioni di reti, centri e laboratori per la  produzione artistica e per la promozione della creatività. Era un progetto inizialmente concepito in rete tra i Comuni di Capo d’Orlando, che era il comune capofila, il Comune di Ficarra e quello di Santo Stefano di Camastra. Capo d’Orlando aveva scommesso tutto sulla creazione di un laboratorio di videoarte, che poi è divenuto il LOC.

“Terminato il progetto, che contemplava solamente la fornitura di servizi tecnologici e non contemplava le spese per la copertura dei servizi culturali, abbiamo deciso di fare di necessità virtù” ci spiega Giacomo Miracola, responsabile dello spazio LOC “e insieme ad un team che ha creduto nel progetto, composto da un gruppo di sette persone (precari del Comune di Capo d’Orlando e della Regione Sicilia) abbiamo improntato il progetto sull’autogestione per portare avanti alcuni progetti in continuità con quelli intrapresi con il progetto europeo. Abbiamo iniziato dagli spazi fisici del Laboratorio: ci siamo affidati alle nostre risorse e le sale del LOC le abbiamo restaurate completamente noi, cercando di recuperare e rigenerare il materiale esistente, oltre alla realizzazione dello studio di video-arte previsto dal progetto iniziale. Lo spazio di adesso è completamente nuovo e innovativo rispetto al passato. Abbiamo fatto  inoltre una catalogazione seria delle quattrocentottantacinque opere che fanno parte della collezione di ‘Vita e Paesaggio di Capo d’Orlando’. Tutto questo non ha inciso sul bilancio comunale: se prima si pensava di restaurare lo spazio con una cifra prevista di spesa compresa tra i tremila e i seimila euro, noi lo abbiamo reso funzionale con una spesa di poche centinaia di euro, compresa l’ordinaria manutenzione”.20770366_1943463802595699_8768826620819141438_n

Le attività del LOC: le residenze e i laboratori

Oltre al recupero dei luoghi, si è posta nel tempo la necessità di programmare l’aspetto contenutistico del Laboratorio: “Attraverso il progetto europeo iniziale si nominò un curatore di questo luogo, Marco Bazzini, ex direttore del Museo Pecci di Prato e attuale direttore dell’Istituto superiore per le industrie artistiche di Firenze”, ci spiega Giacomo. “Con lui abbiamo concretizzato la possibilità di cambiare non soltanto volto alla struttura, ma abbiamo allargato quelli che erano i servizi. Tanto è vero che nel corso degli anni abbiamo portato in residenza a Capo d’Orlando artisti di fama nazionale e internazionale che hanno interagito con il territorio orlandino e le sue tematiche: cito ad esempio Mohamed Bourouissa, Giuseppe Stampone, i Masbedo. Insieme agli artisti in residenza abbiamo organizzato degli workshop a numero chiuso, ai quali hanno partecipato persone da tutta la Sicilia e dalla Calabria”.

Oltre alle residenze, il LOC ha organizzato nel corso degli anni dei laboratori che sono riusciti a coinvolgere giovani e persone del luogo sui temi legati alla cultura e alla creatività in senso ampio, allargando il raggio d’azione oltre l’arte contemporanea: “Noi abbiamo un po’ ribaltato il concetto tradizionale di come veniva vissuta e interpretata la mostra e la fruizione dello spazio, soprattutto con l’organizzazione di laboratori e corsi sempre organizzati nel segno dell’autogestione: siamo partiti con dei corsi di fotografia per poi finire con il Laboratorio Ubu, che è stato il grimaldello con il quale ci siamo aperti alle scuole e ai ragazzi. Si trattava infatti di un laboratorio di scenografia e recitazione teatrale, un progetto durato quattro anni di carattere sociale che ha visto la partecipazione di quaranta ragazzi e che si è concluso con uno spettacolo finale. Si è così riusciti a realizzare un passaggio importante per il territorio: i ragazzi alla fine di questa esperienza si sono trovati con un background culturale un po’ più avanzato rispetto agli altri e ciò ha permesso loro di poter scegliere al meglio il proprio indirizzo universitario. È un progetto che ci ha donato tanta felicità, soprattutto per la fiducia con la quale i ragazzi lo hanno affrontato. Io sono convinto che l’arte contemporanea e la cultura sul territorio debbano intraprendere un cammino simile a questo sperimentato dal Laboratorio Ubu”. E’ un auspicio quello di Giacomo, perché ultimamente l’organizzazione e la realizzazione di queste attività hanno subito uno stallo: “in passato abbiamo lavorato in sinergia con il comune di Capo d’Orlando e con l’assessorato alla cultura nella realizzazione di questi eventi. Ora c’è una situazione di stallo dovuta al passaggio di consegne e mi auguro che la nuova amministrazione sia in grado di sostenere nuovamente iniziative di questo tipo”.18519829_1898292903779456_7431062558084580778_n

