Rizomi: i cittadini si auto-organizzano per comprare un bosco e restituirlo alla comunità

Tonio Totaro ci racconta una storia. È quella di un’associazione di cui è vice-presidente e di un gruppo di cittadini che si sono attivati per compiere un’impresa: acquistare un bosco allo scopo di difendere il territorio dall’agribusiness e restituirlo alla comunità locale, facendolo diventare un bene comune.

BariPuglia – C’era una volta un paese dell’immediato entroterra adriatico, un paese pugliese di quell’assolato sud-est barese i cui cittadini decisero che qualcosa doveva iniziare a cambiare. In quel grazioso borgo – per secoli asservito al connubio del potere feudale con quello ecclesiastico e pure da sempre celebrato dai più svariati cronisti delle epoche passate come la “nobile Conversano” in virtù del suo tessuto storico, artistico – a un certo punto della sua storia, nel novembre 2021, qualcuno decise di intraprendere una forte azione di attivismo civico nel segno della rinaturazione.

A dare avvio a questa impresa fu un solido tessuto sociale fiorito dal basso intorno ai fili dell’ecologia, dell’ambientalismo antiretorico, dell’urbanistica buona, del paesaggismo concreto, dell’agronomia dissidente. Un reticolo organico reattivo a cui abbiamo dato per nome Rizomi e come obiettivo a breve termine l’acquisto collettivo di un pezzo di territorio agricolo dei più rari ancora esistenti nel circondario. Si, perché il nodo forte intorno al quale si sviluppa il nostro tessuto sociale è quello del paesaggio rurale.

La geomorfologia e le condizioni pedoclimatiche di questa porzione di bassa Murgia del sud est eleggevano l’intera zona a elevata vocazione agricola e sin dai primordi dell’agricoltura moderna facevano di Conversano e del suo agro una collezione di giardini fruttiferi, di orti variegati, di “chiusure “di olivi che si aprivano verso i bassi vigneti del primitivo, dell’antinello e di carrubi, sui terreni verso il mare e campi di grano e prati foraggeri sui terreni più alti.

Tutto questo in completa sintonia con i modi tipici di quell’”umanesimo della pietra” che faceva dell’elemento minerale sovrabbondante una vera e propria risorsa: sorgevano le masserie, gli iazzi i palmenti e le cisterne; i banchi rocciosi affioranti, se divelti dal terreno, venivano sagomati e sistemati a secco prendendo le forme di muretti, specchie, trulli, caselle pagliai.

Ci fu un tempo in cui anche il patrimonio boschivo di Conversano era consistente: si possono ricordare i due nuclei principali e cioè i 1700 ettari di terreno forestale detto Macchione e i 600 ettari del bosco di masseria San Pietro. Ma tra la fine del ‘700 e la prima parte dell’800 la maggior parte di questo tesoro veniva drasticamente impoverito e avviato a coltura, per effetto di vicende giudiziarie, espropriazioni, frazionamenti e vendite che colpirono i nobili proprietari al tramonto della feudalità.

Si apriva così la stagione delle grandi trasformazioni fondiarie portate avanti dalla pletora di coloni e mezzadri, ma soprattutto dalla figura del piccolo proprietario contadino, e facilitate dalle superfici poco acclivi e per lo più in piano che in complesso caratterizzano il territorio comunale. A questo intenso processo si deve la irrisorietà della percentuale a “bosco” all’interno dei catasti e delle statistiche che descrivevano gli ordinamenti colturali durante l’intero secolo passato.

Con l’avvento della meccanizzazione e sotto le direttive della rivoluzione verde, quell’agricoltura fatta di piccoli spazi, di margini di vegetazione selvatica e di ricerca di quell’autonomia contadina che si traduceva in un’estesa diversificazione colturale ha smesso di essere tale, prendendo la via dell’agroindustria capitalistica basata sulle leggi del più grande, più forte e più veloce. A farne le spese è stato – e lo è tutt’ora – il paesaggio rurale con tutti gli elementi antropici di cui è disseminato.

La necessità di spazi sempre maggiori per raggiungere economie di scala ha portato e porta attualmente ad accorpamenti fondiari e livellazioni superficiali che fagocitano ogni bordura, ogni angolo selvatico, ogni muretto a secco, in profondo sfregio al recente riconoscimento degli stessi, e dell’arte costruttiva, patrimonio culturale immateriale dell’umanità da parte dell’Unesco. Complice una legislazione regionale in materia agricola votata all’agribusiness, si riconducono a coltura anche quei terreni più impervi della gariga murgiana, gli arbusteti della macchia mediterranea, i pascoli aridi e con una semplice dichiarazione di miglioramento fondiario si è in regola per cancellare interi uliveti e svellere piante secolari.

