La comunità recupera un antico bivacco per difendere il Cadore da turismo di massa e spopolamento

Una porzione di un vecchio forte militare è oggetto di uno spettacolare intervento di ristrutturazione a 2000 metri di quota, nel cuore del Cadore. Il Club Alpino locale, sostenuto dalla comunità, ha infatti lanciato questo progetto per valorizzare e promuovere il territorio in modo rispettoso e consapevole.

BellunoVeneto – Nell’estremità settentrionale del Veneto, tra le Dolomiti patrimonio Unesco, si trova il Cadore, una terra dalla storia millenaria, come prova il ritrovamento dell’uomo di Mondeval, risalente a circa 8000 anni fa, e dotata di una bellezza quasi incontaminata. Una storia legata alla Repubblica di Venezia, ma anche al mercato del legname e all’industria dell’occhialeria. Tempi lontani che oggi lasciano spazio alle difficoltà date dallo spopolamento progressivo e dalla mancata promozione turistica. Tentativi di invertire la rotta provengono dal basso e sono portati avanti da piccoli gruppi, spesso legati al volontariato. Tali iniziative, visti i contesti che le propongono, sono lontane dall’ottica del turismo di massa e cercano di valorizzare il patrimonio locale, sconosciuto ai più, permettendo lo sviluppo di nicchie legate al turismo sostenibile.

In questo ambito si inserisce il Club Alpino Italiano sezione di Vigo di Cadore, una piccolissima realtà nell’ambito del mondo CAI. A differenza delle grandi sezioni sparse in tutta Italia, qui la “promozione della montagna in tutte le sue forme” viene declinata principalmente nel continuo lavoro di cura del territorio. Un gruppo di abitanti del paese da alcuni anni ha infatti deciso di dedicare parte del proprio tempo libero alla manutenzione dell’antica rete sentieristica che permette a tutti gli escursionisti di visitare boschi, montagne e pascoli millenari, dove l’antropizzazione è rimasta a livelli minimali e la natura fa da padrona.

Una delle poche eccezioni in questo territorio mai modificato dall’uomo è il Monte Tudaio. La sua posizione, che domina a 360 gradi le valli sottostanti di centro Cadore, Comelico e Auronzo, fu ritenuta strategica dall’esercito italiano all’inizio del XX secolo per poter controllare eventuali invasioni nemiche da nord. Venne così costruito un forte sulla sommità del monte, circondato da una vera e propria cittadella e raggiungibile a piedi lungo una mulattiera a tornanti lunga più di 8 chilometri. Oltre un secolo dopo, la natura si è riappropriata del monte, ma i ruderi del Forte, fatto brillare dagli austriaci dopo la ritirata di Caporetto, danno vita a un vero museo a cielo aperto a oltre 2000 metri di quota.

La volontà di far conoscere questo sito poco conosciuto, sperando di poterne fermare il progressivo degrado, ha spinto i volontari della sezione CAI a uno sforzo ulteriore: il tentativo di ristrutturare una delle casermette più piccole e meglio conservate della struttura per ricavarne un bivacco alpino, da lasciare sempre aperto e utilizzabile da chiunque volesse visitare il Monte. La scelta è caduta sulla casermetta “ex Corpo di Guardia”, situata all’ingresso del Forte, un blocco rettangolare di circa 30 metri quadri in pietra squadrata, con finestre rivolte a sud verso la valle del Centro Cadore. La struttura non aveva più il tetto ed era ricoperta da terreno e pini mughi. Dopo alcuni anni di progetti e autorizzazioni, compreso il parere positivo della soprintendenza ai beni culturali competente, e di ricerca di fondi per finanziare i lavori, a fine settembre 2021 è stato aperto uno dei cantieri più scenografici mai visti sulle Alpi.

I volontari della sezione hanno ripulito completamente la struttura e rimosso il terreno e la vegetazione che l’avevano ricoperta. I lavori effettuati nel mese di ottobre 2021 hanno consentito, prima dell’arrivo della neve, di ricostruire i cordoli in cemento armato come da struttura originale e posare il nuovo tetto. Nella primavera del 2022, appena la neve si scioglierà, si continuerà con il restauro dei muri, il rifacimento degli intonaci interni e la sistemazione delle adiacenze, con l’obiettivo di avere il bivacco finito ed utilizzabile entro l’autunno.

I finanziamenti principali ai lavori sono stati erogati dall’Unione Montana Centro Cadore e dal fondo pro-rifugi del CAI centrale. Per la parte restante, a carico della Sezione CAI Vigo di Cadore, stanno partecipando alcuni privati con donazioni. È inoltre aperta una raccolta fondi per sostenere il proseguimento dei lavori al seguente indirizzo internet. L’obiettivo dei volontari al lavoro per questo progetto è quello di far conoscere un sito storico e paesaggistico di altissimo livello, nel cuore delle Dolomiti, mantenendone la sua natura selvaggia, lontana dagli odierni alberghi a 5 stelle di alta quota o dal trend dei picchi raggiungibili senza camminare. Un’ottica di turismo sostenibile con il desiderio di condividere un patrimonio inestimabile, ma anche di offrire un’esperienza unica, raggiungendo la montagna a piedi e lasciandosi cullare dal suo suono, lontani dalle comodità moderne.

Fonte: https://www.italiachecambia.org/2021/12/antico-bivacco-cadore/?utm_source=newsletter&utm_medium=email

Rizomi: i cittadini si auto-organizzano per comprare un bosco e restituirlo alla comunità

Tonio Totaro ci racconta una storia. È quella di un’associazione di cui è vice-presidente e di un gruppo di cittadini che si sono attivati per compiere un’impresa: acquistare un bosco allo scopo di difendere il territorio dall’agribusiness e restituirlo alla comunità locale, facendolo diventare un bene comune.

BariPuglia – C’era una volta un paese dell’immediato entroterra adriatico, un paese pugliese di quell’assolato sud-est barese i cui cittadini decisero che qualcosa doveva iniziare a cambiare. In quel grazioso borgo – per secoli asservito al connubio del potere feudale con quello ecclesiastico e pure da sempre celebrato dai più svariati cronisti delle epoche passate come la “nobile Conversano” in virtù del suo tessuto storico, artistico – a un certo punto della sua storia, nel novembre 2021, qualcuno decise di intraprendere una forte azione di attivismo civico nel segno della rinaturazione.

A dare avvio a questa impresa fu un solido tessuto sociale fiorito dal basso intorno ai fili dell’ecologia, dell’ambientalismo antiretorico, dell’urbanistica buona, del paesaggismo concreto, dell’agronomia dissidente. Un reticolo organico reattivo a cui abbiamo dato per nome Rizomi e come obiettivo a breve termine l’acquisto collettivo di un pezzo di territorio agricolo dei più rari ancora esistenti nel circondario. Si, perché il nodo forte intorno al quale si sviluppa il nostro tessuto sociale è quello del paesaggio rurale.

La geomorfologia e le condizioni pedoclimatiche di questa porzione di bassa Murgia del sud est eleggevano l’intera zona a elevata vocazione agricola e sin dai primordi dell’agricoltura moderna facevano di Conversano e del suo agro una collezione di giardini fruttiferi, di orti variegati, di “chiusure “di olivi che si aprivano verso i bassi vigneti del primitivo, dell’antinello e di carrubi, sui terreni verso il mare e campi di grano e prati foraggeri sui terreni più alti.

Tutto questo in completa sintonia con i modi tipici di quell’”umanesimo della pietra” che faceva dell’elemento minerale sovrabbondante una vera e propria risorsa: sorgevano le masserie, gli iazzi i palmenti e le cisterne; i banchi rocciosi affioranti, se divelti dal terreno, venivano sagomati e sistemati a secco prendendo le forme di muretti, specchie, trulli, caselle pagliai.

Ci fu un tempo in cui anche il patrimonio boschivo di Conversano era consistente: si possono ricordare i due nuclei principali e cioè i 1700 ettari di terreno forestale detto Macchione e i 600 ettari del bosco di masseria San Pietro. Ma tra la fine del ‘700 e la prima parte dell’800 la maggior parte di questo tesoro veniva drasticamente impoverito e avviato a coltura, per effetto di vicende giudiziarie, espropriazioni, frazionamenti e vendite che colpirono i nobili proprietari al tramonto della feudalità.

