Coldiretti: “Inquinamento dell’aria a Torino, basta usare l’agricoltura come capro espiatorio”

Sergio Barone: “È assolutamente ridicolo, per un’area urbana tra le più trafficate d’Italia, cercare nell’agricoltura il capro espiatorio dell’inquinamento dell’aria di Torino”

L’agricoltura non può essere responsabile del peggioramento della qualità dell’aria che, da settimane, sta nuovamente ammorbando Torino. Lo afferma Coldiretti Torino.

“Per una ragione molto semplice – precisa il presidente Sergio Barone – In questo periodo dell’anno l’agricoltura è praticamente ferma. Se si esclude la normale vita delle mucche e dei maiali nelle stalle, non ci sono concimazioni, a parte qualche agricoltore che si porta avanti col lavoro spargendo naturalissimo letame, concime principe dell’agricoltura sostenibile che accompagna la produzione di cibo fin dagli albori dell’agricoltura neolitica, cioè da 5.000 anni. È assolutamente ridicolo, per un’area urbana tra le più trafficate d’Italia, cercare nell’agricoltura il capro espiatorio dell’inquinamento dell’aria di Torino”.

Nel suo ultimo rapporto, l’Ispra, braccio tecnico del Ministero della transizione ecologica, ha indicato nel traffico e nelle emissioni industriali le prime cause di emissioni di gas serra. Ne è un esempio il peggioramento della qualità dell’aria dopo i miglioramenti registrati durante i lockdown del 2020: con le chiusure la qualità dell’aria è migliorata perché è crollato il traffico per il divieto degli spostamenti e per la didattica a distanza; questo mentre l’agricoltura e l’allevamento hanno continuato a funzionare a pieno regime per garantire i rifornimenti alimentari. Quando è tornato a crescere il traffico è tornato a crescere anche l’inquinamento da gas serra. Le emissioni dell’agricoltura sono limitate a queste fonti: per il PM10, gli scarichi dei mezzi agricoli, che sono in numero limitato in confronto al parco veicoli circolanti; l’abbruciamento delle stoppie e dei residui colturali, pratica sempre più limitata che oggi non attua quasi più nessuno; le emissioni di gas azotati, come l’ammoniaca, derivati dallo spandimento dei concimi, dall’urina dei bovini e dei suini; Per le emissioni di gas serra, il metano rilasciato dalle deiezioni e la flatulenze degli stessi bovini e suini che vivono nelle stalle. E, per quanto si consigli di migliorare l’alimentazione animale per ridurre le emissioni di gas intestinale, le stalle non sono certo l’attività economica prevalente per l’area urbana torinese. Se si guarda al particolato fine (Pm 10 e PM 2,5) da sempre si sa che è prodotto soprattutto dai fumi di combustione. I maggiori imputati sono i motori diesel e benzina più vecchi, i processi industriali che generano fumi e le centrali termiche non ancora metanizzate. Queste sono fonti dirette di produzione di polveri sottili.

La responsabilità della formazione di particolato da parte del comparto agricolo è, invece, soprattutto, di tipo indiretto: gli effluvi di ammoniaca provocati dalle deiezioni animali e dei concimi reagiscono negli strati alti dell’atmosfera formando anche loro, come avviene per i fumi, solfati e nitrati di ammonio, che costituiscono gran parte della componente, secondaria, inorganica, del particolato. Si tratta del cosiddetto “smog fotochimico” che si forma in alto, molto in alto, negli strati superiori dell’atmosfera, dove viene quasi sempre disperso dalle grandi correnti d’aria intercontinentali che, per l’area torinese, scorrono prevalentemente da ovest-sud ovest verso est. Visto che a ovest di Torino ci sono le Alpi che, in inverno, praticamente non ospitano attività agricole, questo particolato di origine agricola non investe l’area torinese ma vola verso altre zone della Pianura Padana. Inoltre, sempre a proposito di emissioni agricole di ammoniaca leggiamo sul sito di ARPA Piemonte che “dal punto di vista temporale, le emissioni di ammoniaca a seguito dello spandimento di reflui zootecnici si collocano nel periodo compreso fra febbraio e novembre, principalmente in primavera e autunno”, quindi, non può essere la concimazione dei campi la prima causa dell’inquinamento dell’aria di Torino nei mesi invernali.

