“Fate qualcosa”, appello delle Donne in Movimento della Val di Susa

“Conosciamo direttamente sulla nostra pelle la violenza, per questo la rifiutiamo, per questo deve fermarsi lo stupro della nostra valle, e deve finire l’autoritarismo militare su un intero territorio”. Preoccupate per l’accanimento di media e magistratura nei confronti dei No Tav, le Donne in Movimento della Val di Susa lanciano un appello.no_tav_donne

La rete di persone che in questi lunghissimi anni è stata tessuta in Italia e anche all’estero si fa viva con telefonate, e-mail, sms per chiedere che si faccia qualcosa (con urgenza), che ci si materializzi per cercare di arginare la valanga di fango che scientificamente orchestrata tenta di sommergerci. (Fate qualcosa). Ma come, ancora? Pensavamo di aver fatto e detto/di tutto. Cos’altro ci dobbiamo ancora inventare? Strano come questa domanda rappresenti bene il quotidiano femminile (domanda storica). Sempre pronte ad interrogarci a inizio come a fine giornata: Ho dimenticato qualcosa? È tutto a posto? Ho fatto tutto? (come sempre e sempre di più delegate a coprire le mancanze dello stato sociale). Questa volta in ballo c’è la difesa di un grande movimento popolare, di più, c’è una storia di oltre vent’anni dove ogni giorno è stato vissuto con intensità. Migliaia di persone quotidianamente hanno contribuito a renderla concreta mettendoci la faccia, portando idee, rendendosi disponibili, finanziandola. Una lotta, un’esperienza di territorio che molti non esitano a definire unica e che è partita e ha messo le sue basi non su un preconcetto ideologico ma studiando i progetti, i flussi di merci, l’impatto ambientale, i costi, verificando sul campo i dati in possesso. Negli anni è cresciuta anche la consapevolezza di avere fra le mani, di veder crescere qualche cosa che va oltre la semplice opposizione ad una grande opera inutile e devastante. Un modello di presa di coscienza collettiva che difficilmente può retrocedere, anzi, si allarga assumendo in sé tutti i temi più attuali: dal lavoro, ai servizi, alla sanità ecc. Partecipando e interrogandosi sempre. Come ora. Ci si interroga sui fatti accaduti, sul significato che tutto questo assume, è un clima pesante, opprimente e sentiamo soprattutto ingiusto. È tale la violenza del linguaggio usato, la sproporzione dei racconti sui fatti realmente accaduti che vengono a mancare le parole per spiegare ai nostri figli increduli (e smarriti). Vediamo e sentiamo raccontare da giornali e Tv una storia che non ci appartiene. Non siamo un problema di ordine pubblico, siamo una risorsa per questo Paese, siamo una risorsa perché in tutti questi anni il movimento è diventato una comunità critica, consapevole, che sa scegliere. È questo che fa paura? Rivendichiamo il diritto alla partecipazione e alla gestione della cosa pubblica nel rispetto del bene comune e della volontà della popolazione. Fate qualcosa, ci chiedono da tutte le parti. Possiamo per esempio fare due conti (siamo abituate a far quadrare bilanci), e dunque siamo consapevoli dello spreco enorme di denaro pubblico sia per l’opera e sia per la badanza armata all’opera. È evidente che le dichiarazioni dei ministri che si dicono pronti a sborsare laute ricompense facciano venire l’acquolina in bocca a molti: imprenditori avvezzi a trafficare con fatture false, giri strani, fallimenti e nuove società a scatole cinesi. A chi ha sperato di guadagnare dalle olimpiadi costruendo mega hotel (che neppure in riviera potrebbero trovare clientele tali da soddisfare centinaia di posti letto), ed ora non ha gli occhi per piangere fa tanto comodo buttare la croce addosso ai notav e invocare lo stato di crisi sperando nelle compensazioni. Chiediamo alle donne (e però non solo alle donne), di prendere parola su quello che sta succedendo. Conosciamo direttamente sulla nostra pelle la violenza, per questo la rifiutiamo, per questo deve fermarsi lo stupro della nostra valle, e deve finire l’autoritarismo militare su un intero territorio. Fate qualcosa. Ci verrebbe da ribaltare la domanda e dire noi a voi: fate qualcosa. Aiutateci ad impedire lo stato di polizia permanente in cui ci vogliono far vivere. Fate qualcosa per denunciare questa campagna di stampa (che non si pone domande, non fa distinzioni, non esamina fatti e cose decisamente incongruenti che pure sono sotto gli occhi di tutti). Fate qualcosa perché la storia di un movimento popolare come il nostro non venga liquidata manu militari fra le carte di una procura. Stiamo resistendo perché vogliamo andare avanti, vogliamo vivere in pace nella nostra valle, vogliamo raccogliere i frutti di oltre vent’anni di crescita collettiva su tutte le questioni a noi care: il futuro delle prossime generazioni, le risorse del nostro territorio, intervenendo per risparmiarlo, risanarlo, non per rapinarlo; mettendo a disposizione le nostre capacità come alternativa al consumo dissennato e per un uso responsabile e consapevole delle risorse. Vogliamo riappropriarci del nostro tempo per partecipare alla gestione e alla cura della nostra comunità. Liberarci dal Tav.

Fonte: il cambiamento

Il global warming e il collasso della produttività del lavoro

Se le emissioni proseguiranno secondo il business as usual, le ondate di calore causeranno una riduzione della capacità lavorativa fino al 60% a fine secolo, con punte fino al 20-30% nelle zone equatoriali e tropicali. I costi derivanti dalla perdita di produttività supereranno tutti gli altri costi imputabili al global warmingRiduzione-produttività-del-lavoro-nel-XXI-secolo-432x337

La produttività è un’ossessione degli industriali che pensano di poter costringere i lavoratori a ritmi sempre più rapidi “per essere competitivi” (1). D’altra parte, esistono soglie minime di produttività per poter garantire “il mondo come lo conosciamo”. Queste soglie minime verranno sempre più messe a rischio dai cambiamenti climatici, come illustra uno studio  della NOAA: l’aumento delle temperature globali farà crescere lo stress da caldo e ridurre la capacità lavorativa, come è illustrato nel grafico in alto (2). Secondo l’analisi il costo della perdita di produttività potrebbe superare tutti gli altri costi indotti dal global warming messi insieme, e non c’è da stupirsi, visto che il lavoro è la base della società umana. (3). Nel probabile caso di emissioni business as usual è prevista una riduzione della capacità lavorativa fino al 60% alla fine del secolo (zona in rosso). La diminuzione potrebbe fermarsi all’80% nell’improbabile  caso di emissioni dimezzate (zona in blu). Ancora più impressionante è la riduzione della capacità lavorativa per zone geografiche (mappa qui sotto). In caso di aumento di 3°C, scenario probabile se si continuerà a inquinare come oggi, nelle zone equatoriali e tropicali la capacità lavorativa potrebbe calare fino al 20-30%.Riduzione-produttività-zone-geografiche-432x174

(1) In Tempi moderni, Charlie Chaplin è stato il primo a cogliere la disumanizzazione di un lavoro in cui gli uomini devono seguire il ritmo delle macchine.

(2) La capacità lavorativa è definita come il rapporto tra la produttività minima annuale e la produttività massima: essendo adimensionale, viene rappresentata come una percentuale.

(3) L’arti. 1 della Costituzione Italiana, prima ancora di essere un omaggio ai lavoratori è un omaggio alla Fisica.

Fonte: ecoblog