La colpa è del Bajon. L’insostenibilità del turismo di massa

Una volta si chiamavano “vacanze”. Parola che aveva il significato di tempo vuoto, cioè vuoto dagli impegni assillanti del lavoro o dello studio. Oggi, che tutti vivono in città, o comunque vivono come quelli di città, in ambienti malsani e con ritmi innaturali, le vacanze non ci sono più. Ci sono i viaggi e il turismo di massa.

“La colpa non è mia è colpa del bajon, mi piace immensamente il ritmo del bajon. Se faccio una pazzia è  senza l’intenzion, in fondo è tutta colpa del  bajon”

Una volta si chiamavano “vacanze”. Parola che aveva il significato di tempo vuoto, cioè vuoto dagli impegni assillanti del lavoro o dello studio. Tempo da riempire col riposo, lo svago, la lettura, il conversare e, sopratutto, con il ritorno alla natura e il suo godimento salutare per il corpo e lo spirito. Le vacanze, infatti, riguardavano la gente di città, che viveva in un ambiente malsano e con ritmi innaturali, e che aveva bisogno di ritemprarsi, rigenerarsi e disintossicarsi fisicamente e moralmente tra campi e boschi, rive di mare o di laghi. Oggi, che tutti vivono in città, o comunque vivono come quelli di città, in ambienti malsani e con ritmi innaturali, le vacanze non ci sono più. Ci sono i viaggi e il turismo di massa.

Massa: “Quantità di materia unita in modo da formare un tutto compatto di forma indefinita”.

Cultura di massa: “Quella diffusa nei vari strati sociali grazie alla stampa, alla pubblicità, ai mezzi audiovisivi”.

Spinti alla competizione e all’ostentazione anche nei viaggi e nelle vacanze dai “mezzi di comunicazione di massa”, gli esseri umani diventano “strati” e “materia compatta di forma indefinita”, priva dunque di discernimento, responsabilità, capacità di deduzione e intuizione: priva di coscienza. Solo questo può spiegare perché, avendo otto anni di tempo per mantenere il riscaldamento globale entro un grado e mezzo, e limitare così distruzioni immani e catastrofi anche umane, o undici anni per restare entro i due gradi e scongiurare forse l’estinzione futura pressoché totale della vita sul pianeta, la massa umana, il 24 luglio del 2019 anno di disgrazia, abbia fatto in modo di superare il record di tutti i tempi di voli aerei: 225.000 in un solo giorno. E la massa mediatica l’abbia annunciato con giubilo, invece che col grido di orrore che sarebbe stato opportuno.

Gli aerei sono responsabili del 5% dei gas serra che vomitiamo in atmosfera ogni anno, anzi lo erano perché il calcolo è vecchio di qualche anno e le emissioni aviatorie continuano ad aumentare. Calcolo di organizzazioni scientifiche non dipendenti dall’industria aereonautica, naturalmente, che invece minimizza. Ma i carburanti che gli aerei bruciano non producono solo gas serra, inquinano in molti altri modi e, se tenete conto anche del fatto che una piccola percentuale degli umani, solo il 5%, viaggia in aereo e riesce a produrre già soltanto con questa sua abitudine il 5% del riscaldamento globale, la faccenda diventa ancora più inquietante. Soprattutto se il viaggio aereo è fatto per “svago” o per risparmiare qualche ora di tempo. Nel 1998 uno studio attuato per conto della Commissione Europea rilevava che le emissioni degli aerei “potrebbero avere un notevole effetto sulla chimica dell’atmosfera e sullo strato di ozono”.

Sono passati molti anni e le emissioni continuano ad aumentare e la massa mediatica non vi racconta che una parte di tali emissioni, quando l’aereo vola in alto in alto, un puntino luccicante nel blu dipinto di blu, vanno direttamente nella stratosfera e non tornano più giù. Più! Nessuna pianta, nessun vegetale può assorbirle, lassù. Ma nel delirio consumistico-competitivo il viaggio è diventato un consumo, una competizione, un vanto, una corsa. Sempre di più e sempre più lontano, sempre più costoso e/o sempre più strano e improbabile. O almeno così crede il massaturista, che crede tra l’altro di scegliere mentre invece è spinto dalla pubblicità e dall’imitazione verso quelle mete sulle quali il mercato turistico globale ha deciso di puntare. Nella demenza finale anche i luoghi che si prevede il riscaldamento globale farà sparire, contribuendo così a farli sparire sicuramente e rapidamente. Come ogni altro aspetto della vita del ricco Occidente e dei suoi collaterali, il viaggio è diventato conquista sociale, ostentazione, collezione, mania. Così, mentre sono in coda come alla cassa del supermercato, i ricchi turisti che arrancano uno dietro l’altro verso la cima dell’Everest, e ogni tanto ci lasciano le penne e sempre ci lasciano i loro rifiuti, credono di aver conquistato una superiorità rispetto al resto del genere umano. Semplicemente, ancora una volta, la superiorità del denaro e della sua ostentazione. La guerra dei cosiddetti “viaggi”, sempre più frenetica, sta contribuendo grandemente a deturpare e distruggere ogni angolo del pianeta. Isole, spiagge, savane vengono cementificate per gli alberghi dei turisti; le baie diventano porti per i panfili o le navi da crociera; i rifiuti e i liquami di migliaia di persone che non badano a risparmiare riciclare riusare ma solo a consumare (è per quello che si viaggia, no? E poi, come si fa a riciclare, in luoghi dove non c’è la raccolta differenziata!) finiscono molto spesso in mare, di notte e al largo, dove le correnti se ne incaricheranno. Duecento milioni di persone al mondo lavorano in tutti quei villaggi turistici, alberghi, resort del sud del mondo, con paghe da fame, senza orari e contando solo sulle mance per sopravvivere. Per questo sono così gentili e servizievoli, non l’avevate capito? E per questo le vacanze di lusso negli alberghi di lusso non sono più un lusso, se si scelgono come meta i paesi poveri. E non dite che non l’avevate capito.