Altro punto: gli studi sul contributo degli ossidi di azoto nella formazione del particolato e gli studi sul contributo dell’agricoltura nel diffondere ossidi di azoto sono ancora tutti troppo recenti per trarre conclusioni affrettate. Mentre i contributi delle emissioni al suolo di PM10 e di ossidi azoto sono ben conosciuti. Si sa da sempre che sono prodotte direttamente dai motori e dalle caldaie in loco, cioè nella stessa area urbana di Torino e ristagnano con le alte pressioni e con le inversioni termiche invernali.

Senza l’agricoltura l’area urbana torinese non avrebbe il grande contributo verde di sequestro della CO2 e delle stesse polveri sottili determinato dalle colture: le coltivazioni e il verde urbano forniscono, infatti, un efficiente contributo per disinquinare l’aria nelle città e nelle periferie.

Fonte: ecodallecitta.it

A Torino una vecchia fabbrica si trasforma in orto urbano per le api

Nel quartiere di Mirafiori sud, a Torino, sorge un vecchio edificio industriale, da molti anni dismesso. Dal suo recupero sta nascendo il progetto Orto Wow, non un semplice orto urbano, bensì un’oasi naturale dove si coltivano piante mellifere capaci di attirare le api, che qui potranno contribuire a creare biodiversità in città e stimolare l’apicoltura urbana, coinvolgendo i residenti nella cura di questo splendido angolo di natura. Nel bel mezzo del quartiere di Mirafiori sud, circondata da palazzi ed edifici industriali sorgerà una nuova casa che, a differenza di quelle del circondario, avrà delle ospiti d’eccezione: le api. Ci troviamo in via Onorato Vigliani e proprio qua si trova un vecchio complesso abbandonato, precedentemente adibito alla meccanizzazione agricola e ora in fase di riconversione, che ci dimostra come anche le zone più industriali possono diventare un luogo dove la natura riconquista i suoi spazi. Tutto questo grazie al contributo di Elena Carmagnani ed Emanuela Saporito, fondatrici di Orti Alti, associazione che, come vi abbiamo raccontato in un precedente articolo, stanno diffondendo a Torino la cultura del verde, attraverso la realizzazione di orti urbani sui tetti di edifici e palazzi.

Qui sta nascendo Orto Wow, con uno speciale giardino in cassoni per piante impollinatrici, un tetto verde coltivato a prato naturale e un grande apiario, per diffondere l’apicoltura nelle nostre città. Il pezzo forte del progetto è il “pollinator garden”, un giardino formato da 16 cassoni in legno disposti a creare percorsi e zone di sosta. Come ci spiegano Elena ed Emanuela, «In questi cassoni è in corso la semina e la piantumazione di piante mellifere, ovvero piante che, insieme al tetto verde, costituiranno il “pascolo” delle api e di altri insetti impollinatori».

Le piante mellifere coltivate, definite in collaborazione con il dipartimento di agronomia dell’Università di Torino, prevedono la semina di molteplici varietà di piante molto apprezzate dalle api come salvia, calendula, tarassaco, borraggine, papavero, senape selvatica, giglio, fiordaliso e iperico, oltre che il trapianto di timo, erba cipollina e menta. «Al suo interno si sperimenta l’utilizzo del “new soil”, un nuovo suolo rigenerato e creato per inserire terreno fertile nei parchi urbani che sono nati dall’abbandono di aree industriali, spesso di scarsa qualità e inadatto a qualsiasi uso».

 La realizzazione di Orto Wow rientra nell’ambito di ProGiReg, un progetto europeo finalizzato a sperimentare soluzioni “nature based” per la rigenerazione urbana e sociale delle città. Questi primi interventi infatti vanno nella direzione di avviare la riqualificazione di un complesso abbandonato che può essere rigenerato a partire da una sua nuova vocazione green. L’apiario è poi parte integrante del progetto e sarà curato dall’associazione Parco del Nobile che da molti anni si occupa di apicoltura urbana.L’integrazione dell’allevamento di api per la produzione di miele urbano con la realizzazione di orti e giardini melliferi è fortemente perseguita da OrtiAlti in molte sue realizzazioni. Come ci viene spiegato da Elena ed Emanuela, «Le piante mellifere si combinano perfettamente con le piante orticole e nel caso dell’Orto Wow l’inserimento delle attività di apicoltura rientra anche in un programma di Science Education che riguarda tutto il progetto. Inoltre, la presenza del mercato dei produttori di Coldiretti che qui si svolge, può essere messa in relazione con la produzione del miele WOW per innescare micro-economie di quartiere».