Questa è la riflessione di fondo che sostanzia l’agire degli attivisti di Rizomi e non avremmo potuto scegliere nome migliore che ci identificasse. La figura dei rizomi, sotterranei reticoli radicali che si sviluppano orizzontalmente con una crescita indefinita e capaci di connettere ma anche di scalzare pavimenti duri, si presta del tutto come significante di questo primo atto: l’acquisto di un bosco.

È già stata avviata una raccolta fondi che permette di partecipare a questa compravendita simbolica ma performante, politica nel vero senso della parola. Un bosco che resiste ancora, di fianco a estensioni di ettari ed ettari di vite coperta con plastica; un bosco che è l’ultima parte di una intera collina delinquenzialmente spogliata e violentata nella sacralità di un vincolo archeologico e paesaggistico; un bosco in virtù del quale il legislatore regionale prescriveva e segnava in cartografia un’area di rispetto che è stata anch’essa illegalmente usurpata ai fini dell’industria dell’uva da tavola. In un certo senso l’acquisto collettivo di un bosco vuol dire che la comunità si fa carico della protezione di un luogo naturale più e meglio di quanto potrebbe fare un vincolo legislativo o un’indicazione di tutela urbanistica. Ed è la stessa comunità che reagisce a quegli ordinamenti di politica economica che vorrebbero fare di Conversano l’avamposto della monocoltura dell’uva da tavola del sud est barese, che già oggi rappresenta più del 20% della superficie agricola utilizzata.

Ma è anche la reazione all’immobilismo dispotico di un’amministrazione locale ultradecennale comodamente assisa su posizioni agro-liberiste, che preferisce lasciare le sue campagne al libero gioco (giogo) del mercato. La stessa che non ha volontà di istituire l’Ente che gestisca la sua Riserva Regionale Orientata dei Laghi e Gravina di Monsignore, in cui ad oggi sono disattesi tutti gli obiettivi di tutela. Un’amministrazione che non ha alcuna intenzione di adeguare i suoi strumenti urbanistici, in merito al territorio rurale, al sovraordinato piano regionale. La stessa amministrazione che conosce ma ignora un “Regolamento agro forestale”, redatto da più di vent’anni, ostacolato nella sua attuazione e finito smarrito tra gli scaffali comunali. Un’amministrazione che ignora anche un “Regolamento per le attività di trasformazione nel territorio agricolo”, approvato con una delibera del 1993, il quale prescrive il divieto assoluto di abbattimento e frantumazione delle pareti a secco lungo le strade di campagna, misura semplice ma efficace per scongiurare molte trasformazioni colturali impattanti.

La conversione di un bosco da bene privato a bene comune diventa allora una presa di posizione della comunità civile che si auto-organizza per salvare un luogo importante del suo territorio e definire il suo futuro. Pensare che un tempo i boschi erano interdetti all’utilizzo popolare se non appartenenti al demanio e che il bosco in oggetto ricade all’interno di quello che un tempo era il “feudo di Monteferraro”, estesa proprietà dei conti Aquaviva D’aragona, ha il sapore quasi di un riscatto e questa riconduzione al pubblico equivale a voler ristabilire, in chiave moderna, quegli usi civici, quel diritto all’uso popolare di una risorsa locale, diritto sempre incerto e instabile, legato alla dialettica feudo-demanio. Con questo acquisto più che assecondare la richiesta di utilizzare un bosco c’è la voglia di far vivere il bosco, nei due sensi: quello di preservarne la sua evoluzione ecosistemica e di permettere alla gente di fare esperienza del bosco, del selvatico. Con l’obiettivo ultimo di provocare la nascita di connessioni naturali, di visioni condivise, di vie di fuga per il desiderio che solo un approccio rizomatico, a detta della geofilosofia di Deleuze e Guattari, saprebbe farci appiedare nella nuova visione del mondo che vogliamo, senza riprodurre ma creando.