Ad Angkor Wat enormi complessi alberghieri hanno svuotato la falda acquifera e dopo quasi mille anni di esistenza l’enorme e magnifico tempio rischia di crollare  perché il suolo sta cedendo: in pochi decenni i turisti armati di macchina fotografica e poi smartphone sono riusciti a fare quello che nemmeno la giungla aveva fatto in dieci secoli.

A Pompei spariscono i mosaici pezzo per pezzo.

Nel più grande sito archeologico precolombiano del Messico, Teotihuacan, le piramidi si stanno sbriciolando per il calpestio di milioni di persone.

Nel parco Masai Mara, dove il massaturista va per vedere gli animali africani, a furia di disboscare per costruire alberghi e bungalow, gli animali stanno scomparendo.

Le navi da crociera stanno distruggendo le barriere coralline nei Caraibi.

I Masai vengono cacciati dalle loro terre per fare posto ai resort.

Negli alberghi di Zanzibar si consumano 1500 litri di acqua a persona al giorno, una famiglia di abitanti di Zanzibar ne consuma 93 al giorno; nei resort di Goa il turista consuma  1754 litri di acqua al giorno, l’abitante di Goa ne consuma 14; spesso gli abitanti di Goa si sono ritrovati senza acqua, i turisti no.

Dunque il massaturista potrebbe dire come Attila (che non lo disse) “dove passo io non cresce più un filo d’erba” o potrebbe paragonarsi ai Romani quando dissero “Cartago delenda est” e sparsero pure il sale sulle rovine per assicurarsi che nulla potesse più crescere in quei luoghi. Una differenza sta nel fatto che sia Attila che i Romani sapevano di compiere un’azione distruttiva e malvagia.

Il viaggio sarebbe un’altra cosa. Richiede tempo, lentezza. La lentezza che occorre, se non per affondare radici, almeno per tastare il terreno e nutrirsene. Nel viaggio vero non c’è nulla da ostentare, se non cultura, conoscenza, capacità di adattamento, spirito di osservazione, vivacità di sensi e di sentimenti, capacità di comunicare, empatia. Tutte doti spirituali che nel trionfo del mercato non hanno più valore. Per chi tali doti possiede, qualsiasi luogo sconosciuto, fosse anche a trenta chilometri da quello dove vive, può regalare l’esperienza del viaggio; può arricchire la mente, può imprimersi nel ricordo, permettere di conscere persone e ambienti inaspettati.

I 225.000 voli aerei in un giorno, invece, contribuiscono a distruggere luoghi vicini e lontani, contribuiscono alle tempeste che sradicano milioni di alberi sulle Alpi e gli Appennini, ai 38 gradi delle zone artiche con relativi incendi, ai tre mesi di siccità amazzonica che fomentano la sua riduzione in cenere, ai 50 gradi dell’India e alla sua siccità con un’infinità di morti umani e animali e piante.

Ma, naturalmente, non è colpa nostra. Aspettiamo che siano i governi a dichiarare l’emergenza climatica, e se poi agiscono in netto contrasto con quello che dicono, possiamo sempre criticarli. Certo, più grande è il potere di una persona, più grande è la sua responsabilità. Ma come potrà un qualsiasi politico contrastare il potere di quei 225.000 voli aerei in un giorno? Di milioni di persone che in questo come in ogni altro campo ogni giorno versano i propri soldi nelle tasche di chi inquina, distrugge, sfrutta, corrompe; di milioni di persone che ogni giorno, attraverso i propri consumi, manifestano una volontà precisa, anche se inconsapevole? La volontà di consumare tanto e possibilmente pagare poco, senza tenere conto di nessuna conseguenza. “La colpa è del bajon”

L’aumento dell’effetto serra siamo tutti noi: con responsabilità piccole o grandi siamo tutti colpevoli. I soldi che versiamo tutti i giorni nelle tasche delle multinazionali e delle lobbies affaristiche globali, comprese quelle del turismo, nelle tasche degli schiavisti sfruttatori, dei petrolieri, della grande distribuzione, aumentano ogni giorno il loro potere. Perdipiù, le scelte che facciamo indicano ai politici dove tira il vento, che cosa è gradito alla massa, che cosa è “popolare”.

Dichiariamo la nostra personale emergenza climatica e teniamo fede alla dichiarazione, solo così avranno un senso e acquisteranno forza le lotte per l’ambiente, le manifestazioni, le iniziative per informare, i comitati per opporsi agli scempi ambientali. E, se proprio vi piace la competizione, che sia quella a chi consuma meno e meglio. Alla faccia del PIL e della criminale e micidiale crescita economica.