La fabbrica dismessa diventerà in questo modo un vero e proprio corridoio ecologico per favorire nuove connessioni e contribuire a riequilibrare gli ecosistemi naturali. Come ci viene spiegato, «Un corridoio ecologico è un’area verde studiata per preservare specie di animali e di piante, permettendo il passaggio graduale di animali e semi da un habitat all’altro. La possibilità di realizzare queste infrastrutture verdi all’interno delle città è fondamentale poiché permette di ripristinare la biodiversità biologica, cioè la variabilità di tutti gli organismi viventi e degli ecosistemi di cui fanno parte».

E saranno proprio gli abitanti del quartiere a prendersi cura e a mantenere il pollinator garden, occupandosi dei cassoni e dell’area dedicata all’orto, utilizzando lo spazio verde per lo svolgimento di attività ludiche. Il tutto grazie alla Fondazione Mirafiori che a pochi passi gestisce la Casa nel Parco, casa del quartiere di Mirafiori sud.

«Purtroppo la situazione Covid ha impedito di partire con il calendario di attività programmate da questo giugno e le iniziative sono state rinviate alla prossima primavera. Intanto però è iniziato un lavoro per la proposta di un patto di collaborazione per la cura dell’area che mette insieme la Fondazione Mirafiori, l’associazione Parco del nobile (che si occupa delle api), Coldiretti e un gruppo informale di cittadini appassionati di api e biodiversità che si chiama Comunità degli Impollinatori Metropolitani».

 L’obiettivo è di arrivare nei prossimi mesi alla firma di un patto con la Città per la gestione del giardino in cassoni, avendo a disposizione anche dei locali dell’edificio dove svolgere attività formative intorno ai temi della biodiversità e dell’apicoltura urbana.

Fonte: italiachecambia.org

Olio extravergine d’oliva: cosa cambia dal 1° luglio 2016

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A partire dal 1° luglio 2016 sarà illegale mettere sulle bottiglie di olio extravergine d’oliva simboli che richiamano l’italianità se il prodotto non è stato ottenuto da olive coltivate su territorio nazionale. A cambiare le regole è il decreto 103/2016 del Ministero delle politiche agricole, fortemente sostenuto da Coldiretti, che è stato pubblicato in Gazzetta ufficiale. Si tratta, naturalmente, di un passo in avanti sia per la tutela dell’olio d’oliva, sia per quanto concerne una maggiore difesa dei consumatori e dei produttori. I produttori che riporteranno “segni, figure o illustrazioni che possono evocare un’origine geografica diversa da quella indicata in etichetta” verranno sanzionati. Insomma se in etichetta verrà segnalata la provenienza delle olive da Tunisia o Spagna non si potrà evocare il “made in Italy”. Per la prima volta viene sanzionato ilCountry sounding ovvero il fatto che sulla confezione vengano posti segni che richiamano un’origine geografica diversa da quella indicata in etichetta. La norma consente di punire i comportamenti di concorrenza sleale messi in atto da tutti i marchi registrati in Italia successivamente al 31 dicembre 1998 o in Europa al 31 maggio 2002.

Fonte:  Coldiretti

 

Spreco alimentare: una legge per combatterlo

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È di 12,5 miliardi di euro l’ammontare degli sprechi alimentari in Italia. Il 54% viene perso al consumo, il 21% nella ristorazione, il 15% nella distribuzione commerciale, l’8% in agricoltura e il 2% durante la trasformazione. La nuova legge contro gli sprechi alimentari al vaglio della Camera viene giudicata positivamente da Coldiretti che plaude all’obiettivo di ridurre gli sprechi alimentari di un milione di tonnellate. Si tratta di un target raggiungibile anche perché – secondo un’indagine – il 53% degli italiani ritiene che il contenimento degli sprechi alimentari dipenda soprattutto dalle scelte dei consumatori, mentre il 46% sostiene che questi possano essere combattuti con una migliore pianificazione della spesa. Sempre secondo i dati in possesso di Coldiretti, ogni italiano butta circa 76 chili di cibo ogni anno. Compito della legge al vaglio del parlamento è contrastare questo fenomeno da una parte con l’educazione, facendo crescere la consapevolezza dell’entità di un simile fenomeno, dall’altra semplificando le donazioni per le aziende e quelle dirette agli indigenti. Il Parlamento francese ha approvato una serie di misure contro lo spreco dei cibo, ora tocca all’Italia fare qualcosa anche perché i Paesi dell’Unione Europea hanno sottoscritto un impegno per dimezzare lo spreco alimentare da oggi (100 milioni di tonnellate all’anno) al 2030, con una riduzione in ognuno degli step della filiera, dal campo alla tavola.

