Francesco Gesualdi: dal consumo critico al “lavorare meno, lavorare tutti”

Come mai un mondo così ricco produce tanta povertà? È da questa domanda che ha preso il via l’attività di Francesco Gesualdi e del Centro Nuovo Modello di Sviluppo, finalizzata ad individuare e indicare le azioni concrete che ognuno di noi può mettere in atto per contrastare i meccanismi che generano ingiustizia e promuovere quindi, partendo dai nostri stili di vita, un cambiamento reale.

Allievo di Don Milani, l’attivista e saggista Francesco Gesualdi ha pubblicato vari libri riguardanti il potere delle multinazionali, la crisi dell’occupazione, il debito del cosiddetto ‘Terzo Mondo’ e l’impoverimento a livello globale, la negazione dei diritti umani e la distruzione dell’ecosistema. Ha anche coordinato numerose campagne di pressione nei confronti del potere politico e di multinazionali. Dopo varie esperienze all’estero e soprattutto in Bangladesh, Francesco Gesualdi si è trasferito a Vecchiano, in provincia di Pisa, dove nel 1985 ha fondato il Centro Nuovo Modello di Sviluppo. La sede del Centro è una casa in cui Francesco Gesualdi e altre tre famiglie conducono un’esperienza di vita semi-comunitaria e offrono solidarietà concreta in situazioni di difficoltà. L’attività del Centro è finalizzata a elaborare e diffondere strategie per una distribuzione più equa della ricchezza, per il consumo critico, la liberazione dall’economica del debito e, più in generale, per il raggiungimento di un modello socio-economico sostenibile.  “Noi – racconta Francesco Gesualdi – volevamo capire soprattutto i meccanismi, per cambiare il modello di società. Ci siamo resi conto che se avessimo lavorato sulle cause dell’impoverimento del sud del mondo avremmo lavorato anche sull’ingiustizia che caratterizza il nostro Paese. Via via che approfondivamo gli studi abbiamo compreso che la povertà era funzionale a questo sistema. Ci siamo quindi chiesti ‘cosa possiamo fare? Come possiamo cambiare le cose?’. Capimmo quindi che la chiave risiedeva proprio nei nostri consumi quotidiani. Le responsabilità delle ingiustizie e dello sfruttamento del sud del mondo, infatti, ricadono in gran parte sulle spalle delle imprese. Nel 1990 pubblicammo quindi il primo testo che affrontava questi temi: Lettera ad un consumatore del nord. Mancava ancora un tassello, però, che sviluppammo negli anni seguenti: quello del consumo critico che ci induceva ad orientarci ed orientare verso la scelta di prodotti equo solidali, pur sapendo che avremmo dovuto confrontarci col boicottaggio delle imprese che non seguivano determinati criteri”.IMG_1095

Francesco Gesualdi (Foto di Erica Canepa)

 

“Il coinvolgimento di ognuno di noi con la macchina economica mondiale – continua Francesco Gesualdi – passa, innanzitutto, per i nostri consumi quotidiani”. Capire l’importanza strategica del consumo è stata la scintilla che ha acceso tutto il ragionamento attorno agli stili di vita. “Ad un tratto – si legge sul sito del Centro – è apparso chiaro che la politica non si fa solo nella cabina elettorale o nelle manifestazioni di piazza. La politica si fa ogni momento della vita: al supermercato, in banca, sul posto di lavoro, all’edicola, in cucina, nel tempo libero, quando ci si sposa. Scegliendo cosa leggere, come, cosa e quanto consumare, da chi comprare, come viaggiare, a chi affidare i nostri risparmi, rafforziamo un modello economico sostenibile o di saccheggio, sosteniamo imprese responsabili o vampiresche, contribuiamo a costruire la democrazia o a demolirla, sosteniamo un’economia solidale e dei diritti o un’economia animalesca di sopraffazione reciproca.  In effetti la società è il risultato di regole e di comportamenti e se tutti ci comportassimo in maniera consapevole, responsabile, equa, solidale, sobria, non solo daremmo un altro volto al nostro mondo, ma obbligheremmo il sistema a cambiare anche le sue regole perché nessun potere riesce a sopravvivere di fronte ad una massa che pensa e che fa trionfare la coerenza sopra la codardia, il quieto vivere , le piccole avidità del momento”. Proprio per questo l’attività del Centro si concretizza nella stesura di guide per informare i consumatori sul comportamento delle imprese, nell’organizzazione di campagne, in suggerimenti sugli stili di vita. Portando avanti le loro analisi, Gesualdi e gli altri si sono resi conto che per creare un mondo sostenibile vanno presi in considerazione sia i fattori ambientali che quelli della giustizia e dell’equità.

