Coltivare al coperto, sfruttando anche spazi interni, ottenendo cibo nutriente e vitale anche quando non si hanno spazi esterni o magari quando la temperatura fuori è troppo rigida. Sì, si può fare. Proseguiamo nei nostri consigli pratici per l’autoproduzione e l’autosufficienza grazie alla collaborazione di Alessandro Ronca, direttore scientifico del Parco dell’Energia Rinnovabile.
Coltivare al coperto, sfruttando anche spazi interni, ottenendo cibo nutriente e vitale anche quando non si hanno spazi esterni o magari quando la temperatura fuori è troppo rigida. È quanto si mette in pratica ormai da tempo anche al PeR, il Parco dell’Energia Rinnovabile, e quanto fa anche nella sua abitazione Alessandro Ronca, che del PeR è direttore scientifico.
La coltivazione dei vegetali indoor può rivelarsi un ottimo modo per assicurarsi comunque buon cibo di produzione domestica.
«Noi al PeR possiamo usufruire anche di spazi esterni, ma siamo assolutamente consapevoli dell’utilità e dell’importanza di poter allestire e condurre in maniera efficiente e produttiva anche spazi indoor» spiega Ronca.
Proseguiamo dunque oggi con la nostra serie di suggerimenti e dimostrazioni pratiche su come perseguire obiettivi di autosufficienza e autoproduzione domestica, grazie proprio alla collaborazione del PeR e di Alessandro Ronca.
Perché quello attuale è veramente il tempo dell’autoproduzione! È il momento di acquisire finalmente quella consapevolezza che ci conferma che non dobbiamo per forza dipendere in tutto e per tutto dall’esterno e da ciò che ci arriva.
Seguite dunque Alessandro Ronca in questo video, vi mostrerà come fare!
L’antropologa Anna Rizzo è impegnata da diversi anni in un intenso lavoro di studio e riattivazione dell’antica comunità di Frattura di Scanno, borgo dell’entroterra abruzzese raso al suolo dal terremoto del 1915. Un ruolo fondamentale in questa opera di rivitalizzazione l’ha avuto il fagiolo bianco, coltivazione tipica fratturese che ha segnato profondamente il passato e il presente del territorio.
«Ho cominciato a occuparmi di aree interne e contesti rurali nel 2010, quando questi argomenti erano a latere dei convegni a cui partecipavano solo sociologi rurali e direttori dei parchi», ricorda Anna Rizzo mentre ripercorre i primi passi di un percorso multidisciplinare che in Italia ha pochi eguali. «Studiare la ruralità in un contesto post-sisma e spopolato era un lavoro solitario. I miei interlocutori erano i pastori, Nunzio Marcelli e Memi Cozzi, punti di riferimento nazionali per la sociologia rurale, la pastorizia e le strategie territoriali. Due pionieri. Ho avuto la fortuna che la loro azienda fosse nel paese accanto a Frattura. Esisteva un’attenzione sul post-sisma. C’era appena stato il terremoto dell’Aquila e molti convegni vertevano sull’antropologia dei disastri. Era il tema più dibattuto a quell’epoca. Il post-sisma e la resilienza».
Anna Rizzo a Frattura
La missione Fluturnum è un lavoro di ricerca che ha come obiettivo il recupero del patrimonio culturale materiale e immateriale. Il lavoro sulla comunità svolto negli ultimi quattro anni a Frattura di Scanno, piccolo borgo abruzzese arroccato sull’appennino in prossimità dell’omonimo lago, non è altro che l’emersione e riattivazione di una comunità: «Ho impostato la ricerca come uno scambio – ci spiega Anna –, ho ideato le Riunioni di Paese, che si svolgono ogni settimana per tutto il periodo della missione e servono come ricognizione di quello che secondo gli abitanti è importante recuperare, in cui c’è una certa urgenza. Sia materiale che immateriale».