Fonte:  Coldiretti

 

Coldiretti chiede l’abbattimento delle nutrie

Alle attività delle nutrie vengono attribuiti danni per 4,5 milioni di euron tria

Coldiretti Emilia Romagna chiede che riparta al più presto il piano regionale di abbattimento delle nutrie, questo dopo che la pubblicazione del Collegato ambientale della Legge di stabilità consente di ricorrere ai piani di contenimento delle Regioni con le stesse modalità previste per la fauna selvatica (i cinghiali per esempio). Coldiretti specifica che fra il 2003 e il 2014 le nutrie hanno fatto all’agricoltura danni per 2,5 milioni di euro, ai quali si aggiungono 2 milioni di euro per danni a canali e strutture. Dopo che le nutrie sono state declassificate a specie infestante la lotta a questi animali è passata dal livello regionale a quello comunale, ostacolando i piani di abbattimento.
Le nutrie sono presenti in un’area di un milione di ettari, circa la metà della superficie regionale totale:

“È necessario ripartire con un piano di eradicazione adeguato per liberare fiumi, canali e campagne. Oltre ai danni all’agricoltura, che non vengono più risarciti da quando è stata classificata come specie infestante, la nutria è dannosa anche per la biodiversità perché fa sparire altre specie animali”,

conclude il presidente regionale Mauro Tonello. Intanto l’assessore regionale all’Agricoltura, caccia e pesca, Simona Caselli, fa sapere che si sta lavorando alla“redazione del Piano regionale per il contenimento delle nutrie sul territorio emiliano-romagnolo”, uno strumento con il quale sarà possibile “operare in modo organico e omogeneo, ovviando alle inevitabili difficoltà operative riscontrate specialmente dai piccoli Comuni”.

Le nutrie non sono una specie autoctona ma furono importate all’inizio del Novecento per essere impiegate nella produzione del cosiddetto “castorino”. Una volta passato di moda l’utilizzo di questo tipo di pellicce gli animali sono proliferati nel Nord Italia. Nel novembre 2013 la Provincia di Cremona è arrivata addirittura a offrire munizioni gratuite ai cacciatori pur di limitarne la proliferazione nelle campagne della zona.

Fonte:  Ansa 

Si spende più per la frutta e la verdura che per la carne

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Per la prima volta da quando vengono effettuati i rilevamenti sulla tipologia di spesa alimentare delle famiglie italiane, la quota di budget riservata a frutta e verdura ha superato quella per la carne. Secondo l’analisi compiuta da Coldiretti, sulla base dei dati Istat relativi all’ultimo quindicennio, si tratta della prima volta che questo accade dall’inizio di questo secolo. Frutta e verdura rappresentano ora il 23% del budget che le famiglie riservano all’alimentazione per un importo di 99,5 euro al mese contro i 97 euro della carne che incide per il 22% del totale e perde, per la prima volta, il primato. L’affermazione dell’ortofrutta nella dieta degli italiani ha permesso all’Italia – come ha sottolineato Coldiretti in un incontro svoltosi all’Expo – di mantenere la leadership continentale del settore con un fatturato complessivo di 13 miliardi di euro distribuito su con 236.240 aziende che producono frutta, 121.521 che producono ortaggi, 79.589 patate e 35.426 legumi secchi”. E non solo, sono sempre di più le persone che praticano il fai da te coltivando sulle proprie terrazze, negli orti privati e pubblici lattughe, pomodori, piante aromatiche, peperoncini, zucchine, melanzane, ma anche di piselli, fagioli fave e ceci da raccogliere all’occorrenza.

