La ripartenza ha bisogno di soluzioni green, non restituiteci le vecchie città

Legambiente propone ai sindaci delle città italiane cinque soluzioni sostenibili in fatto di mobilità, per ripartire e superare questo periodo di emergenza ripensando nuovi modi di spostarsi. Sono soluzioni che possono essere realizzate nell’immediato e potenzialmente capaci di rivoluzionare, una volta per tutte, i nostri stili di vita. A Torino, intanto, diverse associazioni hanno chiesto al Comune e alla Regione di mettere in atto delle soluzioni sostenibili per l’avvio della fase 2.

«Per superare l’emergenza coronavirus e per far ripartire le città italiane servono risposte e soluzioni eccezionali. Per questo, cari Sindaci, non vi limitate all’ordinario, non restituiteci le vecchie città. Il vostro mestiere richiede visione di futuro, soluzioni inedite, capacità di guidare la comunità verso frontiere nuove. E oggi che tutti abbiamo sperimentato una condizione eccezionale è il momento migliore per osare lo straordinario. Insieme ce la possiamo fare».

È questo il messaggio di Legambiente, indirizzato ai sindaci di tutte le città italiane per ripartire insieme in questo periodo di crisi sanitaria, economica e sociale. E per ripartire non si può che ripensare ai nostri stili di vita e fare un passo avanti rispetto a quella “normalità” che ci ha condotti fino a questo punto di non ritorno. Perché per cambiare questa situazione dobbiamo innanzitutto cambiare noi stessi e molte delle “comode” abitudini quotidiane che ci hanno accompagnato fin ora. Da dove ripartire? La strada è lunga, eppure il vero cambiamento potrebbe partire proprio da quelle soluzioni attuabili nel breve termine, che sono al tempo stesso a basso costo e già contenute nelle leggi dello Stato. In questa direzione Legambiente ha proposto ai sindaci delle città italiane cinque esempi per riorganizzare una nuova mobilità sostenibile, capace di facilitare la nostra convivenza col virus. Si tratta in questo modo di ripensare sin da ora una mobilità “per il dopo”, che permetta di rispettare il distanziamento tra le persone e che, al tempo stesso, porti altri ormai ovvi benefici: riduzione dell’inquinamento, restituzione dello spazio pubblico ai cittadini, promozione di un commercio di prossimità.

https://www.italiachecambia.org/wp-content/uploads/2020/04/soluzioni-green-1024x681.jpg

«Occorre intervenire subito su quelle misure che hanno una valenza sanitaria e ambientale e che possono dare delle risposte alle regole imposte dal Covid19», ha affermato Stefano Ciafani, presidente nazionale di Legambiente. «Con queste 5 misure che proponiamo oggi ai sindaci, milioni di lavoratori, studenti e famiglie potranno muoversi da subito in maggiore sicurezza e libertà contribuendo a ridurre le emissioni di gas serra. Per far ciò è indispensabile un impegno da parte di tutti, cittadini, sindaci, società di trasporto e governo, consapevoli che il Paese oltre ad un decreto Cura Italia, ha bisogno anche di provvedimenti che mettano al centro le città e i comuni perché è da qui che bisogna prima di tutto ripartire».

Quali sono dunque queste cinque misure concrete per ripensare la mobilità post Covid-19?

1. Sicuri sui mezzi pubblici

In uno scenario post covid-19 saranno molti coloro che eviteranno l’utilizzo di bus e treni, tram e metro, per timore del contagio. Per questo man mano che le città ricominceranno a muoversi, Legambiente suggerisce che si dovranno riprogrammare con attenzione le corse, garantire le distanze di sicurezza, ripensare gli orari della città per evitare congestione e traffico nelle ore di punta. Sarà fondamentale un continuo e attento monitoraggio, sia dei mezzi che delle stazioni, dove si dovranno introdurre controlli e tornelli per contingentare gli ingressi oltre a garantire una quotidiana sanificazione.

https://www.italiachecambia.org/wp-content/uploads/2020/04/soluzioni-green2-1024x681.jpg

2. Più persone in bici e percorsi ciclabili nuovi

La bici, come ben sappiamo, rappresenta il mezzo che permette di mantenere il migliore distanziamento tra le persone: è proprio ora il momento di realizzare percorsi ciclabili temporanei (con segnaletica orizzontale e verticale) lungo gli assi prioritari e le tratte più frequentate, riservando lo spazio per poi dotarli di protezioni e passaggi esclusivi mirando a trasformarli nei mesi successivi in vere ciclabili. Parliamo di interventi a costo quasi zero e, secondo Legambiente, le risorse per realizzare delle vere ciclabili ci sono: nella Legge di Bilancio 2020 sono stati stanziati 150 milioni di Euro per il co-finanziamento di percorsi ciclabili urbani.