Fonte: ilcambiamento.it

Ricchezza e povertà: le disuguaglianze si riducono rifiutando il consumismo

Sono stati resi pubblici i dati della ricchezza a livello mondiale e risulta che ventisei multimiliardari hanno una ricchezza pari al reddito di 3 miliardi e 800 milioni di persone che si dibattono fra disperazione e fame.

I dati sono stati diffusi ufficialmente.  Sono dati incredibili, inaccettabili e la forbice continua ad allargarsi invece di diminuire, il che è anche logico: più sei ricco e più avrai la possibilità di diventare ancora più ricco, comprandoti governi e mass media, diversificando i settori di investimento e avendo sempre più influenza e potere. Questo dimostra ancora una volta che la ricchezza in mano, appunto, ai ricchi non si ridistribuisce affatto a tutti, o anche solo a tanti, vecchia stantìa favoletta dei fan del capitalismo, secondo i quali è meglio non tassare chi ha tantissimo, meglio non frapporre loro alcun ostacolo, perché grazie a loro migliorerà la situazione per tutti…

Il dato di fatto, invece, è che loro si arricchiscono sempre di più e la gente impoverisce di conseguenza. I mega-ricchi operano qualsiasi strategia pur di dare il meno possibile alla società e aumentare i loro profitti con ogni mezzo e in ogni modo, sfruttano bestialmente la manodopera, collocano le loro sedi nei paradisi fiscali, pagano tasse irrisorie (se le pagano) rispetto ai loro profitti e, non appena intravedono condizioni migliori, delocalizzano le produzioni laddove il costo del lavoro corrisponde a una miseria. Quindi gli allocchi, con tanto di lauree e prestigiose cattedre universitarie, che continuano a dire che bisogna lasciare fare al mercato, che non bisogna tassare troppo le multinazionali e che non bisogna disturbare i miliardari ma agevolarli in qualsiasi modo, sono praticamente i corifei del suicidio, corresponsabili della conduzione di miliardi di persone alla miseria. I politici e gli Stati in genere, invece di richiedere il giusto e sacrosanto contributo ai Dracula del soldo, li supportano cedendo ben volentieri al ricatto che grazie a loro si ottiene occupazione (fino a che gli fa comodo); ricevuti tutti i benefici possibili e spolpato bene l’osso, i Dracula vanno da qualche altra parte a succhiare sangue. C’è chi pensa che la soluzione stia nei redditi forniti dallo Stato alle persone meno abbienti per farle uscire dalle cosiddette sacche di povertà. Di per se non è una cattiva idea, ma una volta ottenuti i soldi dallo Stato dove e come verranno spesi? Basta vedere chi sono i più ricchi del pianeta per capire che i soldi che vengono spesi non fanno che alimentare il sistema che rende povere le persone stesse e che allarga la forbice fra ricchi e poveri. I più ricchi al mondo sono infatti spesso persone che vendono prodotti in massa cioè che devono la loro ricchezza al sistema consumista. Ai primi posti c’è ad esempio il proprietario di Amazon, Jeff Bezos, che paga le tasse dove e se gli pare, che affonda librerie e ogni tipo di vendita al dettaglio e che sfrutta i lavoratori in maniera sistematica. In classifica c’è anche il suo fratellino cinese, Jack Ma, con il sito di E-commerce Ali Baba che come Amazon vende qualsiasi cosa. Ciò che vendono questi colossi del consumismo è superfluo oppure indispensabile? Per la gran parte è paccottiglia superflua e che non serve per sopravvivere ma solo per fare girare la ruota del grande criceto PIL; e la gente spesso, pur di comprare i prodotti superflui propagandati dalla pubblicità martellante che li spaccia per prodotti indispensabili, si indebita e impoverisce. Fra i mega miliardari non può mancare il settore informatico con Bill Gates e Steve Ballmer della Microsoft, i capi di Google e poi c’è Zuckerberg che con Facebook ha inventato la migliore e più redditizia piattaforma di pubblicità del mondo travestita da social e interamente sovvenzionata dagli utilizzatori che gli regalano tutti i loro dati e lavorano gratis alacremente per lui. E’ singolare poi constatare che malgrado i capi di Google, Zuckerberg o Bill Gates si dicano progressisti e benefattori dell’umanità, donino spiccioli a fondi umanitari, finanzino Ong o ne creino ex novo, la situazione non faccia che precipitare anziché migliorare. E se il loro progresso significa affamare miliardi di persone, forse non è vero progresso considerando che con tutti i soldi che guadagnano la situazione la potrebbero migliorare davvero immediatamente. Continuando a leggere la classifica dei super miliardari, c’è Amancio Ortega, padrone dei vestiti Zara che pubblicitariamente imperversano ovunque; in un paese come il nostro dove gli armadi traboccano di vestiti è veramente un prodigio miracoloso che se ne comprino ancora. Questo la dice lunga sulla potenza enorme del messaggio consumista.

