Piantare alberi contro il cambiamento climatico: il sogno della Foresta condivisa del Po piemontese

Avete mai sentito parlare della “Foresta condivisa del Po piemontese”? Si tratta di un’ambiziosa iniziativa per realizzare una “foresta di vicinato” a cui chiunque può contribuire. Grazie a un finanziamento del Ministero della Transizione il progetto metterà a dimora più di 7.000 alberi e 3.000 arbusti per contrastare gli effetti dei cambiamenti climatici. Al giorno d’oggi, con accresciute sensibilità e consapevolezza rispetto ai nostri stili di vita, stiamo imparando il valore della condivisione per ridurre il nostro impatto sul pianeta. La sostenibilità così passa attraverso l’uso comune di automobili, abiti usati, orti urbani o progetti di prestito e restituzione come le stoviglioteche, il bookcrossing e tanto altro ancora. Ma ci credereste se vi dicessimo che è possibile condividere anche un’intera foresta?

Ci auguriamo di sì e non possiamo che confermarvelo raccontandovi un progetto che si sta impegnando a proteggere la biodiversità e le ricchezze del territorio. Si chiama “Foresta condivisa del Po piemontese” e, come vi abbiamo già accennato in questo articolo, è “condivisa” proprio perché chiunque può contribuire a realizzarla diventandone partner, dalle istituzioni fino al semplice cittadino, dalle aziende agricole alle imprese private e alle associazioni.

Il progetto di riforestazione

La novità è che recentemente il progetto è arrivato primo su scala nazionale. Ci spieghiamo meglio: il Ministero della Transizione Ecologica (MiTE) ha recentemente finanziato 38 progetti in tutta Italia e questa foresta, che si estende per oltre 200 chilometri, è arrivata con successo al primo posto. L’iniziativa è stata infatti presentata tramite la Città Metropolitana di Torino nell’ambito del “Programma Sperimentale per la Riforestazione Urbana” che ha stanziato finanziamenti dedicati alle città metropolitane che hanno potuto presentare fino a 5 progetti di messa a dimora di alberi, manutenzione e creazione di foreste urbane e periurbane.

Oggi questo enorme parco, che si estende all’interno della regione Piemonte lungo il percorso del fiume Po, ha ricevuto un finanziamento di 500.000 euro e metterà in atto interventi di riforestazione al suo interno e nelle immediate vicinanze. Nei prossimi mesi saranno messi a dimora su 16 ettari 7.754 alberi e 3.713 arbusti in due aree di intervento: la prima è situata tra i comuni di Verolengo e Lauriano mentre la seconda riguarda aree molto vicine tra loro in Carignano e Carmagnola, all’interno di due siti della Rete Natura 2000. In questo caso tutti i terreni (ad eccezione di un’area demaniale a Carignano già in concessione all’Ente-Parco) sono stati messi a disposizione dai Comuni.

Contrastare il cambiamento climatico

Il piano prevede l’attivazione di azioni concrete che possano contribuire a contrastare il cambiamento climatico: tra queste c’è l’eradicazione delle specie esotiche invasive, la messa a dimora di arbusti e alberi che miglioreranno la qualità ecologica degli habitat forestali e la gestione e cura delle aree riforestate, anche per prevenire il ritorno delle cosiddette specie aliene per i prossimi sette anni. Nella scelta degli alberi e degli arbusti sono stati valutati con attenzione gli aspetti legati alle provenienze autoctone tipiche della Pianura Padana, considerando in particolare le condizioni ecologiche delle aree di intervento: ad esempio sono state selezionate tra le specie arboree la farnia, il cerro, il ciliegio selvatico, l’acero campestre, l’olmo ciliato, l’ontano nero, il salice bianco, il pioppo bianco, il pioppo nero, il carpino bianco e il ciliegio a grappoli e tra quelle arbustive il biancospino, il nocciolo, il sanguinello, il sambuco e l’evonimo.

Una riqualificazione ambientale lunga trent’anni

Tutto ciò è possibile grazie all’impegno degli Enti di gestione delle Aree protette del Po vercellese-alessandrino e delle Aree protette del Po torinese che stanno riqualificando, di anno in anno, centinaia di ettari di terreno, in gran parte pubblico. Un’ambiziosa iniziativa che vuole riprendere e consolidare gli interventi di riqualificazione ambientale avviati negli ultimi trent’anni lungo la fascia fluviale del Po. Con questi nuovi interventi si supereranno i 70.000 alberi già in fase di impianto nel vasto territorio metropolitano e questo rappresenta dunque un nuovo ed importante passo in avantianche per la “Foresta condivisa del Po piemontese”.

Fonte: https://www.italiachecambia.org/2022/01/foresta-condivisa-po-piemontese/?utm_source=newsletter&utm_medium=email

La Casa del Giocattolo Solidale: riuso e condivisione per fare felici i bambini

Economia del dono, solidarietà e seconda vita per gli oggetti usati si fondono in un progetto di mutuo aiuto rivolto ai più piccoli e alle loro famiglie. Partendo dalla distribuzione di giocattoli di seconda mano, un’associazione di Varese ha costruito una rete di vicinanza e appoggio morale e concreto per i nuclei familiari con difficoltà economiche.

VareseLombardia – Durante il primo lockdown a Varese è nata la Casa del Giocattolo Solidale per promuovere il benessere e il sostegno dell’infanzia all’interno di famiglie con situazioni e realtà più delicate. Il motto del progetto é “dona un giocattolo, regala un sorriso!”.

Perché i giocattoli? Quanto sono importanti per i bambini? Si può crescere facendone a meno? Attraverso il gioco il bambino acquista maggiore fiducia nelle proprie capacità, prende coscienza del fatto che possiede delle abilità e delle caratteristiche. Attraverso il gioco i bambini imparano e crescono scoprendo piano piano il proprio corpo.

L’attività ludica è funzionale e proporzionale allo sviluppo sensoriale e motorio, aiuta i bambini a mantenersi attivi e reattivi influenzando anche la creatività, la consapevolezza, l’apprendimento e la capacità di risolvere e superare gli ostacoli. Il rapporto che si instaura tra genitori e figli durante il gioco è determinante, è un momento importante di socializzazione che permette di migliorare anche la qualità della loro comunicazione e della loro relazione.

Economia del dono, solidarietà e seconda vita per gli oggetti usati si fondono in un progetto di mutuo aiuto rivolto ai più piccoli e alle loro famiglie. Partendo dalla distribuzione di giocattoli di seconda mano, un’associazione di Varese ha costruito una rete di vicinanza e appoggio morale e concreto per i nuclei familiari con difficoltà economiche.

VareseLombardia – Durante il primo lockdown a Varese è nata la Casa del Giocattolo Solidale per promuovere il benessere e il sostegno dell’infanzia all’interno di famiglie con situazioni e realtà più delicate. Il motto del progetto é “dona un giocattolo, regala un sorriso!”.