3. Rafforzare la sharing mobility

Come spiegato, le più efficienti alternative all’auto privata in città, per chi non vorrà prendere i mezzi pubblici, dovranno diventare tutti i mezzi in sharing: auto (meglio elettriche), bici, e-bike, scooter elettrici e monopattini. I Comuni dovranno stringere accordi con le imprese per avere più mezzi e in più quartieri, a costi molto più contenuti. Serviranno risorse, ma il servizio potrà avere grande successo e in parte ripagarsi. In ogni caso saranno soldi ben spesi quelli per potenziare il servizio (con controllo, sanificazione e ridistribuzione dei mezzi nelle diverse ore e luoghi della città) perché avremo offerto mobilità sostenibile a buon mercato a milioni di cittadini.

https://www.italiachecambia.org/wp-content/uploads/2020/04/Soluzioni-green3-1024x681.jpg

4. Aiutare i cittadini a rottamare l’auto e scegliere la mobilità sostenibile

Come affermato da Legambiente, «Qui i Sindaci devono farsi sentire, perché le risorse ci sono! Cosa aspetta il Ministero dell’Ambiente a mettere a disposizione i fondi per “Programma Buoni di mobilità” previsti dal decreto Clima approvato a dicembre scorso?». Si tratta di 1.500 euro alle famiglie che rottamano una vecchia auto che non può più circolare (Euro3 o più inquinante) oppure 500 euro per un vecchio ciclomotore, per acquistare abbonamenti, e-bike e sharing mobility. Si potrebbe così subito dimezzare la spesa media per i trasporti per 250 mila famiglie italiane (3.500 euro all’anno secondo l’Istat).

5. Più smart working

Ai Sindaci Legambiente chiede di spingere sul lavoro agile per riorganizzare il lavoro dell’amministrazione pubblica e aiutare tutte le attività che scelgono di andare in questa direzione. Serviranno risorse, ma soprattutto idee nuove. Esistono tutte le possibilità per premiare con vantaggi fiscali sia le aziende che i lavoratori che decideranno di puntare su soluzioni innovative di smart working e mobility management di comunità. Ad esempio, i vantaggi fiscali di cui oggi beneficiano le auto aziendali possono essere estesi anche a mezzi e investimenti organizzativi per il lavoro a distanza, ai mezzi pubblici, alla condivisione e alla mobilità elettrica o muscolare in tutte le sue forme.

https://www.italiachecambia.org/wp-content/uploads/2020/04/Bicicletta-1024x681.jpg

Certamente, la strada da percorrere per andare in questa direzione è lunga. Ma è anche vero che non vi è momento migliore di questo per riflettere e agire per la nostra salute, il nostro benessere psicofisico e per ricostruire una città a misura di persona. Proprio a Torino Bike Pride e diverse associazioni della Consulta della Mobilità Ciclistica e Moderazione del Traffico hanno chiesto al Comune e alla Regione di mettere in atto delle soluzioni sostenibili per l’avvio della fase 2. Perchè se è facile prevedere che molti abbandoneranno il trasporto pubblico per scegliere di muoversi in automobile, è facile anche immaginarne le conseguenze, prima tra tutte un collasso della mobilità, in particolare nelle città metropolitane. La proposta delle associazioni è stata quindi quella di garantire altre forme di mobilità alternative all’auto, prevedendo di rendere i controviali della città ciclopedonali con accesso ai veicoli a motore solo per la svolta, il posteggio e l’accesso alle abitazioni e con limite di velocità massimo a 20 chilometri all’ora, oltre che la realizzazione di infrastrutture pedonali e ciclabili a basso costo e rapida attuazione.

Fonte: https://www.italiachecambia.org/2020/04/ripartenza-bisogno-soluzioni-green-non-restituiteci-vecchie-citta/?utm_source=newsletter&utm_medium=email