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Il Centro Nuovo Modello di sviluppo (Foto di Erica Canepa)

 

“Oggi – spiega Francesco Gesualdi – si stanno scontrando due poteri: da un lato la finanza, che vuole che la gente non spenda e non si indebiti per arricchire i soliti noti. Dall’altra il vecchio capitalismo che vuole che i consumi aumentino sempre e non si preoccupa delle conseguenze che questi possono avere sul sud del mondo o sul Pianeta. Ecco perché bisogna costruire un Nuovo Modello di Sviluppo (1) che superi queste due logiche perverse. Sta a noi dunque dimostrare che si può creare un sistema sobrio che però garantisca la piena partecipazione lavorativa”. Francesco Gesualdi sostiene infatti che cambiare stili di vita è necessario, ma non sufficiente: bisogna ripensare il concetto di ‘lavoro’. “Due secoli di capitalismo ci hanno convinto che l’unica strada per la sopravvivenza passi per la vendita del proprio tempo. Oggi si identifica il termine lavoro con quello di ‘lavoro salariato’, ma non deve essere necessariamente così. Il fai da te, l’autoproduzione del cibo o del vestiario, il saper fare non sono monetizzabili, ma ci liberano dalla dipendenza dal danaro. Sono attività che richiedono lavoro e soddisfano bisogni primari. Se aumentiamo questo tipo di attività, possiamo ridurre il lavoro salariato. Il famoso ‘lavorare meno lavorare tutti’. In questo momento storico ci sono migliaia di persone disoccupate e migliaia di persone che devono soddisfare i loro bisogni primari. Dobbiamo far incontrare queste due necessità. Invece che chiedere denaro, potremmo chiedere tempo e competenze. Queste sono la vera ricchezza dell’essere umano”. “Cambiare si può – afferma Francesco Gesualdi – e il cambiamento deve essere prima di tutto culturale”.

 

  1. Intervistato da Daniel Tarozzi Francesco Gesualdi ha ammesso che oggi non avrebbe utilizzato il termine “sviluppo” perché questo è fin troppo legato a quello della crescita del Pil assunta come unico indicatore di benessere

 

Il sito del Centro Nuovo Modello di Sviluppo

 

Fonte: italiachecambia.org

Roberto Mancini: come ti cambio l’economia per superare il capitalismo

Personalmente, provo un’eccitazione strana quando vengo a contatto con una nuova idea. Non con un’idea qualsiasi, ovviamente: parlo di quelle rarissime idee che ti colpiscono in profondità perché aggiungono dei tasselli a quel mosaico abbozzato che hai sempre in un angolo della mente e che s’intitola “La mia rappresentazione del mondo”. Quelle che ti fanno cambiare paio d’occhiali, che ti forniscono una nuova chiave di lettura con cui ti sembra di poter abbracciare tutto.  Che posso dirvi, soffrirò di una malattia strana, sta di fatto che le idee mi eccitano. Amo quell’attimo di epifania in cui un’idea nuova ti esplode sotto la pelle e ti sembra di capire improvvisamente tutto. Purtroppo non mi capita spesso. Anzi è vero il contrario: mi capita molto di rado, tanto più di rado quanto più vado avanti con gli anni. Mi è successo quando ho scoperto per la prima volta la teoria della relatività, quando ho letto “Modernità liquida” di Zygmunt Bauman o “Shock Economy” di Naomi Klein, quando ho incontrato la meccanica quantistica e una manciata di altre volte. Recentemente qualcosa di simile mi è capitato quando ho intervistato Roberto Mancini, professore di Filosofia teoretica all’Università di Macerata e di Economia umana all’Università di Mendrisio, Svizzera, autore del recente saggio Trasformare l’economia. Fonti culturali, modelli alternativi, prospettive politiche.

