Vale la Pena: la birra artigianale fatta dai detenuti

Evita le recidive, offre nuove opportunità di vita e lavorative ai detenuti, favorisce l’avvio di progetti imprenditoriali virtuosi. L’economia carceraria, in altre parole, fa bene a tutti. È quanto dimostra la onlus “Semi di Libertà” da cui hanno preso vita la società e l’omonimo pub “Vale la Pena” che tramite la produzione e la vendita di birra artigianale promuovono la formazione e l’occupazione dei detenuti. Paolo Strano ha per lungo tempo fatto il fisioterapista nel servizio sanitario italiano ma, quando si trasferisce all’ospedale Regina Margherita di Trastevere e quindi, al carcere di Regina Coeli, per curare i detenuti, la sua vita cambia radicalmente. Lascia definitivamente il lavoro e nel gennaio del 2013 fonda la Onlus Semi di libertà, perché, conoscendo il mondo del carcere, decide che contrastare le recidive dei detenuti e realizzare progetti che offrano loro opportunità di lavoro e di nuova vita, deve diventare la sua nuova professione. Semi di libertà inizia l’attività a marzo 2014, con la prima attività formativa e nel settembre 2014 è prodotta la prima birra “Vale la Pena”.

La capacità produttiva attuale è di trenta mila litri l’anno, il nuovo obiettivo è di produrne almeno sessanta mila litri ed è per questo che stanno realizzando un nuovo birrificio, tutto loro, e che nel giro di un anno sarà completato. Oggi la Onlus, oltre che continuare la sua mission con la formazione dei detenuti, nella produzione di birra, supporta lo sviluppo d’idee imprenditoriali, nel campo dell’economia carceraria. A breve, infatti, nascerà una sartoria.

Semi di Libertà? Ne Vale la Pena!

Paolo, con gli altri fisioterapisti che lavorano con lui a Regina Coeli cofondatori della Onlus, decide che il settore della birra artigianale debba essere il settore economico su cui puntare, è un settore in continua crescita e, grazie al finanziamento ricevuto dal Ministero di Grazia e Giustizia e dal Ministero della Pubblica Istruzione, costruiscono un impianto di birra artigianale presso l’Istituto Agrario Emilio Sereni. Iniziano così la formazione di detenuti in articolo 21, dell’ordinamento penitenziario che offre l’opportunità di essere inseriti in un percorso lavorativo, durante la detenzione in carcere o ai domiciliari per favorire la piena realizzazione del reinserimento nella società, a fine pena, con una professione e un lavoro. Dal 2014 a oggi hanno formato sedici detenuti e l’avvio successivo della società profit, con fini sociali “Vale la Pena” insieme a due nuovi soci, un avvocato ed un commerciante, e l’apertura del pub, omonimo, in Via Eurialo 22, vicino alla metro Furio Camillo, permette loro di aggiungere un nuovo importante tassello al progetto: la possibilità di assumere i detenuti che formano. Il pub è stato inaugurato nel mese di ottobre del 2018 e già conta due dipendenti, la birra prodotta è venduta presso altri locali romani, ma il principale rivenditore è Eataly.

I taglieri di formaggi e salumi sono creativamente assemblati da Mirco, 43 anni, detenuto in semi libertà. Tutte le mattine, alle 8,30, esce dal carcere di Rebibbia, alle 16,30 raggiunge il suo posto di lavoro in Via Eurialo, dove lavora con un contratto a tempo indeterminato, e alle 23,30 rientra nella sua cella. Mirco sta scontando gli ultimi mesi di una condanna di quattordici anni per rapina, ha soggiornato in quasi tutti i carceri del Lazio e molti altri del sud Italia, durante la sua permanenza nel carcere di Velletri, mentre guarda la tv, s’imbatte in un servizio giornalistico in cui viene presentano il progetto di Paolo Strano. In quel momento capisce che è la sua unica possibilità per cambiare vita: lo contatta, frequenta il corso per imparare a produrre la birra e oggi lavora nel pub. Mi confessa, mentre sorseggio una fresca bionda, che se non avesse avuto l’opportunità di lavorare nel pub Vale la pena, uscito dal carcere, avrebbe ripreso la sua solita vita, l’unica che abbia mai conosciuto, fino ad ora. Il pub Vale la Pena è un piccolo locale arredato con molti riferimenti alla struttura carceraria: chi viene a bersi una birra viene informato del progetto, alcuni girano i tacchi e vanno via (molti meno di quanto s’immaginava), gli altri rimangono e “sposano” il progetto. I prodotti venduti nel pub provengono da diversi istituti penitenziari italiani: i formaggi di “Cibo agricolo libero” di Rebibbia femminile, il “Caffè galeotto” di Rebibbia maschile, i taralli del carcere di Trani, i biscottini di “Cotti in flagranza” dal carcere Malaspina di Palermo, le creme e i croccanti di “Sprigioniamo sapori” dal carcere di Ragusa e la pasta dal carcere dell’Ucciardone di Palermo.

