Trivellazioni nel Parco Yasunì: addio al piano per salvare gli ecosistemi dell’Ecuador

L’Ecuador voleva lasciare intatte le sue riserve sotterranee di greggio, in modo da preservare aree protette come il Parco Yasuní, la zona più ricca di biodiversità dell’intero pianeta. Ma dopo avere raccolto in un solo anno 300 milioni di dollari dalla comunità internazionale, cifra richiesta al mondo da Rafael Correa per compensare i mancati introiti petroliferi, il tutto si è bloccato. Il lavoro del Programma delle Nazioni Unite per lo Sviluppo (Undp), incaricato di iniziare con il finanziamento di energie verdi, la riforestazione e i progetti per le comunità locali in alternativa alle trivellazioni, infatti, rimarrà solo un bel sogno infranto. La denuncia arriva da Survival, preoccupata per gli effetti di questa scelta sulle tribù incontattate di quelle terre.parco_yasuni

L’iniziativa Yasuni Ishpingo Tambococha Tiputini (ITT) era nata nel 2007 e proponeva di fermare le trivellazioni petrolifere all’interno del parco a condizione che i sostenitori internazionali raccogliessero una somma di denaro pari a metà del valore stimato delle riserve di petrolio dell’area. Una scelta dovuta al fatto che, in soli quattro decenni, l’industria petrolifera aveva portato a livelli di inquinamento e degrado sociale tali da convincere il Paese del Buen Vivir a cambiare rotta, tutelando in particolare la IITT, una delle aree naturalistiche più importanti del pianeta. Situata all’interno del Parque Nacional Yasuní, è un paradiso per insetti, uccelli, mammiferi e anfibi, che in un solo ettaro ospita fino a 655 specie di alberi, lo stesso numero di quelle in Usa e Canada messi insieme. Un gioiello di biodiversità, sotto cui però si nasconde un altro tesoro: 850 milioni di barili di oro nero, il 20% delle riserve nazionali. Dopo avere provato a compensare le mancate entrate chiedendo il contributo della comunità internazionale (3 miliardi e 600 milioni di dollari), da raccogliere nell’arco di 13 anni, lo Stato sudamericano ha cambiato idea: ora nonostante l’opposizione della nazione, il Presidente dell’Ecuador Rafael Correa ha cancellato il progetto ideato per proteggere dalle trivellazioni petrolifere il Parco Nazionale Yasunì. “Il mondo ci ha abbandonato”, ha dichiarato il Presidente Correa. Ma il problema, ora, oltre a quello di un ambiente che verrà consacrato alle trivellazioni petrolifere è che nel Parco Yasuni abitano diversi popoli indigeni, tra cui le tribù incontattate dei Tagaeri e dei Taromenane. “Le tribù non hanno difese immunitarie verso le malattie portate dall’esterno e qualsiasi contatto potrebbe essere fatale. Molte tribù della regione sono già state decimate a seguito del contatto con gli operai petroliferi”, afferma John Wright di Survival International: “Si pensa, inoltre, che il conflitto tra gli Indiani Waorani locali e le tribù incontattate sia dovuto alla crescente pressione esercitata dai taglialegna e dalle compagnie petrolifere che già operano nell’area”. Nelle scorse settimane, centinaia di manifestanti si sono riversati nelle strade della capitale dell’Ecuador per protestare contro la decisione di Correa. Il loro timore è legato in realtà ad una certezza: le compagnie petrolifere metteranno in pericolo le vite delle tribù incontattate, e devasteranno la preziosa biodiversità del parco come hanno già fatto altrove. Ma sappiamo già come andrà a finire: il mondo si dimenticherà ed abbandonerà presto anche loro.

Fonte: il cambiamento

“Islanda chiama Italia”. Intervista ad Andrea Degl’Innocenti

L’ascesa e la caduta del sogno islandese, dalla nascita della società neoliberale fino alle vicende più recenti, che hanno visto gli abitanti dell’isola ribellarsi contro i propri governanti corrotti, contro i banchieri senza scrupoli, contro l’intera comunità internazionale che premeva per il pagamento di un debito ingiusto, contratto da banche private. Abbiamo intervistato Andrea Degl’Innocenti, autore del libro “Islanda chiama Italia”.islanda_chiama_italia

Il racconto della ascesa e della caduta del sogno islandese, dalla nascita della società neoliberale, fino alle vicende più recenti, che hanno visto gli abitanti dell’isola ribellarsi contro i propri governanti corrotti, contro i banchieri senza scrupoli che avevano condotto il paese al collasso, contro l’intera comunità internazionale che premeva per il pagamento di un debito ingiusto, contratto da banche private. In circa tre anni di mobilitazioni gli islandesi hanno ottenuto risultati straordinari come la caduta del governo, le dimissioni delle principali autorità di controllo, la stesura di una nuova costituzione partecipata. La recente storia dell’Islanda riassume perfettamente, la parabola di ascesa e declino del sistema sociale contemporaneo. Per saperne di più di questo Paese e della ‘rivoluzione silenziosa’portata avanti dagli islandesi, abbiamo intervistato Andrea Degl’Innocenti, autore di “Islanda chiama Italia” (Ed. Ludica, 2013)

Di che cosa parla il tuo libro?