L’importanza della sinergia nell’arte: la collaborazione con Sinopsis Australis

L’importanza della rete è ormai riconosciuta in tantissimi ambiti del nostro vissuto e assume un ruolo ancora più importante in un settore delicato e fragile come quello culturale, a maggior ragione per un luogo come questo Laboratorio, che ha dimostrato la massima volontà nel rendersi strumento di collaborazione e incontro, facendosi portavoce del ruolo sperimentale insito nella cultura. A maggior ragione, in luoghi dove spesso la dimensione dell’umano è confinata in ambito provinciale, arriva la dimostrazione che questo stereotipo può essere superato grazie alla creatività e al ruolo interdisciplinare insito nell’arte.

“Riguardo questo vi faccio un esempio pratico: noi abbiamo da anni ormai una collaborazione con Chiara Mambro, direttrice di Sinopsis Australis. Si tratta di un programma di residenze d’arte tra Italia e Sud America: lei fa un grandissimo lavoro, concentrandosi specificatamente nell’interscambio sinergico tra artisti italiani e cileni. Noi, grazie a lei, siamo riusciti a portare in Cile le opere di Nerina Toci, una giovane fotografa italo-albanese che abbiamo scoperto attraverso i nostri laboratori e che, a detta di molti critici, esprime un talento visionario e immaginario notevole. D’altra parte ospitiamo gli artisti che vengono in residenza per Sinopsis Australis in Italia, come successo quest’anno per il cileno Nikolas Sato. È un grande risultato per questo spazio, bisogna dare la possibilità ai ragazzi di spaziare e allargare i propri orizzonti oltre al nostro territorio. Perché, in fondo, l’arte è importante perché non deve raccontare nulla. Sono gli artisti che attraverso l’arte riusciranno a trasmettere la loro interpretazione di ciò che accade nei luoghi che vivono”.

Fonte: http://www.italiachecambia.org/2017/11/io-faccio-cosi-188-loc-laboratorio-arte-creativita-sicilia/?utm_source=newsletter&utm_campaign=general&utm_medium=email&utm_content=relazioni

Tlon, la libreria teatro che contamina il quartiere

Libreria teatro, casa editrice, agenzia di eventi e scuola di filosofia. Tutto questo è Tlon uno spazio nato a Roma qualche mese fa per favorire al suo interno l’incontro tra varie discipline e, soprattutto, quello tra gli abitanti del quartiere e della capitale. Arrivo trafelato alla fermata del tram vicino Ostiense. Andrea Colamedici – filosofo, scrittore, autore, docente di corsi e soprattutto editore di Tlon  – mi viene a prendere con la sua auto e dopo pochi minuti sono seduto accanto al nostro Paolo Cignini per realizzare questa nuova intervista. Lo spazio intorno a noi è molto accogliente. Tanti libri (ovviamente), ma anche un piccolo palco rialzato (un teatro! Verremo a sapere poco dopo) e poi riviste di settore, persone che lavorano, sedie di vario tipo.

Colamedici ci introduce al luogo in cui siamo: “Fin dalla sua nascita – ottobre 2016 – questo spazio vuole ibridare il teatro con la libreria, con l’obiettivo di mettere insieme una anima libresca e letteraria con la ricerca non solo di intrattenimento ma anche di conoscenza e approfondimento dello spazio scenico. Ecco perché abbiamo allestito questo spazio che desse possibilità di bivaccare, leggere o godersi lo spettacolo; vogliamo offrire una sorta di incontro tra varie arti e discipline, consapevoli che non si può immaginare la teoria senza la pratica e la pratica senza teoria”.

