Confiscata alla mafia, diventa una “casa memoria” della lotta alle cosche

Siamo in centro a Catania, in Sicilia, dove un immobile confiscato alla mafia è diventato, grazie a una rete di associazioni, una “casa della memoria” della lotta alle cosche.

Un bene confiscato alla mafia. Una casa con un bellissimo giardino nel centro della città di Catania, in via Randazzo 27. Una rete di associazioni che ha trasformato quello che è stato un luogo di mafia in un giardino per il quartiere e in una “casa memoria” della lotta alla mafia. Sono gli ingredienti di un progetto diventato realtà grazie a una raccolta fondi e all’impegno di tanti volontari.

«L’abbiamo chiamato “Il Giardino di Scidà” . Gli abbiamo dato il nome di un giudice, storico presidente del Tribunale dei minori di Catania, che tanto ha fatto per combattere la mafia e per salvare intere generazioni dalla criminalità – spiegano dall’associazione culturale I Siciliani, tra i promotori dell’iniziativa – Catania ha pochissimi luoghi della memoria della lotta alla mafia. Per qualcuno a Catania la mafia non è mai esistita. Per questo abbiao voluto costruire, proprio in un bene confiscato alla mafia e affidatoci dal Comune, una “casa memoria” , dove raccontare attraverso documenti, oggetti, foto, video, racconti la storia del potere mafioso in città, ma soprattutto le tante storie di chi contro la mafia si è battuto. Come Giuseppe Fava , direttore de I Siciliani, assassinato il 5 gennaio 1984. Come Giambattista Scidà che ha speso la sua vita “per la giustizia, per Catania”. Una casa e un giardino aperti alle scuole, alle famiglie, al quartiere».

E nel 2017 le associazioni impegnate nel progetto sono riuscite a raccogliere più di quindicimila euro, a cui si sono aggiunti 2500 euro di Banca Etica.

«Non c’era nulla e abbiamo dovuto fare tutto – spiegano I Siciliani – il contratto della luce, l’impianto elettrico, l’impianto idraulico. Abbiamo dovuto togliere le porte distrutte, cambiare gli infissi, ripristinare le pareti, montare lo scaldabagno, montare le lampade e i lampioni. Controllare i tetti malconci e ripristinarli. Rimettere in sesto il giardino, costruire i gradini, la rampa, il massetto. C’è stato Maurizio Parisi, senza il quale nulla si sarebbe potuto fare: la mattina stringeva i tubi, metteva in ordine il giardino, la sera riunione di redazione. Ci sono stati gli architetti Giuseppe Mazzeo e Lorenzo La Mantia che prima sono venuti a fare i sopralluoghi, poi a prendere le misure. Hanno redatto un progetto di riqualificazione dell’immobile e ci hanno aiutato nelle richieste al Comune e infine lo hanno realizzato, rendendo fruibile il giardino e l’immobile. Irene Cummaudo che ci ha insegnato a rimettere in sesto le pareti e a leggere Pippo Fava. Andrea, Elena, Giorgio, Soemia che ci hanno portato il circo, le bolle di sapone e la magia. Salvo Castro e gli attivisti del Comitato Popolare Antico Corso hanno invece portato la luce».

E dicono ancora: «L’Arci, la Fondazione Fava, il Gapa, partner de I Siciliani nella gestione del Giardino hanno lanciato il cuore oltre l’ostacolo e grazie a Francesca Andreozzi, Giuseppe Andreozzi, Dario Pruiti, Saro Rossi, Ivana Sciacca, siamo riusciti a organizzare eventi, a presentare progetti, ad avviare campagne, a mettere in piedi un gruppo di educatrici ed educatori che adesso sono i veri protagonisti delle attività del Giardino».