L’economia carceraria fa bene a tutti

Paolo è inarrestabile, nel suo racconto e nella sua nuova vita da imprenditore. Dopo “Semi di Libertà” e “Vale la Pena” aggiunge un altro pezzetto alla sua storia e fonda anche “Economia Carceraria”, una nuova srl con fini sociali: commercializzare i prodotti delle carceri italiane. Un’idea che nasce dalla realizzazione del Festival nazionale dell’economia carceraria, a Roma, nel 2018, e che ha avuto l’ambizione di censire e dare visibilità alle tante realtà produttive carcerarie. Il lavoro di scouting ne porta al festival ben quaranta, ma è un lavoro non esaustivo, Paolo è certo che almeno il doppio siano le realtà e che è molto difficile fare un censimento completo, perché invisibili, non presenti sul web e scarsamente valorizzate. Se parliamo di produzioni, quasi tutte le carceri hanno avviato attività produttive, tra le più svariate, ma l’amministrazione carceraria non è abilitata a vendere i prodotti, questo fa sì che, se da un lato, sono progetti che danno l’opportunità di professionalizzare il detenuto, dall’altra, non creano occasioni di lavoro concrete. Addirittura, si assiste al paradosso che nelle carceri dove si realizzano orti con produzione di verdura, frutta, oli, di ottima qualità e bio, le mense non possono utilizzarli perché la fornitura delle stesse è affidata ad appalti esterni. Le produzioni sono tante e ormai presenti in tutte le case circondariali, ma la loro commercializzazione è ancora tutta da pensare. A questo vuole proprio pensare “Economia carceraria” e cioè, diventare strumento per la massima diffusione della conoscenza e vendita dai tanti prodotti al fine di creare posti di lavoro.

Il costo sociale della recidiva

La recidiva è un problema sociale non solo di chi vive il carcere, ma anche per la società tutta. Recidiva dei reati significa tanti reati in più e tanti costi per tutti. Le statistiche datate 2007 fornite dal DAP (Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria) parlano del 68% di recidiva tra chi sconta la pena solo in carcere e di solo il 2% di chi è inserito in progetti produttivi. A oggi si sa solo che una detenzione ha un costo di circa euro 3.700 al mese per singolo detenuto (costo elaborato dal DAP) e l’80% è dato dai costi di personale (polizia penitenziaria). Un costo mai valutato, ma che s’immagina facilmente quanto possa essere elevato è, ad esempio, quello determinato dai due o tre gradi di giudizio. Appare evidente, dunque, che investire su questi progetti comporta un risparmio economico alla comunità intera. Il sogno di Paolo è quindi quello di far diventare i loro progetti una buona pratica per attivare altri imprenditori o aspiranti tali, a fare la loro stessa scelta: inventare un business che abbia un valore sociale.

Chi sostiene l’economia carceraria?