Poi c’è la capa dell’Oreal Francoise Bettencourt, che guida l’azienda di profumi e cosmetici. La Bettencourt e tutti i soggetti che vendono prodotti status symbol sprigionano una capacità di attrazione così forte che, nonostante i loro prodotti siano del tutto superflui, riescono a venderli a milioni di persone e fare guadagni stratosferici. Poi c’è il capo della LVMH Bernard Arnault che vende prodotti di lusso, altro acquisto imprescindibile per il povero che vuole fare finalmente il salto di qualità. E abbiamo i capi di Wal Mart, altro mega supermercato che strangola concorrenza e lavoratori e nel quale viene venduta qualsiasi cosa (superflua). Ci sono i compari della Koch Industries che fanno dell’aggressione all’ambiente da sempre il loro passatempo principale e Sheldon Adelson della Las Vegas Sands proprietario di catene di hotel-casinò in tutto il mondo, altra attività benefica tutta a favore dei poveri…

L’arricchimento stratosferico di queste persone, e tanti altri come loro, non ha come conseguenza solo l’aumento delle disuguaglianze e il dilagare della miseria ma anche lo scempio ambientale, dato che tutte le attività svolte da costoro, e tutte le merci che vengono prodotte e acquistate attraverso i loro canali, aumentano i consumi energetici, l’inquinamento e fanno diventare il mondo una pattumiera. Quindi, per diminuire le disuguaglianze bisogna innanzitutto non buttare i soldi dandoli a questi squali, perché più si danno a loro e più la situazione peggiora e la gente impoverisce. Considerando che gli Stati e la politica sono fermi a un centinaio di anni fa e hanno ancora l’illusione che, se le multinazionali e gli imprenditori guadagnano, ci si guadagna tutti, bisogna che le persone singolarmente inizino a prendere in mano il loro destino.

I soldi vanno usati con grande oculatezza perchè attraverso il loro uso si decide che sistema si vuole supportare. Quindi meglio non ascoltare nessuna sirena della pubblicità, non ascoltare nessuno che dica che bisogna spendere per fare crescere il paese; bisogna invece smettere di sprecare, occorre comprare solo se strettamente necessario, investire localmente, rivolgersi a filiere corte, acquistare da gruppi di acquisto collettivo, creare circuiti locali di supporto reciproco, far nascere progettualità collettive, investire nell’autoproduzione energetica e alimentare. In questo modo ci si sgancia da un sistema votato al suicidio e che rende sempre più ricchi i paperoni del mondo, che vanno invece abbandonati al loro destino; bisogna dar loro minore supporto possibile e creare zone di resilienza e resistenza al consumismo imperante. Questo è il modo per combattere veramente le disuguaglianze; nessuno Stato o governo schiavo dei super ricchi lo farà mai per voi. Invece di prendere questi multimiliardari come esempi di successo e osannarli,  bisogna trattarli per quello che sono: persone senza alcuna morale che hanno smarrito qualsiasi umanità e relazione con la realtà, visto che guadagnare così tanto in un mondo pieno di sofferenza, disperazione e miseria è paragonabile a un crimine contro la stessa specie umana.

Fonte: ilcambiamento.it

L’antropologa: «Impariamo dalle culture che rispettano la natura»

Come si può vivere cambiando paradigma e modificando il nostro quotidiano per mettere un freno al consumismo e allo sfruttamento di risorse che ci sta condannando a morte? Può essere utile guardare ad altre culture che hanno mantenuto un legame più stretto con la natura? Ne parliamo con Federica Giunta, antropologa ambientale.Senza nome

 

 

 

 

 

 

Nelle società capitaliste sembra aumentare sempre di più la distanza tra l’uomo e l’ambiente che lo circonda. Le società sembrano muoversi, andare avanti o “correre”, come si dice quando ci si esalta perorando la causa della necessità della crescita,  indifferenti o ignare della distanza tra il consumo sempre maggiore e le risorse che quel consumo dovrebbero sostenere. Per molti, considerati i più sensibili al problema, è fondamentale e urgente uno sviluppo sostenibile. Tuttavia, c’è chi crede che questo sia solo una bella favola che qualcuno continua a raccontarci e che uno sviluppo davvero sostenibile non esista perché basato su un fondamentale squilibrio tra chi di quello sviluppo gode e chi lo deve, molto lontano da noi, sostenere. A carissimo prezzo. Le questioni che si aprono e le domande che si pongono in questo ambito sono moltissime e complesse. Ne parliamo con Federica Giunta, antropologa culturale, specializzata in Antropologia ambientale e attivista per i diritti umani e della natura. Ha svolto ricerche in Asia, Africa e, attualmente in America Latina dove studia e supporta comunità indigene e rurali in lotta per la salvaguardia socio-territoriale. È membro dell’organizzazione ecuadoriana Clínica Ambiental-Acción Ecologica e attualmente impegnata alla frontiera fra Turchia e Siria in un progetto di sensibilizzazione ambientale in un centro di accoglienza per profughi afgani e siriani.

Di che cosa si occupa un’antropologa ambientale?

Un’antropologa ambientale studia le relazioni fra gli esseri umani e l’ambiente che li circonda, cercando di interpretare le dinamiche che sostengono questa relazione e di comparare le differenti tecniche adattative dei membri di una determinata società all’ambiente. Personalmente ho sempre provato a lavorare in contesti rurali ed indigeni così da rendere visibile, attraverso le mie ricerche e le mie lotte sociali, quella differenza fondamentale fra le società dove gli esseri umani ancora vivono in forte interdipendenza con il territorio che li accoglie e quelle in cui dinamiche capitaliste e di sfruttamento hanno allontanato questi due mondi. Gli interessi di un’antropologa ambientale possono comprendere questioni legate alla giustizia e all’accessibilità delle varie comunità alle risorse naturali e alla gestione dei beni comuni. Si tiene, inoltre, sempre presente la valutazione di nuove forme di stratificazione e disuguaglianza legate alla mercificazione e a vari aspetti dell’economia liberista, sviluppando nuovi modi di pensare alle interdipendenze. Si dettagliano, infine, le traiettorie storiche (tra cui il colonialismo, il capitalismo, l’imperialismo) che modellano le opinioni contemporanee a livello locale e globale.