Il lavoro è fortemente incentrato sulla comunicazione, sull’ascolto, sull’inclusione, a dispetto delle difficoltà che un coinvolgimento così ampio di tutti i membri della comunità comporta: partecipano tutti, dai bambini agli adulti, fino agli anziani, a prescindere da ruolo che avranno nelle attività di ricerca. «Sulla base dei feedback che ci arrivano, vengono strutturati i momenti partecipativi e le attività pubbliche da svolgere insieme. In altri momenti, in cui sento che ci sono l’attenzione e la percezione che quello strumento è utile, insegno loro a fare la documentazione che produco io. Dal database alle foto, alle comunicazioni con il Comune, metto tutti i miei strumenti a disposizione. Perché un giorno io non tornerò più come antropologa e loro devono essere capaci di farlo da soli e, come dico spesso, di emanciparsi dagli specialisti».
Stiamo parlando di un paese soggetto a forte spopolamento, dove la maggior parte della manutenzione è svolta dai residenti. I fratturesi in questo sono scandinavi. Danno un grande valore a ciò che hanno e a ciò che erano. A questo proposito, un ruolo preminente spetta al fagiolo bianco, una varietà autoctona che cresce solo qui: «È stata organizzata una riunione con i “fagiolari” – racconta Anna –, da cui sono nati un Accordo di Tutela e il micro-festival “Non sono solo un fagiolo”, che celebra i beni immateriali della comunità, al quale ogni anno associamo il recupero di uno spazio pubblico, rigenerato dai fratturesi che diventa fruibile tutto l’anno per tutti».
Non solo: quest’anno lo staff della missione, insieme ai ragazzi di frattura, ha lavorato al primo festival di comunità, denominato “Estate a Frattura 2019”: un programma interamente studiato e realizzato dai fratturesi nei luoghi rigenerati e ripuliti. Un calendario di attività fittissimo che ha avuto come sottotitolo “Ecologia del dono e delle relazioni”. Tutti argomenti che vengono discussi, socializzati, che anticipano con una breve presentazione ogni evento. È la creazione di una comunità, di uno scambio, fatto di emozioni, di partecipazione, ma anche della passività per chi riceve. Questa è una sintesi estrema, perché le attività svolte sono tantissime. La missione Fluturnum ha compiuto dieci anni, durante i quali Anna Rizzo è stata affiancata da un gruppo eterogeneo e competente: «Da due anni collabora con me Paolina Giannetti, economista della missione. Una mente brillante e veloce, molto umana che ha potenziato il valore della ricerca sul campo. Ha una grandissima capacità relazionale che le permette di passare dall’antropologia all’economia creando sintesi, dandoci nuove prospettive. Spiegandoci come funzionano i mercati, le filiere, per eventuali progetti di comunità o agricoli».
La missione è un percorso enorme, un lavoro di equipe direi monumentale per come è stato pensato: «Siamo una delle poche missioni italiane ad aver impostato il campo di ricerca secondo un profilo anglosassone. Tutto ciò grazie a Francesca del Fattore direttrice della missione Fluturnum Archeologia e Antropologia nella Valle del Tasso e nell’Alta Valle del Sagittario – Matrix 96 Soc. Coop., in collaborazione con l’Università di Bologna, la Soprintendenza Archeologica, Belle Arti e Paesaggio dell’Abruzzo, il Rotary Club Roma Ovest, Comune di Scanno».