Allora non resta che scoprire questo luogo: il bosco si apre a noi con una radura occupata, nella parte più bassa, da una grande cisterna in pietra che ancora raccoglie l’acqua di scorrimento superficiale della zona circostante e si ha già di fronte l’imponente immagine di una quercia maestosa. È un fragno ultracentenario che proprio in dicembre cambia il colore al suo mantello fogliare offrendo sfumature cromatiche sensazionali, prima di abbandonarlo quasi del tutto nei mesi a venire, essendo una semi-caducifoglia. Il bosco inizia di qui e, forte della protezione di questo “nume tutelare”, va a uniformarsi su una superficie di circa sei ettari, gran parte dei quali un intrico di vegetazione che reclama il suo “please do not disturb”. Con rispetto e curiosità, meraviglia e leggerezza percorriamo i due sentieri che ci portano davvero a contatto con questo mondo umbratile, silenzioso ma perennemente in divenire.

Per chi volesse contribuire al progetto, queste sono le informazioni per effettuare un versamento:
Codice IBAN: IT96A0501804000000017119231
Ragione sociale e indirizzo del ricevente: Ass. Rizomi O.D.V.
Causale: Donazione per bosco bene comune + Nome Cognome
Istituto bancario del beneficiario del bonifico: Banca Etica Filiale di Bari, Via Ottavio Serena, 30, 70126 Bari BA
Info: 
rizomipuglia@gmail.com

Fonte: https://www.italiachecambia.org/2022/01/rizomi-bosco-comunita/?utm_source=newsletter&utm_medium=email

Fondo Forestale Italiano: compriamo boschi per salvarli dall’abbattimento

Oggi vi parliamo di un progetto di tutela ambientale che utilizza la proprietà privata per diffondere il bene comune. Il Fondo Forestale Italiano, infatti, acquista o affilia alla propria rete aree boschive allo scopo di evitare che gli alberi che le popolano vengano abbattuti a scopi commerciali. Ci ha raccontato i dettagli il presidente del fondo Emanuele Lombardi.

Attraversare la campagna del viterbese fino a Manziana per andare a incontrare Emanuele Lombardi, presidente del Fondo Forestale Italiano, è un privilegio che solo una freelance di Italia che Cambia può permettersi. Il sole è alto, i borghi incontrati lungo la strada sono antichi ma pieni di vita e il verde domina nei campi sterrati tutto intorno la strada Braccianese. La nostra meta è il Bosco di San Lorenzo, nel paesino omonimo, una delle prime proprietà del Fondo Forestale.

«La chiamiamo “la nostra oasi” – mi dice Emanuele – ed è per tutelarne il terreno che stiamo raccogliendo fondi. Vogliamo ampliarla di altri cinque ettari, oltre all’ettaro abbondante che già possediamo. Solo così potremmo proteggere tutti gli alberi impedendone il taglio».

Emanuele Lombardi

È proprio questa, infatti, la mission principale del Fondo Forestale: preservare la biodiversità conservando e creando boschi. La Onlus utilizza la proprietà privata come mezzo per garantire che nessuno taglierà mai nei boschi: «Noi compriamo o riceviamo in dono terreni boschivi e ne manteniamo intatta la vegetazione, cosicché diventino una risorsa a vantaggio dei locali o di chi li attraversa», mi spiega il presidente di questa giovane associazione che aspira a diventare, un giorno, una Fondazione. Il Fondo Forestale Italiano ha scritto nello statuto costitutivo che in tutti i terreni di sua proprietà è vietato il taglio degli alberi. Viene praticata piuttosto un’attività di avviamento ad alto fusto, ovvero i membri del Fondo s’impegnano a tutelare i boschi cedui affinché in futuro diventino foreste di alberi da alto fusto, cioè alberi nati da seme piuttosto che dai polloni. Tutte le attività hanno come unico scopo quello di far sì che il bosco ritorni ad assumere la sua funzione originaria, «essere luogo di natura fine a sé stessa piuttosto che luogo di divertimento umano».

Solo così i boschi potranno riacquisire il loro valore e, di conseguenza, anche le persone che li attraversano o li vivono da vicino ne beneficeranno. Perché, tra i moltissimi benefici, il bosco è il motore della pompa biotica, è il primo agente della cattura di CO2 ed è fautore di numerosi benefici per la salute grazie alle particelle volatili (BVOC) emesse dalle piante. Per non parlare della loro bellezza e del valore storico-culturale.

«La nostra è una scommessa nata da un’intuizione», prosegue il presidente mentre raggiungiamo il Bosco di San Lorenzo. «L’idea era semplicemente quella di comprare i boschi per impedirne il taglio. Io non ho fatto altro che renderla pubblica creando un sito web per cercare soci interessati. A pochi anni dalla nostra nascita siamo 12 soci e abbiamo una rete di terreni sparsa in tutta Italia, alcuni di nostra proprietà, altri affiliati».