Quando è nata l’antropologia ambientale?

L’antropologia ambientale è nata negli anni settanta, subito dopo la formazione di movimenti ambientalisti, di protesta e di sensibilizzazione rispetto a tematiche legate alla salvaguardia ambientale. Con l’aumento dei movimenti ambientali e dei paradigmi ecologici del XX secolo, anche gli antropologi hanno adottato nuove prospettive. Infatti l’antropologia ambientale è nata in concomitanza con un’altra disciplina, l’antropologia della crisi, nel momento in cui ci si è resi conto che la crisi dovuta alla contaminazione e alle pratiche di sfruttamento estremo della natura coinvolgeva anche la vita delle società in qualsiasi latitudine. Antropologia della crisi e antropologia ambientale sono nate insieme e sono relazionate in modo stretto perché nel momento in cui una struttura culturale affronta una criticità ambientale deve affrontare una serie di crisi sistemiche interconnesse. Questo ha fatto nascere il desiderio e la necessità di capire quelle dinamiche.

Antropologia della crisi?

Sì, si chiama esattamente così. Il prodursi di una crisi determina, infatti, un momento di perturbazione che tende a determinare un’incertezza strutturale, come può essere quello di una formazione sociale o di una dinamica eco-sistemica. Ed è per questo che questa disciplina si trova in stretta relazione con l’antropologia ambientale: dal momento in cui una società: si trova ad affrontare una criticità ambientale deve confrontarsi anche con una serie di problemi correlati, come lacerazioni del tessuto sociale e contaminazioni delle risorse naturali.

Può farci un esempio?

Prendiamo l’estrattivismo come pratica umana che coinvolge con pesanti ripercussioni la dimensione territoriale. Creare un sistema estrattivo non significa solamente l’azione meccanica di estrazione, che possa essere petrolifera o mineraria. Estrarre significa creare una geografia, ambientale ed umana, che va a cambiare il territorio che ci circonda attraverso la creazione di strade di collegamento in zone naturali spesso incontaminate; creare immigrazione di lavoratori e tecnici che provengono dall’altra parte del mondo (per esempio cinesi o nordamericani in Sudamerica); significa introdurre non solo qualcosa di alieno in un contesto culturale e ambientale, che in un mondo globalizzato è sempre più usuale, ma sfruttare ed abusare di un sistema naturale e sociale senza consulta previa o attenzione verso le realtà locali. Le azioni che si attuano sul territorio determinano danni anche in ambito culturale e le problematiche e crisi ambientali hanno effetti nocivi sempre di più sugli aspetti della formazione e interazione sociale. Da qui nasce l’antropologia ambientale.

Lei dice che l’antropologia dell’ambiente e quella dell’ambientalismo sono due cose diverse. Qual è la differenza?

La differenza è che l’antropologia dell’ambiente è lo studio delle interazioni fra esseri umani e ambiente circostante, mentre quella dell’ambientalismo, nata negli anni Sessanta, si basa sull’analisi delle formazioni sociali di protesta contro contaminazioni ambientali e di movimenti critici nei confronti di un sistema economico che ha iniziato a creare “crisi ambientali”. Kay Milton, una delle più importanti antropologhe ad aver analizzato l’ambientalismo, si chiede come mai gli esseri umani si possano dividere fra chi si batte in difesa dell’ambiente e chi non si cura di questo, sfruttandolo e contaminandolo. Nonostante non si riesca ad arrivare a nessuna conclusione, in alcune parti la Milton parla di un approccio emozionale alle questioni ambientali, basandosi su studi che parlano di una romanticizzazione della natura, anche se secondo me potrebbe essere un errore, portare qualcosa di politico sul piano dell’emozionalità personale.

Che cosa si intende per cultura?

In questo mondo dominato da dinamiche di globalizzazione, migrazioni e crisi è difficile dare una definizione. Se si pensa all’antropologia questa è una disciplina che nasce dalla constatazione che la specie umana è una specie sociale, che si basa cioè sulle relazioni che intercorrono fra individui e sulla loro creazione di strutture sociali e fatti sociali, che persistono o mutano. La cultura potrebbe definirsi come un sistema di credenze e valori condivisi, comportamenti e oggetti materiali che i membri di una società utilizzano per affrontare il proprio mondo e per affrontare il rapporto interpersonale, e che vengono trasmessi da generazione in generazione attraverso la trasmissione e l’apprendimento.

Possiamo dire che è tutto ciò che non è natura?

Non direi, proprio perché secondo me è errato creare una divisione così netta fra i concetti di natura e cultura, che in realtà, proprio per superare le numerose crisi ambientali che stiamo vivendo, dovrebbero essere riavvicinati e messi in dialogo fra di essi. È infatti l’ambiente naturale che determina le caratteristiche proprie di una determinata cultura, le sue dinamiche di adattamento e distribuzione, le sue forme di parentela e le sue cosmogonie. Dall’altro lato la cultura formatasi, per l’antropologia ecologica, è stata vista conseguentemente come mezzo di adattamento ambientale delle popolazioni umane. Sulla base di una tale teoria, gli antropologi ecologici si sono concentrati su come gli aspetti del comportamento culturale mantengano equilibrio o “homeostasi” nei rapporti tra un gruppo locale e le sue risorse ambientali e promuovano così la sua sopravvivenza a lungo termine.