Chiedo a Colamedici quanto sia difficile aprire una libreria in un’epoca in cui molte chiudono e le persone acquistano sempre più i libri per via telematica. “Quello che manca a molte librerie è la capacità di smuovere la vita sociale del quartiere in cui è collocata. Una libreria indipendente muore quando vuole scimmiottare una libreria di catena mentre riesce a vivere e crescere quando entra in relazione con il territorio. Molte persone sono alla ricerca di luoghi di aggregazione. Noi cerchiamo di essere percepiti come uno di questi”.20161005_210804.jpg

Un motivo in più per non limitarsi alla vendita di libri, scegliendo invece di diventare un centro di incontro transgenerazionale: “Qui vengono tutti, dai bambini agli anziani che possono raccontare la loro esperienza agli altri, in un quartiere dove i rapporti umani sono sempre meno sviluppati. Questa idea sta funzionando, anche economicamente: non diventi ricco con una libreria, questo è chiaro, ma ce la facciamo, la struttura si autofinanzia, paga gli stipendi e mette in circolazione la fame di conoscenza che per noi è fondamentale”.

Una sfida notevole che ai miei occhi pare ancora più ardita considerando i libri offerti da Tlon: prevalentemente testi di filosofia, psicologia, spiritualità, con qualche spazio all’eco-sociale e ai nuovi stili di vita. Oltre ad esporre i propri libri (Tlon è anche casa editrice), qui vengono esposti anche volumi di altri editori: “esponiamo molto le altre case editrici, senza ‘affitto’. Non si può far pagare le piccole case editrici altrimenti muoiono. Quindi troviamo metodi alternativi di editoria, come il ‘lettore editore’, o i libri ‘da un centesimo in su’. Noi proponiamo i libri che normalmente le catene ignorano.IMG_20170713_1245515071.jpg

Che con la cultura non si mangi è un fatto falsissimo – continua Colamedici – con la cultura si mangia, anche con quella di alta qualità, ma bisogna investire sulla narrazione di quello che si fa. Noi, ad esempio, abbiamo eliminato la presentazione di libri, sostituendola con la narrazione del libro. Se decidi di approfondire un tema a partire da un libro puoi entrare in relazione reale con il pubblico. Stai costruendo un serpente editoriale e di eventi, fatto di tanti libri e tanti temi che vanno a comporre un simbolico grande libro”.

Anche la casa editrice sta andando bene. Non ha bisogno di finanziamenti esterni. “Abbiamo deciso di indirizzarci ad un pubblico interessato alla spiritualità attraverso libri di un certo spessore, ricostruendo un catalogo che non fosse consolatorio ma provocatorio. Avevamo la sensazione che ci fosse una grande necessità di questo genere di testi e i risultati ci hanno dato ragione. Poi ci occupiamo anche di altri temi. Uno dei nostri titoli di punta, ad esempio, è ‘L’asilo nel bosco’. Per noi è fondamentale pubblicare titoli di questo genere. Il rischio che corriamo, infatti, è quello di passare per una casa editrice di teoria filosofica; invece siamo una casa editrice di pratica filosofica”.monologhi

Gli chiedo quale sia la proposta teatrale che ospitano e propongono. “Cerchiamo di dare spazio alle compagnie teatrali nuove che non creino una narrazione autoriferita che ha ‘ucciso’ il pubblico. Vogliamo creare uno spazio in cui lo spettatore non si senta un ‘deficiente’, ma in cui si interessi sul serio a quello che vede. Ospitiamo, quindi, spettacoli che ti facciano sentire interessato a ciò che accade nel mondo. All’inizio proponevamo cinque spettacoli a settimana. Ci siamo presto reso conto che erano troppi; ora ci orientiamo su due eventi a settimana, una spettacolo e una ‘Tlonferenza’. Il tutto esaurito viene raggiunto con 90 posti”.

