Cambiamento climatico: ecco quanto spendono le compagnie petrolifere per negarlo

Ogni anno le multinazionali petrolifere spendono sempre di più per creare una cultura di massa fondata sulla convinzione che abbiamo bisogno dei combustibili fossili per vivere e che il cambiamento climatico non è di origine antropica. In questa analisi curata da Rosa Maria Currò e Simone Predelli, articolisti di Agenzia di Stampa Giovanile, qualche dato sulle cifre in ballo e sui soggetti coinvolti. Le compagnie petrolifere e di gas naturali stanno cercando di ripulire la loro immagine e lo stanno facendo inquinando la comunicazione. Questo è ciò che emerge dall’ultimo report di InfluenceMap pubblicato ad agosto 2021. Come da precedenti analisi (del 2018 e 2019), è evidente la crescita esponenziale delle campagne di sponsorizzazione che queste compagnie pubblicano – con ingenti spese – sui social media (Facebook in primis).

Durante il 2020, si fa notare, le spese sostenute da queste industrie per l’advertising raggiungono dei picchi di circa 100 mila dollari al giorno. Picchi che corrispondono al periodo elettorale negli USA. Non solo quindi le compagnie stanno scegliendo momenti propizi per la loro propaganda ma, nell’impossibilità di procedere con la loro campagna di diniego del cambiamento climatico, optano sempre più per il greenwashing. Attraverso informazioni parziali o l’evidenziare spese sostenute a favore di tecnologie per il controllo delle emissioni, l’obiettivo da raggiungere per loro è molto semplice: far dimenticare all’opinione pubblica che sono proprio i combustibili fossili i primi responsabili del cambiamento climatico.

In questa situazione, spiega InfluenceMap, un grande assente risulta essere l’intervento dei social media utilizzati per le campagne. Prendendo ad esempio Facebook infatti, nonostante si ponga come impresa green e vicina all’ecologia, non ha mostrato alcun interesse a segnalare o moderare la propaganda fuorviante delle compagnie petrolifere. Come fa notare l’articolo di Giancarlo Sturloni, già un paio di anni fa il tema era noto e, attraverso un’azione legale, l’associazione ClientEarth aveva proposto almeno che le sponsorizzazioni delle compagnie petrolifere fossero accompagnate da un disclaimer simile a quello dei tabacchi: «Il consumo di petrolio provoca il cambiamento climatico».

Tuttavia, il potere di queste compagnie non ha permesso ancora una vera e propria azione. Non stiamo parlando del solo e ovvio potere economico, ma dell’enorme forza socioculturale che esercitano in un’umanità estremamente dipendente dall’alto consumo di energia. Già nel 2017, nel suo testo “Fuori Controllo”, Thomas Eriksen faceva notare come, in una condizione di sovrappopolazione e iperconsumo, purtroppo, la nostra “energomania” raggiunge livelli tali che operare un cambiamento sistemico è difficilissimo, figuriamoci poi porre dei limiti ai nostri “spacciatori”.

Ma quali sono gli effettivi impatti di una tale e immobilizzante dipendenza da energia? Innanzitutto, ciò a cui assistiamo ogni giorno: l’incremento di emissioni e l’aumento della temperatura globale con conseguenze devastanti per l’ambiente e gli esseri viventi. In secondo luogo, ma altrettanto importante: l’aumento delle disuguaglianze sociali. Come spiega Eriksen infatti, «a parità di altre condizioni, le società a basso consumo energetico sono più eque di società ad alto consumo energetico»; soprattutto nel caso delle società basate sul petrolio, per via dell’aumento della conflittualità, della povertà e della tendenza a formare regimi autoritari.

Ciononostante, la nostra cultura (e la tendenza globale) connette il progresso sociale all’alto consumo energetico fino al punto in cui la nostra flessibilità come specie vacilla. Le operazioni su piccola scala per costruire un mondo più paritario e frenare il cambiamento climatico sono valide e quasi onnipresenti, ma il momento è ormai maturo per pretendere degli impattanti cambiamenti su larga scala e, inevitabilmente, questi devono passare attraverso il cambiamento della comunicazione mainstream. Cosa è necessario fare? Nel mezzo di una tale complessità potrebbe apparire impossibile cambiare. “Cambiare rotta è più facile per una barca a remi che per una nave cargo”, ma questo non significa che farlo sia impossibile. Ciò che è necessario fare al momento è supportare operazioni come quella proposta da ClientEarth, fare sì che l’operazione di manipolazione delle compagnie petrolifere non sia più possibile e che sia davanti agli occhi di tutti il fatto che un tale consumo energetico nuoce gravemente alla salute.