Per entrare nella rete del FFI, infatti, è possibile sia vendere che donare o affiliare il proprio terreno boschivo superando un’analisi di idoneità fatta sulla base soprattutto delle dimensioni. Una volta entrato in rete, il bosco viene tutelato mantenendone intatta la biodiversità e impedendo il taglio degli alberi. Inoltre, tra le attività principali del Fondo, c’è anche quella di riforestare e prendersi cura dei nuovi alberi.

«Comprare boschi non è facile come può sembrare», prosegue Emanuele mentre ci godiamo un cappuccino e una spremuta on the road. «È molto dispendioso avere delle proprietà. Oltre al costo del terreno, sono elevatissime anche le spese notarili. Ma ne vale la pena perché mantenere i boschi nel loro stato naturale, senza tagli a scopo economico, è una questione etica fondamentale e imprescindibile se vogliamo salvaguardare l’ambiente e noi esseri umani».

Questa piccola, ma grandissima associazione va avanti grazie alle donazioni dei molti che ne condividono la mission, ma dovrebbe essere un impegno di tutti se vogliamo assumerci la responsabilità di preservare l’ambiente e le future generazioni. Se anche voi volete entrare in questa meravigliosa e fertile rete, potete dare un vostro contributo o, se ne avete, è possibile donare e affiliare il vostro bosco al FFI. A beneficiarne, oltre che gli alberi sottratti al taglio, saremo soprattutto tutti noi esseri umani, così dipendenti dalle attività benefiche delle piante. Aiutare il fondo è un atto etico, non una carità.

Le attività del Fondo Forestale Italiano sono possibili solo grazie a donazioni di denaro e di terreni. Se vuoi dare il tuo contributo contatta Emanuele Lombardi : tel. 3517801288, Mail : info@fondoforestale.it. E per aiutare il FFI senza spendere un euro puoi devolvergli il 5×1000. Basta che scrivi il CF 91030740608 nel tuo 730, CU o UNICO.

Fonte: https://www.italiachecambia.org/2021/05/fondo-forestale-italiano-compriamo-boschi/?utm_source=newsletter&utm_medium=email

Food Coop: il docu-film che cambia il modo di vendere e comprare

Come si può risparmiare gestendo in prima persona, con modalità cooperative nel significato vero del termine, il reperimento, la vendita e l’acquisto dei prodotti? In un certo senso si riscoprono valori distorti nel tempo: è quanto ci racconta Food Coop il docu-film di Thomas Boothe.foodcoop