«Alessio Di Modica al Giardino ha portato il suo spettacolo Ossa, Turi Zinna ha recitato Doppio Legame, l’associazione Terre Forti con Alfio Guzzetta ha messo in scena quattro spettacoli teatrali – proseguono i promotori del progetto, che ringraziano un intero quartiere mobilitatosi – Le bambine e i bambini dello Studio di logopedia e psicomotricità hanno giocato e sguazzato in piscina nelle mattine di luglio, le bambine i bambini del Gapa si sono tinti di blu e hanno dato colore al giardino. Le donne del quartiere hanno fatto yoga, le mamme e i papà del quartiere hanno festeggiato in giardino i compleanni dei loro figli. Sono venuti da tutta Italia a visitare il bene confiscato: scuole del piemonte, di Trento, licei di Catania. Sono venuti i ragazzini di Librino a scoprire cos’è e come funziona un bene confiscato alla mafia. Una sera d’estate abbiamo esposto le foto scattate per il giornale del sud e abbiamo proiettato Prima che la notte, il film sulla storia de I Siciliani e di Pippo Fava. C’erano gli attori del film, c’era Claudio, c’era Riccardo e c’erano tantissime persone, sedute a terra, sulle scale, sull’antica cisterna che sovrasta il giardino».

«Abbiamo ancora tanta strada da fare. Tra poco al giardino arriverà internet, arriverà la radio, sono già arrivate, direttamente dal set del film, le riproduzioni dei quadri di Pippo Fava, donati dalla Fondazione Fava al Giardino. E arriveranno le classi delle scuole per imparare cosa significa giornalismo, cosa significa combattere davvero, non solo a parole, la mafia».

Buon lavoro ragazzi!

Fonte: ilcambiamento.it

Porto di Gioia Tauro, il potere delle cosche tra navi e veleni

Le ecomafie nel porto di Gioia Tauro continuano a fare affari d’oro. Secondo Wikileaks “ci sono occhi dappertutto”ITALY-SYRIA-CHEMICAL-WEAPONS

Il porto di Gioia Tauro è, gloriosamente, il più grande terminal per trasbordo di tutto il mar Mediterraneo e lo scalo merci principale lungo l’asse America-Europa-Medio Oriente: a Gioia Tauro transita di tutto, solo nel 2011 sono stati 2.300.000 i container movimentati in questo porto (nel 2007 oltre 3 milioni), dai beni alimentari alla cocaina, dai materiali d’importazione ai rifiuti tossici. Nel porto di Gioia Tauro giungeranno le armi chimiche provenienti dall’inferno siriano.

L’importanza di Gioia Tauro, la sua posizione e il volume d’affari di questo grande porto, è legata a doppio filo con traffici che di etico hanno ben poco: controllato storicamente dalla cosca Piromalli-Molè, gli affari nel porto di Gioia Tauro vanno avanti ininterrotti (con qualche lieve disturbo) già dai primi anni ‘80, ma è nell’ultimo decennio del “secolo breve” che i soldi veri, e i traffici seri, hanno creato il valore criminale intrinseco di questo enorme porto del sud. L’Operazione Decollo del 2004, ad esempio, portò alla luce il traffico di droga che dalla Colombia arrivava al cuore dell’Europa, passando (per l’80% del volume totale) proprio da Gioia Tauro: un crocevia che non ha riguardato solo il mercato degli stupefacenti ma anche merci contraffatte di vario genere e rifiuti tossici. In una drammatica relazione del 2008 della Commissione parlamentare Antimafia si descrive come la ‘ndrangheta

“controlli o influenzi gran parte dell’attività economica intorno al porto e utilizza l’impianto come base per il traffico illegale. […] è legittimo effettivamente affermare che la malavita ha eliminato la concorrenza di società non controllate o influenzate dalla mafia nella fornitura di beni e servizi, eseguire lavori di costruzione e di assunzione di personale. E che ha gettato un’ombra sul comportamento del governo locale e altri organismi pubblici.”