Quando è iniziato il distacco tra uomo e natura? Qual è la differenza tra l’uomo e gli altri animali?

C’è la descrizione quantitativa e biologica che parla di pollice opponibile, postura eretta, la struttura del cranio, ecc. C’è però una teoria interessante. L’uomo, sarebbe un animale biologicamente incompleto, come riferisce l’antropologo tedesco Arnold Il Gehlen, tesi supportata per esempio anche da Remotti e Speranza. Le sue caratteristiche non sono adeguate a livello fisico e istintuale e non gli permettono di sopravvivere in contesti territoriali apparentemente avversi alla sua permanenza. La creazione di strumenti “culturali” ha permesso quindi all’uomo di adattarsi: è infatti l’unica specie che troviamo a tutte le latitudini. La sua inadeguatezza fisica è stata compensata dalla capacità di creare cultura, cioè tutti quegli elementi prodotti artificialmente come il linguaggio, gli utensili, la conoscenza tecnica, le tradizioni, le istituzioni, etc. atti a modificare a proprio vantaggio le condizioni d’esistenza. Molti antropologi danno questa interpretazione. La maggior parte degli animali sono intelligenti, probabilmente anche più degli esseri umani, ma in maniera differente. Si pensi al linguaggio, per esempio.

Però anche gli altri animali comunicano.

Sì, ma si tratta di un suono. L’uomo ha creato un linguaggio articolato e che può essere simbolico. Se articolo qualcosa, costruisco e posso ricordare ed è da questo momento che posso iniziare a mettere insieme immagini, simboli, fatti, a ricordarli e a dar loro una struttura. L’essere umano è l’unico che si autopercepisca e racconti una storia che è frutto di una memoria personale che poi, in una formazione culturale, diviene collettiva. E’ capace di percepire un io e di conseguenza un ego, un individualismo e un egocentrismo che porta poi a desiderare per sé. Forse proprio da qui questa tendenza di allontanarsi dal naturale, esacerbata nella modernità dal momento in cui la dipendenza dalle risorse naturali non è più così diretta.

Se l’uomo è così intelligente come mai non riesce a percepire i pericoli cui sta andando incontro?

Il punto non è che l’uomo è “così” intelligente. Il punto è che ha un tipo di intelligenza differente dagli altri animali (quindi differenza qualitativa e non quantitativa). Nella società in cui viviamo noi credo si sia esacerbata la dinamica di individualismo ed egocentrismo che non permette di valutare una visione d’insieme che quindi ci collochi in un territorio, in un contesto “mondo”. Questo crea una forte inconsapevolezza rispetto a quanto le nostre azioni influenzino l’ambiente a livello macroscopico e a quanto la salvaguardia della natura possa essere di beneficio ad ognuno di noi, come parte di una collettività. Infatti, nel momento in cui ci siamo affidati ad una logica capitalista in cui la natura viene depredata, siamo arrivati ad una alienazione totale non solo come esseri umani ma anche nei confronti della natura.

Che cos’è l’intelligenza?

Il discorso sarebbe lunghissimo ma molto in breve è la capacità di adattamento dell’essere umano. Nonostante questo, se riportiamo questa capacità ad un discorso contemporaneo e critico nei confronti del sistema capitalista, credo che stia diventando sempre più difficile per noi sostenere i cambiamenti (erroneamente chiamati sviluppo!) di cui siamo responsabili. Pensiamo alle malattie alle epidemie, ad esempio la malaria o il colera o l’aids, sempre più connesse con dinamiche contemporanee ed acutizzati da un deterioramento socio-ambientale. La nostra “intelligenza” dovrebbe quindi suggerirci di politicizzare la lotta alle varie crisi ambientali, smettendola di relegarla solamente ad una questione individuale.

Le popolazioni indigene e incontattate vivono in equilibrio col territorio?

Nella maggior parte dei casi sì, dal momento in cui la loro vita dipende strettamente dal contesto territoriale e delle risorse che la natura può offrire loro per vivere. Nel contesto ecuadoriano in cui ho lavorato quest’anno si ha ancora la presenza di popolazioni indigene incontattate. Sfortunatamente devono ridisegnare costantemente i loro confini dal momento in cui sono costretti a sfuggire a dinamiche di sfruttamento capitalista delle risorse naturali, sia questo il petrolio, il legname o il caucciù. In questi casi delicati non bisogna romanticizzare troppo la visione delle popolazioni indigene, anzi bisogna rivendicare con loro un loro territorio e la dignità della loro espressione culturale. Non condivido molto l’ecologia emozionale e per questo credo che sia molto importante la conservazione. E’, tuttavia, necessario fare attenzione a trasformarla in segregazione (per esempio attraverso la costruzione di parchi naturali dove far vivere le comunità indigene). Ho conosciuto popolazioni che ancora non fanno uso del denaro e non fanno parte dell’economia neoliberista. Queste popolazioni sono riuscite a mantenere un approccio egalitario nei confronti della natura, anche attraverso conoscenze ancestrali che permettono loro di “preservarsi”: per esempio la visione e l’uso dell’acqua o dei beni comuni. I loro miti sono strettamente correlati con la natura: l’acqua per esempio è spesso associata ad una delle divinità più importanti di molti pantheon di differenti comunità, perché si è consapevoli della sua vitale importanza e che non si può contare su strumenti meccanici o scientifici per depurarla o ricrearla: si deve solo ascoltare e salvaguardare. Credo così che un problema delle società capitaliste sia proprio che la distanza tra consumo e risorse sia sempre più grande.