Perché i giocattoli? Quanto sono importanti per i bambini? Si può crescere facendone a meno? Attraverso il gioco il bambino acquista maggiore fiducia nelle proprie capacità, prende coscienza del fatto che possiede delle abilità e delle caratteristiche. Attraverso il gioco i bambini imparano e crescono scoprendo piano piano il proprio corpo.

L’attività ludica è funzionale e proporzionale allo sviluppo sensoriale e motorio, aiuta i bambini a mantenersi attivi e reattivi influenzando anche la creatività, la consapevolezza, l’apprendimento e la capacità di risolvere e superare gli ostacoli. Il rapporto che si instaura tra genitori e figli durante il gioco è determinante, è un momento importante di socializzazione che permette di migliorare anche la qualità della loro comunicazione e della loro relazione.

A seguito dell’emergenza sanitaria causata dal Covid, in molte famiglie le difficoltà economiche sono aumentate e le poche risorse economiche a disposizione sono state comprensibilmente dirottate tutte verso i beni di prima necessità; il gioco è stato un po’ trascurato. Tutto questo ha rafforzato la missione per cui è nata l’associazione: donare un giocattolo, ma essere anche vicini ai bambini e alle loro famiglie nei momenti più delicati e importanti della vita.

Sono tante le organizzazioni che si occupano di beni di prima necessità; al contrario, sono poche le associazioni che si occupano del gioco e ancora meno le realtà che mettono a disposizione di bambini cresciuti in contesti complicati e difficili spazi accessibili gratuitamente senza nessun costo per la famiglia. L’associazione del Giocattolo Solidale di Varese infatti, è alla ricerca di un locale da trasformare in uno spazio di gioco dove le famiglie con più difficoltà possano aderire e partecipare ad attività ludiche e di laboratorio in maniera gratuita. «Sogniamo uno spazio dove tutti i bambini, anche se le loro famiglie non hanno risorse sufficienti, possano giocare spensierati». Un luogo dove poter festeggiare il compleanno o giocare in serenità. Al momento la Casa del Giocattolo Solidale aiuta oltre 200 bambini – il 26,4% di loro è in età prescolare, il 40,6% frequenta la scuola primaria, il 33% è adolescente – dando loro la possibilità di avere dei sogni, delle ambizioni e degli obiettivi. Oltre ai giocattoli, infatti, l‘associazione cerca di ridurre le distanze fornendo materiale scolastico a chi non ha la possibilità economica per acquistarlo autonomamente e infondendo un senso di comunità tra le persone e i luoghi, rafforzando ogni giorno i contati.

A seguito dell’emergenza sanitaria causata dal Covid, in molte famiglie le difficoltà economiche sono aumentate e le poche risorse economiche a disposizione sono state comprensibilmente dirottate tutte verso i beni di prima necessità; il gioco è stato un po’ trascurato. Tutto questo ha rafforzato la missione per cui è nata l’associazione: donare un giocattolo, ma essere anche vicini ai bambini e alle loro famiglie nei momenti più delicati e importanti della vita.

Sono tante le organizzazioni che si occupano di beni di prima necessità; al contrario, sono poche le associazioni che si occupano del gioco e ancora meno le realtà che mettono a disposizione di bambini cresciuti in contesti complicati e difficili spazi accessibili gratuitamente senza nessun costo per la famiglia. L’associazione del Giocattolo Solidale di Varese infatti, è alla ricerca di un locale da trasformare in uno spazio di gioco dove le famiglie con più difficoltà possano aderire e partecipare ad attività ludiche e di laboratorio in maniera gratuita. «Sogniamo uno spazio dove tutti i bambini, anche se le loro famiglie non hanno risorse sufficienti, possano giocare spensierati». Un luogo dove poter festeggiare il compleanno o giocare in serenità. Al momento la Casa del Giocattolo Solidale aiuta oltre 200 bambini – il 26,4% di loro è in età prescolare, il 40,6% frequenta la scuola primaria, il 33% è adolescente – dando loro la possibilità di avere dei sogni, delle ambizioni e degli obiettivi. Oltre ai giocattoli, infatti, l‘associazione cerca di ridurre le distanze fornendo materiale scolastico a chi non ha la possibilità economica per acquistarlo autonomamente e infondendo un senso di comunità tra le persone e i luoghi, rafforzando ogni giorno i contati.

La Casa del Giocattolo Solidale e Cuorieroi Per Bambini Eroi donano anche camerette e biciclette e grazie a “Un Sorriso per La Scuola”, progetto organizzato dall’associazione Pane di Sant’Antonio e La Casa del Giocattolo Solidale Varese, con il sostegno della Fondazione Comunitaria del Varesotto e il patrocinio del Comune di Varese, tanti bambini e adolescenti andranno a scuola il prossimo anno con uno zaino nuovo e tutto il materiale scolastico necessario.

Aiutare senza sprecare! La Casa del Giocattolo Solidale ridà spesso una nuova vita a tutti quegli oggetti che vengono abbandonati nei cassetti, ma che possono avere un altro tipo di uso per chi ne ha bisogno, evitando lo spreco e ogni tipo di consumismo. Uniti si è sempre più forti, soprattutto quando a guidare le azioni sono il cuore e la voglia di regalare un sorriso a chi è un po’ meno fortunato.

La condivisione è la vera risorsa per superare le disparità economiche e sociali. Le realtà come la Casa del Giocattolo Solidale di Varese ci raccontano di altri mondi e di altri valori che possono fare la differenza.

Fonte: https://www.italiachecambia.org/2021/08/casa-del-giocattolo-solidale/?utm_source=newsletter&utm_medium=email

Costi dell’inquinamento: gli Italiani pagano il prezzo più alto in Europa, Milano e Brescia tra le prime 10

Ricoveri ospedalieri, perdita di benessere, riduzione dell’aspettativa di vita: questi i fattori che fanno la somma del costo sociale, una spesa che per gli italiani ammonta a 1.400 euro per ogni cittadino. La stima da uno studio europeo a cui collabora Legambiente. I costi dell’inquinamento dell’aria connessi all’alto numero di automobili in circolazione e alla carenza del trasporto pubblico incidono sul portafoglio degli italiani più che nel resto d’Europa. Ricoveri ospedalieri, perdita di benessere, impatti indiretti sulla salute e, quindi, riduzione dell’aspettativa di vita. Sono questi i fattori che fanno la somma del costo sociale, una spesa che per gli italiani ammonta a un costo medio di 1400 euro per ogni cittadino, equivalente a circa il 5% del PIL. Il peso che ogni cittadino è costretto a sobbarcarsi per far fronte ai danni derivanti dall’inquinamento atmosferico. In Europa, invece, la stima è più bassa e si aggira intorno a quota 1250 euro per una percentuale del 3,9%. A far emergere questi dati è lo studio “Costi sanitari dell’inquinamento atmosferico nelle città europee, connesso con sistema dei trasporti”, diffuso nella giornata di oggi dalla società di consulenza CE Delf, che ha preso in esame 432 città europee, in 30 paesi (27 paesi UE più Regno Unito, Norvegia e Svizzera). Lo studio si riferisce a dati raccolti per l’anno 2018 ed è commissionato dall’Alleanza europea per la salute pubblica, una ONG di interesse pubblico presente in 10 paesi dell’Unione Europea (European Public Health Alliance – EPHA). Per quanto riguarda l’Italia è Legambiente a collaborare al progetto. 