Nel 1973 a New York nasce un supermercato, il Park Slope Food Coop, gestito totalmente dai clienti-soci, impegnati in prima persona nel lavoro di organizzazione e di sviluppo del progetto. I soci, cioè, sono anche impiegati come magazzinieri, operai, contabili, commessi, con un tot di 3 ore mensili che devono obbligatoriamente prestare all’interno del negozio. Si tratta di una vera e propria rivoluzione e i vantaggi sono molteplici: minori costi e, di conseguenza, prezzi più bassi, qualità dei prodotti maggiormente garantita, tracciabilità e trasparenza dal produttore al cliente finale, maggiore equità per i fornitori. Al momento, il punto vendita di Brooklyn coinvolge migliaia di soci cui è affidata la maggior parte del lavoro ma vi sono anche impiegati regolarmente stipendiati dalla cooperativa. La quota annuale per essere soci è di circa 100 euro e viene reinvestita nel progetto stesso. Thomas Boothe, regista del film Food Coop, ci racconta con il suo lavoro dettagliatissimo questa esperienza che sta ormai ispirando molti paesi anche in Europa. Egli stesso ha ripetuto l’esperienza di Brooklyn creando, dopo il film, un supermercato cooperativo a Parigi, dove vive. Boothe incontra le persone, una per una, parla con loro, ci fa la spesa insieme e le segue poi nel loro viaggio verso casa. Alcune volte si tratta di viaggi lunghissimi, da un capo all’altro della città, con i mezzi pubblici e a piedi, magari a sera tardi e dopo una giornata di lavoro. E’ come se la dimensione personale fosse il vero focus di questo film e l’esistenza del supermercato solo il pretesto per il racconto delle vite che ci girano attorno o, meglio, ci entrano dentro. C’è la vita delle coppie che fanno i conti a fine mese e i soldi non bastano ma, scontrini alla mano, con la cooperativa, riescono a risparmiare il 40 per cento rispetto a un normale supermercato. Ci sono i soci che trovano nella coop una nuova dimensione di socialità e ne escono diversi, nuovi, più contenti: riuscire a trovare il cibo che cerchi, discuterne con gli altri, scambiarsi le ricette, essere direttamente responsabili in prima persona di un progetto comune, ti cambia. D’altra parte, sappiamo bene che la dimensione e la natura stessa di un sistema come quello del supermercato non ha al centro la persona ma il prodotto: che deve costare meno possibile a un consumatore veloce, distratto, poco interessato a ciò che mette nel carrello, non importa cosa ci sia dietro in termini di qualità dei prodotti e di costi umani e ambientali. Né importa quanti siano i passaggi del cibo per arrivare sugli scaffali del supermercato, finalmente disponibile ai clienti finali. Soltanto chi ha la possibilità economica, in alcune zone degli Stati Uniti, come viene evidenziato bene nel film, riesce a nutrirsi di cibo fresco e di buona qualità, di verdure e frutta di stagione, di cereali non conservati né trattati. I prodotti industriali la fanno da padrone e in molti quartieri non c’è scelta: o il grande mall o niente. Il film ascolta i soci mentre lavorano tra gli scaffali: insegnanti, registi, artisti, psicologi, operai, coppie che si ritrovano insieme a parlare scaricando la merce. Non ci sono divisioni sociali o differenze tra loro: il desiderio di accedere a un cibo buono, fresco ed equo è qualcosa che accomuna tutti. Si tratta di un modo per prendersi le proprie responsabilità sul cibo che mangiamo senza delegare ad altri le nostre scelte e fornendo alla cooperativa, senza barare, il proprio tempo con regole ed orari da rispettare, pena l’esclusione dal progetto. Si tratta di iniziare a immaginare un modello nuovo, pur con tutte le difficoltà, imperfezioni o contraddizioni legate all’idea stessa di supermercato. Un modello che recuperi la persona e le sue necessità. Ne parliamo con Giovanni Notarangelo, tra i responsabili del progetto, che ci dice che la strada è ancora in salita ma che i soci cominciano ad arrivare, almeno formalmente. Si prevede di riuscire a partire nel 2018 anche se, dice, è necessario fare le cose con calma perché il progetto poggi e si sviluppi su basi solide.

Quante persone al momento hanno aderito al progetto per l’ emporio di comunità?

Al momento la cooperativa deve essere ancora costituita ma lo statuto è stato definito e abbiamo raccolto circa 200 adesioni ma ne stanno arrivando altre. C’è riscontro e molte persone si dicono pronte a partecipare. Il film ci sta aiutando a far conoscere il progetto e c’è entusiasmo e interesse.

Cosa c’è al centro del progetto?

L’obiettivo principale non è il prezzo più basso come molti pensano ma, piuttosto, vogliamo valorizzare il fatto che intorno a questa iniziativa possono nascere molti aspetti positivi di socialità e percorsi possibili per le persone. Si può immaginare un nuovo protagonismo per il cittadino.

Che numero di soci vi siete prefissi di raggiungere? E con quale quota?

Tra i 300 e i 500 soci per iniziare. La quota non è fissa ma una tantum e l’abbiamo fissata, per iniziare a minimo 125 euro, lasciando la possibilità a chi può versare di più. I soci dovranno essere persone attive e non semplici simpatizzanti del progetto.

Riguardo agli spazi?

Ci servirà uno spazio piuttosto grande di almeno 200 metri quadri e questo significa, volendo affittare uno spazio da privati, fare un passo impegnativo. Un’altra idea può essere quella di iniziare in un posto anche più piccolo e poi ingrandirci in seguito. Al momento ci stiamo lavorando e stiamo cercando spazi anche non commerciali, in comodato d’uso o con un affitto calmierato. Stiamo inziando a lavorare anche sui prodotti e i produttori ma anche alle iniziative extra legate alla cultura e la socialità dei cittadini.  Non solo, quindi,  consumo ma le persone al centro della cooperativa.

 Guarda il trailer

Fonte: ilcambiamento.it

Buyme4you: vendere e comprare a chilometro zero

Dal cibo ai prodotti artigianali, fino alle prestazioni lavorative. Buyme4you è un app che permette di gestire la compravendita di oggetti fatti in casa valorizzando l’economia a chilometro zero.