Si apriva così la stagione delle grandi trasformazioni fondiarie portate avanti dalla pletora di coloni e mezzadri, ma soprattutto dalla figura del piccolo proprietario contadino, e facilitate dalle superfici poco acclivi e per lo più in piano che in complesso caratterizzano il territorio comunale. A questo intenso processo si deve la irrisorietà della percentuale a “bosco” all’interno dei catasti e delle statistiche che descrivevano gli ordinamenti colturali durante l’intero secolo passato.

Con l’avvento della meccanizzazione e sotto le direttive della rivoluzione verde, quell’agricoltura fatta di piccoli spazi, di margini di vegetazione selvatica e di ricerca di quell’autonomia contadina che si traduceva in un’estesa diversificazione colturale ha smesso di essere tale, prendendo la via dell’agroindustria capitalistica basata sulle leggi del più grande, più forte e più veloce. A farne le spese è stato – e lo è tutt’ora – il paesaggio rurale con tutti gli elementi antropici di cui è disseminato.

La necessità di spazi sempre maggiori per raggiungere economie di scala ha portato e porta attualmente ad accorpamenti fondiari e livellazioni superficiali che fagocitano ogni bordura, ogni angolo selvatico, ogni muretto a secco, in profondo sfregio al recente riconoscimento degli stessi, e dell’arte costruttiva, patrimonio culturale immateriale dell’umanità da parte dell’Unesco. Complice una legislazione regionale in materia agricola votata all’agribusiness, si riconducono a coltura anche quei terreni più impervi della gariga murgiana, gli arbusteti della macchia mediterranea, i pascoli aridi e con una semplice dichiarazione di miglioramento fondiario si è in regola per cancellare interi uliveti e svellere piante secolari.

Questa è la riflessione di fondo che sostanzia l’agire degli attivisti di Rizomi e non avremmo potuto scegliere nome migliore che ci identificasse. La figura dei rizomi, sotterranei reticoli radicali che si sviluppano orizzontalmente con una crescita indefinita e capaci di connettere ma anche di scalzare pavimenti duri, si presta del tutto come significante di questo primo atto: l’acquisto di un bosco.

È già stata avviata una raccolta fondi che permette di partecipare a questa compravendita simbolica ma performante, politica nel vero senso della parola. Un bosco che resiste ancora, di fianco a estensioni di ettari ed ettari di vite coperta con plastica; un bosco che è l’ultima parte di una intera collina delinquenzialmente spogliata e violentata nella sacralità di un vincolo archeologico e paesaggistico; un bosco in virtù del quale il legislatore regionale prescriveva e segnava in cartografia un’area di rispetto che è stata anch’essa illegalmente usurpata ai fini dell’industria dell’uva da tavola. In un certo senso l’acquisto collettivo di un bosco vuol dire che la comunità si fa carico della protezione di un luogo naturale più e meglio di quanto potrebbe fare un vincolo legislativo o un’indicazione di tutela urbanistica. Ed è la stessa comunità che reagisce a quegli ordinamenti di politica economica che vorrebbero fare di Conversano l’avamposto della monocoltura dell’uva da tavola del sud est barese, che già oggi rappresenta più del 20% della superficie agricola utilizzata.

Ma è anche la reazione all’immobilismo dispotico di un’amministrazione locale ultradecennale comodamente assisa su posizioni agro-liberiste, che preferisce lasciare le sue campagne al libero gioco (giogo) del mercato. La stessa che non ha volontà di istituire l’Ente che gestisca la sua Riserva Regionale Orientata dei Laghi e Gravina di Monsignore, in cui ad oggi sono disattesi tutti gli obiettivi di tutela. Un’amministrazione che non ha alcuna intenzione di adeguare i suoi strumenti urbanistici, in merito al territorio rurale, al sovraordinato piano regionale. La stessa amministrazione che conosce ma ignora un “Regolamento agro forestale”, redatto da più di vent’anni, ostacolato nella sua attuazione e finito smarrito tra gli scaffali comunali. Un’amministrazione che ignora anche un “Regolamento per le attività di trasformazione nel territorio agricolo”, approvato con una delibera del 1993, il quale prescrive il divieto assoluto di abbattimento e frantumazione delle pareti a secco lungo le strade di campagna, misura semplice ma efficace per scongiurare molte trasformazioni colturali impattanti.

La conversione di un bosco da bene privato a bene comune diventa allora una presa di posizione della comunità civile che si auto-organizza per salvare un luogo importante del suo territorio e definire il suo futuro. Pensare che un tempo i boschi erano interdetti all’utilizzo popolare se non appartenenti al demanio e che il bosco in oggetto ricade all’interno di quello che un tempo era il “feudo di Monteferraro”, estesa proprietà dei conti Aquaviva D’aragona, ha il sapore quasi di un riscatto e questa riconduzione al pubblico equivale a voler ristabilire, in chiave moderna, quegli usi civici, quel diritto all’uso popolare di una risorsa locale, diritto sempre incerto e instabile, legato alla dialettica feudo-demanio. Con questo acquisto più che assecondare la richiesta di utilizzare un bosco c’è la voglia di far vivere il bosco, nei due sensi: quello di preservarne la sua evoluzione ecosistemica e di permettere alla gente di fare esperienza del bosco, del selvatico. Con l’obiettivo ultimo di provocare la nascita di connessioni naturali, di visioni condivise, di vie di fuga per il desiderio che solo un approccio rizomatico, a detta della geofilosofia di Deleuze e Guattari, saprebbe farci appiedare nella nuova visione del mondo che vogliamo, senza riprodurre ma creando.

Allora non resta che scoprire questo luogo: il bosco si apre a noi con una radura occupata, nella parte più bassa, da una grande cisterna in pietra che ancora raccoglie l’acqua di scorrimento superficiale della zona circostante e si ha già di fronte l’imponente immagine di una quercia maestosa. È un fragno ultracentenario che proprio in dicembre cambia il colore al suo mantello fogliare offrendo sfumature cromatiche sensazionali, prima di abbandonarlo quasi del tutto nei mesi a venire, essendo una semi-caducifoglia. Il bosco inizia di qui e, forte della protezione di questo “nume tutelare”, va a uniformarsi su una superficie di circa sei ettari, gran parte dei quali un intrico di vegetazione che reclama il suo “please do not disturb”. Con rispetto e curiosità, meraviglia e leggerezza percorriamo i due sentieri che ci portano davvero a contatto con questo mondo umbratile, silenzioso ma perennemente in divenire.

Per chi volesse contribuire al progetto, queste sono le informazioni per effettuare un versamento:
Codice IBAN: IT96A0501804000000017119231
Ragione sociale e indirizzo del ricevente: Ass. Rizomi O.D.V.
Causale: Donazione per bosco bene comune + Nome Cognome
Istituto bancario del beneficiario del bonifico: Banca Etica Filiale di Bari, Via Ottavio Serena, 30, 70126 Bari BA
Info: 
rizomipuglia@gmail.com

Fonte: https://www.italiachecambia.org/2022/01/rizomi-bosco-comunita/?utm_source=newsletter&utm_medium=email

Green4Women: le donne che hanno perso il lavoro creano ricette per la comunità

La pandemia e l’isolamento, come testimoniano i dati, hanno aumentato le situazioni di solitudine, violenza domestica e perdita di lavoro per molte donne. Per questo motivo l’associazione Cambalache di Alessandria ha dato vita al progetto Green4Women, che accompagna le donne selezionate in un percorso di inserimento lavorativo attraverso un progetto di agricoltura sociale e di realizzazione di prodotti alimentari che valorizzano il territorio.

Alessandria – In che modo si può rispondere alla necessità di inclusione sociale e lavorativa delle donne e allo stesso tempo agire contro la violenza di genere? Ve lo raccontiamo oggi con Green4Women: progetto ideato ad Alessandria dall’associazione Cambalache in collaborazione con il Centro Antiviolenza Me.dea e con il sostegno del Fondo di Beneficenza di Intesa Sanpaolo. Un progetto che si sta occupando di attivare percorsi di empowerment, formazione e autonomia a partire dall’agricoltura sociale.