Mediterraneo a un passo dal collasso

Ivasione-di-meduse

Il Mar Mediterraneo, il “mare nostrum” sul quale si affaccia una popolazione di 150 milioni di persone (+17% rispetto al 2000) è sull’orlo del collasso. Le cause sono tante: dall’esplosione demografica al turismo, dall’acquacoltura all’inquinamento. In questo mare che rappresenta l’1% delle acque marine mondiali sono presenti dal 4 al 18% delle specie marine conosciute, una biodiversità in pericolo secondo lo studio MedTrends, pubblicato la scorsa settimana dal WWF. Il Mediterraneo è a un passo dal burn out ovverosia del punto di non ritorno in cui la sua fauna non sarà più in grado di rigenerarsi. Il trasporto marittimo, la pesca, lo sfruttamento delle risorse minerarie, gli impianti eolici e la protezione dei cetacei sono le criticità con le quali occorre e occorrerà fare i conti. L’unico dato in diminuzione è quello della pesca professionale: nel Mediterraneo ci sono sempre meno pesci per alimentare l’approvvigionamento delle 73 imbarcazioni della regione. Cresce, invece, l’acquacoltura passata dalle 540mila tonnellate del 1990 al milione e 400mila tonnellate di oggi. Nell’ultimo mezzo secolo il numero delle città con più di 10mila abitanti situate lungo i 46mila chilometri di costa mediterranea è praticamente raddoppiato. Il Mediterraneo attira 300 milioni di turisti ogni anno ed è la seconda regione al mondo per il turismo delle crociere dopo i Caraibi. Fra le specie acquatiche maggiormente minacciate da questo ipersviluppo vi sono le foche monache, i tonni rossi e gli squali. E, secondo il rapporto di WWF, il raddoppio del Canale di Suez (97 navi al giorno nel 2023 contro le 49 attuali) farà letteralmente esplodere i rischi di collisioni, inquinamento, rumore sottomarino e gli ingressi di specie aliene in grado di alterare gli equilibri ecosistemici dei nostri mari.

Fonte:  WWF

Nuova Delhi sull’orlo del collasso: 80 milioni di auto e 1000 nuove immatricolazioni al giorno

Inquinamento e traffico stanno portando New Delhi all’esplosione. on 80 milioni di veicoli circolanti e mille nuove immatricolazioni ogni giorno, la rete stradale si sta rivelando completamente insufficiente nonostante la massiccia costruzione di sopraelevate degli ultimi anni379793

New Delhi, seconda metropoli più popolosa al mondo con 25 milioni di abitanti è sull’orlo del collasso per gli enormi problemi causati dal sovraffollamento in termini di inquinamentotrasporto urbano inadeguatoscarsità idrica e l’assenza di pianificazione urbanistica.  In una pagina dedicata alla capitale indiana, il quotidiano The Times of India elenca le enormi sfide che la megalopoli dovrà affrontare nei prossimi 15 anni quando si prevede che la sua popolazione raggiungerà i 37 milioni avvicinandosi al primato di Tokyo. Con 80 milioni di veicoli circolanti e mille nuove immatricolazioni ogni giorno, la rete stradale è inadeguata nonostante la costruzione di sopraelevate.
Le nuove linee della metropolitana, che trasporta circa 2 milioni di pendolari al giorno, contribuiscono solo in parte alla soluzione del grosso problema della mobilità urbana. Di conseguenza, da alcuni anni si registra un aumento record dell’inquinamento dell’aria, in termini di polveri sottili e, in particolare, di quelle con diametro di 2,5 micron, le più pericolose per la salute perché si depositano negli alveoli dei polmoni. Se non si interverrà per ridurre il traffico, l’inquinamento atmosferico è destinato a raddoppiare entro il 2020.  E’ allarme rosso anche per il trattamento delle acque, dato che il 46% delle case non ha le fognature. Il fiume Yamuna, che attraversa la città, è una cloaca a cielo aperto e malgrado i costosi piani di bonifica non sembrano esserci miglioramenti. Negli ultimi dieci anni, è raddoppiato il consumo di energia elettrica che continua ad aumentare del 10-15% all’anno. Durante la stagione estiva, con i condizionatori, la domanda raggiunge il suo picco e sono frequenti i blackout.