Le produzioni dei penitenziari del nord Italia ricevono sostegno concreto allo sviluppo del progetto, direttamente dalle Istituzioni, è ad esempio il caso di Torino, dove è stato aperto un negozio di economia carceraria, in Via Milano, in un locale donato a titolo gratuito dal Comune e ristrutturato dalla Fondazione San Paolo. A Milano c’è il consorzio “Vialedeimille”, luogo d’incontro con il territorio e di formazione delle persone detenute, nato su iniziativa dell’Assessorato alle Politiche del Lavoro del Comune di Milano, fondato da cinque cooperative sociali che lavorano negli istituti San Vittore, Opera e Bollate. Da Roma in giù è tutto più difficile e le iniziative istituzionali, a favore dello sviluppo di questi progetti, sono assenti. 

Gabriella Stramaccioni da circa un anno e mezzo è garante delle persone private della libertà per Roma capitale, si occupa dei detenuti e di organizzare le attività in loro favore: dalla prenotazione di una visita medica alla produzione di un documento. Roma ha l’istituto femminile più grande d’Europa, con circa 350 detenute, ha quattro istituti maschili, un istituto minorile, il più grande d’Italia, il Cie (centro di permanenza ed espulsione). Una popolazione di circa dieci mila perone, compresi i detenuti ai domiciliari, inseriti in sistemi alternativi alla detenzione e i sottoposti a lavori sociali. Nel carcere di Regina Coeli sono presenti 175 nazionalità differenti. Il progetto che Gabriella intende promuove e sviluppare è quello di aumentare le misure alternative al carcere, la formazione e il lavoro. Anche secondo lei, infatti, l’economia carceraria è un importante strumento per far conoscere il carcere fuori e per pensare e realizzare progetti conreti di sviluppo e d’inserimento nella società. Il carcere di Rebibbia ha un’azienda agricola, in cui lavorano quindici detenute, con una ricca produzione di prodotti da orto e un allevamento di conigli; è stato creato un forno che produce pane venduto all’esterno e nel nuovo complesso c’è una torrefazione che impiega dieci detenuti. È auspicabile che le iniziative private e il supporto concreto delle istituzioni possano incontrarsi in progetti di economia carceraria di cui godere tutti, indistintamente.

Fonte: http://www.italiachecambia.org/2019/03/vale-la-pena-birra-artigianale-fatta-detenuti/?utm_source=newsletter&utm_campaign=general&utm_medium=email&utm_content=relazioni

Oscar Green 2014, ecco i 7 vincitori del premio di Coldiretti

Coldiretti ha assegnato 7 Oscar Green a altrettanti giovani agricoltori che hanno sviluppato soluzioni intelligenti che puntano alla sostenibilità ambientale. Oscar Green 2014 quest’anno ha premiato 7 soluzioni intelligenti e rispettose dell’ambiente. Il consueto appuntamento di Coldiretti dunque è stata anche l’occasione per evidenziare, attraverso il Premio Oscar Green, come i giovani agricoltori italiani siano assolutamente al passo con i tempi rispetto all’innovazione e alle soluzioni smart. Ecco dunque premiate idee come le api sentinelle o le chips di pane, o ancora l’afrodisiaco dei Maya che si propongono già come prodotti innovatovi anti crisi.  Ma ecco nel dettaglio i vincitori degli Oscar Green 2014.coldiretti-oscar-green-620x350

Coltivare microalghe

Questo progetto si è aggiudicato l’Oscar Green 2014 nella categoria Ideando. Arriva dal Veneto e l’ideatore è Matteo Castioni che ha progettato la coltivazione di microalghe Spiruline e Haematococcus usate per la cosmetica, o come integratori e ricostituenti nelle diete ipocaloriche perché particolarmente ricche di proteine sali minerali e antiossidanti naturali. Le microalghe sono usate però anche in agricoltura grazie alla ottima resa come fertilizzanti naturali: con soli 5 grammi di microalghe si fertilizza un ettaro di terreno. Matteo ora progetterà impianti per la produzione casalinga di microalghe.

Le chips di pane ai mille sapori

Per la Categoria Esportare il territorio, ha conquistato l’Oscar Green 2014 l’idea di Domenico D’Ambrosio che ha proposto sottili sfoglie di pane, le chips appunto, aromatizzate ai mille sapori mediterranei: dall’olio d’oliva extravergine al formaggio. Queste panatine di grano, una sottilissima sfoglia di semola di grano duro, sono altamente digeribili. Queste chips saranno presto esportate negli Stati Uniti.