Fonte:  Coldiretti 

Coldiretti, furto di angurie nuovo business della criminalità

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Con il caldo e l’incremento della richiesta di uno dei frutti più freschi e reidratanti della stagione, la criminalità ha dato vita a un nuovo business fraudolento, il furto di angurie. Il pesante e redditizio frutto estivo viene portato via dai campi, con i camion, e dalle serre, con danni ingenti per le strutture. Coldiretti ha lanciato l’allarme allertando le prefetture delle zone maggiormente colpite dal fenomeno. È soprattutto il grande caldo ad avere suscitato l’interesse per questo frutto e Coldiretti avverte i consumatori consigliando loro di rivolgersi agli agricoltori nelle fattorie o ai contadini che partecipano ai mercatini di Campagna Amica. In seguito ai fenomeni sono stati chiesti maggiori pattugliamenti nelle zone rurali, con una più massiccia presenza delle forze dell’ordine nelle campagne. Il fenomeno dei furti in campagna è in preoccupante aumento con bande di malviventi che rubano di tutto, dalla frutta alla verdura, dalle piante al carburante, dagli attrezzi agricoli ai trattori.

Fonte:  Coldiretti

Frodi alimentari quasi quadruplicate dall’inizio della crisi

Due italiani su tre ammettono di essere preoccupati per la salubrità dei cibi e chiede un inasprimento delle pene per chi commette frodi alimentari. La crisi ha fatto esplodere il fenomeno delle frodi alimentari. Coldiretti ha condotto un’indagine in base ai dati raccolti dai carabinieri dei Nas sulle frodi alimentari rilevate nei primi nove mesi dell’anno dal 2008 al 2014. Non si tratta di una scelta causale, visto che la crisi, in Italia, arrivò proprio nell’ottobre 2008. Ebbene in sei anni, dal 2008 la 2014, le frodi scoperte dai Nas hanno subito un incremento del 277%. Dai cibi scaduti a quelli etichettati in maniera fraudolenta, dai cibi low cost a quelli in cattive condizioni igienico-sanitarie o privi di tracciabilità, il cibo italiano, in virtù della sua qualità unanimemente riconosciuta, fornisce ampi margini di guadagno a chi decide di sfruttarne la fama in maniera illegale.La crisi, con la conseguente esigenza, per molte famiglie, di un contenimento della spesa ha favorito questo tipo di reati che, secondo Coldiretti, sono

particolarmente odiosi perché si fondano sull’inganno nei confronti di quanti, per la ridotta capacità di spesa, sono costretti a risparmiare sugli acquisti di alimenti.

Secondo un’indagine di Coldiretti/Ixè, due italiani su tre (il 65%) ha paura a tavola perché ritiene che la crisi abbia fatto aumentare i rischi alimentari, mentre il 2% degli intervistati dichiara di esserne stato vittima. Di fronte al moltiplicarsi dei casi di frode e contraffazione alimentare, quasi due italiani su tre (il 57%) chiedono che venga sancita la sospensione dell’attività.72551783-586x387

Fonte:  Coldiretti

© Foto Getty Images

Olio, il finto “made in Italy” con il sistema delle fatture false

Parassiti e mosca olearia decimano la produzione e gli olivicultori acquistano da Turchia e Tunisia le olive per far quadrare i bilanci. La siccità e la mosca olearia hanno reso più povera la stagione degli olivicultori e alcuni di loro si sono organizzati per mantenere inalterati o quantomeno vicini agli standard i quantitativi della loro produzione. Come? Con un sistema di false fatturazioni che, secondo quanto affermato da Coldiretti, permetterebbe agli olivicultori di Calabria e Puglia di raddoppiare la propria produzione con olio proveniente dalla Tunisia o dalla Turchia. A ogni quintale prodotto sulla carta in Italia, ne corrisponde altrettanto prodotto altrove, nel migliore dei casi d’oliva, nel peggiore con semi o con le sanse ovverosia gli scarti. Il documento contabile procurato di frodo trasformo l’olio cattivo e di bassa qualità in olio “made in Italy”, con la maggiorazione di prezzo e la migliore spendibilità nell’export che ciò comporta. I parassiti come la mosca olearia e la siccità hanno decimato la produzione: se la media del raccolto annuo è di sei milioni di quintali, quest’anno si è a malapena raggiunto il milione di quintali. Puglia e Calabria sono, rispettivamente, la prima e la seconda regione come superficie coltivata a ulivi. L’olio “taroccato” fa dei giri enormi e dopo che le olive turche sono state lavorate, imbottigliate ed etichettate ripartono per i mercati americani e europei con la dicitura “made in Italy”.