Fonte: ecodallecittà.it

Pesca, la maggiore pressione sugli ecosistemi è generata dall’Asia Orientale

I tropici contribuiscono ormai al 42% delle catture. Il consumo in Indonesia, Cina, Filippine e Vietnam è cresciuto di 12 milioni di tonnellate. Non è solo il consumo di pesce del ricco occidente a minacciare il futuro delle specie marine; secondo il rapporto State of the Tropicsla pesca nelle zone tropicali è in crescita, mentre nel resto del mondo è in lieve calo dal 1988. Se i tropici pesavano per il 12% negli anni ’50, la loro fetta è oggi arrivata al 42% del totale delle catture (esclusa quindi l’acquacoltura). La crescita maggiore si è riscontrata nell’Asia Sud Orientale: Indonesia, Cina, Filippine e Vietnam hanno aumentato i propri consumi di 12 milioni di tonnellate. La combinazione di crescita demografica e miglioramento del livello di vita ha contribuito ad aumentare la pressione sugli ecosistemi marini. Oggi in questa regione il consumo pro capite di pesce (32 kg/anno) supera del 70% la media planetaria (dati FAO). Il rischio è che un sovrasfruttamento degli stock possa portare al collasso della pesca in questa regione, colpendo soprattutto le comunità più povere che basano la propria sopravvivenza sulla pesca di piccola scala. Questo è già avvenuto in Perù, dove la pesca delle acciughe è cresciuta da 75000 a 12 milioni di tonnellate tra il 1950 e il 1970, per poi crollare brutalmente negli anni ’70 per la distruzione della popolazione. Solo ora gli stock stanno iniziando a riprendersi. Una situazione simile si è verificata con la catastrofe del merluzzo nel nord Atlantico. Si ritiene che il sofrasfruttamento e gli sprechi nel mondo della pesca causino danni per circa 50 miliardi di dollari all’anno.  Una gestione più sostenibile della pesca è quindi vitale di fronte alla duplice minaccia dei cambiamenti climatici e della crescita della popolazione.

Pesca-tropici

Fonte: ecoblog.it

Il possibile collasso della civiltà secondo uno studio della NASA: effetto di sovraconsumo e disuguaglianza

Per la prima volta si mostra attraverso un modello matematico che la maggiore disuguaglianza sociale aumenta il rischio di collasso della società per sovrasfruttamento delle risorse.(1) che possa prevedere il collasso della nostra società per il sovrasfruttamento delle risorse naturali. Sta facendo abbastanza discutere uno studio delle università del Maryland e del Minnesotafinanziato dalla NASA che ha lo scopo di creare un modello (1) che possa prevedere il collasso della nostra società per il sovrasfruttamento delle risorse naturali. Questo lavoro non ha naturalmente il livello di sofisticazione e di complessità svolto dal gruppo del MIT a proposito dei limiti dello sviluppo, ma contiene un elemento interessante ed inedito: per la prima volta indaga sul ruolo della disuguaglianza sociale nell’eventuale collasso della civiltà. Il modello mostra che il collasso è tanto più probabile, quanto è maggiore lo sfruttamento naturale e la stratificazione in classi sociali. I grafici qui sotto mostrano due possibili scenari di raggiungimento dell’equilibrio, quando il fattore di disuguaglianza è pari solo a 10,  oppure di collasso nel caso di una società fortemente disuguale in cui le elite consumano 100 volte il consumo della gente comune (il loro numero effettivo è quindi moltiplicato per cento) (2).Equilibrio-o-collasso-620x307

Le conclusioni dell’articolo sono chiare ed inequivocabili e dovrebbero rappresentare la base di ogni politica sensata di governo:

Il risultato dei nostri esperimenti indica che una sola tra queste due caratteristiche, il sovrasfruttamento delle risorse e una forte stratificazione economica, possono portare indipendentemente al collasso. Data una certa stratificazione economica, il collasso è difficile da evitare e richiede cambiamenti politici di grande rilievo, tra cui una siginificativa riduzione delle disuguaglianza e della crescita della popolazione. Anche in assenza di stratificazione economica, il collasso può comunque avvenire se i consumi pro capite sono troppo alti. Il collasso può tuttavia essere ridotto e la popolazione può raggiugnere un valroe di equilibrio se il consumo pro capite delle risorse è ridotto a un livello sostenibile e se le risorse sono distribuite in modo ragionevolmente equo.

Per la prima volta il tema della giustizia sociale fa il suo ingresso nei modelli sulla capacità di carico dell’ecosistema, e questo è molto importante. Come affermato dai ricercatori, non ci possiamo però illudere che uguaglianza significhi di per sè sostenibilità.

(1) Il modello matematico è naturalmente una descrizione semplificata delle realtà, che prende in considerazione quattro variabili: popolazione comune, popolazione delle elitè (i ricchi), le risorse naturali e la ricchezza della società. L’evoluzione di queste quattro variabili è descritta da equazioni che prendono ispirazione dal modello predatore-preda di Lotka-Volterra.

(2) Non è possibile qui approfondire gli aspetti di questo modello che andrebbe studiato per poter essere presentato nel modo più efficace. Mi piacerebbe farlo, se riuscissi a trovare il tempo.