La canapa, stupefacente in cucina

Psquale Polosa si aggiudica l’Oscar Green 2014 nella categoria Stile e cultura d’impresa. Ebbene dai suoi 10 ettari di terreno coltivato a canapa da cui ricava olio, farina destinati all’alimentazione umana e ricchi di proprietà nutritive ma anche fibra che viene impiegata per produrre tessuti materiale per la bioedilizia.

Api sentinelle nella Terra dei fuochi

Sono le api, le sentinelle naturali, scelte da Salvatore Sorbo, giovane apicoltore campano a monitorare l’inquinamento nella Terra dei Fuochi. Infatti, le sue arnie partecipano al progetto Cara Terra, che prevede il biomonitoraggio dell’ambiente messo a punto dalle Università di Napoli e del Molise. Infatti ogni ape è in gradi controllare circa 7 chilometri quadrati di territorio e volando di fiore in fiore non catturano solo polline, ma anche PM10. Così sono poi analizzate dagli esperti che raccolgono così preziose informazioni sullo stato dell’inquinamento ambientale. Spiega Salvatore Sorbo:

Il loro lavoro è l’indagine più attendibile che possa esistere. Più di quanto gli strumenti classici di rilevamento possano raccontare.

Le api di salvatore sono sanissime e non hanno subito danni dall’inquinamento e i suoi prodotti sono tra i più apprezzato in Italia.

Fragole volanti con carta d’identità

E’Guglielmo Stagno D’alcontres a aggiudicarsi il premio Oscar Green 2014 per la categoria Campagna Amica grazie alla coltivazione di fragole in serre alimentate da pannelli fotovoltaici. Le piantine di fragola, poi sono coltivate grazie a orti sospesi e ogni pianta è certificata grazie anche a un QR code che ne ricostruisce la filiera produttiva.

Il pecorino che piace al cuore

Per la Categoria in filiera si aggiudica l’Oscar Green 2014, il pecorino anticolesterolo. L’idea è di Carlo Santarelli che nel suo caseificio e con la collaborazione delle Università di Pisa e Cagliari hanno realizzato la semplice rivoluzione che rende il pecorino un alimento anticolesterolo: è stata cambiata l’alimentazione delle pecore rendendola più sana. Le pecore brucano il lino e l’alimentazione è integrata con olio di soia: tutto qui. I risultati sono sorprendenti poiché le pecore sono più sane e il formaggio ha qualità migliori. Il consorzio ricerca allevatori che si convertano a questa nuova filosofia di produzione del formaggio. MENZIONE SPECIALE” PAESE AMICO”

La libertà dell’orto anche in carcere

Veniamo, infine alla menzione speciale che è stata assegnata al carcere di Capanne a Perugia. Qui c’è un orto di dodici ettari, il frutteto, l’oliveto, quattro serre e l’allevamento di polli con il macello aziendale. Qui alcuni ospiti scontata la pena hanno chiesto di rimanere a lavorare e per questo a Perugia questa struttura è motivo di orgoglio. Come ricordano gli organizzatori di questo progetto:

Se carcere vuol dire rieducazione, metti un orto nella cella e l’obiettivo è a portata di mano.oscargreen-620x350

Foto | Manuel Lombardi Le Campestre @ facbook

Fonte: ecoblog.it

Rischia 6 mesi di carcere il viticoltore francese che non ha usato i pesticidi contro la Flavescenza dorata

Emmanuel Giboulot viticoltore biologico francese si è rifiutato di usare un potente pesticida e ora rischia il carcere