Raccontare e fare testimonianza sui limiti delle risorse è utile? Molti negano che esse possano finire. Gli ambientalisti sono destinati ad essere le “Cassandre” della situazione?

Credo che faccia comodo etichettare gli ambientalisti come allarmisti o catastrofisti, soprattutto a chi si sente che agire non gli competa perché le ripercussioni sulla sua vita non sono poi così ingenti. Inoltre, pensiamo sempre di non avere la responsabilità diretta sul nostro ambiente o che le crisi ambientali siano lontane, ben oltre il nostro giardinetto (da vedere il movimento NIMBY). Questo è vero soprattutto perché attraverso il colonialismo abbiamo obbligato altre nazioni e comunità, ben lontane dall’Italia, a farsi carico di processi estrattivi, trasformativi, produttivi e di smaltimento altamente contaminanti. Qui si pensa erroneamente che solo delegando i politici e relegando le responsabilità alle istituzioni si stia agendo a favore della salvaguardia del nostro territorio.

Lei è ottimista o pessimista sul futuro che ci aspetta?

Personalmente penso che si vada incontro ad un collasso della struttura sociale esistente ma sono per natura un’ottimista e credo che possiamo ancora ristabilire dinamiche che riportino equilibrio nel rapporto fra essere umano e ambiente, soprattutto se ci si organizza attraverso una costruzione sociale di partecipazione attiva comunitaria. Dobbiamo svegliarci e muoverci adesso, smettere di lamentarci e fare qualcosa di concreto e coraggioso, senza rimandare le responsabilità ad altri.

Che cosa si deve fare, in concreto?

Smetterla di delegare ad altri ed agire.Vivo in America Latina e, probabilmente per le forti crisi ambientali causate per esempio dall’estrattivismo, ho incontrato movimenti sociali più attivi, singoli individui più coinvolti, forse perché ancora impregnati di speranza, con una visione meno cinica della questione. La speranza porta ad agire, porta a sviluppare azioni concrete di intere comunità, di movimenti dal basso che possono determinarsi e quindi riappropriarsi dei processi decisionali.

Cosa pensa dello sviluppo sostenibile?

Penso che non esista. E’ un ossimoro. Il concetto stesso di sviluppo attuato da una società capitalista e colonialista non può dirsi sostenibile, se non per quella stessa società. Perché in fondo a discapito di chi lo stiamo effettuando? Per chi questo sviluppo risulta sostenibile? La nostra società lo perpetua, però sono altre società che realmente lo “sostengono”, società spesso discriminate e sfruttate proprio in nome dello sviluppo di qualcuno ben lontano da loro. Si dovrebbe rivedere la nostra proiezione del futuro non in maniera lineare ma circolare, dall’estrazione e trasformazione delle materie prime alla gestione degli scarti che queste producono. Ormai abbiamo capito che il solo sviluppo non è sostenibile per nessuno: né per noi né per l’ambiente.

Si dice che il capitalismo sia il problema. E questo sembra un modo per chiamarsi fuori dalla questione, come se non dipendesse da noi.

Il problema non è solamente il sistema capitalistico ma che tutti noi ormai lo attuiamo attraverso atteggiamenti e dinamiche capitaliste, adattando le nostre vite e i nostri bisogni a necessità innecessarie. Per me non può esistere un ambientalista che non si definisca anche anticapitalista. E non basta più solamente definirsi: si deve andare oltre l’apparenza e rivoluzionare le nostre vite, i nostri circuiti sociali, il nostro sistema economico. È importante infatti che l’indignazione per le problematiche moderne (si pensi all’immigrazione o al dilagante maschilismo) ci porti ad unirci e a creare la necessità di formare movimenti sociali che vadano oltre le nostre buone azioni quotidiane individuali ed individualiste.

Fonte: ilcambiamento.it

Di cosa parliamo quando parliamo senza aver finito di pensare

Spesso il nostro pensiero si ferma alla superficie delle cose, senza fare lo sforzo di andare un po’ più sotto per cogliere la complessità. Ci si ferma alle risposte immediate, senza lasciare che esse generino altre domande di vitale importanza.

Detestava le persone che parlano
senza aver finito di pensare,
dunque detestava quasi tutta l’umanità”.
(Thomas Bernhard)

 

Spesso il nostro pensiero non riesce a cogliere la realtà nel suo complesso, nella sua magmatica poliedricità. Magari per pigrizia o sfiniti dall’abitudine, ci fermiamo alle risposte confezionate. Non indaghiamo in profondità, perché la ricerca comporta un impegno e una capacità di analisi che non siamo in grado di sostenere.common_sense

D’altronde c’è così tanto da fare per sopravvivere, che non si ha mai il tempo per riflettere. Resta più comodo prendere in prestito i pensieri, o comprare i sogni degli altri a buon mercato. Sogni che sono spesso incubi. Ma a noi che importa? Tanto domani è un altro giorno, e sarà quello buono. Quello della svolta. Quello in cui riusciremo finalmente a scalare la piramide sociale per fissarci al vertice e dominare finalmente. E a quel punto, quando saremo giunti così in alto, avremo tutto il tempo a disposizione per farci un’interminabile serie di domande. Ma forse sarà già troppo tardi…