Quante volte vi è capitato di voler vendere o comprare qualcosa da Internet ma i costi di spedizione superavano quelli del prodotto? Ad accorciare le distanze (azzerando le spese extra) ci ha pensato una nuova applicazione per smartphone. Si chiama Buyme4you e consente di gestire la compravendita di oggetti fatti in casa (dal cibo ai lavori artigianali) in un raggio massimo di 50 chilometri. Siete appassionati di cucina e vorreste vendere le vostre torte? O avete un orto e vi farebbe comodo cedere il raccolto in sovrabbondanza? L’applicazione è geolocalizzata e intercetta la domanda e l’offerta più vicina a te per dare la possibilità di scambiare direttamente la merce, senza pacchetti né spedizioni. Grazie alla vicinanza, non si scambiano solamente oggetti, ma anche animali e piccole prestazioni lavorative (baby sitter, pulizie o giardinaggio).handmade-column-feature-1

Buyme4you si adatta a target molto diversi, dal privato cittadino fino alle piccole aziende agricole, agrituristiche e artigianali o alle microimprese domestiche. Questa app facilita infatti anche l’avvio di business casalinghi come ad esempio il sempre più diffuso “home restaurant” – il ristorante in casa – consentendo la vendita dei posti a tavola per pranzi, cene, grigliate o feste. L’app è completamente gratuita e scaricabile da playstore (ma è disponibile anche per i dispositivi apple), non ci sono spese di registrazione né tasse per l’inserimento del proprio annuncio. L’applicazione guadagna il 10% più IVA (per emettere una regolare fatturazione) solo quando il prodotto viene venduto e pagato. L’acquirente paga via PayPal e il 90% della cifra concordata viene accreditato direttamente al venditore mentre il restante viene girato all’applicazione automaticamente. Buyme4you è un’invenzione che valorizza l’economia a chilometro zero ma che in poco tempo ha già avuto riconoscimenti a livello internazionale e a novembre volerà a Lisbona per il Web Summit 2016.

Fonte: http://www.italiachecambia.org/2016/08/buyme4you-vendere-comprare-chilometro-zero/

Siamo tutti figli della pubblicità

La pubblicità fa a tutti il lavaggio del cervello, fin da piccoli, nessuno riesce a sfuggire. Siamo bombardati, ci uniformiamo, cresciamo già condizionati. Ma è ora di dire basta e recuperare relazioni sincere; soprattutto bisogna ricostruire la società secondo valori diversi da quelli per cui vali se compri, se appari.

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La pubblicità sembrerebbe essere ormai qualcosa che fa parte di noi e forse non si considera abbastanza quanto la nostra formazione come persone sia influenzata dai suoi parametri, veicolati soprattutto dalla televisione e negli ultimi anni anche attraverso internet. Un bombardamento costante e continuo fin dalla primissima infanzia ha sulle persone un effetto profondo e duraturo. L’imprinting è così forte che poi le nostre scelte saranno per forza condizionate dal lavaggio del cervello a cui siamo sottoposti. Prodotti, musichette, slogan, immagini che entrano nella mente e rimangono imprigionati lì per tutta la vita. Si dicono frasi che si associano a pubblicità, si fanno acquisti in base a parametri emotivi e di ricordo dei prodotti che ci hanno fortemente influenzato nel tempo. Ultimamente poi il bombardamento è ancora più pressante, considerato che internet è strapieno di pubblicità che sbuca da ogni dove, continuamente, ossessivamente, senza tregua e sosta.

Chi siamo noi veramente depurati da tutta questa roba che si accumula nel cervello? Si è mai pensato, se non avessimo avuto alcuna influenza della pubblicità, cosa saremmo? Come saremmo?