Mi è capitato spesso di chiedermi: “Cos’è il capitalismo?”, dandomi ogni volta risposte diverse. E’ un modello economico? Un’idea del mondo? Un modo di vivere? Un insieme di valori? La risposta ovvia, che mi sono sempre dato, è che il capitalismo è tutte queste cose insieme. Tuttavia non mi è mai sembrata sufficiente: mancava di chiarezza e non definiva come questi aspetti stavano insieme, qual era la forma risultante complessiva. Ecco in poco più di 20 minuti d’intervista Roberto Mancini mi ha fornito la forma esatta del capitalismo, tanto che ora ce l’ho bene impressa in mente: è un albero.

 CHIOMA, TRONCO, RADICI

Per Mancini il capitalismo non è semplicemente un sistema economico ma una civiltà, cioè come una struttura complessiva che colonizza e condiziona tutti gli aspetti della vita. Esso si presenta come un organismo a tre livelli, molto simile a un albero: un livello superficiale, la chioma, che è quello dell’organizzazione economica, delle imprese, delle banche, delle borse; un livello intermedio, il tronco, importante perché svolge una funzione vitale di mediazione, che è il capitalismo come cultura e come organizzazione politica: rapporti di forza politici, governi, ma soprattutto linguaggio quotidiano, categorie di interpretazione della realtà come competizione, flessibilità, mercato; infine il livello più profondo, le radici, ovvero il livello del mito: quell’intuizione iniziale che non viene messa in discussione e a partire dalla quale si pensa alla vita in un certo modo. Ma in cosa consiste il mito del capitalismo? E a quando risale? “Se il capitalismo come organizzazione è moderno, il mito ad esso sotteso è antico quanto la storia dell’occidente” afferma  Mancini, che ce lo rappresenta come un quadrato fatto da quattro asserzioni semi-assiomaiche: 1. “L’uomo è egoista e calcolatore per natura”, 2. “La natura è avara e non ci dà ciò di cui abbiamo bisogno per vivere tutti, dunque la competizione è obbligata”; 3. “La morte vince sulla vita, quindi non dobbiamo convivere ma sopravvivere, ovvero differire il momento della morte scaricando prima le situazioni di morte sugli altri (morte civile, morte sociale, morte giuridica, ecc)”; 4. “Gli dei possono pure esistere ma sono indifferenti a noi per cui dobbiamo cavarcela da soli”. Dentro questa cornice abbastanza cupa e angosciosa è cresciuta la cultura del capitalismo.

 LE TRE SVOLTE NECESSARIE

Dal momento che il capitalismo abbraccia ormai tutti gli ambiti della nostra vita e permea la nostra società sia a livello economico, che politico-culturale, che mitico, una vera e propria alternativa al capitalismo deve necessariamente contemplare tre svolte: una svolta a livello tecnico organizzativo, una svolta a livello culturale e politico e una svolta a livello mitico o “spirituale”, intendendo con spirituale non un aspetto religioso quanto l’orientamento al senso della vita. Dunque l’alternativa al capitalismo non si trova in una semplice ricetta economica ma risiede in un processo più complesso e multidimensonale. E la prima svolta necessaria, afferma Mancini, è proprio quella spirituale: “Occorrono persone orientate diversamente verso il senso della vita: non nasciamo per competere, produrre, lavorare, accumulare e poi morire, non è questo il destino umano. Se io mi convinco profondamente di ciò non accetto più un’economia capitalista e allora cambiano gli stili di vita, cambiano le scelte quotidiane.” La seconda svolta è di tipo politico-culturale: “Dovremo sostituire la parola competizione con cooperazione, flessibilità con dignità e costruire un altro orizzonte in cui questi concetti diventino categorie di uso quotidiano. Inoltre si costruiranno non più politiche di asservimento ai mercati, in cui i mercati finanziari sostituiscono la democrazia, ma politiche che invertano la tendenza, cioè che sacrifichino i mercati per elevare e sviluppare la democrazia. Il livello intermedio è particolarmente importante perché assicura la mediazione fra l’orientamento e il senso delle persone e le tecniche economiche.” Infine l’ultima svolta è quella da cui spesso tendiamo a partire: le ricette economiche, i nuovi modelli tecnici. Essi altro non sono che il frutto delle svolte precedenti, dunque restano schemi sterili e difficilmente applicabili se non arrivano alla fine di un percorso e una presa di coscienza collettivi. Tuttavia esistono già alcuni modelli che negli anni e in alcuni luoghi specifici hanno dimostrato di poter fungere da alternative valide al capitalismo: vediamo quali sono.