Andrea Colamedici ha fondato Tlon insieme alla moglie Maura Gancitano (con la quale ha scritto anche diversi libri tra cui “Tu non sei Dio”, testo su cui torneremo nelle prossime settimane) e Nicola Bonimelli. Intanto vi invitiamo a visitare la loro libreria-teatro. Virtualmente, se non siete a Roma, ma soprattutto fisicamente quando passate dalla capitale.

Intervista: Daniel Tarozzi
Realizzazione video: Paolo Cignini

Fonte: http://www.italiachecambia.org/2017/07/io-faccio-cosi-177-tlon-libreria-teatro-contamina-quartiere/?utm_source=newsletter&utm_campaign=general&utm_medium=email&utm_content=relazioni

La via del perdono

Il perdono è da sempre oggetto di studio, discussione e approfondimento per religiosi, mistici o maestri spirituali. Siamo abituati a considerarlo quasi esclusivamente in questo ambito, per educazione, cultura o abitudine. C’è chi però lo considera uno strumento potentissimo a disposizione di ognuno di noi in un’ottica assolutamente laica.daniel lumiera

Perdonare, inoltre, come un atto di forza interiore e non di debolezza come siamo, talvolta, portati a credere. Tuttavia, da una parte confondiamo il perdono con la giustificazione di qualunque male ci venga fatto o con uno sforzo teso a dimenticare ciò che crediamo essere all’origine del nostro dolore più profondo e, dall’altra, siamo convinti che si nasca naturalmente portati al processo di perdono o, al contrario, non abbastanza “grandi” per riuscire a realizzarlo. In realtà, si può imparare a perdonare attraverso un percorso di conoscenza e consapevolezza centrato su ciò che profondamente sentiamo. Le ripercussioni positive sembrano ricadere non soltanto sul nostro benessere psicologico ma anche sulla nostra salute fisica, sulla nostra capacità di sviluppare rapporti migliori e meno conflittuali, di riuscire a cambiare prospettiva e a trasformare i nostri problemi in risorse. Chi perdona, in sostanza, riesce ad entrare più profondamente in relazione con se stesso, con gli altri e con il pianeta, facendosi portatore e garante di un nuovo modello basato su una cultura di pace, di risoluzione non violenta dei conflitti e di equilibrio tra uomo e natura.

Ne parliamo con Daniel Lumera, fondatore e presidente della International School of Forgiveness, progetto nato nel 2013 dalla Fondazione My Life Design.

Quando sentiamo parlare di perdono, colleghiamo questa parola alla religione. Lei che cosa intende?

Quando ho iniziato a divulgare questo tema sapevo che sarei andato incontro a pregiudizi e ad un uso del termine che lo lega alla religione. Prima di spiegare cos’è, è meglio chiarire cosa non è. La maggior parte delle persone considera il perdono come un atto di debolezza. Non significa affatto, invece, giustificare l’altro permettendogli di continuare a farci del male. Perdonare significa agire liberi dall’odio e dal risentimento, dalla frustrazione e dalla rabbia. Una volta che ci si è liberati da tutte queste cose attraverso un percorso di consapevolezza interiore, l’azione non sarà frutto di impulsi inconsapevoli e pesanti ma, al contrario, frutto di chiarezza, centratura,  intento formativo e non distruttivo. Siamo abituati a vedere il perdono sotto la lente della religione cattolica e a considerarlo ciò che non è.

Perdonare significa non reagire se ci fanno del male?

Assolutamente no. Non è essere “buoni”. Amare non è qualcosa che è legato a una sorta di buonismo. Amare è qualcosa di sostanziale e rivoluzionario.

Perdonare significa fare un percorso di empatia nei confronti di chi ci ha ferito? Capire il suo punto di vista?

No, non si deve partire da lì. La maggior parte delle persone ha difficoltà a capire di che si tratta. Si deve partire da ciò che si sente profondamente.

Perdonare significa dimenticare o condonare?

No, anzi. Significa aver risolto, integrato, risolto il passato liberandolo dai contenuti di sofferenza e poi vuol dire tenerlo a mente come insegnamento e bussola per orientarsi nel presente. Perdonare, a parte l’etimologia che significa donare per eccellenza, significa avere la capacità di trasformare tutto in un dono: dal dolore più grande all’amore più grande. Quando noi ci attacchiamo a un dolore soffriamo. Soffriamo anche per amore, però. Il perdono, al di là di ciò che succede nella nostra vita, ci permette di liberarci della sofferenza e di trasformare ciò che è avvenuto, in un dono.