Un aiuto alle donne in difficoltà lavorativa

La pandemia da Covid19 ha pesato a livello sociale soprattutto sulle donne, da una parte aggravando e ampliando le situazioni di violenza domestica, dall’altra incidendo negativamente sul tasso di occupazione. Nel complesso le opportunità di impiego sono diminuite e, come dimostrano gli ultimi dati Istat, nel 2020 su 444mila lavoratori in meno, 312mila sono donne. Per questo motivo, fin dal suo avvio, Green4Women ha puntato a rispondere alle necessità derivate dalla perdita di posti di lavoro e di opportunità: così, in una fase iniziale, il progetto ha coinvolto un gruppo di 12 donne individuate e selezionate in collaborazione con Me.dea e si è occupato di insegnare loro le tecniche di agricoltura sinergica e di coltivazione delle erbe aromatiche. Le attività si sono svolte presso il Polo Agricolo Sociale gestito da Cambalache presso il Parco comunale del Forte Acqui di Alessandria. Un “luogo del cuore”, dove l’associazione da anni lavora con progetti di formazione e inclusione lavorativa, cercando di offrire nuove opportunità a sempre più persone in situazione di vulnerabilità. Successivamente sono stati attivati dei tirocini formativi presso Cambalache e destinati a tre donne. Durante il progetto non sono mancate attività negli orti sociali e nel laboratorio alimentare dell’associazione e le partecipanti hanno potuto approfondire le tecniche di essiccatura, trasformazione e confezionamento degli alimenti. Il percorso ha previsto anche momenti di orientamento al mondo del lavoro, per la ricerca di nuove opportunità di impiego nel settore agricolo e alimentare.

Green4Women: dal ricettario al nuovo marchio di prodotti vegetali

Il percorso, in vista del Natale, ha dato vita ai prodotti Green4Women: un marchio di alimenti vegetali essiccati e uno speciale ricettario elaborato in collaborazione con Enaip PiemonteI prodotti ottenuti sono coltivati negli orti sociali di Cambalache e lavorati dalle donne protagoniste del progetto, per arrivare direttamente in cucina e in tavola: dai preparati per risotti con verdure essiccate alle polveri di zucca e peperoncino da utilizzare in cucina, dall’origano alla tisana e alle verdure disidratate. Ma lavorare per l’autonomia e l’inclusione vuol dire anche instaurare sinergie positive sul territorio. In questo modo è nata l’idea del ricettario, realizzato in collaborazione con Enaip Piemonte – sede di Alessandria e grazie alla creatività dello chef Mattia Piras e degli studenti della Classe Terza del corso Operatore della ristorazione. Dopo aver approfondito a loro volta la tecnica dell’essiccatura, i futuri chef hanno ideato una serie di ricette con alcuni dei prodotti a marchio Green4Women e altri prodotti degli orti ed essiccati nel laboratorio alimentare di Cambalache. Il ricettario, disponibile anche online, contiene otto proposte che hanno la forza di mettere in connessione un importante progetto sociale rivolto all’inclusione lavorativa delle donne con i percorsi di crescita di un gruppo di giovani che stanno costruendo il proprio futuro lavorativo.

Cambalache, da diversi anni, ha dimostrato essere un modello alternativo per l’inclusione e l’integrazione. Percorsi destinati a giovani migranti, donne sole o vittima di violenza, richiedenti asilo e persone escluse sono soltanto alcuni esempi virtuosi di una realtà che, giorno dopo giorno, lavora con impegno per promuovere la crescita del territorio e una società non discriminatoria ma inclusiva, accogliente e multiculturale.

I prodotti Green4Women sono acquistabili nel negozio di Cambalache in piazzetta Monserrato 7/8 ad Alessandria, oppure direttamente online sul sito dell’associazione.

Fonte: https://www.italiachecambia.org/2021/12/green4women-donne-lavoro/?utm_source=newsletter&utm_medium=email

Piantare una food forest per seminare il futuro di una comunità

Katia e Roberto vivono tra le colline reggiane e sognano di realizzare una food forest, uno spazio aperto alla comunità di cui potersi prendere cura tutti insieme. Non si tratta di un semplice progetto di rimboschimento, ma di un percorso verso l’autoproduzione nel rispetto del legame profondo che ci unisce alla natura.

Reggio EmiliaEmilia-Romagna – Come si crea una food forest? Di quali cure e manutenzione ha bisogno? La food forest – ovvero foresta commestibile – è un vero e proprio ecosistema di piante, animali, microrganismi ed esseri umani. A differenza di un orto o un campo coltivato, non richiede cure costanti o di essere seminata ogni anno. È un sistema complesso in grado di autoregolarsi, esattamente come accade per boschi e foreste, e di offrire gli stessi servizi ecosistemici oltre a un’ampia varietà di erbe officinali, piante e frutti commestibili. Alle porte di Reggio Emilia, tra le morbide pendici delle colline reggiane, Katia e Roberto sognano di piantare una grande food forest insieme ad amici, familiari e chiunque desideri dare il proprio aiuto. Dopo una vita trascorsa in città si sono trasferiti a Montalto (Vezzano sul Crostolo) per coltivare il sogno di una vita semplice, che assecondi i ritmi della campagna. Psicologa lei, professore di filosofia e counselor lui, poco più di un anno fa hanno creato l’associazione culturale “Il Passo Oltre lo Specchio”, che si occupa di ambiente, crescita personale e arte, partendo da un approccio olistico.

Su una parte del terreno alle spalle della loro abitazione hanno avviato un progetto di rimboschimento, in collaborazione con “Città di Smeraldo APS” e “Simbiosi Magazine”: «Abbiamo già messo a dimora cinquecento piante autoctone, partendo da ghiande di alberi secolari – mi raccontano – nell’ambito di “Nuove Antiche Foreste”, iniziativa che mira a ricreare aree di bosco per favorire la biodiversità e contrastare il cambiamento climatico».

Punteggiate di case sparse, sentieri e borghi abbandonati, queste colline ospitano alcuni dei più antichi boschi autoctoni di pino silvestre dell’Emilia Romagna. Qui la qualità dell’aria ha sorprendenti proprietà balsamiche, come attestato dagli ultimi rilevamenti del CNR. A lungo rimaste spopolate, le frazioni di queste pendici sono tornate a essere meta ambita per chiunque desideri una vita più semplice e lenta. Ma per ricucire questa comunità frammentata e dare nutrimento a un territorio a lungo sfruttato dalle colture intensive, occorre tempo. Per Katia e Roberto quello della food forest è un progetto ambizioso e una piccola eredità da consegnare alla comunità di oggi e a quella che verrà: «Ci piacerebbe realizzarla nel terreno alle spalle di casa nostra, ma vorremmo che sia di tutti», mi raccontano. «Uno spazio in cui i bambini possano venire a giocare, esplorare e apprendere. In cui ritrovare sé stessi, meditando, passeggiando o semplicemente sedendo sotto un albero a leggere».

Da settembre scorso, grazie a una campagna di crowdfundingKatia e Roberto hanno avviato un corso su come progettare e piantare una food forest grazie all’aiuto di Stefano Soldati, esperto di agricoltura alternativa, fondatore e primo presidente dell’Accademia Italiana di Permacultura. Fra i massimi conoscitore di foreste commestibili in Italia, Soldati lavora da circa quarant’anni come consulente per il recupero di terreni, contribuendo alla conversione al biologico di ettari ed ettari di seminativi.

«Quando si progetta una food forest (a questo è stato dedicato il primo modulo del corso, ndr), non si tratta soltanto di scegliere quali piante mettere a dimora. È importante cogliere la saggezza dell’ecosistema – racconta Roberto –, ogni albero ha i suoi tempi e le sue risorse: ci sono quelli da frutto e poi ve ne sono altri, come la robinia, ottima per la legna, perché cresce in fretta ed è in grado di nutrire il terreno, in quanto azotofissatore». All’inizio una food forest ha bisogno di cure, i giovani alberi vanno protetti perché facile preda di animali e parassiti. Con il tempo, la foresta commestibile sarà autonomamente in grado di tenere lontani i parassiti, grazie a piante apposite, fornire nutrimento per la comunità e per gli altri animali. I partecipanti del corso, guidati da Stefano Soldati e da un po’ di fantasia e intuito, si sono cimentati nella progettazione di una possibile food forest. Questa si presenta come un sistema stratificato: si va dalle piante grandi, ovvero la struttura portante della foresta, alle intermedie, dalle cespugliose fino alle specie tappezzanti e le radici. Tra le varietà si possono contare le lianose o rampicanti e quelle acquatiche. Realizzare una piccola riserva d’acqua in una food forest consente di ricreare un piccolo microclima dove verranno attratti insetti in grado di allontanare quelli dannosi, anfibi e animali selvatici, che potranno abbeverarsi. A fine novembre si è tenuta l’ultima parte del corso e sono state messe a dimora le prime piante. Katia e Roberto vorrebbero organizzare diverse attività all’interno della food forest: incontri di meditazione, mindfulness, attività con i bambini, performance artistiche. Sarà uno spazio aperto, non vi saranno confini o recinti. Tutti potranno venire a raccogliere o semplicemente trascorrervi del tempo. «In Emilia Romagna nessuno è più in grado di riconoscere le erbe spontanee. È un’abitudine che si è persa da generazione», racconta Katia. La food forest infatti nasce anche per riportare in vita tradizioni scomparse con il graduale abbandono di queste colline. Certo, ci vorrà del tempo, ma per dirla con Riccardo Ferrari, chi pianta gli alberi vive due volte, o forse molte di più.