LE ALTERNATIVE

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Nel suo libro Trasformare l’economia Mancini passa in rassegna e analizza i vari modelli di altra economia alla ricerca di nuove vie percorribili. Dal modello delle relazioni di dono dell’Africa e dell’America Latina, all’Economia gandhiana, passando per quella islamica, quella olivettiana “di comunità”, l’economia di comunione di Chiara Lubich, la bioeconomia di Nicholas Georgescu Roegen (da cui attinge ampiamente il modello della decrescita), l’Economia del Bene Comune di Christian Felber, l’Economia partecipativa e solidale. “La conclusione a cui sono giunto – afferma Mancini – è che non esiste un modello supremo di ‘altra economia’ ma dobbiamo lavorare ad un modello integrato. La soluzione, se la troveremo, arriverà dall’incontro delle culture. Se noi lavorassimo a un modello integrato dove si raccogliesse il meglio che questi modelli ci danno potremmo mettere a punto un metodo per la scienza economica, che sia un modello di servizio all’umanità e in armonia con la natura.” “Non basta la lotta alla politica dell’auterità, se restiamo dentro ai parametri del capitalismo e sosteniamo che lo stato deve investire per generare lavoro restiamo sempre all’interno di questo sistema che ha le crisi come dinamica strutturale della propria riproduzione. Occorre una rivoluzione nel modo di sentire e di pensare in modo che l’essere umano ritrovi la sua dignità, in modo da non poter essere più trattato né come un esubero (un essere inutile) né come una risorsa (un essere strumentale che però non ha un suo valore autonomo).”

 IL RUOLO DEI MEDIA

A dispetto di tutte le iniziative nate e che continuano a nascere nei territori, i media continuano a dipingere il nostro paese come privo di speranze. Come mai? “Tutto quello  che cresce in una società per potersi sviluppare ha bisogno di rispecchiarsi, deve trovare uno specchio sociale che lo rende riconoscibile e l’amplifica. Oggi tutti i nostri specchi sociali, dai media, alla scuola, all’università, agli intellettuali, ai social network, difficilmente sono in grado di rispecchiare il meglio che cresce in una società, che resta non rappresentata, mentre grande rispecchiamento hanno tutti i messaggi negativi. La rassegnazione viene rispecchiata, l’iperadattamento, il cinismo diventano il principio di realtà. Le realtà feconde vengono ricacciate in una zona d’ombra dove non vengono riconosciute al punto che anche i loro protagonisti spesso sono divisi, frammentati, dispersi.”