Lei dice che perdonare “conviene”. Quali sono i vantaggi?

Ci sono moltissimi vantaggi nel perdonare. Anche sulla propria salute fisica. Noi consideriamo il perdono come un’abilità di vita necessaria perché la scienza ha dimostrato ampiamente che chi sviluppa questa abilità è un individuo che vive più a lungo, si ammala di meno, è una persona selettivamente più adatta alla continuazione della specie, ha rapporti meno conflittuali e riesce a gestire i conflitti in modo più efficace. Chi perdona ha una qualità di vita migliore e relazioni più consapevoli e felici.  Il perdono, inoltre, sviluppa importanti abilità sociali come l’empatia, la capacità di cambiare prospettiva e di trasformare i problemi in risorse. Noi lo applichiamo nelle scuole, nelle carceri, nei conflitti tra etnie e religioni.

Non si rischia con questo processo di reprimere la rabbia o il risentimento con conseguenze negative per la nostra salute e il nostro equilibrio?

E’ molto importante capire cosa abbiamo dentro. E’ necessario esserne consapevoli ed esprimere la rabbia che sentiamo per comprenderla. Ci sono quattro fasi importanti che si percorrono in questo processo. La prima è proprio l’accusa dell’altro. E’ necessario tirare fuori tutta la rabbia che sentiamo per poi poterla comprendere. La rabbia è, in realtà, una richiesta d’amore e fa molto male. A perdonare si arriva dopo che c’è stata una rivoluzione dentro di noi. Ammettere e saper accogliere la propria rabbia è fondamentale e, se questa viene trattenuta e repressa, può essere la peggiore nemica della nostra salute. Ci si può arrabbiare nella maniera corretta e questo può diventare un modo per guarire. Ci sono persone che scelgono nella loro vita di non odiare. Abbiamo esempi come Nelson Mandela o Gandhi che hanno fatto questa scelta, per esempio.

Perché è così difficile perdonare?

Non siamo mai stati educati a farlo. Siamo abituati a guardarlo sotto la lente della religione cattolica, almeno in Italia. Dobbiamo, invece, partire da ciò che sentiamo e non è così difficile come sembra. Non succede proprio perché le persone credono che sia una cosa difficile. Siamo legati a moltissimi pregiudizi sull’amore, sul perdono e sul dolore che abbiamo difficoltà anche a sentirci. Il dolore è amore trattenuto. Immagina di sentire amore per una persona ma tu non lo manifesti. Oppure verso una persona che ti ha fatto del male, lo interrompi ma c’è. Quel movimento che non avviene e che ristagna crea sofferenza. Non comprendiamo un atto semplice ma dobbiamo lavorare su un’educazione al contrario: prima dobbiamo guardare al nostro interno e a ciò che sentiamo. Noi proiettiamo la nostra vita all’esterno e la facciamo dipendere da fattori esterni a noi. Sto parlando di un processo contrario: prima lavoro su ciò che sento dentro di me.

Lei dice che è necessario prima liberarsi dall’odio, dal dolore, dal risentimento. Come si riesce davvero a liberarsi da certi dolori che ci sembrano profondissimi e senza fine?

Partiamo da un presupposto che sembra anche provocatorio, e forse brutale detto così, di una persona che non si libera dal dolore di una relazione. Spesso si rimane attaccati a quel dolore perché non vogliamo staccarci da quel lutto. Nel momento, però, in cui lo accogliamo smettiamo di attaccarci. Il dolore è presente nella nostra vita perché ci rimaniamo attaccati. E’ un po’ come meditare. Quando le persone meditano e cercano di scacciare i pensieri, non ci riescono e i pensieri diventano ancora più affollati e attaccati. Nel momento in cui li si accoglie, invece, li si lascia andare molto più facilmente. Parlo di un’esperienza ultradecennale in cui mi sono occupato di questi temi anche nell’accompagnamento al morente e non soltanto nelle relazioni di coppia. Ho visto gente morente che si è liberata dalla sofferenza e posso affermare che se il dolore continua ad essere presente nella nostra vita è perché noi lo stiamo rifiutando. Rifiutarlo e non accoglierlo, non elaborarlo e integrarlo, conferisce ad esso potere e permette alla sofferenza di continuare a stare con noi.