L’influenza pervade ogni singola cellula, ogni interstizio celebrale è pieno di merci da comprare, di mode, di atteggiamenti, di “stili”, di elementi esterni a quello che noi siamo o potremmo essere se non subissimo questi condizionamenti. Il risultato principale di tutto ciò è l’omologazione di massa per cui anche i comportamenti più assurdi e le scelte più estreme sono normali e chi non le segue viene considerato anormale, strano, a volte pure integralista. Una persona che non ha la televisione e cerca di salvaguardarsi per non essere influenzato troppo da politici e pubblicità, è considerato uno fuori dal mondo, un radical chic, quando invece è vero esattamente il contrario; casomai ci vuole proprio entrare nel mondo, ma il suo, depurato il più possibile dai condizionamenti determinati dalla vendita di consenso e prodotti, i due elementi per i quali esiste la televisione. La pubblicità propone i modelli a cui dobbiamo adeguarci per essere accettati dalla società, i programmi televisivi non sono altro che contorni per gli spot pubblicitari e ripropongono gli stessi modelli pubblicitari. Attraverso la pubblicità si veicola il pensiero unico del consumo che fa sembrare un idiota chiunque non si adegui a questa legge non scritta. I modelli consumistici che vengono veicolati parlano di famiglie felici che mangiano frollini, di persone perfette, bellissime ragazze sempre più ammiccanti e sexy, uomini raffigurati come modelli e persone di successo, figli impeccabili, in una sorta di mistico mondo ariano dove il diverso, lo strano, è accettato solo se propedeutico al lancio di una nuova tendenza o un prodotto su cui fare soldi. Basti pensare alla moda che punta sullo stile personale, che ovviamente non sarà mai il nostro stile perché quegli stessi capi di abbigliamento, quegli orologi, profumi, borse, accessori, ecc., saranno comprati da migliaia di altre persone convinte di avere il proprio stile unico. Fanno poi decisamente ridere tutte le pubblicità che puntano sulla libertà e che ci spiegano come un profumo o una automobile nuova ci daranno quella libertà da sempre desiderata. Ovviamente la libertà di cui parlano è solo quella di scegliere fra la loro automobile rispetto a quella della ditta concorrente. Il bombardamento nei confronti dei bambini è ancora più grave perchè non hanno nemmeno le armi per difendersi; i genitori troppo spesso non controllano né limitano questo bombardamento, pensando che sia una specie di punizione a cui è necessario sottoporsi pur di acquietarli. Come fa un bambino a discernere esattamente fra la valanga di prodotti e input che gli arrivano addosso? I programmi per bambini o adolescenti, che sono anche loro di contorno e supporto degli spot pubblicitari, esaltano sempre dei non valori per i quali se non ti omologhi, se non ti vesti in un determinato modo sei uno sfigato, uno da emarginare. La distruzione dell’autostima del bambino, che magari ha difficoltà a seguire questi parametri, è sistematica.

Per la pubblicità abbiamo importanza se appariamo, se primeggiamo, se in qualche modo scavalchiamo gli altri in qualcosa e per fare questo dobbiamo appunto comprare. Chissà come saremmo senza questo condizionamento; probabilmente avremmo meno cose e soprattutto cose utili intorno a noi, non avremmo bisogno di lavorare così tanto perché ci basterebbe poco, i nostri figli crescerebbero con meno stress, incubi e pretese di oggetti. E siamo anche noi diventati oggetti che comprano oggetti e i sentimenti non possono che diventare anch’essi oggetti proposti al miglior offerente. Infatti è un proliferare di siti in cui le persone, in base a parametri simil pubblicitari, si incontrano, si usano e poi si gettano; e avanti un altro, esattamente come i prodotti usa e getta. Per sottrarsi da questa situazione bisogna iniziare a cambiare la propria vita. Bisogna ricostruire la società secondo valori diversi da quelli per cui vali se compri, se appari. Scuola, società, lavoro, ovunque devono essere proposti valori di aiuto, solidarietà, cooperazione, attenzione agli altri, all’ambiente, cura della propria crescita spirituale, considerazione di ogni ricchezza personale interiore a prescindere dai jeans nuovi o dal look. Le persone non sono oggetti da addobbare, le persone hanno sentimenti, capacità, sensibilità che non possono essere piallate ed omologate da chi non ha altro interesse che di venderci qualcosa e poi si finisce per stare assieme o considerare qualcuno per quello che non è ma per come appare. Tutto ciò non può che generare nelle relazioni conseguenti delusioni, drammi, litigi e odi. Spesso si fa fatica a capire perché i rapporti in genere sono così conflittuali quando non si è fatto altro che aderire a modelli che con il nostro io profondo non avevano nulla a che vedere. Ma per conoscere il proprio io profondo e quindi capire bene cosa si vuole e cosa si è, bisogna fare pulizia e spazio all’interno di noi. Per quanto il sistema della crescita economica si sforzi di farci diventare tutti automi dediti solo all’acquisto, le persone possono sentire e vivere ancora secondo la propria natura e non secondo moneta. Ricercando quell’io naturale depurato dalle merci inutili si può ritrovare se stessi e gli altri in una nuova concezione dell’esistenza.