Nella relazione del 2004 a Gioia Tauro viene invece dedicato un capitolo intero, che potete consultare qui da pagina 89. Il primo terminal per il transhipment del Mediterraneo, a soli 70km dal capoluogo calabrese, garantisce alle cosche di agire all’interno di un tessuto criminale talmente vasto da rendere complicatissime indagini e scoperte sulle attività criminali nel porto: trovare container “particolari” su di una banchina ove ogni anno ne vengono movimentati oltre 2 milioni è come cercare un albero in Islanda: solo nel 2009 furono settemilaquattrocento le tonnellate di rifiuti sequestrati dalle autorità italiane. Gioia Tauro è l’ultima pista seguita in Italia dalla giornalista Ilaria Alpi, morta in circostanze misteriose a Mogadiscio mentre camminava sul filo dei veleni che unisce l’Italia all’Africa subsahariana: un fenomeno, quello dei traffici di veleni tra Italia ed Africa (Nigeria, Somalia ed Etiopia in particolare), ancora oggi poco chiaro, sommerso come un iceberg nell’omertà delle cosche e del segreto di Stato. Le ‘ndrine reggine, compresi i Piromalli, offrono un servizio di brokeraggio rifiuti economico e efficace, in tutta Italia, in tutta Europa: da sempre grandi quantità di rifiuti tossiconocivi transitano dalle banchine di Gioia Tauro per sparire nel profondo blu del Mediterraneo.

Mappa-dei-disastri2-620x281

 

Nel 2008 un’operazione dei Carabinieri del NOE dimostrò come ingenti quantitativi di materie plastiche tossiche, scarto di lavorazione di molte aziende italiane, venissero imbarcate a Gioia Tauro direzione Hong Kong e, una volta attraccate al porto cinese, venivano spedite agli schiavi delle fabbriche di giocattoli, per tornare infine in Europa sotto forma e colore di balocco per bambini. La seconda legge della termodinamica:

“Noi forniamo la materia prima per auto-inquinarci di ritorno: questo è veramente assurdo.”

diceva l’ex procuratore nazionale antimafia, oggi Presidente del Senato, Pietro Grasso. Se prendiamo i cablogrammi di Wikileaks le tinte del quadro sul porto più grande del Mediterraneo si fanno ancora più fosche: persino il presidente Obama, nel 2010, esprimeva preoccupazioni sulle infiltrazioni mafiose nei traffici marittimi del porto di Gioia Tauro; scriveva L’Espresso:

“Una delle più grandi preoccupazioni dell’America di Obama: il traffico di materiale nucleare clandestino utilizzabile dai terroristi che potrebbe essere movimentato attraverso porti come Gioia Tauro, descritto come una falla nei controlli europei.”

La ‘ndrangheta, che nel porto avrebbe “occhi dappertutto” e “funzionari disponibili a guardare dall’altra parte mentre si commettono illegalità”, è una presenza che emerge sempre più grazie all’utilizzo delle nuove tecnologie (come gli scanner), che a Gioia Tauro fanno fatica a prendere piede. Una “pistola fumante” è la nave cargo fermata al porto di Genova nel 2010 e proveniente proprio da Gioia Tauro con a bordo un container contentente cobalto-60 o le 7 tonnellate di esplosivo T4 sequestrate, sempre nel 2010, proprio nel porto Calabrese (secondo Wikileaks sarebbero potuti essere utilizzati per la costruzione di una “bomba sporca”, ma i cablogrammi non chiariscono chi potesse avere questo tipo di obiettivo). Va sottolineato come le operazioni di polizia e le nuove tecnologie abbiano ridimensionato i traffici illeciti nel porto di Gioia Tauro (rispetto al 2012 il traffico di container l’anno scorso ha visto una flessione in negativo di quasi il 20%, segno che le cosche dirottano in altri porti, in Italia e in Europa, una parte dei loro traffici), ma certamente non si può definire “il porto più sicuro” del Mediterraneo, come qualcuno al Ministero delle Infrastrutture ha tentato di raccontare. Anche perchè dove non arriva la ‘ndrangheta arriva lo Stato, come testimonierebbe un documento citato da Terra e coperto in parte da segreto di Stato (consultabile nella relazione della Commissione Pecorella a questo link), che rivelerebbe come il porto di Gioia Tauro sia stato un luogo sicuro anche per i traffici di veleni coordinati dai servizi segreti, la stessa pista seguita da Ilaria Alpi: centinaia di milioni di euro stanziati ai servizi per provvedere allo “stoccaggio di rifiuti radioattivi ed armi”.

Fonte: ecoblog