Il prezzo del carburante scende sempre di più. Benissimo, si dirà da tutte le parti: si può viaggiare di più, spostarsi, lavorare meglio. E poi per il riscaldamento è tutta un’altra storia: avremo casa calda, anzi caldissima, finalmente. Quasi una benedizione, verrebbe da pensare. Ma siamo sicuri che sia proprio così? Le città sono sempre più inquinate, assediate dalle polveri sottili. E anche i piccoli centri non sono al riparo dal problema, con tutti i gravi guai per la salute che conosciamo. Inoltre, sulle strade ci sono circa 5000 morti l’anno e uno sterminato numero di feriti. Per non parlare poi dei problemi fisici dovuti allo stress e alla vita sedentaria, che non ci sarebbero se si usasse la bici o si andasse a piedi, o con i mezzi pubblici. E che dire dei raffreddori, dei maldigola e di tutti quei malanni che si scatenano in inverno, quando sottoponiamo il nostro corpo a violenti sbalzi di temperatura. Perché è chiaro che se il carburante costa poco, metto il riscaldamento a venti gradi e giro in casa con maglietta e pantaloncini, che fa più figo. Coi bicipiti brillanti e i tatuaggi in bella mostra.Supermarket-shopping-cart-1030x566

Il prezzo delle arance scende sempre di più. Possiamo fare spremute a volontà. E anche il resto di frutta e verdura non aumenta. Ancora: benissimo. Ma, ancora, siamo sicuri che sia un fatto così positivo? Questi prodotti vengono spesso raccolti da schiavi sfruttati e costretti a lavorare fino a dieci, dodici ore sotto il sole. Il tutto, stipato in un autoarticolato, viene poi trasportato a basso prezzo da una parte all’altra della penisola, con i problemi elencati sopra riguardanti i carburanti, il traffico col relativo rischio di incidenti, l’inquinamento acustico. E poi per farle mantenere più a lungo, queste benedette arance, o per evitare che si rovinino negli spostamenti è necessario trattarle con prodotti chimici, battericidi, conservanti. Lucide sono lucide: effetto copale e belle come il sole. Ma del frutto non resta nulla. E potremmo elencare ancora molte altre contraddizioni del nostro sentire comune. Preferiamo sottolinearne un’ultima soltanto: lo stato sociale. Chi potrebbe mettere in dubbio la sua valenza positiva? Chi vorrebbe tornare indietro a un’epoca che non lo aveva ancora neppure pensato? Eppure tutti ci lamentiamo della odierna mancanza di solidarietà. Dell’individualismo sfrenato. Dei legami sociali distrutti. Ma non è forse questa una lampante contraddizione? (Pari solo all’altra grande contraddizione: di quando lamentiamo di essere troppo consumisti e, al tempo stesso, affidiamo al “far ripartire i consumi” tutte le nostre speranze). Lo stato sociale è nemico della solidarietà. Ivan Illich dice: “La sirena di un’ambulanza udita per la prima volta in un paese che non ne aveva, distrugge il legame sociale”. Superfluo forse aggiungere qualcosa a una così lampante evidenza: se c’è uno Stato che provvede a un tuo bisogno, io sono esentato dal venirti in aiuto. Se stai male, non è compito mio portarti in ospedale: c’è l’ambulanza, che per di più è accessoriata per ogni evenienza. Inoltre, rispetto agli anni ’70, nei quali Illich scrive Nemesi medica (da cui la citazione), oggi la situazione è ulteriormente cambiata (aggravata?): io non sono più esentato dal venirti in aiuto, ma spesso ne sono impossibilitato per legge. Se ti soccorro, devo stare attento a non compiere qualcosa al di fuori del protocollo legale, oppure rischio seriamente una denuncia penale.stock-footage-new-york-city-april-crowd-of-people-walking-on-street-sidewalk-k-e1418682210242-1030x543

Se ci si ferma a riflettere, si vede bene come sia tutta una questione di orizzonte, di visione. Dal momento che un’azione, un fatto, un evento sono di per se stessi neutri. Solo lo scopo li qualifica. Perché è in virtù di un certo scopo che l’azione o un dato fatto sono proprio quell’azione e quel fatto. Pertanto la riduzione del prezzo del petrolio o degli ortaggi è una buona cosa, se nel cuore si ha ben chiara la rotta. Ma se invece si resta all’interno della cultura consumista, a fronte della riduzione dei prezzi si finisce per aumentare l’acquisto di merce, con tutto il carico di distruzione e morte che ne consegue: il mondo si va rapidamente trasformando e all’orizzonte appare la notte; ovvero il buio annichilente che rende questa nostra terra ogni giorno sempre più inabitabile.

 

“Teniamo in serbo le nostre domande perché noi stessi
ne abbiamo paura, poi ad un tratto è troppo tardi per porle.
Vogliamo lasciare in pace l’interrogato, non vogliamo ferirlo
profondamente perché vogliamo lasciare in pace noi stessi e
non ferirci profondamente. Rimandiamo le domande decisive
e facciamo senza posa domande ridicole, inutili e meschine,
e quando facciamo le domande decisive è ormai troppo tardi”.
(Thomas Bernhard)

 

Fonte: http://www.italiachecambia.org/2016/01/pensiero-di-cosa-parliamo/