Fonte: https://www.italiachecambia.org/2021/12/food-forest-colline-reggiane/?utm_source=newsletter&utm_medium=email

Wonder Bee, l’apiario costruito dalla comunità che fa bene ad api e persone

Nello splendido contesto di Grottole, un antico borgo protagonista di un progetto di rilancio e rivitalizzazione, sta nascendo Wonder Bee. La comunità si è attivata per costruire insieme un apiario integrato, una struttura in cui le api possano vivere e svolgere la loro attività e gli esseri umani possano trarre benefici fisici dal lavoro di questi animali, ma anche imparare a conoscerli e apprezzarli. Gli obiettivi? Realizzare un prototipo di apiario replicabile ovunque, diffondere l’importanza della biodiversità e cementare i legami sociali.

MateraBasilicata – C’è una società studiata e ammirata da tutti: matriarcale, monoginica e pluriannuale, formata da numerosi individui appartenenti a tre caste, tutte alate! Lavoratrici instancabili, le operaie di questa specie sono in grado di comunicare alle compagne l’esatta ubicazione di una nuova fonte di cibo attraverso una particolare “danza” che non solo indica il punto esatto dove andare a prelevare il cibo, ma anche quanto ne sia disponibile. Aggressivo solo quando percepisce una minaccia per sé oppure per il gruppo, ogni esemplare della specie è disposto a sacrificare perfino la propria vita per il bene collettivo! Da loro dipende la maggior parte della riproduzione delle piante e molti altri sono i benefici che portano a tutti gli esseri viventi: tutela della biodiversità, garanzia della sicurezza alimentare, promozione di un’agricoltura sostenibile, contrasto ai cambiamenti climatici, all’inquinamento degli agro ecosistemi, e promozione delle metodologie innovative per il monitoraggio ambientale. Eh sì, questo meraviglioso mondo, è il mondo delle api che il progetto Wonder Bee vuole sostenere. L’avventura di Andrea Paoletti e Mariella Stella, fondatori dell’Associazione Casa Netural, ha inizio nel 2013, quando arrivano a piedi a Grottole, piccolo paese della provincia di Matera. Andrea è un architetto piemontese di nascita, ma da dieci anni vive a Matera dove ha aperto Casanetural, uno spazio di coworking e coliving. Quando i due arrivano nel paesino e incontrano Silvio Donadio, nativo del paese e molto attivo già da anni per la riscoperta e la valorizzazione socio-culturale delle sue radici. Ed è subito amore: insieme Iniziano una relazione virtuosa e avviano numerosi progetti di innovazione sociale che confluiscono in Wonder Grottole.

«Wonder Grottole è una srl impresa sociale nata nel 2018 con l’obiettivo di riabitare e rigenerare il centro storico attraverso pratiche che valorizzino ciò che già esiste sul territorio sfruttando il sapere locale per dare nuova veste al nostro grande patrimonio materiale e immateriale. È un laboratorio di sperimentazione dove esplorare nuove pratiche legate all’innovazione sociale. L’oggetto sociale della nostra impresa, con un forte impatto sui territori, è quello di rigenerare il centro storico di Grottole e creare nuovi modelli per i piccoli borghi italiani».

Il loro scopo dunque è capire come certe pratiche possano avere un buon impatto sulle realtà rurali e più marginali, con visioni a lungo periodo e metodi ben strutturati: «Il nostro approccio era volto a fare innovazione nei piccoli borghi in una maniera disegnata a tavolino valorizzando tutto il patrimonio edilizio, agricolo, ma anche sociale e culturale in loco coniugandolo con il saper fare locale», spiegano. Per questo Wonder Grottole dà spazio a progetti nati sul territorio trovando persone che abbiano sogni e idee innovative e virtuose e offrendo loro supporto e strumenti per realizzarle al meglio. È a questo punto della favola che, nel 2020, entra in scena Rocco Filomeno, apicoltore e parrucchiere di Grottole che integra perfettamente le sue due vite per il bene comune. Il suo amore infinito per le api lo porta fare corsi di apicoltura e a vincere numerosi premi per il miglior miele italiano. Rocco, oltre a tagliare i capelli, fa l’apicoltore nomade, portando in giro le arnie per smielarle in quei campi dove c’è la migliore coltura, biologica e di qualità. Dall’unione di tutte queste sinergie, risorse e forze della natura di Grottole nasce il progetto Wonder Bee, ideato e progettato da Rocco con il supporto di tutto il team di Wonder Grottole. Qualche mese fa infatti, l’apicoltore comincia ad interessarsi agli apiari integrati: «Una sorta di baita in legno circondata da arnie. Così, mentre producono il miele, le api rilasciano in aria enzimi che fanno bene all’uomo. Quando si entra nella casetta si viene investiti da un aereosol naturale che fa bene alla salute!», ci spiega Andrea. Il progetto di Wonder Bee viene accolto da Wonder Grottole e, per supportarlo, vengono convocati Davide Tagliabue e Carlo Roccafiorita, progettisti specializzati nell’autocostruzione. I due non ci pensano due volte a realizzare e valorizzare l’idea di Rocco Filomeno. L’apiario integrato infatti va progettato con un desing innovativo, realizzato nella giusta forma in modo che la casetta di legno possa integrarsi al meglio con le arnie attorno che lo alimentano.

«La prossima estate, con gli abitanti di Grottole, costruiremo a mano la struttura, così che le persone prendano consapevolezza dell’identità e del valore del luogo arrivando a percepirlo come casa e come valore aggiunto per tutta la comunità», spiegano i promotori del progetto. Il loro obiettivo dunque è realizzare un primo prototipo di apiario integrato di comunità che serva come risorsa per il territorio di Grottole, ma che diventi anche un modello da realizzare e riprodurre in maniera scalare. Per farlo è stata lanciata una campagna di crowdfunding che ha come obiettivo raccogliere 10mila euro per costruire un sogno dal valore ben maggiore.

«Dobbiamo costruire l’apiario e comprare gli sciami delle api. Ma soprattutto vogliamo realizzare una micro-architettura innovativa piena di funzioni e valore, che sia bella da vedere e bella da vivere: le persone che entreranno ne trarranno grande giovamento. Sarà un’oasi del benessere dove faremo terapia con le api.

Sarà un’attrazione turistica e una seconda casa per gli abitanti di Grottole. E sarà anche un’aula didattica per grandi e per bambini che potranno imparare a conoscere il meraviglioso mondo delle api ammirando come questi animali producono il miele e apprendendo l’importanza che questa specie ha per tutti gli esseri viventi e per il pianeta.

Prendiamo dunque esempio dalle api: diventiamo più laboriosi per il bene della comunità. Wonder Grottole e le sue api operaie di Wonder Bee lo stanno già facendo: sosteniamo il progetto di chi si adopera per costruire un mondo in cui il bene di uno sia il bene di tutti e per ristabilire l’equilibrio tra uomo e natura, proprio come fanno le api.

Fonte: https://www.italiachecambia.org/2021/11/wonder-bee-apiario/?utm_source=newsletter&utm_medium=email

Nasce il Badante agricolo di comunità che aiuta le persone anziane nella cura dell’orto

E se le persone anziane e i giovani migranti si incontrassero, per prendersi cura insieme di un pezzo di orto, scambiandosi aiuto e conoscenze? Da questa domanda nasce a Ivrea e Castellamonte il progetto “Badante agricolo di Comunità”, per far incontrare due mondi e due culture diverse per creare comunità.