La questione fondamentale è che la olivicultura in Italia è concorrente di paesi più poveri del nostro che lavorano a costi molto più bassi. Noi quindi non siamo competitivi e viviamo una situazione di crisi endemica. Gli olivicultori che in anni passati hanno truffato con le integrazioni della Comunità europea, adesso che le condizioni sono più restrittive nei controlli visto che c’è maggiore tracciabilità, usano questo altro metodo per far quadrare i conti delle aziende,

spiega il marchese Pierluigi Taccone, a capo dell’azienda agricola Acton di Leporano, 300 ettari nella piana di Gioia Tauro.72551783-586x387

Fonte:  Repubblica

© Foto Getty Images –

La terra chiama. Ecco come avviare un’azienda agricola

Sempre più giovani decidono di tornare alla terra. La crisi che pesa, le prospettive sempre meno legate a carriere improbabili, la riscoperta di valori e tempi che non siano più “usa e getta”: tutto questo sta portando ad una nuova generazione di gente “con i piedi per terra”. Allora, ecco qualche consiglio per chi volesse raccogliere la sfida.come_avviare_un_azienda_agricola

Ad accompagnarci in questo viaggio è Maria Letizia Gardoni, delegata nazionale Coldiretti Giovani Impresa. E’ a lei che abbiamo chiesto di fornire suggerimenti e consigli per chi voglia oggi pensare il proprio futuro legato alla terra.

Quali i presupposti e quali i primi passi?

«Per far nascere una impresa è prima di tutto prioritario avere un’idea intorno alla quale sviluppare un progetto senza fermarsi alla semplice visione bucolica. E senza accontentarsi delle ipotesi più tradizionali, ma considerando l’ampio spettro di opportunità offerte dal settore che, grazie allo strumento della multifunzionalità, ha esteso le sue competenze dalla produzione alla trasformazione e vendita di prodotti alimentari, dalla manifattura agricola fino all’offerta di servizi alle scuole come le fattorie didattiche, ma anche alle pubbliche amministrazioni per la cura del verde. E’ consigliabile, inoltre, confrontarsi con chi ha già fatto esperienze simili, visitando direttamente le aziende in Italia e in Europa; questo contribuisce a focalizzare l’idea e ad individuare le migliori soluzioni. Dopo aver verificato la tenuta dell’idea e averla trasferita in un progetto concreto con la collaborazione di esperti, vanno individuate le opportunità concrete che ci sono sul mercato in termini di località, aziende e professionalità. Non è raro trovare occasioni di acquisto soprattutto nelle aree interne o di montagna dove l’attività di coltivazione e di allevamento è più difficile, ma si possono cogliere opportunità per il turismo rurale. Inoltre occorre verificare le alternative dell’acquisto, dell’affitto o della semplice gestione aziendale considerato che sono molti gli agricoltori anziani che non hanno intenzione di cedere la propria azienda, ma sarebbero disponibili a collaborazioni. Verificare le eventuali ipotesi di dismissioni di terreni pubblici da parte delle autorità pubbliche. Successivamente, una volta individuato il fabbisogno finanziario complessivo, soprattutto per i giovani sotto i 40 anni di età, occorre appurare l’esistenza di agevolazioni per lo specifico progetto considerato. Le agevolazioni per la maggioranza sono di natura comunitaria e vengono erogate attraverso le regioni con la consulenza dei centri Caa avviati anche dalla Coldiretti. Per l’acquisto della terra alcune banche offrono condizioni specifiche anche grazie ad accordi con il Consorzio fidi Creditagri Italia, promosso dalla Coldiretti per la ricerca delle migliori condizioni di accesso al credito e che ha già garantito circa 300 milioni di euro di investimenti proprio a favore dei giovani agricoltori.  Dal punto di vista burocratico sono tre i passaggi fondamentali: apertura di una Partita Iva presso l’Agenzia delle Entrate, iscrizione al Registro delle imprese, sezione speciale Agricoltura, presso la competente Camera di Commercio e iscrizione e dichiarazione presso l’Inps. Una formazione di base in campo agricolo è importante, ma non decisiva anche perché sono numerosi i corsi di formazione professionale organizzati a livello regionale per acquisire competenze e avere la qualifica di imprenditore agricolo dal punto di vista fiscale».

Quali sono, indicativamente, i costi da affrontare?