 LA GLOBALIZZAZIONE

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Un trasformazione dell’economia è realizzabile all’interno di una società globalizzata? Per Mancini “La globalizzazione ha significato non una unificazione dell’umanità ma una divisione sistematica dell’umanità nell’unica unificazione realizzata che è stata quella sotto il mercato”. Per creare una vera alternativa dobbiamo “ritrovare il rapporto fra persona, comunità e coralità, intendendo con quest’ultima l’appartenenza a una cittadinanza umana globale. Non sarà un movimento di globalizzazione intesa come omologazione e sradicamento. Dovrà essere un rilocalizzare per permettere un tessuto democratico della società, che non potrà essere né individualista né massificato ma dovrà avere comunità aperte, non sette xenofobe, razziste, ripiegate su se stesse sul modello leghista. Lo spazio comunitario è senza dubbio quello più adatto per esercitare la pratica democratica, la cura concreta del bene comune: “La comunità è la dimensione che permette alla persona di fiorire e di esprimersi. Poi c’è un livello più grande, quello della coralità: la nazione, il continente, la globalità. Siamo spesso ignari della cittadinanza cosmopolita, dell’appartenenza ad un unica cittadinanza mondiale. Però la coralità è indispensabile, da un lato nel nome di una stessa dignità umana, dall’altro perché le sfide maggiori che ci si presentano sono sfide di portata mondiale: dal mercato globale, alla sfida ecologica, al cambiamento climatico. O si costruisce una risposta globale democratica col concorso delle tradizioni e dei popoli oppure le nostre risposte rischiano di essere sterili e dal fiato corto.” Dopo l’intervista, prima di salutarci, Mancini ci accompagna in una trattoria a conduzione familiare a poche decine di metri dall’Università. Macerata è una cittadina graziosa, vi si respira un’atmosfera genuina. Mentre mangiamo degli ottimi Vincisgrassi penso a tutte le realtà che abbiamo incontrato in giro per l’Italia e alle nuove che continuano a segnalarci, che prima o poi incontreremo, penso ai dati macroscopici sui cambiamenti dei consumi, sull’esplosione del biologico e del chilometro zero e la crisi della grande distribuzione e vedo tutte queste nozioni inquadrate nella cornice teorica che ci ha appena fornito l’intervista. Una svolta spirituale sicuramente è già in corso e si vedono i segnali di quella culturale-politica. Quella tecnica sembra ancora lontana ma chissà, probabilmente sarà inevitabile.

 

Fonte: italiachecambia.org

Naomi Klein in Italia, fa autocritica e indica la nuova battaglia: i cambiamenti climatici

Naomi Klein torna in Italia dopo il tour del 2008 e ne approfitta per fare autocritica e spiegare che a volte dire qualche si aiuta a ottenere i no. Naomi Klein è in Italia con Rizzoli per presentare Una Rivoluzione ci salverà: il capitalismo non è più sostenibile. Durante queste prime presentazioni c’è stata l’occasione di confronto con i lettori che in affollatissimi meeting le hanno posto le più svariate domande. Il suo primo saggio No Logo ha rappresentato per tutti i movimenti mondiali di rottura del blocco economico imposto dalle multinazionali, una sorta di bibbia da seguire, che in virtù del No imponeva la propria volontà nell’affermare l’autodeterminazione dei cittadini e dei consumatori. Oggi abbiamo i movimenti No TavNo Muos, No Expo che rappresentano quella volontà che parte dal basso, come dicono gli americani grassroots, che chiede che non si prendano decisioni senza un adeguato coinvolgimento delle persone che rientrano per territorio e responsabilità nelle dirette conseguenze che quelle scelte imposte dall’alto andranno a comportare.Canadian author Naomi Klein annouces the

Dice Naomi Klein:

Partiamo dal titolo del libro: Questo cambia tutto (in originale in inglese: This change everything Ndr). Quando parliamo di cambiamenti climatici bisogna proprio partire da questa premessa. Siamo andati oltre il punto dove non esistono opzioni. Se vogliamo andare avanti facendo finta di niente, se vogliamo mantenere l’atteggiamento del business as usual, stiamo percorrendo una strada che ci porterà verso un aumento delle temperature globali dell’ordine di 4 gradi Celsius e questo cambierà tutto, perché cambierà il mondo fisico al quale siamo abituati e questo mondo diventerà irriconoscibile e incompatibile con l’andare avanti di una società organizzata. Anche in Shock doctrine avevo parlato di cambiamenti climatici, in quanto mi sono occupata in quel libro di disastri naturali.