Fonte: ecoblog.it

Il global warming e il collasso della produttività del lavoro

Se le emissioni proseguiranno secondo il business as usual, le ondate di calore causeranno una riduzione della capacità lavorativa fino al 60% a fine secolo, con punte fino al 20-30% nelle zone equatoriali e tropicali. I costi derivanti dalla perdita di produttività supereranno tutti gli altri costi imputabili al global warmingRiduzione-produttività-del-lavoro-nel-XXI-secolo-432x337

La produttività è un’ossessione degli industriali che pensano di poter costringere i lavoratori a ritmi sempre più rapidi “per essere competitivi” (1). D’altra parte, esistono soglie minime di produttività per poter garantire “il mondo come lo conosciamo”. Queste soglie minime verranno sempre più messe a rischio dai cambiamenti climatici, come illustra uno studio  della NOAA: l’aumento delle temperature globali farà crescere lo stress da caldo e ridurre la capacità lavorativa, come è illustrato nel grafico in alto (2). Secondo l’analisi il costo della perdita di produttività potrebbe superare tutti gli altri costi indotti dal global warming messi insieme, e non c’è da stupirsi, visto che il lavoro è la base della società umana. (3). Nel probabile caso di emissioni business as usual è prevista una riduzione della capacità lavorativa fino al 60% alla fine del secolo (zona in rosso). La diminuzione potrebbe fermarsi all’80% nell’improbabile  caso di emissioni dimezzate (zona in blu). Ancora più impressionante è la riduzione della capacità lavorativa per zone geografiche (mappa qui sotto). In caso di aumento di 3°C, scenario probabile se si continuerà a inquinare come oggi, nelle zone equatoriali e tropicali la capacità lavorativa potrebbe calare fino al 20-30%.Riduzione-produttività-zone-geografiche-432x174

(1) In Tempi moderni, Charlie Chaplin è stato il primo a cogliere la disumanizzazione di un lavoro in cui gli uomini devono seguire il ritmo delle macchine.

(2) La capacità lavorativa è definita come il rapporto tra la produttività minima annuale e la produttività massima: essendo adimensionale, viene rappresentata come una percentuale.

(3) L’arti. 1 della Costituzione Italiana, prima ancora di essere un omaggio ai lavoratori è un omaggio alla Fisica.

Fonte: ecoblog

Prima legge dell’ecologia: ogni cosa è connessa con qualsiasi altra

Fin dal lontano 1971 il biologo Barry Commoner ha enunciato le quattro leggi dell’ecologia. La prima afferma che ogni cosa è connessa con qualsiasi altra. Se il sistema è sottoposto ad uno stress eccessivo può non autocorreggersi più e collassareBrainforest-586x382

«L’ambiente costituisce una macchina vivente, immensa e enormemente complessa, che forma un sottile strato dinamico sulla superficie terrestre. Ogni attività umana dipende dal funzionamento adeguato di questa macchina.

Senza l’attività fotosintetica delle piante verdi non disporremmo di ossigeno per fare funzionare i motori e le fonderie, tanto meno potremmo mandare avanti la vita umana ed animale.

Senza l’azione sinergica delle piante, degli animali e dei microorganismi che vivono nel laghi e nei fiumi non potremmo avere acqua pulita. Senza i processi biologici, che per millenni hanno avuto corso nel terreno, oggi non avremmo nè raccolti, nè petrolio, nè carbone. Questa macchina è il nostro capitale biologico, l’apparato di base da cui dipende tutta la nostra produttività. Se la distruggiamo, anche la nostra tecnologia più avanzata risulterà del tutto inutile, e vedremo cadere tutti i sistemi economici e politici che dipendono da queste strutture. La crisi ambientale non è che un segnale premonitore della catastrofe imminente. Messi di fronte a una situazione complessa come l’ambiente, noi tendiamo a scomporlo in una serie di eventi semplici e separati, e nella speranza che la loro somma dia in qualche modo un quadro generale dell’insieme.

La crisi ambientale in cui ci troviamo a vivere ci ammonisce a non cullarci in speranze illusorie… tutti questi dati separati non hanno ancora fornito delle sintesi capaci di spiegare ad esempio l’ecologia di un lago, o la sua vulnerabilità. Ogni cosa è collegata ad un’altra, mentre il sistema è reso stabile dalle sue dinamiche proprietà di autocompensazione; queste stesse proprietà, se sottoposte ad uno stress eccessivo, possono condurre ad un drammatico collasso; la complessità della rete ecologica e la sua intrinseca velocità di ricambio determinano il livello massimo di stress  cui può essere sottoposto un ecosistema, nonché il tempo massimo di funzionamento prima del crollo. La rete ecologica è un amplificatore: una piccola perturbazione in una sua parte può avere ampi effetti,a distanza e nei tempi lunghi»

Barry Commoner, Il cerchio da chiudere, Milano 1971, pp 27,31-32,44, 47

Fonte: ecoblog