«Tutto dipende dal progetto imprenditoriale che si vuole sviluppare. Lo strumento produttivo principale è la terra ed oggi il suo costo è elevato, soprattutto per i giovani che si affacciano all’impresa agricola come prima esperienza lavorativa, per chi non ha garanzie familiari sufficienti e per chi è uno startupper. Questo è dovuto ad una scarsità di terreno disponibile sul territorio nazionale per via della cementificazione selvaggia, per gli utilizzi impropri per colture no-food, per impianti fotovoltaici o di biogas da rifiuti industriali. Inoltre il costo della terra varia da zona a zona in virtù delle specificità produttive territoriali e della morfologia. Questo però non è un ostacolo insormontabile, sia perché esistono strumenti finanziari che agevolano l’investimento sia perché è erroneo pensare che la sostenibilità economica di un’attività agricola sia direttamente proporzionale alla superficie aziendale. Quello che conta è saper generare il maggior valore aggiunto per ettaro e questo si ottiene puntando sulla diversificazione della produzione, sulla multifunzionalità, sulla vendita diretta, sulle produzioni di eccellenza. Esistono tante realtà positive di giovani imprenditori agricoli che hanno fondato e conducono aziende di tutto rispetto su appena 6mila metri quadri di terra».

Esiste un percorso specifico per chi vuole dedicarsi al biologico?

«Per il settore biologico, tra i regolamenti dell’UE che permettono agli operatori nel campo dell’agricoltura biologica di avere aiuti finanziari c’è il Reg.2328/91 ed è accessibile a tutte le aziende agricole per il miglioramento delle strutture. Esistono anche interventi specifici per aziende in zone svantaggiate e per l’istituzione di associazioni agricole. L’applicazione di tali regolamenti è rimandata alla legislazione dei singoli Paesi e, per quanto riguarda l’Italia, sono le Regioni a stabilirne le modalità. In generale, comunque, gli ultimi orientamenti della PAC sono stati guidati da una maggiore consapevolezza circa la necessità di una sostenibilità ambientale che ha contribuito ad assegnare all’agricoltura biologica un ruolo di primo piano nelle strategie di sviluppo. Ci tengo a ricordare che l’Italia è al primo posto nella classifica europea per numero di operatori biologici nel comparto agricolo: questo è un buon dato che testimonia la nostra continua attenzione per la sicurezza alimentare e per la tutela della biodiversità. Con questo però non voglio screditare l’agricoltura convenzionale che in Italia segue i disciplinari più rigidi e restrittivi a livello mondiale, seguendo delle norme ferree volte a regolare l’utilizzo dei prodotti di sintesi».

Ci sono sostegni europei?

«I sostegni europei rappresentano di certo importanti incentivi per la conduzione quotidiana dell’attività, soprattutto perché vengono vissuti ed interpretati come un’integrazione al reddito; quel reddito agricolo che in alcune situazioni oggi è ancora troppo basso e inappropriato rispetto alla grande valenza economica e sociale che risiede nella figura dell’agricoltore. Detto questo, credo che sia scorretto impostare la propria attività imprenditoriale solo in funzione degli aiuti comunitari, che probabilmente un giorno potranno subire una diminuzione in termini di valore. Così come in altri settori, la capacità imprenditoriale e l’idea progettuale sono le variabili fondamentali per garantire la sostenibilità economica dell’impresa».

Si può far conto su canali alternativi alla grande distribuzione per la vendita dei prodotti?

«I canali di vendita alternativi alla grande distribuzione rappresentano una grande opportunità per recuperare da una parte il valore del prodotto che rimane in mano all’agricoltore e che altrimenti andrebbe smarrito nei lunghi passaggi di mano delle filiere lunghe, dall’altro per garantire qualità e sicurezza al consumatore finale. Un esempio lampante di questo cambio di approccio alla vendita è rappresentato dai mercati di Campagna Amica che presente in quasi 2 mila comuni italiani ha generato 10 mila posti di lavoro coinvolgendo circa 8 mila imprese agricole. Solo nell’ultimo anno, hanno accolto più di 15 milioni di cittadini che sono sempre più consapevoli del ritorno economico e di salute che si guadagna consumando prodotti locali, rigorosamente Made in Italy e che provengono direttamente dai campi coltivati del proprio territorio. E’ per questo che i nuovi canali di vendita rappresentano una fonte di sviluppo per l’economia locale, per l’occupazione, e per una nuova socialità».

 

Fonte: ilcambiamento.it