Può un viticoltore biodinamico essere costretto a usare un potente pesticida rischiando se non lo fa sei mesi di carcere? Emmanuel Giboulot gestisce 10 ettari coltivati a vite sulla Côte de Beaune e sulla Haute Côte de Nuits in Borgogna e ieri si è presentato davanti la Corte di Digione poiché si è rifiutato di trattare il suo vitigni Chardonnay e Pinot Nero contro la Flavescenza dorata. La Corte ha concluso l’udienza con l’accusa che ha chiesto per Giboulot una multa da 1000 La sentenza arriverà il prossimo 7 aprile. La pressione intorno al suo caso in Francia si era fatta fortissima con una pagina facebook che ha raccolto oltre 100 mila fans e una petizione che ha raccolto oltre 400 mila firme. La scelta viene considerata ideologica e con responsabilità penale dal Tribunale di Digione ma Giboulot non vuole entrare in polemica e tiene a ribadire solo di aver fatto una scelta simile poiché nella sua zona non vi erano casi di Flavescenza dorata. In sostanza la linea della difesa di Giboulot tenuta dall’avvocato Benoit Busson si basa sul fatto che l’ordinanza era prefettizia e non ministeriale e che dunque agiva all’interno di un determinato territorio e non valida per altre zone.viticol

La Flavescenza dorata è nota anche in Italia, viene trattata con particolare urgenza e attenzione e peraltro scattano denunce in caso di inadempienza sulla base dell’art.500 del C.P. Proprio quello che è capitato in versione francese a Giboulot. Il punto è che Giboulot è un viticoltore biodinamico che non fa uso di pesticidi, ma come fanno notare dalla Prefettura di Digione, una deroga all’uso dei pesticidi proprio per la Flavescenza dorata era stata concessa anche dai coltivatori biologici. Ma spiega Giboulot che il pesticida usato per combattere la Flavescenza dorata uccide anche altri insetti e che ne caso delle sue vigne era inutile usarlo non essendoci i sintomi della malattia. Dunque quel che contestava Giboulot era l’uso precauzionale perché ha amesso che se le sue vigne fossero state colpite dalla malattia sarebbe intervenuto. In ogni caso il dibattito e la cattiva pubblicità ai vini francesi per ora si è scatenato tra ambientalisti e sostenitori della lotta alla Flavescenza dorata anche sotto forma preventiva. E qualche polemica si è sollevata in merito al gesto di disobbedienza di Giboulot. Infatti il Bureau interprofessionnel des vins de Bourgogne (BIVB) chiede:

di non fare di Giboulot un martire del bio, non è l’unico difensore della natura.

Fonte:  Rue89, Liberation

I rifiuti elettronici diventano “opeRAEE”. In mostra le opere del progetto RAEE in Carcere

Inaugurata nella sede della Regione Emilia Romagna a Bologna l’esposizione organizzata dal progetto interprovinciale RAEE in Carcere, con il patrocinio di Regione e Ministero della Giustizia e il supporto di consorzio Ecolight e Gruppo Hera. Aperta fino al 22 aprile374461