Viene quasi da pensare che a molti di noi soffrire, in fondo, piaccia. E’ possibile considerare la sofferenza come rassicurante? E’ possibile pensare che rimanere in una condizione di dolore abbia dei vantaggi?

Diciamo che non abbiamo capito come funziona il meccanismo. Ad alcune persone piace sicuramente essere vittime, soffrire, restare in una condizione in cui possano lamentarsi, in cui possano giustificare il senso di fallimento che hanno. Queste dinamiche, tuttavia, sono spesso inconsapevoli. Molte persone si attaccano alla sofferenza per senso di colpa o perché si sentono inadeguate. Non soffrono tanto perché si attaccano a ciò che succede. Noi non soffriamo per l’altro ma per ciò che l’altro rappresenta. Se l’altro rappresenta la nostra inadeguatezza, soffriamo perché ci sentiamo inadeguati e dipendenti. Perché sentiamo un vuoto che non sappiamo come gestire. Invece di crescere rimaniamo attaccati all’idea che abbiamo bisogno degli altri per stare bene. Gli altri diventano una medicina del nostro male di vivere piuttosto che un’espressione libera e felice di consapevolezza. Il perdono porta alla creazione di relazioni consapevoli, felici e soprattutto non dipendenti.

Prima ci si libera dal dolore, quindi, e poi si intraprende la via del perdono o è il contrario, e proprio attraverso il perdono possiamo liberarci della sofferenza?

Il perdono per come lo concepiamo alla International School of Forgiveness, è il percorso stesso, fatto di tappe, che ti permette di liberarti della sofferenza e di riacquisire la libertà e il potere sulla tua vita.

Sembra facile a dirsi.  Perché è difficile acquistare la libertà dalla sofferenza? Perché ci si innervosisce quando ci si sente dire che se soffriamo dipende da noi?

Perché le persone spesso non vogliono essere responsabili della propria vita e preferiscono pensare che sia un’altra persona a rovinargliela. Si tratta di assumersi una responsabilità, quella di poter essere noi a cambiare la nostra vita. Il perdono è un percorso di responsabilità. Non è un approccio mentale. Non porto le persone a ragionare. Ci sono dei protocolli studiati e testati in oltre 11 anni di esperienza, che hanno efficacia e che forniscono delle chiavi fisiche, mentali ed emozionali, spirituali. Molte persone non vogliono essere responsabili e si arrabbiano di fronte a questa verità.

Come opera esattamente?

Accompagniamo la persona con tecniche molto efficaci che fanno toccare con mano il fatto che l’origine della condizione in cui ci troviamo è dentro noi stessi. Questa è una cosa scomoda perché se stai male non puoi più dare la colpa a qualcuno esterno a te. Sull’altro piatto della bilancia c’è la vita, la consapevolezza e la libertà. Esistono test psicometrici che mostrano cosa avviene dentro le persone quando ci si libera dalla sofferenza.

E’ una cosa così assurda  pensare che si possa essere felici  solo con una persona o solo vivendo in una determinata situazione? Avendola persa pensiamo di non recuperare più il  benessere e la serenità. Non potrebbe essere così effettivamente in alcuni casi?

Secondo la mia esperienza noi siamo spaventati dalla nostra indipendenza e dalla nostra libertà. E’ vero che con certe persone possiamo sentirci molto bene ma come esseri umani possiamo capire che le relazioni non sono necessarie per il nostro completamento ma espressione della nostra completezza. Questo è molto più soddisfacente ma non abbiamo mai ricevuto un’educazione in tal senso e siamo abituati a pensare di dover cercare un completamento in un’altra persona. Ho conosciuto molta gente unita al punto che in alcune coppie quando muore uno dei due, muore anche l’altro a poca distanza di tempo. Questa è una scelta però. Quella della dipendenza.