Anche se dieci anni di lavoro sul campo sono difficili da riassumere in un poche righe, chiediamo ad Anna di ripercorrere il cammino compiuto sin qui: «I primi anni mi sono occupata della ricettazione dei reperti nella Valle del Sagittario, un lavoro contestuale allo scavo romano, che scavavano i miei colleghi. Dopo quattro anni ho scelto di indagare e di studiare la frazione in cui alloggiavamo. Esistevano pochissime informazioni. Quasi nulla. Frattura ha due insediamenti, uno vecchio e un nuovo. Il terremoto della Marsica ha sigillato un’epoca. Frattura vecchia è bellissima, un luogo isolato e suggestivo, abitato fino al tramonto. Ho scelto di lavorare su questo insediamento “fantasma” che veniva rifrequentato dai fratturesi per le attività agricole e pastorali presenti in forma residuale. Sono partita dalle lavorazioni in quota, dalla viabilità arcaica, dalla pastorizia e dall’agricoltura. La cultura materiale, l’architettura vernacolare e gli insediamenti spontanei. La devozione locale, la cultura orale, l’emigrazione. Tra i tanti fronti che ho portato avanti c’è quello sulla documentazione della coltivazione del fagiolo bianco di Frattura. Che come dico sempre, è un segmento dell’etnografia. Tutta la documentazione che ho prodotto in questi anni è stata depositata, insieme a quella archeologica, in Soprintendenza. La scuola più importante che ho avuto è stata la supervisione di Francesca del Fattore, direttrice della missione e archeologa protostorica, e di Alessandro Felici, archeologo topografo. Il loro rigore e professionalità mi hanno formata, e rimangono i miei punti di riferimento. Il metodo etnografico risente molto della verifica archeologica, questa è una grande forza per me. Perché mi permette di capire e procedere velocemente e non arrendermi». Fonte: https://www.italiachecambia.org/2019/12/frattura-storia-rinascita-paese-fantasma/?utm_source=newsletter&utm_medium=email
La coltivazione in serra genera più di dieci posti di lavoro per ettaro ed è una buona opportunità per le campagne, se viene rispettata la sicurezza dei lavoratori.
Dopo l’allevamento delle trote, la coltivazione delle rose sfata un altro mito del Messico, che non è solo fatto di cactus e serpenti a sonagli. Nella zona di Toluca, nel sud ovest dello Stato del Messico (1), la coltivazione è effettuata in serra, perché le temperature sarebbero altrimenti troppo basse, mentre la quantità di acqua fornita è più che sufficiente. Le rose sono molto assetate: ogni fiore richiede in media 4500 litri d’acqua! (2) I fiori sono venduti per metà in Messico e per metà negli USA, soprattutto nell’area di Los Angeles. Il trasporto refrigerato è effettuato via terra, in questo modo l’impatto ambientale è molto inferiore rispetto al trasporto via aerea da altre nazioni del Sud America. La produzione è ad alta intensità di lavoro, poiché impegna oltre 11 lavoratori per ettaro. L’azienda è di piccole dimensioni (pochi ettari) e occupa una posizione al fondo di una piccola valle poco adatta all’agricoltura. Il problema maggiore è la qualità del lavoro. Per almeno due decenni i lavoratori sono stati particolarmente esposti ai pesticidi, facendo trattamenti senza protezione adeguata. L’esposizione nelle serre è naturalmente maggiore che in campo aperto. Ore sembra che i lavoratori abbiano protezione adeguata, ma la competizione del mercato potrebbe sempre spingere qualcuno a tagliare i costi.
(1) Lo Stato del Messico, la cui capitale è Toluca, è uno dei 31 della Repubblica Federale del Messico e circonda come un ferro di cavallo il distretto federale della capitale. (2) Dati forniti dal produttore. Per ogni giorno e per ogni ettaro, occorrono 20 mc di acqua di fonte nella stagione secca e 5 nella stagione delle piogge. Poiché le due stagioni durano metà anno ciascuno, il fabbisogno medio è di 12,5 mc/ha/giorno, cioè 4,5 milioni all’anno. La produzione annua è di 1 milione di fiori per ettaro.
I centri sociali di Emilia Romagna, Nord Est e Marche hanno occupato nei giorni scorsi la sede dell’Efsa, l’agenzia europea per la sicurezza alimentare, per dare il via a una campagna contro l’intropduzione massiccia degli ogm in Italia e in Europa.