Torino – Il progetto “Badante agricolo di Comunità” si propone di far incontrare in un’attività di utilità comune due mondi e due culture apparentemente lontane: quello dei giovani migranti richiedenti asilo in cerca di un ruolo attivo nel loro territorio di adozione e quello delle persone anziane residenti sul territorio che necessitano di essere aiutate nella gestione del proprio orto. Il progetto coinvolge due realtà attive a Ivrea e Castellamonte, nel torinese, che sono rispettivamente l’Orto della Palude e l’Orto-giardino sociale: in questi spazi si propone di favorire l’inclusione e una reale integrazione di persone migranti, mettendo in comunicazione il loro bisogno di trovare un ruolo attivo nella comunità di adozione e il bisogno delle persone anziane residenti, delle famiglie che non riescono a prendersi cura del proprio giardino o dei comuni con aree verdi pubbliche che possono essere gestite in compartecipazione con la comunità. Si tratta dunque di un progetto che è anche incontro intergenerazionale, tra due mondi e due culture differenti.

E se le persone anziane e i giovani migranti si incontrassero, per prendersi cura insieme di un pezzo di orto, scambiandosi aiuto e conoscenze? Da questa domanda nasce a Ivrea e Castellamonte il progetto “Badante agricolo di Comunità”, per far incontrare due mondi e due culture diverse per creare comunità.

Torino – Il progetto “Badante agricolo di Comunità” si propone di far incontrare in un’attività di utilità comune due mondi e due culture apparentemente lontane: quello dei giovani migranti richiedenti asilo in cerca di un ruolo attivo nel loro territorio di adozione e quello delle persone anziane residenti sul territorio che necessitano di essere aiutate nella gestione del proprio orto. Il progetto coinvolge due realtà attive a Ivrea e Castellamonte, nel torinese, che sono rispettivamente l’Orto della Palude e l’Orto-giardino sociale: in questi spazi si propone di favorire l’inclusione e una reale integrazione di persone migranti, mettendo in comunicazione il loro bisogno di trovare un ruolo attivo nella comunità di adozione e il bisogno delle persone anziane residenti, delle famiglie che non riescono a prendersi cura del proprio giardino o dei comuni con aree verdi pubbliche che possono essere gestite in compartecipazione con la comunità. Si tratta dunque di un progetto che è anche incontro intergenerazionale, tra due mondi e due culture differenti.

Così gli orti sociali e i giardini diventano lo spazio in cui si fa comunità, luogo di incontro e scambio tra nuovi cittadini e popolazione locale. Il progetto si inserisce infatti all’interno di pratiche virtuose che vedono centrali la riqualificazione delle zone verdi e degli orti sociali in città, con un’attenzione ai valori dell’inclusione sociale e dell’inserimento al lavoro dei più deboli ed emarginati.Il progetto coinvolge gli orti sociali di Castellamonte e di Ivrea, che in invitano i cittadini ad avvicinarsi al tema dell’agricoltura urbana non solo partecipando agli eventi promossi negli orti sociali, ma anche e soprattutto a rendersi disponibili ad accogliere un badante agricolo e coltivare l’orto insieme a lui, iniziando da alcuni mesi di prova. Se l’incontro e la collaborazione avranno esito positivo, sarà possibile continuare ad avvalersi dell’aiuto del badante agricolo, attivando per lui un libretto famiglia. Partecipando al progetto, i cittadini potranno anche trovare supporto e consigli per la coltivazione e la gestione del proprio giardino presso gli orti sociali. Nello specifico, il progetto prevede due fasi: nella prima, due gruppi di giovani migranti parteciperanno a un percorso di formazione in orticultura e manutenzione del giardino, presso i due orti. Nella seconda fase si raccoglieranno le richieste di anziani e famiglie dei due territori e i ragazzi saranno accompagnati, con la mediazione di un tutor, ad entrare nelle case e a iniziare il loro lavoro di “Badante Agricolo”. L’obiettivo è che le famiglie proseguano il rapporto con i ragazzi, anche dopo il termine del progetto, aprendo per loro un libretto di famiglia, in modo da avviare per loro una vera attività lavorativa e concorrere alla loro autonomia.

Così gli orti sociali e i giardini diventano lo spazio in cui si fa comunità, luogo di incontro e scambio tra nuovi cittadini e popolazione locale. Il progetto si inserisce infatti all’interno di pratiche virtuose che vedono centrali la riqualificazione delle zone verdi e degli orti sociali in città, con un’attenzione ai valori dell’inclusione sociale e dell’inserimento al lavoro dei più deboli ed emarginati.Il progetto coinvolge gli orti sociali di Castellamonte e di Ivrea, che in invitano i cittadini ad avvicinarsi al tema dell’agricoltura urbana non solo partecipando agli eventi promossi negli orti sociali, ma anche e soprattutto a rendersi disponibili ad accogliere un badante agricolo e coltivare l’orto insieme a lui, iniziando da alcuni mesi di prova. Se l’incontro e la collaborazione avranno esito positivo, sarà possibile continuare ad avvalersi dell’aiuto del badante agricolo, attivando per lui un libretto famiglia. Partecipando al progetto, i cittadini potranno anche trovare supporto e consigli per la coltivazione e la gestione del proprio giardino presso gli orti sociali. Nello specifico, il progetto prevede due fasi: nella prima, due gruppi di giovani migranti parteciperanno a un percorso di formazione in orticultura e manutenzione del giardino, presso i due orti. Nella seconda fase si raccoglieranno le richieste di anziani e famiglie dei due territori e i ragazzi saranno accompagnati, con la mediazione di un tutor, ad entrare nelle case e a iniziare il loro lavoro di “Badante Agricolo”. L’obiettivo è che le famiglie proseguano il rapporto con i ragazzi, anche dopo il termine del progetto, aprendo per loro un libretto di famiglia, in modo da avviare per loro una vera attività lavorativa e concorrere alla loro autonomia.

Il progetto è promosso con il sostegno del Global Fund for Community Foundations, la Fondazione di Comunità del Canavese, in collaborazione con Consorzi InReTEe, CISS 38, Associazione SE.MI ed ECOREDIA. Un esempio concreto di questa esperienza è il caso dell’Orto della Palude di Ivrea, che ha coinvolto otto ragazzi sotto la guida del formatore Gianpiero Gauna, che con lui  hanno iniziato la lavorazione del terreno e l’impostazione dell’orto. In questo spazio, in cui si organizzano progetti educativi e formativi nelle scuole per diffondere una cultura del rispetto e della sostenibilità ambientale, è stato recentemente sottoscritto un Patto, coinvolgendo il circolo Legambiente Dora Baltea e le Associazioni Ecoredia e Senza Confini, per la cura e la valorizzazione dell’area insieme al Comune di Ivrea.

Fonte: https://www.italiachecambia.org/2021/07/badante-agricolo-di-comunita-orto/?utm_source=newsletter&utm_medium=email

Orizzontale: gli architetti che rigenerano lo spazio pubblico e creano comunità.

La rigenerazione urbana degli spazi pubblici è un processo che si costruisce insieme, con la sperimentazione sul campo e la partecipazione attiva degli abitanti. È questa la filosofia che guida il lavoro di Orizzontale, collettivo di architetti che a Roma porta avanti progetti innovativi di riqualificazione cittadina che mettono al centro la condivisione e le relazioni umane, grazie anche all’utilizzo di laboratori di autocostruzione e di partecipazione attiva. Quella che vi raccontiamo oggi è la storia di Orizzontale, collettivo (pluripremiato) di architetti nato a Roma nel 2010 e che ha fatto dell’architettura, e della progettazione partecipata sul campo, strumenti di indagine transdisciplinare che accorciano le distanze tra il professionista (l’architetto) e le persone che vivono la città e i luoghi. Transdisciplinare perché gli interventi di Orizzontale non si limitano alla progettazione architettonica: l’essenza del collettivo è la collaborazione con altre realtà lavorative e professionali, come ad esempio artisti, comunicatori, fotografi, sociologi e psicologi, allo scopo di riattivare gli spazi comuni e contribuire a processi di rigenerazione urbana che mettano al centro l’abitante dei luoghi.