LINK allo studio completo

Roma, Milano e Torino sono tra le prime 25 città europee per costi sociali in assoluto, mentre ben 5 città italiane sono nella top ten per costi pro capite, di cui due lombarde (Milano seconda dopo Bucarest, seguita dal terzo posto di Padova, al sesto Venezia, al settimo Brescia e al nono posto Torino). E maggiore è il numero di automobili in strada e più aumenta il tempo trascorso nel traffico più si alzano i costi sociali dell’inquinamento. “Un aumento dell’1% del tempo medio di percorrenza per recarsi al lavoro aumenta i costi sociali delle emissioni di PM10 dello 0,29% e quelli delle emissioni di NO2 anche dello 0,54%. Un incremento dell’1% del numero di autovetture in una città aumenta i costi sociali complessivi di quasi lo 0,5%”, è quanto viene evidenziato dallo studio diffuso oggi da CE Delf.

Quindi, nonostante le difficoltà oggettive di valutazione, lo studio riesce a stimare la diretta connessione tra costi dell’inquinamento dell’aria (dovuta a smog, emissioni PM10 e N20) e l’aumento dei costi sociali per gli italiani.  
«Secondo i risultati dello studio Milano ha perso poco meno di tre miliardi e mezzo di euro in un anno in welfare e costi sociali, superata soltanto da Roma» dichiaraBarbara Meggetto, presidente di Legambiente Lombardia. «L’inquinamento continua a sprofondare i bilanci già gravemente compromessi delle nostre città. Milano è seconda in Europa dopo Bucarest per costo pro capite, con oltre 2800 €/anno, una cifra sottratta al benessere e alla capacità di spesa dei cittadini. Gli scienziati indicano chiaramente la responsabilità dei trasporti nell’emissione dei diversi inquinanti presi in esame. È ora di scelte coraggiose e convinte, basta con indulgenze e mezze misure, si deve uscire velocemente dal fossile e incentivare multimodalità e sharing».

 E i costi calcolati potrebbero essere ancora più alti se – citando lo studio – “si includessero adeguatamente i costi correlati alla pandemia COVID-19. Le comorbilità sono un elemento preponderante nella mortalità di pazienti affetti da COVID-19 e fra le più importanti vi sono quelle associate all’inquinamento atmosferico. Da diversi documenti di ricerca si evidenzia che la scarsa qualità dell’aria tende ad aumentare la mortalità di pazienti affetti da COVID-19. Pertanto, i costi sociali di una scarsa qualità dell’aria potrebbero essere maggiori rispetto a quanto stimato in questa ricerca”.  
Secondo Andrea Poggio, responsabile mobilità Legambiente «il costo dell’inquinamento, aggravato quest’anno alla pandemia Covid19, è particolarmente pesante per i redditi più bassi: l’inquinamento, come il Covid colpisce tutti, ma chi è più povero fatica a mitigarne gli effetti ed accedere alle cure. I governi nazionale e regionali devono adottare al più presto politiche pubbliche per mobilità e riscaldamento ad emissioni zero, per tutti, ma soprattutto per chi è meno abbiente. Servono mezzi pubblici elettrici, bici e auto elettriche condivise, serve in città agevolare e promuovere subito la mobilità ciclo-pedonale. Serve il superbonus (110%) se ben speso per ridurre l’inquinamento da riscaldamento. Non servono invece proroghe ai permessi di circolazione dei veicoli diesel più inquinanti, non servono bonus per l’acquisto di auto di proprietà a combustione. Iniziare a ridurre a zero, o quasi, l’inquinamento deve divenire una priorità nazionale del Recovery plan italiano». 

Fonte: ecodallecitta.it



 
 

ANIASA, nuovo progetto di sviluppo per una mobilità sostenibile e condivisa

Uno degli obiettivi principali annunciati dall’associazione afferente a Confindustria è quello di supportare “l’ineluttabile transizione dalla proprietà all’uso dei veicoli che nel nostro Paese ha già portato 1 vettura su 4 ad essere immatricolata a noleggio”

Supportare l’ineluttabile transizione dalla proprietà all’uso dei veicoli che nel nostro Paese ha già portato 1 vettura su 4 ad essere immatricolata a noleggio. Consolidare il ruolo di interlocutore di riferimento nel dibattito nazionale sulla mobilità – anche quella post COVID – e nelle strategie messe in campo dal Governo per gestire in modo efficace i fondi del Recovery Fund che dovranno guidare il nostro Paese verso una mobilità più sostenibile, smart e sicura. Intercettare in anticipo i cambiamenti in atto e svolgere un’efficace azione di sensibilizzazione sulle tematiche strategiche della mobilità cittadina, turistica e aziendale. Sono questi i principali obiettivi alla base del nuovo progetto di sviluppo di ANIASA, l’Associazione che all’interno di Confindustria rappresenta il settore dei servizi di mobilità, implementato con il supporto strategico del partner di respiro internazionale The European House Ambrosetti (1° Think Tank in Italia e tra i primi 10 in Europa), che accompagnerà l’Associazione anche nei prossimi due anni in un percorso di trasformazione.

“In Italia il settore della mobilità nel suo complesso”, osserva Massimiliano Archiapatti, Presidente di ANIASA, “sta vivendo una fase di rapida evoluzione, destinata a stravolgere il nostro modo di muoverci e di spostare le merci: le formule di pay-per-use mobility nel 2019 hanno toccato la quota record del 25% dell’immatricolato e oltre 1 mln di veicoli circolanti. L’avvento della pandemia sta accelerando questo cambiamento. Abbiamo davanti a noi un’occasione irripetibile per rendere la mobilità italiana più sostenibile, smart e sicura, anche grazie alle risorse del Recovery Fund. Il noleggio è oggi un asset strategico per le politiche di sostenibilità ed economia circolare, con il suo parco veicoli a emissioni ridotte e con la capacità di immettere costantemente sul mercato dell’usato veicoli a fine noleggio di ultima generazione, in grado di sostituire quelli più inquinanti. Il nostro settore può e deve essere protagonista di questa rivoluzione che presenta diverse sfide: l’impatto ambientale, la connettività, la crescente urbanizzazione (con i connessi problemi di congestionamento, parcheggio, inquinamento), i nuovi paradigmi di consumo sempre più proiettati

all’uso del veicolo, l’integrazione con la micromobilità cittadina”.