Questo potrebbe essere un passo verso la nostra disintossicazione, verso l’emancipazione dalla nostra energomania e verso la possibilità effettiva di sviluppare un completo senso critico nei confronti del nostro modello di sviluppo. Potremmo così dedicarci finalmente e completamente a forme sostenibili di produzione energetica e consumi. Evitiamo di cadere nelle tele intessute con il preciso obiettivo di incatenarci a un sistema al collasso, pensiamo a lungo termine, pretendiamo un’effettiva azione anche da parte dei social media per garantire un’informazione trasparente.

Qui l’articolo originale.

Tratto:  https://www.italiachecambia.org/2021/09/cambiamento-climatico/?utm_source=newsletter&utm_medium=email

Big Oil spende 200 milioni di dollari l’anno per frenare il contrasto ai cambiamenti climatici

Duecento milioni di dollari l’anno: è la cifra che le cinque maggiori compagnie petrolifere e del gas al mondo spendono per esercitare pressioni in modo da ritardare, controllare o bloccare le politiche di contrasto al cambiamento climatico.

Le cinque maggiori compagnie petrolifere e del gas, quotate in Borsa, spendono quasi 200 milioni di dollari all’anno per esercitare pressioni per ritardare, controllare o bloccare le politiche volte ad affrontare il cambiamento climatico. Lo rileva il report “How the oil majors have spent $1Bn since Paris on narrative capture and lobbying on climate” pubblicato da Influence Map.

Chevron, Bp ed ExxonMobil sono indicate come le principali aziende leader nel lobbying diretto contro una politica climatica che affronti il riscaldamento globale e i social media la piazza migliore per questa strategia. Lo scorso anno, i giganti mondiali dell’oil&gas hanno speso circa 2 milioni di dollari su Facebook e Instagram con annunci mirati che promuovevano i benefici di una maggiore produzione di combustibili fossili. Separatamente, Bp ha donato 13 milioni di dollari a una campagna, sostenuta anche da Chevron, che ha fermato con successo una carbon tax nello stato di Washington (di cui 1 milione è stato speso in annunci sui social media, come dimostra la ricerca). Il report sottolinea come queste campagne siano fuorvianti per il pubblico: mentre le aziende supportano pubblicamente l’urgenza di un’azione, stanno invece aumentando gli investimenti per aumentare l’estrazione di petrolio e gas. In altre parole, c’è un evidente gap tra le parole e le azioni. Secondo quanto ha riportato il Guardian, Shell e Chevron hanno dichiarato di essere in disaccordo con le conclusioni del report ribadendo il loro impegno nella lotta al climate change.

Fonte: ilcambiamento.it

Ecuador, foresta amazzonica in vendita. È per il debito con la Cina?

L’Ecuador vuole cedere 3 milioni di ettari di foresta pluviale – circa un decimo del territorio nazionale – alle compagnie petrolifere. Le più interessate sembrano quelle cinesi, e in molti ricollegano l’affare al debito contratto dal governo di Quito con Pechino. Ma nell’area in questione abitano sette diverse popolazioni indigene che potrebbero vedere distrutto il loro ambiente.proteste_ecuador