Il team di Orizzontale

Insieme a Marika Moscatelli, mia carissima amica romana architetto (e molto più ferrata di me su questi temi), li abbiamo incontrati nella loro sede al Quartiere Pigneto, che è anche la zona dove hanno mosso i loro primi passi ancora studenti, attraverso i primi progetti sperimentali di architettura temporanea sul territorio. Il collettivo (ricordiamo i nomi: Jacopo Ammendola, Juan Lopez Cano, Giuseppe Grant, Margherita Manfra, Nasrin Mohiti Asli, Roberto Pantaleoni, Stefano Ragazzo) sin dai tempi dell’Università è accomunato da alcuni principi che qui proveremo a tracciare. Per cominciare la progettazione degli spazi pubblici, vero centro d’interesse e motore conoscitivo di Orizzontale, non può essere calata dall’alto ma deve trasformarsi in un processo condiviso, in cui coinvolgere direttamente e pro-attivamente i cittadini che vivono quei luoghi, per riavvicinarli ad essi. Lo riassume bene Margherita Manfra: «Il tema centrale per noi è trovare nuovi modi di abitare lo spazio pubblico e nuovi sistemi di collaborazione, per cercare di ricreare legami di comunità e reinventare delle modalità nuove per stare insieme negli spazi collettivi, accorciando le distanze tra il professionista e i cittadini che vivono lo spazio». Come si fa? Ce lo spiegano nel video che racconta la loro storia.

L’aiuto più importante lo fornisce l’architettura temporanea, lo strumento di indagine e di azione utilizzato nei vari progetti di Orizzontale: all’interno di un determinato spazio pubblico, che può essere una piazza o qualsiasi altro luogo, si testano insieme alle persone coinvolte i possibili usi e destinazioni future dell’ambiente, costruendo insieme oggetti, opere o costruzioni appunto temporanee o non per forza definitive, che si adattano di volta in volta alle esigenze di chi abita il luogo. «L’uso temporaneo ci aiuta a capire come le persone faranno uso di una piazza, ad esempio – ci spiega Margherita – e di conseguenza se questa piazza può avere un indirizzo di ulteriore funzionalizzazione, lo facciamo con una sperimentazione sul campo. La partecipazione significa abitare questo spazio per vedere che tipo di utilizzo dargli».

Se ci si pensa bene, è una forma di progettazione che ribalta i canoni tradizionali cui siamo abituati: con Orizzontale la progettazione di uno spazio non viene calata dall’alto, all’insaputa di chi poi vive quel luogo, ma diventa un vero e proprio bene comune da sperimentare e costruire insieme. «Le architetture leggere ci permettono così di rispondere in maniera anche repentina a dei cambiamenti durante il processo realizzativo dell’opera – spiega Roberto Pantaleoni – ma soprattutto vogliono sperimentare possibili usi dei luoghi in cui interveniamo, in modo tale da poter programmare anche modificabilità future del progetto».

La dinamica di coinvolgimento dei cittadini ricalca modalità che abbiamo spesso visto in giro per l’Italia documentando diversi progetti innovativi e originali: una forma di diffidenza iniziale «che quasi sempre si trasforma in grande entusiasmo quando si cominciano a vedere i primi risultati. Le persone che inizialmente dubitavano del progetto le ritrovi a darti una mano, anche solo nel portarti una merenda o in altre dinamiche umane di relazione diretta con le persone che poi abitano i luoghi dove vai ad intervenire. Che sono la committenza reale a cui ci ispiriamo».

I laboratori e l’autocostruzione

Già, ma come si coinvolgono le persone in questo processo? Uno degli strumenti sono i laboratori di autocostruzione, parte integrante dei vari interventi di Orizzontale. Le persone partecipano all’idea, ma ci mettono anche la faccia e le mani lavorando attivamente alla costruzione dei luoghi.

«Noi solitamente differenziamo i cantieri di costruzione in due differenti modalità – ci spiega Giuseppe Grant – che chiamo “Cantiere di Costruzione” e “Cantiere Didattico di Costruzione”. Solitamente nel primo tipo di cantiere sono richieste competenze più approfondite rispetto al materiale o agli attrezzi che usiamo, mentre nei Cantieri Didattici prevediamo una maggiore sperimentalità».

Allo scopo di avvicinare le persone alla costruzione, che nel caso di Orizzontale si attua soprattutto grazie al legno, Orizzontale organizza dei corsi di formazione che prevedono un graduale inserimento all’utilizzo degli attrezzi, per portare poi tutti i partecipanti, alla fine del laboratorio, a possedere una minima competenza di utilizzo di tutte le attrezzature. «Per noi questa modalità di collaborazione diventa anche lo strumento per apprendere più che per insegnare – ci racconta Roberto Pantaleoni – dato che in alcuni progetti ci è capitato di collaborare con alcuni cittadini che avevano delle professionalità specifiche nella costruzione, da cui abbiamo imparato molto».

Gli scarti

Elemento fondamentale dell’esperienza di Orizzontale è anche il rapporto con lo scarto, non solo materiale e urbano ma anche legato all’immaginario. Sin dall’inizio della sperimentazione del collettivo, i luoghi spesso dimenticati dalle grandi trasformazioni e dalle pianificazioni centralizzate («non dimentichiamoci che noi siamo cresciuti umanamente e professionalmente durante gli anni dell’edificazione di giganteschi centri commerciali e di quartieri ad essi collegati», ci ricorda Roberto), i “rifiuti urbani” rappresentati da spazi residuali mai utilizzati, sono il cuore dei vari interventi.

«Il tema del rifiuto ce lo portiamo dentro fin dai nostri esordi – ci spiega Giuseppe Grant – Abbiamo fatto confluire le risorse che la città ci dava, in termini di residui e di scarti. Queste risorse sono diventate fondamentali per impostare il nostro lavoro, che poi si basa principalmente sul dare una risposta architettonica che partiva da pratiche più vicine alla performance, all’arte pubblica, con piccoli interventi di natura temporanea che però ci permettevano di mettere in sinergia queste risorse che la città ci dava in termini di scarti materiali, materiali di riciclo, spazi abbandonati, usi dimenticati della città. Tutto questo ci ha dato la possibilità di reinterpretare il luogo che abitiamo, sia come abitanti che come professionisti».

Concludo questo articolo con il suggerimento di guardare con i vostri occhi alcuni dei lavori di Orizzontale, che vengono mostrati anche nel video e che ben condensano la visione che guida questo progetto.

Iceberg

L’Argo – Perestrello 4.0

Costruire Largo Milano, all’interno del Progetto ZAC

Per ascoltare l’intervista integrale clicca qui.

Fonte: https://www.italiachecambia.org/2020/10/orizzontale-architetti-rigenerano-spazio-pubblico-creano-comunita-io-faccio-cosi-304/?utm_source=newsletter&utm_medium=email

Una comunità nella Natura che ha preso vita durante la pandemia

Daniela e la sua famiglia sono in viaggio da tempo per sperimentare nuovi stili di vita, liberi e nomadi; poi è scoppiata la pandemia. Come a volte accade, la crisi è diventata un’opportunità e il piccolo gruppo ha scoperto un villaggio in mezzo alla Natura dove trascorrere la quarantena e praticare la vita comunitaria.

 “Insieme di persone unite tra loro da rapporti sociali, linguistici e morali, vincoli organizzativi, interessi e consuetudini comuni: comunità nazionale, cittadina; agire nell’interesse della comunità; comunità umana, la società degli uomini, il consorzio umano; comunità di affetti, la famiglia”.

Questo è il significato generale che troviamo sul dizionario della lingua italiana alla voce Comunità. L’immaginario che si crea intorno a questo termine, oggi più che mai, rimanda la maggior parte delle persone a un bisogno insoddisfatto di condivisione e calore, a contesti lontani e non quotidiani, resi ancora più distanti dalla spaccatura sociale causata dall’isolamento forzato dopo gli ultimi accadimenti mondiali.

Dalla cima di una collina, ecco la terra che ci ha ospitato durante la quarantena, vicino a Odemira, Portogallo.