“Per fronteggiarle in maniera efficace”, aggiunge Archiapatti, “abbiamo deciso di avviare un percorso di evoluzione con l’obiettivo di rispondere in modo ancora più puntuale allo sviluppo del mercato, con particolare attenzione alle nuove generazioni, ai loro stili di vita e alle loro modalità di consumo, totalmente differenti da quelle conosciute finora. Siamo all’inizio di un tragitto che ci proietterà al centro dei nuovi scenari di mobilità”. A conferma dell’avvio di questo percorso è stata attivata ufficialmente la sezione Digital Automotive che si aggiunge alle altre presenti in Associazione (noleggio a lungo e breve termine, car sharing, servizi automobilistici); un segmento di cui già oggi fanno parte tutti i principali player nazionali e internazionali del settore.

Fonte: ecodallecitta.it

Sant’Agabio: il quartiere resiliente che riscopre la bellezza del vicinato

Sant’Agabio è un quartiere della periferia di Novara, conosciuto per le sue numerose problematiche sociali ed economiche. Oggi si è reinventato grazie all’impegno di tutti i suoi abitanti, gli enti e le associazioni che qui vivono e che hanno fatto di Sant’Agabio un vero e proprio quartiere resiliente, dove si valorizza la diversità, si aiuta chi ha bisogno e si mette in pratica l’autoproduzione, stimolando le persone a rimanere e a credere che “insieme si può fare”.

«Viviamo in una società in cui conosciamo centinaia di persone lontane ma abbiamo perso la bellezza del contatto con i nostri vicini di casa». Queste parole rispecchiano un pensiero comune che ci viene spesso testimoniato dalla moltitudine di persone che abbiamo incontrato nei nostri viaggi in giro per l’Italia. Una frase che rivendica il potere della vicinanza, la semplicità del quotidiano e il contatto con chi ci circonda, che ci appaiono ormai come un ricordo d’altri tempi. E proprio oggi, per mezzo della tecnologia, dei social e dei viaggi, siamo sempre alla ricerca di qualcosa più lontano da noi, dimenticandoci che al di là della porta di casa esiste un mondo fatto di persone in carne e ossa che ci circondano e sono tutte da scoprire. Oggi vi raccontiamo la storia di un quartiere che sta ribaltando questo modo di vivere e dove è nata una comunità resiliente che si aiuta e si sostiene, mostrando proprio a quei vicini di casa che prima non si conoscevano la bellezza di incontrarsi fuori dal proprio uscio.

È proprio questo è il caso di una grande storia che nasce come soluzione a un grande problema. Ci troviamo nel quartiere popolare di Sant’Agabio, nella periferia di Novara. Un quartiere caratterizzato da un’alta percentuale di immigrati che rende la convivenza una grande sfida, dai molti giovani che finiti gli studi non riescono a trovare lavoro, dalla solitudine degli anziani, dalla vicinanza con uno dei poli chimici più grandi di Italia che contribuisce alla percezione generalizzata di degrado. Insomma, una quantità così grande di problemi che sembrano non lasciare speranza eppure tre anni fa è successa una magia che sta totalmente rivoluzionando il modo di vivere del quartiere. I protagonisti di questa storia sono Franco Bontadini e Stefania D’Addeo che in questa magia hanno creduto, facendo risvegliare un quartiere ormai assopito. «Il nostro sogno era quello di trasformare questo quartiere in un luogo dove le persone si possono incontrare, dove riscoprire il senso di vicinato, dove passare il tempo insieme e poter trovare un aiuto quotidiano. Quando siamo venuti a conoscenza di un Bando di Fondazione Cariplo che si chiama “Costruiamo comunità resilienti” ci siamo detti, “perché no”?».

Così nasce Sant’Agabio Resiliente grazie all’associazione Savore (associazione Sant’Agabio Volontari Resilienti), creata appositamente per riunire le diverse associazioni locali e far rivivere un quartiere che aveva perso ogni speranza. Ma come si crea una comunità resiliente? Ce lo hanno raccontato Franco e Stefania spiegandoci che «una comunità resiliente è una comunità fatta di persone che diventano autonome e capaci di affrontare insieme i cambiamenti e le difficoltà». Tutte le iniziative e i progetti nascono per uno scopo, quello di essere autosufficienti, cercando e trovando tutte le risposte all’interno del quartiere.

Come ci spiega Franco nel video, «non ci facciamo le nostre cose ma le facciamo insieme agli altri».  Ci sono dei negozi sfitti da anni? Allora l’associazione ha acquistato alcuni locali dove ha organizzato laboratori, feste e momenti di incontro tra gli abitanti. C’è una carenza educativa? Il quartiere ha creato una biblioteca che ha chiamato “babiloteca” dove si custodiscono libri di tantissime lingue diverse a cui possono accedere persone di tutte le nazionalità.

Si è dimenticata la cultura del fai da te? In risposta l’associazione ha organizzato corsi di autoproduzione, di panificazione, di creazione artigianale di conserve. Come ci raccontano, «Pensiamo che tra le caratteristiche di una popolazione resiliente vi sia la capacità di alimentarsi in modo indipendente, sano e sapendo riconoscere i prodotti di qualità. All’esterno abbiamo un grande prato dove gli anziani del quartiere coltivano frutta e verdura nei nostri orti urbani, facciamo grigliate, castagnate e qui i più giovani possono praticare sport a contatto con la natura».

Mancano occasioni di incontro tra le persone? Il quartiere ha puntato sulla condivisione della cultura e del saper fare. Così sono nati laboratori per tutte le fasce di età come corsi di arabo per i bambini che a scuola imparano l’italiano ma che non hanno perso l’abitudine di parlare la propria lingua per poter comunicare con i propri familiari lontani. Sono nati anche corsi di cucito insieme alle studentesse di un istituto di Moda di Novara che qui svolgono lezioni per ottenere crediti formativi. Sono stati attivati corsi di riuso e riciclo creativo, laboratori di cucina, di arti pittoriche grazie alla partecipazione di insegnanti in pensione. Si svolgono attività con i ragazzi e le ragazze down che qui possono destreggiarsi in lavori manuali. Come riportato nel video, una volta al mese c’è il “mercatino resiliente” a cui partecipano hobbisti e creativi del quartiere che hanno perso il lavoro e che vendono le proprie creazioni realizzate con materiali di recupero come gioielli in plastica o cialde del caffè e realizzano borse e grembiuli attraverso il recupero di stoffe e vecchi jeans. «Abbiamo pensato a un mercatino resiliente perchè in questa zona il livello economico e la povertà si percepiscono con mano e lo scambio e il riuso diventano pratiche che possono fare davvero la differenza». Infatti, nel quartiere, si valorizza anche il riuso come nel caso di giocattoli per bambini che vengono donati di famiglia in famiglia o lo scambio di oggetti e vestiti che sono di troppo negli armadi.