 

Fonte: ilcambiamento.it

Cicche di sigaretta, le compra a 1 cent e libera la spiaggia di Noto dai mozziconi

Un pensionato di Sortino, paga le cicche di sigaretta raccolte in spiaggia un centesimo e gliene consegnano 6000noto-gianni-di-pasquale-620x350

Gianni Di Pasquale, pensionato di Sortino in Sicilia ha messo in campo una originale quanto efficace iniziativa personale: liberare le spiagge dalle cicche di sigaretta pagandole 1 centesimo. La quota prevista per la giornata di raccolta era di 20 euro. Ebbene, Gianni Di Pasquale qualche giorno fa è sceso alla spiaggia di Noto e ha messo su un banchetto con sopra i contenitori di vetro e ha affisso su un manifestino la sua proposta:

Liberiamo la nostra spiaggia dai mozziconi. Compro mozziconi di sigarette a un centesimo l’uno, e non è uno scherzo.

L’offerta ha convinto i bagnati che subito sono partiti alla caccia di mozziconi di sigaretta. Vi hanno preso parte non solo i bambini ma anche gli adulti che hanno condiviso il “progetto di Pasquale”. I contenitori di vetro si sono riempiti presto e la quota dei 20 euro è stata raggiunta. Ma i bagnanti oramai presi dall’entusiasmo hanno continuato a raccogliere cicche iniziando la gara a chi ne portava di più a Pasquale. Ebbene a fine giornata hanno contato 6000 mozziconi di sigaretta raccolti. Racconta Pasquale a Newsicilia (dove trovate le altre foto dell’epica giornata):

C’è stato un ragazzo che me ne ha consegnati settecento guadagnandosi così sette euro. Il messaggio spero sia stato recepito, soprattutto dai più piccoli. Alcuni genitori hanno “rimborsato” di tasca loro i propri figli, perché il segnale non era quello di guadagnarci economicamente, ma tutelare la salute e dare un messaggio di civiltà.

I mozziconi di sigaretta sono tra i rifiuti più altamente inquinanti e finiscono nei mari dove la degradazione avviene in 5 anni non prima di aver liberato nell’acqua molte sostanze dannose. Proprio le cicche di sigaretta sono tra i rifiuti più presenti proprio nel Mar Mediterraneo e rappresentano tra il 30% e il 40% dell’immondizia che si trova in acqua. Infine si consideri che un fumatore mediamente produce 12 mozziconi di sigaretta al giorno.

Fonte:   Newsicilia
Foto | Newsicilia

I berlinesi vogliono comprarsi la loro rete elettrica

L’idea è di due giovani tedesche che hanno creato una rete di cittadini che ha raccolto circa 5 milioni di €. La strada è ancora lunga, ma è un buon passo per gestire in modo democratico la transizione verso le energie rinnovabili

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Due anni fa due giovani tedesche hanno una un’idea straordinaria, assai meno folle di quanto potrebbe sembrare a prima vista: una sottoscrizione popolare per comprare la rete elettrica della città di Berlino, che verrà messa a gara nel 2015. Arwen Colell e Luise Neumann-Cosel hanno così fondato la Bürger Energie Berlin (energia dei  cittadini di Berlino), di cui vedete qui sopra la grafica della home page. La rete è gestita attualmente dall’azienda svedese Vattenfall, che nonostante il nome (1) non ha alcun interesse a sviluppare le energie rinnovabili. Attualmente la rete di Berlino è alimentata al 90% dal carbone e questo secondo Colell  è del tutto inaccettabile se la Germania vuole raggiungere il suo traguardo di ridurre le emissioni di CO2. Bürger Energie Berlin in meno di due anni ha raccolto oltre mille sottoscrittori con un capitale di 5 milioni di €. Se la strada è ancora molto lunga (il valore della rete è stimato in almeno 800 milioni), l’idea che i cittadini possano prendere il controllo della rete elettrica è di straordinaria importanza perchè permetterebbe id gestire in modo democratico la transizione energetica verso le rinnovabili. Lasciare questa transizione in mano alla corporations è piuttosto problematico: per il CEO della Vattenfall, l’energia solare è “un mostro portato a terra“. Le grandi aziende dell’energia, E.ON, RWE, Vattenfall e EnBW che fino a qualche hanno fa spadroneggiavano in Germania ora “lottano per la sopravvivenza“. Lo sviluppo di energia eolica e solare (quest’ultima per il 40% nelle mani dei piccoli produttori) ha fatto scendere i prezzi dell’energia ed ha ridotto drasticamente la domanda di energia dalle centrali a gas e carbone possedute dai big. Non è solo una transizione, ma una vera e propria lotta di classe energetica e dipende anche da noi definire chi sarà il vincitore.

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(1) Vattenfall in svedese significa “cascata”

Fonte: ecoblog