Un nutrito gruppi di attivisti dei centri sociali del nord Italia (Coalizione Centri Sociali dell’Emilia Romagna, Centri sociali del Nord est e Centri sociali delle Marche) ha portato avanti un’azione dimostrativa nei giorni scorsi nei confronti dell’Efsa, l’agenzia europea per la sicurezza alimentare con sede a Parma. Vestiti con tute e cappucci bianchi, hanno attaccato adesivi e lanciato slogan al megafono contro la coltivazione degli Ogm. I manifestanti sono entrati e hanno raggiunto il piano rialzato, scortati dalle forze dell’ordine, ma l’Efsa ha fatto evacuare la sede a tutti i suoi dipendenti. Forti i momenti di tensione con le forze dell’ordine: negli scontri sono rimasti feriti alcuni manifestanti, un agente e due dirigenti della polizia, un ufficiale dei carabinieri. Gli attivisti hanno accusato le forze dell’ordine di avere reagito in “maniera violenta” e hanno attaccato l’Amministrazione comunale: “La reazione della polizia è stata allucinante. Il sindaco del movimento 5 stelle e la città si sono piegati all’inceneritore, non si accorgono delle strane dinamiche di Efsa sugli ogm e sono prontissimi a scatenare una repressione incredibile contro attivisti che non hanno fatto altro che portare fisicamente delle domande a Efsa”. Il sindaco Pizzarotti ha commentato: “Le proteste sono sempre legittime fintanto che rientrano nei giusti canoni del viver civile. Ci sarà la necessità di fare chiarezza, mi confronterò con le istituzioni preposte per capire che cosa è accaduto e come si sono svolti i fatti. L’importante è garantire oggi e domani l’integrità e la sicurezza della città”. “Con l’occupazione dell’EFSA rilanciamo pubblicamente una campagna di conflitto aperto e diretto contro l’introduzione degli OGM in Italia e in Europa – hanno spiegato i manifestanti – Centri sociali, ambientalisti, attivisti, agricoltori, in molti ci stiamo organizzando con la rabbia degna che anima gli agricoltori dal Sudamerica all’india, le comunità rurali di tutto il mondo riunite ne La Via Campesina, i fauchers francesi che hanno respinto la Monsanto cacciandola dalla terra. Le colture OGM, così come l’agricoltura industriale, esercitano una violenza inaccettabile sull’agricoltura, sull’ambiente e sui nostri corpi. Gli OGM non hanno altra ragione di esistere che il profitto delle multinazionali che li producono e il controllo che consentono sulla catena alimentare e l’agricoltura: il pensiero magico che li accompagna è solo un contrabbando ideologico. Non sono più produttivi, inducono un utilizzo smodato e crescente di diserbanti, disastrosi per l’ambiente e pericolosi per la salute, e determinano l’insorgere ormai incontrollato di infestanti e insetti resistenti, pongono serie criticità e preoccupazioni per l’effetto sulla salute umana. Con le altre monocolture intensive sono tra le principali cause dei cambiamenti climatici e della crisi ecologica. Riducendo la biodiversità, impoverendo i terreni e introducendo l’inaccettabile principio del copyright minano alle radici la sicurezza e la sovranità alimentare, la libertà di scelta e di produzione di cibo delle comunità, la condivisione delle risorse alimentari. Tutto questo è inaccettabile e non siamo disposti ad attendere lo svolgersi dei giochi di ruolo delle lobbies: non lo fanno coloro che si fanno agenti delle multinazionali, che forzano la legalità, in Friuli come in altre parti d’Europa, e forzano soprattutto i confini del bios con conseguenze irreparabili. Per questo abbiamo occupato l’EFSA, l’Authority che dovrebbe garantire la sicurezza alimentare ma che sicuramente nel caso degli OGM garantisce soltanto, insieme alla Commissione Europea, una facile via di accesso alle multinazionali. Non un parere negativo è stato mai espresso: a detta dell’EFSA perché il livello scientifico delle richieste è sempre stato molto alto. Stranamente però molti governi e scienziati sono spesso stati in profondo disaccordo con questa conclusione basata su documentazione fornita dalle stesse multinazionali senza alcuna verifica indipendente e quasi sempre a partire da dati non pubblicati. Le linee guida di EFSA per il processo di valutazione dei rischi sono scandalose. Le multinazionali hanno la totale libertà di determinare gli elementi essenziali per la valutazione del rischio, e le metodologie prese