In questi anni, grazie al progetto “Costruiamo comunità resilienti” sono sempre più numerosi gli abitanti che hanno deciso di non “fuggire” dal quartiere ma di rimanere. Come ci viene spiegato da Franco e Stefania, «Il bello è che a Sant’Agabio si è creata una cultura mista di persone che è molto tollerante. Qua si può organizzare una festa musulmana all’oratorio o una festa cattolica nel circolo. Ognuno fa le cose che ritiene di valore per la propria comunità di origine e questo bisogno è accolto positivamente da tutti. Per il futuro del quartiere vorremmo far crescere questo senso di comunità. Far scoprire agli abitanti che le opportunità sono proprio sotto casa e non c’è bisogno di guardare più lontano per trovare nuove occasioni». Fonte: https://www.italiachecambia.org/2020/05/sant-agabio-quartiere-resiliente-riscopre-bellezza-vicinato/?utm_source=newsletter&utm_medium=email

Baratto del Fare: il paese che sostituisce il denaro con la cultura del dono

Ci troviamo a Omegna, sulle sponde del bellissimo lago d’Orta. Qui un gruppo di mamme e amiche, spinte dal desiderio di creare una comunità solidale, hanno coinvolto gli abitanti e le associazioni del luogo in un bellissimo progetto che vuole dimostrare che non sempre i soldi fanno la felicità. Nasce così il “Baratto del Fare” un’iniziativa che promuove lo scambio di tempo, competenze, saperi e oggetti materiali, bandendo il denaro e facendo un dono a tutta la comunità.

Oggi vi raccontiamo la storia di un gruppo di mamme e amiche che a Omegna, in Piemonte, hanno fatto della cultura del dono e dello scambio il loro cavallo di battaglia per rispondere a quest’emergenza. Abbiamo conosciuto Marta Orlandi che nel paese sta contribuendo a creare un modello dove il denaro non è al centro di tutto ma lo sono la solidarietà e i piccoli gesti quotidiani.

«All’interno della nostra cerchia di amicizia ci siamo sempre aiutate, ma è solo recentemente che abbiamo deciso di dare il nostro contributo per rendere il periodo che stiamo passando meno difficile per tutti». E lo stato di emergenza non poteva che essere il momento ideale per riscoprire valori ormai dimenticati e il senso di buon vicinato. «Ci siamo rese conto che è proprio in assenza di denaro che si possono utilizzare mezzi alternativi e praticare atti di solidarietà».

Così nasce il Baratto del Fare, promosso da Marta e dal suo gruppo di Mutuo appoggio chiamato “Viceversa”: si tratta di una rete di solidarietà che promuove lo scambio di tutto ciò che non sia denaro e che ci aiuta a riscoprire il senso di umanità e generosità spesso dimenticate della comunità in cui viviamo. L’idea è quella di mettere in contatto chi ha la possibilità di donare con chi si trova nella reale necessità di ricevere un aiuto pratico nelle faccende quotidiane. Parliamo di tempo, competenze, braccia forti, consigli, oggetti materiali, abilità personali e saperi.

Il baratto del fare vuole superare la logica del “dare per ricevere” facendo sì che il dono sia spontaneo perché si ha qualcosa da offrire mentre chi riceve non deve sentirsi obbligato a restituire il favore. Come ci spiega Marta Orlandi, in un momento storico in cui le risorse economiche risultano in sofferenza, diventa fondamentale valorizzare strumenti alternativi allo scambio di denaro.

«In questo periodo di isolamento mi sono immaginata come ci ritroveremo dopo, se avremo imparato qualcosa di nuovo, se vorremo proseguire su un nuovo sentiero fatto di rispetto, ascolto e cura. Io vorrei ripartire con le scarpe vecchie ma il cuore rinnovato per prendermi cura del mondo, del vicino e di me stessa».

L’iniziativa prevede una stretta collaborazione con l’associazione Mastronauta, già promotrice del baratto di abiti ed oggetti che ha luogo a Omegna due volte l’anno e con l’associazione Dragolago che si occupa di integrazione sociale e solidarietà dal basso.

«Abbiamo creato un gruppo facebook in cui gli abitanti devono semplicemente compilare un form scrivendo quale aiuto possono offrire alla comunità, di cosa si ha bisogno o, volendo, entrambi. Ciò che ci ha stupite è che la risposta è stata più grande di quella che ci aspettavamo e in poco tempo hanno aderito un centinaio di persone, aumentando di volta in volta. Per via del distanziamento sociale lo scambio avviene a distanza ma non vediamo l’ora di poterci finalmente incontrare di persona».

Al momento sono tante le proposte offerte e le richieste di aiuto. Come ci spiega Marta, in molti hanno chiesto di poter accedere a prodotti alimentari a km0, a frutta e verdura, ma anche all’aiuto scolastico, a un supporto all’utilizzo della tecnologia e alle lezioni di cucito creativo.

«Qualche giorno fa ci ha scritto una persona che chiedeva aiuto nel tenere pulito il proprio terreno e successivamente un vicino ci ha contattati esprimendo il desiderio di potersi prendere cura di un orto». Questo ci dimostra che, nel nostro vicinato, siamo già in possesso di tutto ciò che ci può servire e che se superiamo il concetto del “mio” e del “tuo” ci rendiamo davvero conto di quanta ricchezza c’è intorno a noi».

Ad esempio, chi ha un orto, nel periodo in cui il raccolto delle zucchine sarà abbondante, potrà offrirle a chi in questo momento non ha la possibilità di coltivare, sapendo che ci sarà un momento in cui, se avrà una necessità, potrà essere appoggiato da una comunità che ha scelto la condivisione come suo punto di forza. Come ci ricorda Marta, «È importante ricordarci che in fondo abbiamo tutti le stesse necessità, ognuno nella propria unicità in quanto i bisogni di una persona sono spesso i bisogni della collettività che la circonda. Questo periodo ci ha messo di fronte alla consapevolezza che come esseri sociali abbiamo bisogno delle altre persone, che da soli non possiamo arrivare dappertutto ed è fondamentale utilizzare questo momento per aprirci, fidarci e affidarci agli altri».

Fonte: https://www.italiachecambia.org/2020/05/baratto-del-fare-paese-sostituisce-denaro-cultura-dono/?utm_source=newsletter&utm_medium=email

Una comunità agricola nella capitale: nasce la prima CSA di Roma

Ispirata ad Arvaia, è nata “Semi di comunità”, la prima CSA romana. Si tratta di una forma di organizzazione pensata per produrre e distribuire prodotti agricoli in modo nuovo e collaborativo e, al contempo, tessere relazioni umane basate sulla condivisione e le buone pratiche di sostenibilità. Anche a Roma… si può!

“Il cibo può essere una dimensione attraverso la quale possiamo trovare delle connessioni. La ricerca di buon cibo locale può diventare parte della costruzione della comunità. Tra le città europee Roma possiede i più ampi spazi dedicati al verde e dove c’è verde può nascere buon cibo. Insieme agli agricoltori si possono creare luoghi per la rigenerazione dell’economia, della democrazia, della conoscenza e della nostra libertà”. 