La letteratura, la musica, la nostra cultura in generale ci hanno sempre proposto e ci propongono questi modelli. Come fare allora ad affrancarsene?

Si pensa che l’amore sia legato necessariamente al dolore, allo struggimento, alla mancanza, alla sofferenza. Quello non è amore ma innamoramento che è uno stato di alterazione della nostra coscienza. Proietto su un’altra persona le mie necessità e i miei desideri. Poi, passato l’innamoramento, magari ci arrabbiamo con il partner perché ha deluso le nostre aspettative. Quello è un surrogato dell’amore. Molto bello ma molto lontano dal modello che proponiamo noi. Non significa non innamorarsi ma farlo consapevolmente.

Che cos’è l’economia del perdono e qual è il suo obiettivo?

E’ necessario pensare a nuovi paradigmi di benessere e di sviluppo, fondati su una diversa concezione della scienza e della vita nella sua globalità, che si sviluppi su un nuovo senso di identità e consapevolezza di chi siamo e del nostro ruolo sul pianeta trasformandoci da sfruttatori a garanti della salvaguardia di ogni forma di vita. L’economia del perdono lavora per la manifestazione di un essere umano cosciente, capace di creare la propria realtà in maniera armonica ed allineata con le reali esigenze profonde di sopravvivenza e di felicità, di offrire il proprio agli altri e alla società, coscientemente interconnesso con le altre forme di vita, cosciente di essere uno con la vita stessa, capace di comprendere l’importanza del benessere collettivo come il proprio, garante dell’equilibrio del mondo naturale e delle risorse del pianeta. Un essere umano, insomma, consapevole che per cambiare il mondo deve iniziare da se stesso.

Lei ha fondato la International School of Forgiveness, un progetto formativo durante il quale si impara il perdono. Può spiegarci come funziona esattamente?

Il corpo dei docenti è formato da medici, psicologi clinici, sociologi e persone che hanno grande esperienza in materia. E’ formata da percorsi di presa di coscienza di cosa il perdono sia in senso laico. Al percorso formativo partecipano casalinghe così come religiosi, medici, o persone che fanno altre professioni. Partecipano tutte le persone che sentono questa necessità. Ci sono persone che poi decidono di prendere un master e cioè professionalizzarsi. C’è un corso base in cui si presenta il metodo e lo si fa sperimentare agli allievi.

Quanto dura il corso base?

Può durare 4 o 6 ore. Durante il corso base ci si fa un’idea e se può piacerci o no. In quel caso c’è un corso di approfondimento di quattro fine settimana con corsi di specializzazione che toccano quattro argomenti: il perdono nelle relazioni, il perdono nei processi di malattia e guarigione su vari livelli e non solo fisico, un incontro dedicato all’albero genealogico e, infine, uno relativo alla nascita e alla morte, imparare a perdonare i vissuti carichi di sofferenza. Chi se la sente può frequentare il master che dura un anno durante il quale impara il metodo e ad applicarlo. Vi sono tutor che aiutano ad individuare il proprio percorso.

Avete portato questo progetto formativo anche all’esterno. Dove e a chi?

Portiamo avanti progetti molto interessanti, alcuni sono patrocinati dal governo italiano. Negli ultimi mesi i dialoghi del perdono sono stati portati con corsi di formazione annuali all’interno delle carceri e delle scuole in modo completamente gratuito. Ci sono progetti che finanziamo direttamente.

Tutto si può perdonare?

Secondo me tutto si può perdonare. Me ne sono reso conto soprattutto nelle carceri. Una volta, in un carcere, una ragazza che aveva subito abusi da bambina si è trovata davanti a persone detenute proprio per pedofilia. Lei è riuscita a perdonare.

C’è qualcuno che non la perdona per quello che sta facendo?

Le persone che più mi hanno attaccato e insultato sono alcuni cattolici integralisti. Le rigidità esistono anche nella cultura cristiana. L’esaltazione è comunque una costante dovuta alla rigidità e non alla religione in sé.

Nel nostro processo di perdono, che ruolo ha, se ce l’ha, la persona che viene perdonata? E’ coinvolta in qualche modo o il nostro percorso è del tutto indipendente?