Se ritorniamo al significato proprio del termine, comunità è un concetto molto ampio e può riguardare ogni gruppo di persone che sceglie consapevolmente di dichiarare come comuni dei valori e delle pratiche di vita, e lavorare insieme per portarle avanti e rispettarle. Un condominio ospita potenzialmente una comunità; un quartiere, una squadra di lavoro, una scuola, un gruppo sportivo, un insieme di persone che condividono un progetto o una passione, sono terreni fertili per coltivare il senso di comunità. Ma da dove si comincia a costruire un progetto comune, soprattutto quando si parla di comunità di vita quotidiana? Identificare il progetto e i valori sui quali fondarlo è sicuramente il miglior punto di partenza. In questo primo passo è insita la necessità individuale e familiare di avere ben chiaro quale sia il proprio progetto di vita e su quali valori vuole essere fondato, step fondamentale per poi confrontarsi con gli altri, accettarne le differenze e trovare compromessi e soluzioni, dove possibili. Questo primo gradino, che sembrerebbe il più semplice, è tuttavia molto delicato: conoscere se stessi, i propri bisogni, lavorare per portare alla luce la propria visione di vita richiedono un lavoro di introspezione profonda. Io e la mia famiglia, per scoprire noi stessi, siamo andati alla ricerca della nostra visione con un camper, in giro per il mondo.

Le intense esperienze condivise insieme hanno unito grandi e piccoli, creando un clima di genitorialità condivisa.

Sembra paradossale pensare di fare il primo passo verso la costruzione di una comunità abbandonando il tessuto sociale nel quale si vive e girare il mondo, liberi da qualsiasi vincolo con altre persone. Invece questa scelta ci ha permesso di scoprire cosa davvero ci fa battere il cuore, cosa ci fa vivere sereni, cosa per noi è superfluo, cosa è fondamentale. Ed è successo che, più ci sentivamo a nostro agio nella vita on the road, più i nostri incontri con altre famiglie si facevano frequenti, e più eravamo attirati da persone che avevano scelto una vita simile alla nostra. Scegliere è la strada per trovare il proprio cammino. Lo scorso autunno, scegliendo di lasciare definitivamente le quattro mura che ci legavano al territorio lombardo, abbiamo deciso di dare spazio alla vita che sentivamo corrispondesse ai nostri valori e l’abbiamo seguita. E più le davamo spazio, più la nostra visione si palesava ai nostri occhi e nelle nostre vite.

Il nostro cammino, che ci ha condotto in Portogallo passando per Francia, Spagna e Marocco, si è incrociato nuovamente con quello delle famiglie con cui sentivamo di avere un legame profondo e, spontaneamente e senza forzature, gli avvenimenti vissuti insieme ci hanno condotto su un sentiero comune.

Appena sapute le restrizioni portoghesi per arginare l’epidemia covid, cerchiamo di trovare soluzioni per poter stare insieme, in luoghi isolati dell’Algarve e vicino all’oceano, che purtroppo si sono dimostrate non conformi alle leggi decise dalle istituzioni statali. Mentre eravamo in riva al mare, con amici vecchi e nuovi, su una bellissima spiaggia dell’Algarve, siamo stati travolti dallo tsunami della pandemia mondiale, che ci spingeva ad allontanarci uno dall’altro e a trovare ognuno una casa in affitto o a tornare ai nostri paesi di origine, per rispettare le normative sulla quarantena. In un momento in cui le istituzioni mondiali chiamavano all’isolamento, noi abbiamo deciso di stare uniti, di cercare un luogo adatto per poter passare la quarantena tutti insieme, trovando rifugio in un grande terreno di un amica tedesca. Proprio lì, in una stupenda radura tra i boschi del distretto di Odemira, abbiamo cominciato a sperimentare cosa volesse dire vivere come una comunità, come un piccolo villaggio, condividere spazi, tempi e progetti. Le assemblee in cerchio sono state un altro passo fondamentale per confrontarci ed esprimere visioni generali su ciò che desideravamo, e a prendere decisioni riguardanti la vita quotidiana, come l’orto comune e lo spazio per i bambini. Ma ancora più importante è stato, giorno dopo giorno, ascoltare noi stessi e gli altri, chiedendoci se ciò che stavamo vivendo corrispondeva a ciò che volevamo per noi e la nostra famiglia; le risposte sincere che ci siamo dati hanno portato a separare la nostra strada da una famiglia con cui non condividevamo lo stesso progetto di vita e, al contempo, hanno rafforzato la coesione con quelle a noi affini. Il passo successivo dopo la quarantena è stato affittare un terreno insieme, dove proseguire il cammino verso il nostro progetto di comunità: un gruppo spontaneo di persone libere, amiche, che non ha doveri o progetti comuni obbligatori, ma condivide il calore dello stare uniti.

Donne, mamme, compagne, amiche, sostenitrici della comunità, camminano insieme sulle radure nel distretto di Odemira, Portogallo. Crescere insieme e imparare quotidianamente uno dall’altro, aiutarsi a vicenda, sorreggersi, costruire un piccolo villaggio in mezzo alla natura, che le sia rispettoso, una cucina comune e uno spazio di apprendimento per i bambini e le bambine, sono le basi su cui abbiamo deciso di lavorare insieme; il resto sarà un fluire di energie, volontà e sincronicità, in cui tutto è possibile e niente è forzato. Chi fosse interessato a seguire il nostro viaggio di vita può trovare informazioni e contatti sul sito www.sentierinontracciati.com oppure su facebook sulle pagine Il mandala acchiappasogni e sul profilo personale Daniela De angelis. Fonte: https://www.italiachecambia.org/2020/07/comunita-natura-durante-pandemia/?utm_source=newsletter&utm_medium=email

La Ristorazione Sociale affronta l’emergenza donando i pasti ai più fragili

Un pasto caldo in dono alle persone più vulnerabili che, a causa delle recenti disposizioni in merito al coronavirus, sono obbligate a stare a casa, sole, senza ricevere alcun supporto. Quella del pasto caldo è l’iniziativa della Ristorazione Sociale della Cooperativa Coompany& che, ad Alessandria, ha deciso di chiudere i battenti ma dedicarsi ai più fragili, mantenendo il suo forte valore sociale e un’attenzione verso i bisognosi. In questi giorni di emergenza da coronavirus, con sforzi e fatica stiamo cambiando le nostre abitudini, per contribuire a ridurre il rischio crescente di una situazione che ci riguarda tutti. Un pensiero di riguardo, però, va alle fasce più deboli: persone fragili e bisognose che si ritrovano in molti casi in situazioni di solitudine proprio in Italia, Paese che, secondo solo al Giappone, conta il maggior numero di anziani al mondo.  In loro soccorso è stato avviato il progetto virtuoso della Ristorazione Solidale di Alessandria, gestita dalla Cooperativa Sociale Coompany& che, proprio come vi abbiamo raccontato in un nostro precedente articolo, nasce per rispondere ai bisogni fondamentali del territorio e alle richieste espresse dalle fasce più deboli.

Come ci racconta il presidente Renzo Sacco, «in questi giorni ci siamo trovati nella doverosa scelta di chiudere la nostra attività, adeguandoci a quelle che sono le direttive dettate dallo stato di emergenza. A un certo punto però ci siamo chiesti: essendo noi una cooperativa sociale che interagisce col territorio, come possiamo dare il nostro contributo ai più fragili? In questi anni abbiamo conosciuto diverse persone che vivono da sole. Persone per le quali rimanere a casa in solitudine, in una situazione di emergenza come questa, può rappresentare un grosso problema».

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A partire da questo presupposto la cooperativa ha deciso di donare pasti a domicilio per i più fragili. «Il nostro obiettivo è fornire a queste persone un aiuto e accompagnarle nelle situazioni più difficili, facendo sì che si possano sentire un po’ meno abbandonate».

L’iniziativa è molto semplice: entro le 10.30 di mattina la cooperativa risponde alle chiamate di coloro che sono direttamente interessati a ricevere il pasto nella propria abitazione o da coloro che segnalano altri casi.

Il menù preparato verrà consegnato all’interno di vaschette ad hoc nei cassoni che normalmente la cooperativa utilizza per la veicolazione dei pasti, con attenzione alle norme igieniche e alla misurazione delle temperature. La cooperativa lo chiama “piatto unico” e consiste in una confezione con due scomparti che contiene un primo e un secondo. Il servizio sarà gratuito e gli operatori che consegneranno il pasto svolgeranno il servizio con mascherina e guanti monouso, evitando di entrare nelle abitazioni.

«Questo è un momento molto delicato per noi e per tutte le realtà che si trovano a fare i conti con la chiusura delle proprie attività. La relazione è infatti il nostro strumento poiché noi sopravviviamo grazie ai nostri clienti e nel momento in cui questa relazione viene a meno, è importante capire come reagire».