Di varie cose in realtà, è un po’ un’inchiesta, un po’ un reportage, un po’ un racconto. Parla di questa isoletta senza esercito sperduta nell’Oceano Atlantico la cui gente si è ribellata contro i propri governanti corrotti, contro il potere dei ricchissimi banchieri e contro l’intera comunità finanziaria internazionale che pretendeva da loro il pagamento di un debito ingiusto. Ma parla anche del mio viaggio su quell’isola, nel maggio 2012, a raccogliere informazioni e fare interviste, a conoscere i protagonisti delle vicende di cui stavo scrivendo e a capire come sono andate le cose e quali messaggi se ne possano trarre. Infine parla di come anche qui da noi le cose stanno cambiando, piano piano, senza destare attenzione né scalpore ma costantemente.

In che cosa è consistita la rivoluzione islandese e quali risultati ha portato?

La cosiddetta rivoluzione islandese si è composta in realtà di varie fasi. Una prima fase, a cavallo fra la fine del 2008 e l’inizio del 2009, è stata caratterizzata da una stagione di forti proteste popolari anti-establishment. La rabbia, nata dall’improvviso e inaspettato – almeno per la popolazione – crollo delle banche e tracollo della nazione, si focalizzava soprattutto contro il governo, la banca centrale, le autorità di controllo ed i ricchissimi “Nuovi vichinghi” (la nuova classe dirigente islandese emersa in seguito alla privatizzazione del sistema finanziario). Tale fase è terminata con una vittoria schiacciante: il governo fu costretto a dimettersi, e con lui anche il governatore della Banca centrale, molti dei nuovi vichinghi fuggirono all’estero. Una seconda fase è stata invece quella caratterizzata dalla lotta contro il debito. Dato che gli islandesi non hanno salvato le banche (neanche avrebbero potuto in realtà, viste le dimensioni), alcuni paesi stranieri hanno iniziato ad esigere dallo stato il pagamento dei debiti che queste banche fallite avevano contratto all’estero. Così, il governo aveva preparato un piano di restituzione che però pesava direttamente ed in maniera insostenibile sui cittadini. La gente tornò in piazza, ed anche in questo caso ebbe la meglio. Vennero indetti ben due referendum e la gente si oppose fermamente alla restituzione del debito contratto dai banchieri privati. Infine c’è una terza fase, che cronologicamente si mescola con le prime due ma che è tematicamente distinta. È la fase delle proposte, del cambiamento, della novità. Con lo slancio fornito dai movimenti e dalla partecipazione popolare, gli islandesi hanno scritto una nuova costituzione partecipata (che però è ancora in attesa del via libera definitivo del parlamento, nonostante sia stata approvata con un referendum dalla maggioranza della popolazione), hanno introdotto leggi per tutelare la libertà d’espressione in rete, hanno riscoperto usanze e tradizioni antiche.innocenti

Per documentarti sei stato in Islanda, cosa hai potuto osservare direttamente durante questo viaggio e quali sensazioni hai avuto?

È stato un viaggio bellissimo. Sono partito assieme ad un amico, Marco. Quando siamo arrivati all’aeroporto eravamo evidentemente un po’ spaesati e senza che dicessimo niente una signora è venuta da noi, ci ha chiesto dove dovevamo andare e si è offerta di darci un passaggio assieme al marito fino al centro di Reykjavik (la capitale nonché unica città vera e propria dell’isola, teatro principale delle rivolte), che dista almeno 40 minuti di auto. Questo ci ha fatto capire fin da subito il carattere degli islandesi: gente estremamente aperta, gentile, ospitale, curiosa.

Una volta a Reykjavik abbiamo avuto modo di conoscere i principali protagonisti delle rivolte, persone splendide e disponibilissime a fare una chiacchierata davanti ad una birra. Salvor, una attivista di Attac, ci ha persino dato le chiavi della sua casa nuova in riva al mare, in cui si sarebbe trasferita col compagno pochi giorni dopo la nostra partenza. La cosa strana, almeno vista con gli occhi di un italiano che è sempre vissuto in grandi città, è che, essendo circa 300mila abitanti, lì tutti si conoscono. Parlare del premier o di questo o quel ministro significa spesso parlare del tuo vicino di casa. Basti pensare che gli islandesi non usano i cognomi e gli elenchi telefonici sono ordinati in base al nome di battesimo.