Brutta mano per Rafael Correa. Il presidente-eroe che nel 2008 annullò il debito estero illegittimo dell’Ecuador verso le banche statunitensi sembra aver scordato di colpo i rischi che si corrono nel finanziarsi con i prestiti delle nazioni straniere. Così ora si trova a dover svendere una enorme fetta della propria nazione alla Cina, mettendo a rischio la sopravvivenza di varie popolazioni indigene. Almeno questo è ciò che sta avvenendo secondo una delle ipotesi più accreditate. Di certo c’è che il governo di Quito ha messo all’asta 3 milioni di ettari di foresta amazzonica per favorire gli investimenti delle compagnie petrolifere straniere e che tra i clienti più interessati ci sono la China Petrochemical e la China National Offshore Oil. Il 25 marzo un gruppo di politici ecuadoriani ha incontrato alcuni rappresentanti delle compagnie cinesi in un hotel Hilton nel centro di Pechino, per offrire contratti di usufrutto dell’area. In precedenza si erano tenuti altri incontri a Quito, Houston e Parigi. Tre milioni di ettari sono oltre un decimo del territorio dell’intero paese. In essi vivono sette diverse popolazioni indigene che potrebbero vedere la propria terra venduta al miglior offerente, per essere in seguito spianata, trivellata, inquinata, devastata dall’estrazione del petrolio. Per loro il “buen vivir” è a rischio. Il diritto a vivere in un ambiente sano, gli sforzi per utilizzare energie pulite, il diritto alla salute, all’acqua, alla natura sono concetti ampiamente riconosciuti dalla costituzione ecuadoriana approvata nel 2008 – su forte pressione dello stesso Correa – compresi sotto al concetto-cappello del “ben vivere” (“buen vivir”, o “sumak kawsay” in Quechua) ma rischiano di passare in secondo piano di fronte agli interessi economici nazionali. Il buon vivere, vero e proprio pilastro della costituzione – concetto della tradizione sudamericana che consiste nel promuove la vita ed il bilanciamento fra esseri umani ed altri esseri viventi, al fine di una coesistenza armoniosa con la natura – non esisterà più. Le proteste non si sono fatte attendere. “Chiediamo che le compagnie petrolifere pubbliche e private di tutto il mondo non partecipino al processo di gara che viola sistematicamente i diritti dei sette popolazioni indigene, imponendo progetti petroliferi nei loro territori ancestrali,” hanno scritto in una lettera aperta alcuni rappresentanti delle popolazioni indigene ecuadoriane. Dal canto suo, il governo ecuadoriano ha risposto accusando a sua volta. In un’intervista, il segretario agli idrocarburi, Andrés Donoso Fabara, ha accusato i leader indigeni di rappresentare scorrettamente le proprie comunità per raggiungere obiettivi politici. “Questi ragazzi hanno un programma politico, non stanno pensando allo sviluppo o alla lotta contro la povertà”, ha detto, aggiungendo che il governo aveva deciso di non aprire determinate aree del territorio perché mancava il sostegno delle comunità locali. “Siamo autorizzati dalla legge, se volessimo, ad entrare con la forza e fare le nostre attività, anche se sono contro di loro”, ha detto. “Ma non è la nostra politica.” Nel parlare di “programma politico” Fabara allude forse all’appoggio che le popolazioni indigene hanno ottenuto da alcune associazioni umanitarie con base in Usa. In effetti è possibile che gli Stati Uniti cerchino di utilizzare il classico stratagemma della lotta per i diritti umani al fine di ostacolare una serie di accordi fra Ecuador e Cina che potrebbero contribuire a cambiare gli equilibri geopolitici del Sud America. Recentemente la Cina ha dimostrato più di un semplice interesse. Proprio ieri, 2 maggio, il nuovo ambasciatore cinese a Quito ha affermato che si aspetta che la collaborazione fra i due paesi verrà ampliata all’ambito culturale, militare, educativo e scientifico. Geopolitica a parte, resta gravissima l’iniziativa del governo ecuadoriano. Fra gli accusatori dell’esecutivo c’è poi chi è sicuro che l’intera operazione sia legata al debito contratto dall’Ecuador con la Cina. Un debito che ammonta a 7,2 miliardi di dollari, circa il 13 per cento del pil del paese. Adam Zuckerman, attivista ambientale e per i diritti umani di Amazon watch ha dichiarato al Guardian: “La mia percezione è che questo sia essenzialmente un problema di debito; gli ecuadoriani sono così dipendenti dai cinese per finanziare il loro sviluppo che sono disposti a compromessi in altri settori, come quelli sociale e ambientale”. Così, barattata in cambio di qualche miliardo di dollari, un’altra ampia zona del polmone verde del mondo rischia di essere compromessa per sempre, sottraendo ricchezza all’ecosistema e alla biodiversità del pianeta.

Fonte: il cambiamento