I rifiuti elettronici diventano oggetti d’arredo, installazioni e monili. È stata inaugurata oggi, lunedì 8 aprile, nella sede della Regione Emilia Romagna a Bologna, la mostra “opeRAEE, esercizi artistici di recupero degli apparecchi elettrici ed elettronici”, realizzata dal progetto interprovinciale RAEE in Carcere con il patrocinio della Regione Emilia Romagna e del Ministero della Giustizia, i contributi del consorzio Ecolight e di Hera Spa e con la collaborazione dell’associazione Recuperiamoci. L’esposizione testimonia non solamente l’attività dei laboratori RAEE in Carcere di Bologna e Forlì, ma anche la creatività sviluppata dai detenuti parallelamente ai processi di trattamento dei rifiuti elettronici.
Lavatrici, cellulari, asciugacapelli e computer hanno trovato nuova vita nella mostra: le loro componenti sono state smontate e riassemblate dando origine a giostre, lampade, oggetti di design e gioielli. «Questi oggetti rappresentano un altro elemento di valore del progetto RAEE in Carcere. Accanto alle finalità sociale ed ambientale si pone un certo valore artistico», osserva Pietro Buffa, provveditore regionale dell’amministrazione penitenziaria dell’Emilia Romagna. «Iniziative come queste non solo valorizzano i progetti di inclusione sociale, ma portano a rafforzare il legame tra la struttura carceraria e la città. Individuare soluzioni e percorsi efficaci per promuovere e incrementare l’inclusione sociale e lavorativa delle persone detenute ed in misura alternativa previene il rischio di reiterazione del reato».
Gli oggetti esposti, hanno una loro storia e raccontano le storie delle persone detenute che li hanno realizzati. «Alla base delle opere c’è il concetto che ogni rifiuto può avere una nuova vita e trasformarsi in opera d’arte che tutti possono apprezzare e ammirare, così come può nascere un nuovo uomo da una vita ai limiti», affermano Manuela Raganini, presidente della cooperativa sociale Gulliver di Forlì, e Daniele Steccanella, responsabile laboratorio RAEE della cooperativa sociale It2 di Bologna, che hanno curato l’allestimento della mostra. «Lo stimolo al visitatore, attraverso la bellezza delle opere esposte, è quello di imparare a concedere una seconda possibilità come presupposto essenziale di rinascita». Del resto, il progetto RAEE in Carcere si muove proprio nell’ottica di essere un’occasione di reinserimento sociale per persone svantaggiate. Ricorda Lia Benvenuti, direttore generale di Techne che ha coordinato l’iniziativa: «Il progetto ha rappresentato un’opportunità di studio e riflessione sull’uso dei materiali, sul recupero creativo di oggetti dimenticati e apparentemente privi di vita, sull’attività creativa dell’artista che dà forma alla materia, ma anche sulla condizione del detenuto e sulla libertà che sfida l’uomo. Si tratta di riflessioni che hanno fatto incontrare giovani artisti e detenuti, dando vita ad opere d’arte create con i materiali recuperati da RAEE». L’attività artistica è diventata pare di un processo di reinserimento sociale. Come sottolinea Paolo Massenzi, presidente dell’associazione Recuperiamoci: «Dare una nuova vita ai rifiuti recuperandoli ad oggetti utili come mobili e lampade di ecodesign ha creato i presupposti per la nascita di un percorso trasversale tra imprese, realtà attive nel recupero umano e nell’inserimento sociale e lavorativo».
Nell’ottica di valorizzare i rifiuti attraverso l’arte, Ecolight ha promosso il portale wwww.museodelriciclo.it. «Come consorzio che gestisce i RAEE a livello nazionale crediamo nelle azioni di valore che derivano dal trattamento dei rifiuti. E crediamo che il riciclo possa essere considerato una buona pratica e, come tale, una forma d’arte e di rispetto per il nostro ambiente», dice Giancarlo Dezio, direttore generale di Ecolight. Il progetto RAEE in Carcere ha una doppia valenza: ambientale e sociale. Prosegue Dezio: «Trattare correttamente i rifiuti elettronici permette di recuperare importanti quantitativi di materie prime seconde, facendo bene all’ambiente. Se questa attività consente anche di offrire un’opportunità di reinserimento lavorativo a persone svantaggiate, si ha un beneficio anche sociale». Aggiunge Tiziano Mazzoni, direttore Servizi ambientali Hera Spa: «Il progetto RAEE in Carcere testimonia l’impegno di Hera, oltre che sul versante del recupero e riciclo delle materie prime, anche nel sociale, nei confronti di chi è in sofferenza. Ridare nuova vita a qualcosa che qualcuno ha buttato è certamente la dimostrazione che tutto, e tutti, hanno diritto a una seconda occasione. Nel trattare i rifiuti Hera lo fa ogni giorno ed ora siamo contenti di fornire una opportunità anche a chi vive in carcere».
Conclude Flavio Venturi, direttore dell’ente di formazione Cefal Emilia Romagna: «Connubio perfetto tra formazione-lavoro-impresa, il progetto RAEE in Carcere concretizza ciò che il Cefal progetta e realizza nell’ambito della Casa Circondariale di Bologna. I nostri corsi, più di mille ore di formazione solo nel 2012, sono finalizzati ad un reale inserimento nel mondo del lavoro delle persone detenute perché rispondono ad una domanda professionale di cui il mercato è carente. Nel lavoro vediamo un potente strumento di inserimento sociale di persone che altrimenti non avrebbero una seconda chance».

Fonte: eco dalle città