C’è qualcosa che ti ha colpito in particolare?

Molte cose in realtà. La natura bellissima e preponderante, l’acqua, il fuoco, il ghiaccio. Ma forse la cosa che mi ha colpito di più in assoluto sono state proprio le persone. Gente schietta e pragmatica, ma che al tempo stesso crede negli elfi e in un mondo magico in cui la natura è una sorta di divinità. Quando dicevo agli islandesi che l’acqua in Italia è privata e abbiamo dovuto fare un referendum per provare a ripubblicizzarla strabuzzavano gli occhi e mi guardavano increduli. L’acqua è sacra da loro. E poi l’ospitalità: sarà perché di stranieri ne vedono pochi, soprattutto nei villaggi più sperduti, ma l’accoglienza islandese è una cosa straordinaria. Ti racconto un altro aneddoto, giusto per rendere l’idea. Stavamo viaggiando in macchina verso i fiordi dell’ovest, una delle zone più belle e meno turistiche dell’isola. Per ore ed ore abbiamo guidato in mezzo alla natura selvaggia, priva di tracce umane finché, verso le dieci di sera, siamo giunti in un villaggio di pescatori. Non mangiavamo dalla mattina, ed il viaggio era ancora lungo, per cui ci siamo messi alla ricerca un posto per cenare. Allora fermiamo un signore per strada e gli chiediamo dove potevamo mangiare qualcosa, e lui dispiaciuto ci dice che a quell’ora l’unica trattoria del paese è già chiusa da un pezzo. “Se volete però, posso offrirvi qualcosa a casa mia, io e la mia famiglia abbiamo già cenato ma ci è rimasto qualcosa. Sono solo avanzi eh, ma a quest’ora non troverete di meglio”. Gli “avanzi” erano, in ordine sparso: una grigliata di carne che sarebbe bastata a dieci persone, patate, insalata, dolce, birra e caffè. Mentre mangiavamo, vari bambini venivano curiosi a parlare con gli “stranieri”, in perfetto inglese. Ci chiedevano di Cavani e del Napoli, la loro squadra italiana preferita, e ci insegnavano a pronunciare Eyjafjallajökull (il nome del vulcano che nel 2011 paralizzò i cieli di mezzo mondo). Prima di andare via, ci danno persino del merluzzo secco da mangiare durante il viaggio, nel caso ci venisse fame.

Qual è attualmente la situazione in Islanda?

È una situazione complessa, con molte sfaccettature. Economicamente il paese è in netta ripresa, ma forse il ritrovato benessere rischia di affievolire quel movimento di protesta che ha ottenuto risultati così straordinari. La rabbia del popolo è ancora tanta, ma l’attuale assenza di un movimento coeso fa sì che questa rabbia e la voglia di cambiamento si disperdano o vengano incanalate in maniera tendenziosa dai politicanti di mestiere. Un esempio sono le ultime elezioni, in cui ha vinto una coalizione di centro-destra, che ha cavalcato la rabbia anti-euro e anti debito per i propri scopi. Al tempo stesso però, altri segnali dimostrano che sono in atto dei cambiamenti di grossa portata nella mentalità e nelle abitudini delle persone. Cambiamenti che però, come mi ha detto lo storico islandese Arni Daniel, avranno bisogni di tempo per essere messi a sistema.

“Islanda chiama Italia”. Perché questo titolo? Pensi che il nostro Paese potrebbe e dovrebbe seguire l’esempio dell’Islanda?

Ti ringrazio per la domanda, visto che una delle critiche che viene rivolta più spesso al caso islandese è quella di non essere applicabile. Non credo che esista un modello islandese applicabile su larga scala. Le caratteristiche dell’isola sono troppo peculiari per poterlo permettere. Questo però non significa che dalla vicenda non si possa trarre niente. Ci sono dei messaggi relativi alla sovranità popolare, al diritto di decidere del proprio destino, ai percorsi di partecipazione democratica che sono indipendenti da contesto specifico e possono essere d’ispirazione anche per noi. E infatti, gli stessi concetti che sono alla base della vicenda islandese hanno ispirato e dato origine a molti altri movimenti nel mondo, dagli indignados spagnoli ai vari movimenti occupy. Anche in Italia sono sorte e stanno sorgendo realtà che criticano fortemente il sistema attuale e propongono soluzioni alternative. Nell’ultimo capitolo del libro cerco di raccogliere alcuni frammenti di queste complesse realtà e di metterle a sistema, provando a immaginare come potrebbe funzionare una società diversa, più giusta ed equa.

Fonte: il cambiamento