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«Abbiamo iniziato consegnando i primi otto pasti, che rappresentano per noi un numero significativo avendo comunicato l’avvio del progetto soltanto un giorno fa. E sappiamo che, per forza di cose, si tratta di un numero che tenderà a crescere nei prossimi giorni. Questa mattina, ad esempio, abbiamo ricevuto la segnalazione della vicina di casa di una signora anziana che vive da sola e non dispone di telefono. Ci ha anche contattati un’assistente sociale dell’ospedale di Alessandria chiedendoci di aiutare delle persone che sarebbero state dimesse e che tornando nelle loro abitazioni non avrebbero avuto compagnia o supporto di alcun tipo».

L’iniziativa porta avanti il lavoro quotidiano che la cooperativa Coompany & svolge sul territorio, dove si occupa principalmente di inserimenti e reinserimenti lavorativi come nel caso di persone con disabilità fisica e cognitiva, giovani con sindrome di down e chi proviene dal mondo del disagio sociale, dalla dipendenza e dalle carceri.

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«Quello che stiamo vivendo in queste settimane è un momento di grande fatica e timore per quello che potrà succedere. Noi abbiamo scelto di ridurre al minimo il rischio per i nostri soci ma allo stesso tempo di concederci un’occasione per contribuire in maniera positiva a quest’emergenza come atto di responsabilità nei confronti della comunità.

Credo questo momento rappresenti una grande sfida per tutti. Agendo insieme è probabile che questa situazione possa incidere positivamente sul senso di comunità. E forse la cosa positiva che può lasciarci questo momento è proprio questa».

Fonte: https://www.italiachecambia.org/2020/03/ristorazione-sociale-affronta-emergenza-donando-pasti-fragili/?utm_source=newsletter&utm_medium=email

Comunità, autosufficienza, ritorno alla terra e resilienza: questo è quello che ci serve

Non poteva andare in altro modo, lo sapevamo perfettamente e lo diciamo da sempre: una società che adora il dio denaro, alla prima crisi, crolla miseramente.

Comunità, autosufficienza, ritorno alla terra e resilienza: questo è quello che ci serve

Non poteva andare in altro modo, lo sapevamo perfettamente e lo diciamo da sempre: una società che adora il dio denaro, alla prima crisi, crolla miseramente. La gente ha così fiducia in se stessa e nello Stato in cui vive, che svuota i supermercati presa dal panico; del resto, se si costruisce una società basata sulla dipendenza energetica e alimentare in primis, i risultati non potevano che essere questi catastrofici in cui veniamo privati anche delle libertà fondamentali.

E perché siamo arrivati a questo punto? Per fare contenti i mercanti che ci vendono qualsiasi cosa e attraverso la pubblicità ci hanno fatto credere di essere nel paese dei balocchi dove tutto si può comprare all’infinito senza nessun problema di approvvigionamento, di inquinamento, di esaurimento risorse. Poi arriva una crisi qualsiasi, vera o presunta che sia, e l’intera Italia si ferma. E questa sarebbe la sicurezza, la modernità, il progresso tanto decantato?   

Se fossimo in un paese che ha a cuore i propri abitanti, la prima cosa da fare da tempo sarebbe stata di garantire il più possibile proprio l’autosufficienza alimentare e energetica; ma, al contrario, nonostante l’Italia sia un paese dalle ricchezze immense in questi settori, siamo fortemente dipendenti sia dal punto di vista energetico che alimentare.

Invece di darci più sicurezza ed autonomia, continuiamo a creare dipendenza e insicurezza. Costruiamo il metanodotto TAP riempiendoci di gas che viene dall’estero e scoppiamo di sole, facciamo arrivare cibo scadente e di bassissima qualità da tutto il mondo, quando in Italia, paese fertilissimo e baciato da una posizione geoclimatica eccezionale, si potrebbe produrre di tutto. Si spera quindi che non ci sia bisogno di ulteriori drammi per capire che la vera soluzione sta nell’aumentare il più possibile l’autosufficienza energetica e alimentare, ricostruendo i legami comunitari distrutti da un sistema che per guadagnare ci vuole tutti individualisti e dipendenti, con i pessimi risultati che si vedono in questi giorni. Ovvio quindi che bisogna collaborare e anche ripensare un graduale ma deciso ritorno alla terra, non solo per la pura e semplice sopravvivenza ma anche per la tutela, salvaguardia del territorio e delle basi della vita. E speriamo che finalmente la si smetta di dire che non è realistico coltivare la terra e ripopolare le campagne.

Ma elenchiamo ancora una volta il perché è necessario e possibile.

1) L’Italia è strapiena di posti abbandonati e campagne che vanno in rovina e i luoghi sono così tanti che sono ormai molte le proposte degli stessi Comuni per fare ritornare le persone, anche dando contributi, vendendo le case a un euro, ecc. E spesso chi ne approfitta? Gli stranieri che apprezzano ben più di noi le nostre meravigliose ricchezze.

2) Anche in città è possibile creare le condizioni di resilienza diminuendo drasticamente gli sprechi e creando orti ovunque sia possibile; certo bisognerà smettere di cementificare per speculare producendo edifici vuoti ma invece ridare alla città spazi verdi e coltivabili. Del resto non stiamo dicendo nulla di fantascientifico, dato che ormai già varie città al mondo si stanno orientando in questa inevitabile direzione.

3) In Italia si continua a cementificare e ci sono milioni di alloggi vuoti e tantissimi sono proprio in zone di campagna; non si può certo dire che non ci sia posto.

4) Per avere una buona produzione agricola non servono chissà quanti ettari e coltivare la terra non è più il massacro di fatica che ci raccontano i nonni. Con le varie tecniche e conoscenze di agricoltura biologica e naturale di tutti i tipi che stanno nascendo come funghi,  la fatica si è ridotta di molto e le rese sono migliori dell’agricoltura chimica, soprattutto nei piccoli appezzamenti. Su questi aspetti si veda il bellissimo libro Abbondanza miracolosa che sfata tutti i falsi miti che dicono che l’agricoltura chimica sia più produttiva di quella biologica.

5) In Italia meno del 4% delle persone lavora nel campo agricolo e la stragrande maggioranza di questo 4% esercita una agricoltura di dipendenza totale dai combustibili fossili.  L’inversione di tendenza è quindi inevitabile se si pensa che fino agli anni sessanta (non mille anni fa), le persone impegnate in agricoltura erano il 30%.

In merito all’autosufficienza energetica, un paese pieno di sole, dalle potenzialità geoclimatiche immense, è agonizzante, ancora attaccato alla flebo dei combustibili fossili che generano costi, rischi enormi, inquinamento e ci tengono dipendenti dall’estero. Sarà il caso di cambiare rotta? Ognuno di noi può ridurre drasticamente gli sprechi a parità di confort e potenzialmente autoprodursi l’energia che gli serve e anche in città si possono fare moltissimi passi avanti in questa direzione. Quindi agendo così non solo ridurremmo dipendenza, inquinamento e spese ma daremmo da lavorare a milioni di persone nei settori che sono per noi vitali come quelli agricoli ed energetici. Ritrovare poi il senso di comunità è la soluzione alla disperazione, solitudine, paura e senso di dipendenza. Ricostruire i legami comunitari significa anche far fiorire lo scambio, la conoscenza, la cultura e la resilienza cioè la capacità di reagire efficacemente a cambiamenti improvvisi. E tutto questo si può fare senza limitare le libertà di nessuno anzi esaltando la libertà, le qualità e l’intelligenza di ognuno. I soldi, e le carte di credito potranno ben poco in situazioni di emergenza dove se non sai coltivare, se non sai produrti energia, rimani con i tuoi soldi in mano senza farci granchè. Puoi provare a mangiarli o ad accenderci un fuoco ma non si avranno grossi risultati. E vista la situazione attuale, non sarà il caso di rivedere tutte quelle sicurezze che si stanno dimostrando totalmente illusorie e smettere di credere a coloro che ci dicono che bisogna crescere a tutti i costi? Ma quale crescita? Qui l’unica cosa importante che deve crescere sono le piante dei propri orti. Deve crescere la  collaborazione, l’aiuto reciproco, devono crescere le idee, le soluzioni affinché tutti si possa vivere dignitosamente, liberi, in pace, salvaguardando l’ambiente e i nostri simili.

Fonte: ilcambiamento.it