Mentre ascolto il racconto di Saverio e Alice sulla nascita della prima CSA romana, mi tornano alla mente le parole pronunciate da Vandana Shiva mentre parlavamo di sovranità alimentare in uno dei tanti orti/giardini inaspettati della capitale. Il tema della terra, dell’agricoltura, solidale e sostenibile, della provenienza del cibo che mangiamo, della sua produzione, e conseguentemente della nostra salute, è un tema centrale nel cambiamento di paradigma. Ad esso si legano strettamente molti temi, compreso quello, meno scontato, del tessere relazioni e ricreare comunità. Un aspetto ben chiaro a questa neonata CSA che non a caso si chiama Semi di Comunità e in seno a due comunità è stata ideata, ponendo come base del progetto “la creazione di una comunità agricola di persone e competenze”.

Ma che cosa è una CSA?

Il termine CSA significa Comunità che Supporta l’Agricoltura ed è una particolare forma di organizzazione, in cui la comunità dei soci è legata da un reciproco impegno di collaborazione. Tutti i soci prendono insieme le decisioni sulle scelte aziendali, sostengono la produzione e si distribuiscono cibo fresco, sano e prodotto nel rispetto dell’ambiente. Questo vuol dire anche assumersi il rischio d’impresa, che viene condiviso da tra tutti soci. In Italia la prima CSA è stata quella di Arvaia, fondata nel 2013, una delle storie che abbiamo raccontato e da cui Semi di Comunità ha tratto ispirazione e sostegno. 

“I semi di questo progetto risalgono a un anno e mezzo fa. Io sono arrivato quando si era da poco costituito un gruppo incubatore di idee – racconta Saverio Inti Carrara, uno dei soci lavoratori della CSA – Tutto è partito da due comunità che fanno parte dell’associazione nazionale MCF “Mondo di Comunità e Famiglia”, quella di Casale Vecchio, a Prima Porta, dove ci sono anche i campi che coltiviamo, e l’altra in zona Bufalotta, La collina del Barbagianni. In questo gruppo lavoravamo su varie idee e buone pratiche da poter trasferire anche nel mondo del lavoro e che avessero come base la solidarietà, l’etica, l’uguaglianza. Ho fatto studi artistici ma a 23 anni ho deciso di dedicarmi all’azienda familiare, un’azienda agricola biologica nel bergamasco. Per 5 anni mi sono occupato del frutteto, dell’orto, facendo di tutto, dalla potatura alle consegne ed ho poi continuato a lavorare e sperimentare anche una volta approdato a Roma”. 

Un’esperienza che ha fatto ben comprendere a Saverio come in agricoltura ci siano pochi margini economici. “Poi un giorno ho ricevuto una mail in cui si parlava di Arvaia e sono partito, sono andato a trovarli , ho riportato l’idea che avevo trovato al gruppo ed abbiamo deciso di intraprendere la strada della CSA. Due soci di Arvaia sono poi venuti da noi per due giorni e abbiamo allargato la condivisione dell’idea, coinvolgendo attraverso il passaparola tra le persone che ruotano intorno a queste due comunità. Ed è stato tutto molto veloce, il 23 gennaio di quest’anno abbiamo costituito la cooperativa. C’erano già circa cinquanta persone interessate e volevamo tenere alto questo interesse partendo con la produzione dalla primavera. A livello pratico, i lavori sui campi sono iniziati a metà marzo. Abbiamo autocostruito insieme ai soci quattro serre, seminato 10000 piante, sistemato il vivaio, pulito i campi che abbiamo in affitto dalla comunità in via del Prato della Corte 1602/a, all´interno del Parco di Veio. Ci sono 2 ettari e mezzo di terreno coltivabile e altrettanto di bosco e sono campi già certificati biologici”.

Come funziona la CSA

A raccontare come funziona la CSA è Alice Bognetti, l’altra attuale socia lavoratrice, che è arrivata a settembre a cavallo della prima assemblea pubblica in cui si cominciava a proporre il progetto già delineato. “All’interno della CSA ci sono diversi tipi di socio. C’è il “socio semplice” che aderisce alla cooperativa attraverso un contributo di 100€ al capitale sociale, e che, come tutti gli altri può partecipare alla fattoria didattica, alle giornate conviviali e di scambi di sapere, e alla produzione, contribuendo volontariamente con qualche giornata di lavoro durante l’anno. Ci sono poi i soci sovventori e prestatori, che con nostro grande stupore sono arrivati sin da subito, che fanno donazioni a fondo perduto o prestiti alla cooperativa. E ci sono i soci lavoratori che garantiscono il raccolto, stilano un piano delle colture e sottopongono il bilancio dei costi a tutti i soci per l’approvazione. Secondo il nostro piano ideale dovrebbero essere una persona a tempo pieno e due part time ma attualmente c’è una persona full time e un partime diviso tra due soci lavoratori. Infine i soci fruitori a cui spetta settimanalmente una parte dei prodotti coltivati”.  

“Un punto cardine della CSA è l’asta delle quote – prosegue Saverio – Prima dell’asta viene condivisa con i soci la proposta di piano economico annuale che comprende tutti i costi previsti e, in base a questo, si calcola il costo di una quota ideale, facendo una divisione per il numero di soci fruitori. Se ad esempio si prevedono 80000€ di costi e abbiamo 100 soci, la quota ideale sarebbe 800€ a testa, questo significa che se ognuno mettesse 800€ il progetto sarebbe sostenibile e si potrebbe partire con la produzione.

L’asta però è uno strumento che serve anche per garantire l’accesso alla CSA alle fasce meno abbienti, quindi durante l’asta si concorda un valore minimo, inferiore alla quota ideale, e uno massimo, superiore alla quota ideale, e ogni socio scrive la cifra che può dare. A questo punto si calcola il totale raggiunto e, se ad esempio mancano 2000€ per raggiungere le previsioni di spesa, si propone di dividerli fra tutti i soci fruitori. Nel caso di 100 soci sarebbero 20€ a testa in più. Quest’anno però non è stato possibile perché sapevamo già che non avevamo i numeri per farlo, la quota ideale sarebbe stata altissima e abbiamo quindi stabilito una quota fissa di 800€ scommettendo che il progetto che si allargasse. Oggi i soci sono arrivati a 100 e a 40 le quote per quanto riguarda i soci fruitori. Considerando che si possono acquisire anche mezze quote, sono circa 60 i soci fruitori. Ma per essere sostenibili abbiamo bisogno di arrivare almeno a 50 quote. Anche se dalla seconda metà maggio inizieremo la distribuzione, continueremo la campagna per l’acquisizione di nuovi soci”. 

Le quote, che si possono pagare in due rate entro la fine di giugno, garantiscono 5/6 chili di verdura a settimana per le quote intere, e ¾ chili per le mezze quote, per 48 settimane l’anno, escludendo quindi il mese di agosto durante il quale le porte dell’azienda rimangono aperte a chi vuole prendere li prodotti in autonomia.

Semi di comunità ha già anche un piano per la distribuzione che conta sette punti della città: il primo direttamente in azienda, uno presso la comunità de La collina del Barbagianni, presso un vivaio in zona Monteverde, a Capena e in due parrocchie a Piramide e Nomentana e a Testa di Lepre. 