Dal nostro punto di vista è del tutto indipendente. Alla fine c’è una scelta che è quella di completare la riparazione di ciò che è successo anche all’esterno. Si fa, però, da una condizione completamente differente e, cioè, liberi da dolore, colpa e sofferenza. La riconciliazione, prima di tutto, deve avvenire dentro. Se avviene fuori deve essere una libera scelta. Non può essere che un atto esterno condizioni l’andamento della nostra vita. Così si dà un potere enorme all’altro. Per qualcuno, però, quella condizione, cioè la richiesta di essere perdonati da parte di chi ci ha fatto del male, diventa essenziale per attivare il processo di perdono. Può essere senz’altro importante ma liberarsi dall’esigenza che qualcuno faccia qualcosa per farci stare bene può essere una meccanica che non ci permette di liberarci.

Che cos’è la dieta del perdono?

Si tratta di una pratica che serve per farci capire, toccare con mano e sperimentare che noi abbiamo una dieta emozionale e mentale costituita da una gamma di alimenti emozionali che influenzano la salute del nostro corpo. Le emozioni sono alimenti e dobbiamo scegliere tra alimenti nutritivi e riequilibranti e alimenti malsani. La dieta del perdono ci sposta da una dieta emozionale basata su alimenti come rancore, paura, impotenza, rabbia, desiderio di vendetta, odio a una dieta basata su alimenti come gratitudine, consapevolezza, simpatia, gioia, liberazione, amore, leggerezza. Ogni giorno dovremmo chiederci quante di queste emozioni proviamo quotidianamente. Il perdono è una sorta di integratore che ci porta pian piano a nutrirci di esperienze costruttive e rigenerative.

Qual è al momento il feedback delle persone che intraprendono il processo di perdono secondo le sue indicazioni?

Al momento ho feedback positivi ma questo non significa che in poche ore si possa giungere a perdonare. Si inizia però ad applicare il principio secondo il quale siamo responsabili della nostra vita. Tutte le persone che frequentano i nostri corsi riescono, comunque, a entrare nel processo.

Ogni giorno leggiamo articoli o vediamo coach, guru e maestri che ci propongono la ricetta per la felicità. Lei dice che il perdono è una delle strade per arrivarci. Non è una parola troppo abusata? Che cosa significa, secondo lei, essere felici?

Siamo abituati a considerare la felicità come dipendente da quello che abbiamo o che non abbiamo. Oppure da ciò che possiamo o non possiamo fare. Noi parliamo di una felicità che dipenda dalla consapevolezza di esistere. Se davvero siamo consapevoli di esistere pienamente, questo crea in noi una dimensione naturale di felicità. Non siamo affatto educati alla felicità, siamo educati al fatto che qualcuno possa vendercela dall’esterno. Esistono veri e propri corsi che la vendono, che ci insegnano come fare denaro, per esempio. L’obiettivo è essere felici. C’è un altissimo livello di manipolazione intorno a noi che ci insegna come avere o fare per poter essere felici ma si tratta di una felicità condizionata, effimera e transitoria e non è quello che vorrei trasmettere. Quello che trasmetto è che l’esperienza della felicità autentica si manifesta quando noi diventiamo svegli e consapevoli dell’esistere e presenti nella vita. Non possiamo, da quella consapevolezza, che essere felici perché siamo immersi nel miracolo della vita che diamo per scontato. Non siamo preparati a questo tipo di messaggio.

Qual è la reazione dei detenuti quando proponete la Via del Perdono?

A volte i detenuti ci insultano, a volte sono arrabbiati perché sentono che la loro vita è finita. Si vive in condizioni di estrema sofferenza ma spesso c’è anche accoglienza e fame di esperienza in questo senso. Qualcuno entra in un percorso interno e trasforma la sua cella in un luogo di scoperta di se stessi e meditazione. Questa può essere una strada

Il perdono e i bambini. Come reagiscono quando lei li incontra nelle scuole?

Con i bambini è più semplice. Capiscono subito tutto ed entrano immediatamente in una connessione di perdono. Sono empatici, capiscono la compassione.

Fonte: ilcambiamento.it