in considerazioni sono state formulate da, o con, tecnici che lavorano per le stesse multinazionali. L’elemento principale del processo, la “valutazione comparativa del rischio”, gemella della “sostanziale equivalenza” dell’ente USA, fu definito da scienziati (in particolare Kuiper e Kok) che lavoravano per l’ILSI, un istituto finanziato dalle multinazionali biotech, in collaborazione con personale alle dirette dipendenze delle stesse multinazionali (Monsanto, Bayer, Dow, Syngenta), e che poi ricoprirono cariche di primaria importanza nella valutazione del rischio per gli OGM. EFSA seguì successivamente il suggerimento di ILSI di ritenere la valutazione comparativa l’elemento principale del processo di valutazione e, in pratica, una valutazione in sé anziché soltanto il primo di una serie di passaggi obbligatori. La valutazione comparativa non ha un reale valore scientifico, come minimo perché non ha nessuna definizione quantitativa e non tiene conto della specificità genetica che non ha niente a che vedere con l’ereditarietà e la normale regolazione genica. Nonostante ciò sarebbe sufficiente a rigettare le piante OGM, se fosse applicato rigorosamente. Infatti è dimostrato che le piante OGM NON sono “sostanzialmente equivalenti” alle piante non-OGM da cui sono derivate poiché mostrano importanti differenze nei nutrienti e nelle proteine, nonché nel livello di tossine e allergeni (nel qual caso queste differenze sono classificate come “non biologicamente rilevanti” dagli stessi scienziati che hanno definito le linee guida).
Il trucco usato dalle multinazionli è di attuare la valutazione comparativa non tra la pianta OGM e la linea isogenica non-OGM da cui è derivata ma con un database vastissimo che include molte varietà non isogeniche, coltivate in luoghi e tempi diversi (alcune anche più di 50 anni fa), in modo da ampliare la variabilità di riferimento includendo anche varietà inusuali con valori atipicamente alti o bassi di alcune componenti. EFSA riconosce validi questi stessi database creati dalle multinazionali senza richiedere alcuno studio più rigoroso. (E tutto ciò, notiamo, è addirittura contrario alla direttiva Europea sul rilascio di piante OGM) Non è richiesta la valutazione degli effetti combinati di differenti erbicidi o differenti tossine espresse dalla pianta, nonostante gli effetti sinergici non siano prevedibili o conosciuti. Non è richiesta la valutazione a sé stante di piante che combinino più tratti genetici specifici. Non è richiesta una valutazione degli effetti su organismi non-target a tutti i livelli della catena alimentare, ma solo dei livelli più bassi, né è richiesta una valutazione completa degli effetti cumulativi a lungo termine. Non c’è alcun obbligo esplicito per la pubblicazione dei dati sperimentali prodotti dalle multinazionali, in modo che essi siano accessibili per studi indipendenti. A questo proposito, annota un editoriale di Scientific American (13 agosto 2009), “è impossibile verificare che le piante ogm si comportano come viene detto [..] perché le compagnie biotech hanno il potere di veto sul lavoro di ricercatori indipendenti [..]
Solo studi che siano stati da loro approvati approdano alle riviste [..]”. Tutto questo è inaccettabile e renderebbe ridicolo, se non fosse oltraggioso, la pretesa delle direttive europee in materia di coltivazione delle piante OGM, per le quali la valutazione della loro sicurezza è affidata a livello Europeo proprio a EFSA. E se non bastasse, sarebbe sufficiente incrociare le dichiarazioni della Monsanto (“Monsanto non dovrebbe dover rispondere della sicurezza del cibo biotech. Il nostro interesse è di venderne il più possibile. Assicurarne la sicurezza è il lavoro delle agenzie governative (FDA, l’agenzia USA per la sicurezza alimentare, corrispettivo di EFSA). Philip Angell, Monsanto’s director of corporate communication, NYT magazine, 25 ottobre 1998″) con quelle di EFSA, così come appaiono dalle sue linee guida (“Non è previsto che EFSA produca studi indipendenti, poiché è onere del proponente di dimostrare la sicurezza della pianta GM in questione”) per comprendere come la questione degli OGM è esattamente quello che appare: un conflitto aperto fra il biocapitalismo e la libertà per la difesa della terra, del cibo, della salute e dell’ecosistema”.