“L’intento della CSA è sì distribuire il prodotto ma anche creare rapporti umani, comunità, per fare questo ci siamo di nuovo ispirati ad Arvaia anche per la distribuzione. Dall’azienda partono delle cassette monovarietari e nei punti di distribuzione c’è una bilancia e una bacheca con la lista delle persone e le quantità di prodotti per tipologia che ognuno può prendere in autonomia e in fiducia. E poi c’è una cassetta per gli scambi. Ciò che eventualmente avanza viene lasciato a chi ci ospita per la distribuzione. Da statuto la nostra idea è quella di una cooperativa a impatto zero, che si basa sul riuso e sul minor spreco di cibo, di materie e non solo. E questa sarà una delle nostre sfide”. Fonte: http://www.italiachecambia.org/2019/05/comunita-agricola-capitale-nasce-prima-csa-roma/?utm_source=newsletter&utm_campaign=general&utm_medium=email&utm_content=relazioni

Un erasmus per imparare il futuro: Italia e Germania si incontrano

Grazie ad un progetto di interscambio che ha unito Inwole e Italia che Cambia abbiamo avuto la possibilità di vivere, come organizzatori e formatori, una settimana di condivisione con un gruppo di tedeschi giunti dalla Germania per conoscere e sperimentare l’Italia in cambiamento verso un futuro più sostenibile. Sostenibilità, educazione, connessione, rete. Sono questi gli elementi chiave dell’incontro residenziale che si è tenuto dal 22 al 28 aprile tra Firenze, Umbria e Bologna. L’occasione un progetto Erasmus+ per attività di mobilità per l’educazione degli adulti dal titolo “Lernen für die die Zukunft” (“Imparare per il futuro”) che ha unito due realtà già connesse: Inwole e Italia che Cambia.

Il gruppo a Panta rei, sul lago Trasimeno, dove ha trascorso tre giorni di lavoro e condivisione

Questo progetto di interscambio tra attori e formatori del cambiamento, italiani e tedeschi, ha infatti già forti radici. Luca Asperius, tra i fondatori di Italia che Cambia e responsabile dei nostri portali territoriali, berlinese d’adozione da quasi 10 anni, ha realizzato insieme ad Alexandre Schütze e Hannes Gerlof, due portali sul modello di quello italiano già attivo in Piemonte, uno dedicato a Berlino e uno dedicato alla regione del Brandeburgo.  

“La collaborazione con Inwole è ormai attiva e ben strutturata da diversi anni, da quando è stato lanciato il portale regionale Brandenburg im Wandel – racconta Luca – In particolare poi insieme a loro abbiamo avuto la possibilità di presentare nel 2017 qui in Germania alcune storie del cambiamento italiano, sottotitolando in tedesco alcuni dei video di Italia che Cambia, e di presentare Italia Che Cambia insieme a Daniel e Andrea. La cooperazione nel progetto Erasmus+ è stata quindi un’evoluzione naturale della collaborazione”. 

Inwole è un’associazione molto attiva a Potsdam (Brandeburgo). Le principali aree su cui si muove il progetto sono la formazione, il lavoro creativo e artigianale, l’economia solidale, la mobilità, l’educazione alla sostenibilità, i progetti antirazzisti e di cooperazione internazionale, così come progetti di integrazione. Tra i membri dell’associazione ci sono molti abitanti del progetto di cohousing Projekthaus, dove ha sede l’associazione e vengono svolte la maggior parte delle attività, negli spazi e nei laboratori della struttura, un luogo per l’implementazione pratica delle alternative sociali in cui iniziare a rendere possibile la convivenza sociale e una società di solidarietà.

A Perugia, guardando gli orti sinergici

Un laboratorio di sperimentazione proprio come lo è stato per tutti noi anche questa prima esperienza insieme in Italia, in cui mi sono trovata insieme ad Andrea Degl’Innocenti e Luca Asperius nel doppio ruolo di organizzatrice e formatrice. È sempre una grande ricchezza il confronto, la condivisione di strumenti, la convivenza, soprattutto in un gruppo così eterogeneo per età, con persone afferenti a progetti ed ambiti di interesse diversi, con aspettative differenti. Parte del cammino sta nel sintonizzarsi, nel riscoprire gli elementi di coesione sui quali convergere e nel mettersi in gioco nella diversità. 

“In generale sono molto contento, soprattutto in virtù del fatto che era la prima volta che organizzavamo un corso-viaggio del genere (anche se a livello italiano abbiamo comunque accumulato una discreta esperienza con i nostri corsi) – continua Luca – È stata sicuramente un’esperienza molto intensa, anche impegnativa dal punto di vista della logistica e dell’organizzazione e per quanto mi riguarda personalmente dell’interpretazione, essendo io l’unico o quasi del gruppo a parlare sia italiano che tedesco. Anche i feedback dei partecipanti sono stati molto positivi, in particolare riguardo alle uscite didattiche che abbiamo potuto organizzare con i progetti della nostra rete”. 

Oltre a tre giorni intensivi di lavoro insieme a Panta Rei, sul lago Trasimeno, i 15 partecipanti tedeschi hanno avuto infatti l’opportunità di incontrare alcuni progetti nelle città che abbiamo attraversato, dai quali trarre ispirazione e spunti per il lavoro che abbiamo portato avanti nei vari gruppi di lavoro.

Antonio di Giovanni presenta Funghi espresso (Firenze)

E proprio da questi incontri sono forse arrivate anche per noi le sorprese più interessanti. “Tra le tante cose forse quella che mi ha colpito di più è stata l’accoglienza e la disponibilità da parte dei progetti italiani che abbiamo scelto di visitare, segno anche del grande lavoro che stiamo portando avanti come Italia Che Cambia anche dal punto di vista delle relazioni umane”, prosegue Luca. “Anche se eravamo noi a condurli alla scoperta di città, progetti e persone, sono io per primo ad aver scoperto nuove cose o nuovi aspetti di storie che conoscevo già e che avevamo raccontato su Italia che Cambia”, aggiunge Andrea. C’è sempre un fattore di scoperta possibile e su questo si è giocato tanto di questo primo incontro intensivo che ripeteremo, forti di ciò che ci ha entusiasmato e di ciò che sarebbe potuto andare meglio, a fine settembre. Intanto abbiamo tessuto relazioni, approfondito progetti, acquisito nuovi strumenti e competenze, e gettato le basi concrete di uno scambio più forte tra la Germania e l’Italia in Cambiamento (ma questo lo scoprirete presto…).

Fonte: http://www.italiachecambia.org/2019/05/erasmus-per-imparare-futuro-italia-germania-si-incontrano/?utm_source=newsletter&utm_campaign=general&utm_medium=email&utm_content=relazioni

Centrocontemporaneo: le antiche botteghe rinascono grazie all’arte

Riaprire le botteghe storiche per favorire la rinascita culturale e sociale del centro storico di Catania. Il progetto di rigenerazione urbana Centrocontemporaneo ha avviato una vera e propria rivoluzione strappando dal degrado il centro catanese e trasformandolo in un luogo vivo e ricco di idee, arte, condivisione e bellezza. “In un momento in cui tutte le botteghe storiche del centro venivano chiuse, noi abbiamo accettato la sfida e abbiamo provato a riaprirle”. Comincia così il racconto del progetto di rigenerazione urbana Centrocontemporaneo da parte di Alessandro, uno dei fondatori. Il primo passo è stato proprio quello di credere nel cambiamento: dal basso, sostenibile, di lungo periodo. E poi? “Abbiamo cominciato a far aprire i palazzi, per trasformare ogni cortile in un luogo di produzione culturale”, prosegue. Socialità e condivisione sono infatti altri due pilastri di questo percorso che ha pochi eguali in Italia e che ha trasformato in pochi mesi il “quadrilatero dell’arte” del centro storico di Catania in un luogo vivo e frequentato, strappandolo al degrado e restituendolo alla cittadinanza.

Da questa zona centrale è partita una grande rivoluzione che sta ridefinendo l’idea stessa di città: non più un ammasso di case, strade e negozi che ospita semplicemente i cittadini, ma un organismo con una sua identità, nata grazie all’unione delle tante anime che lo compongono. Il minimo comune denominatore? L’arte!

Dal 2013 Centrocontemporaneo lavora per ridisegnare il volto urbano di Catania attraverso pedonalizzazioni, mobilità ciclabile, fiori e piante che abbelliscono i marciapiedi. “Le botteghe che abbiamo fatto riaprire in questi anni rifioriscono di idee, di arte, di musica e di bellezza”. Tantissimi artisti – prevalentemente locali, ma anche provenienti da fuori – si esibiscono coinvolgendo le attività commerciali e gli abitanti del quadrilatero dell’arte.centrocontemporaneo

La bellezza dunque ha salvato questa porzione di città. Non solo! Ha anche rimesso a nuovo il suo tessuto sociale ed economico: “Sono tutte attività – spiega Nino, un altro dei fondatori – che hanno un’ispirazione di tipo artistico e artigianale e che campano con questo”. Arte e artigianato che garantiscono una fonte di reddito? In Italia (purtroppo!) si vede raramente, ma qui a Catania succede!

Il vero obiettivo del Centrocontemporaneo è conquistare la città. Ambizioso certo, ma non impossibile! Come? Attraverso la bellezza condivisa, la partecipazione, il cambiamento dal basso, l’arte, l’artigianalità.

Intervista: Daniel Tarozzi
Realizzazione video: Paolo Cignini

Fonte: http://www.italiachecambia.org/2018/08/io-faccio-cosi-222-centrocontemporaneo-le-antiche-botteghe-rinascono-arte/?utm_source=newsletter&utm_campaign=general&utm_medium=email&utm_content=relazioni

Tre amiche aprono un bar portineria a Milano. Ed è subito casa

Il ritiro di pacchi è il servizio più richiesto, ma anche il banco alimentare è stato apprezzato da subito. Dall’idea di tre giovani amiche è nato nel centro di Milano il bar “Portineria 14” pensato per rispondere alle varie esigenze quotidiane degli abitanti della zona e ricostruire il tessuto sociale del quartiere. Quante volte ci è sembrato di essere soli ad affrontare i piccoli problemi quotidiani della giungla metropolitana? Il ritiro di un pacco, la necessità di affidare un duplicato del mazzo di chiavi, l’esigenza improvvisa di un idraulico o un elettricista. Con l’intento di rispondere – in maniera completamente gratuita – alle esigenze di ogni giorno, è nato il bar Portineria 14. Fondato nel 2016 da Francesca, Federica e Manuela, si trova a Milano in zona Ticinese, Via Troilo per l’esattezza, ed è un vero e proprio punto di riferimento nel quartiere.20031551_1524037020950358_8796505259937785235_n

“Siamo tutti connessi, tutti iper-tecnologici – spiega Francesca, una delle tre fondatrici – ma siamo diventati indifferenti e non ci occupiamo più di chi ci sta intorno”. Il bar-portineria nasce quindi con l’idea di ricostruire il tessuto sociale del quartiere, per entrare in relazione con le persone e ritrovare fiducia nel prossimo. “Se una persona entra nel nostro bar per chiedere un favore, anche se non ha a che fare con il nostro decalogo – precisa Francesca – al 99% quel favore gli sarà fatto”.

Il servizio più richiesto? Senza dubbio il ritiro di pacchi. Tutti ormai fanno ordini su internet e la reperibilità può essere un problema. Ma in Via Troilo la porta è sempre aperta, e il ritiro può avvenire fino a tarda sera. Da due settimane poi è stato avviato anche un banco alimentare che ogni giovedì dalle 11 alle 19 regala pacchi di spesa a chi ne fa richiesta. Non serve dimostrare di averne bisogno, è tutto fondato sulla fiducia reciproca. Possono venire i diretti interessati o chi pensa di conoscere qualcuno che potrebbe usufruirne.14095863_1198357583518305_3887483987412679387_n

Le fondatrici di Portineria 14

L’iniziativa è stata accolta con grande entusiasmo e nelle prime due giornate sono già state distribuite 27 spese, il primo giovedì, e 39 il secondo. Tutta la rete  di “Portineria 14”, fondatrici del bar comprese, contribuisce in maniera volontaria alla raccolta di cibo per il banco: chi porta un pacco di pasta, chi una scatola di riso, chi un cartone di latte. Per il quartiere quello che fanno le tre donne di “Portineria 14” è qualcosa di eccezionale, ma per Francesca è la normalità. “In una grande città come Milano quello che facciamo può sembrare straordinario, ma non dovrebbe essere così. Quello che facciamo mi sembra normale e penso che dovrebbe esserlo per tutti”.

Il bar è quello che Francesca considera il lavoro vero e proprio, i servizi offerti sono un’attenzione nei confronti del prossimo. La scelta dei prodotti cerca di offrire la massima qualità mantenendo il giusto prezzo, senza rincarare i costi.14642140_1235588039795259_2505070069421771423_n

Trovare un posto come “Portineria 14” è difficile, esistono luoghi simili – neanche troppo lontani dal bar di Francesca, Federica e Manuela – ma i servizi che offrono sono a pagamento. Altri invece si sono ispirati a questo bel progetto mantenendo intatto lo spirito di gratuità, come è stato nel caso del bar “La Cupola” a Varese, i cui proprietari hanno deciso di diventare portinai del quartiere.

“Sogno di veder nascere una rete di locali ispirati a questo progetto”, confida Francesca. E in effetti un primo passo è già stato fatto.

Fonte: http://www.italiachecambia.org/2018/03/tre-amiche-aprono-bar-portineria-milano/?utm_source=newsletter&utm_campaign=general&utm_medium=email&utm_content=relazioni