E poi fa autocritica:

Non è più sufficiente dire no, non basta rimanere sempre in una posizione di opposizione, bisogna saper dire anche dei sì. Insomma il movimento che si batte contro il riscaldamento globale deve saper proporre delle alternative. In pratica deve saper dire dei sì a quei modelli che sappiano dare opportunità di lavoro. L’obbiettivo della strategia dev’essere quello di diventare coalizione più forte. Bisogna che la nostra battaglia si trasformi da economica a morale. Il problema che dobbiamo superare equivale, come impegno e dimensioni, a quella per l’abolizione della schiavitù.

Parole queste che certamente peseranno sui movimenti negli anni a venire.

Fonte:  Gazzetta di Mantova

© Foto Getty Images

Il capitalismo ha fallito: l’esperimento Grecia preoccupa i potenti

Quanto è accaduto in Grecia dimostra sostanzialmente tre cose, come spiega il giornalista economico inglese Paul Mason di Channel 4 News: la crisi strategica dell’eurozona, quanto sia perdente la determinazione dell’élite greca a rimanere saldamente attaccata al sistema corrotto e un nuovo modo di pensare dei giovani.tsipras

Se qualcosa avesse potuto rispecchiare le immagini che riempivano le menti dei membri di Syriza mentre attendevano i risultati delle elezioni greche, fumando e bevendo caffè nero, sarebbero stati i volti di Che Guevara o Aris Velouchiotis, l’eroe della Resistenza greca durante la seconda guerra mondiale. È l’immagine che Paul Mason dà del “nocciolo duro” del partito di Alexis Tsipras, che ha ottenuto una vittoria schiacciante alle elezioni greche. «Questi sono veterani della sinistra che si aspettavano di finire i loro giorni nelle università a insegnare teorie sullo sviluppo economico, a parlare di diritti umani o di chi ha ucciso chi nella guerra civile. E invece oggi sono al governo della nazione. Eppure, sottolinea Mason, non è questo il posto dove si impara il pensiero radicale e non è questo il partito che evoca nella mente dei greci tensioni marxiste. Qui giocano tre ragioni che hanno portato a questo risultato: la crisi strategica dell’eurozona, la determinazione dell’élite greca a rimanere saldamente attaccata al sistema corrotto e un nuovo modo di pensare dei giovani. Di queste, la crisi dell’eurozona è la più facile da comprendere poiché le conseguenze possono essere lette negli assetti macroeconomici. Malgrado le previsioni di politici ed economisti preannunciassero la ripresa e la crescita, l’economia greca ha subìto un altro duro colpo in questi ultimi tempi, con crolli del 25%; la disoccupazione giovanile ha raggiunto il 60%, almeno tra coloro che ancora sono rimasti in Grecia. Dunque, il collasso economico dimostra la totale miopia dell’élite politica europea. Negli scorsi quattro anni la Troika (Commissione Europea, Fondo Monetario Internazionale e Banca centrale europea) ha dato spettacolo…amaro: uomini ricchi e privilegiati che parlavano a vanvera senza sapere cosa andavano dicendo e facendo. Mason cita un colloquio avuto qualche tempo prima con un economista greco, secondo cui la realtà è che «l’oligarchia greca, i grandi armatori, i boss dell’energia, i grandi gruppi dell’edilizia e i club  calcistici sono sempre riusciti ad evitare di pagare le tasse, dal regime di Metaxas passando per l’occupazione nazista, fino alla guerra civile e alla giunta militare». E non avevano la minima intenzione di cominciare a farlo poi, solo perché la Troika esigeva che la Grecia riequilibrasse i bilanci. «Gli oligarchi hanno trasformato la Grecia in un campo di battaglia costellato di interessi confliggenti – spiega Mason – il giornalista greco Yiannis Palaiologos ha scritto in un suo recente libro sulla crisi che “c’è una irresponsabilità pervasiva, la sensazione che nessuno debba rispondere di nulla, che nessuno possa o riesca ad agire come custode dei beni comuni”. Ma l’impatto ancora più distruttivo ce l’ha la corruzione diffusa, il fatto che nel parlamento e fuori ci sia sempre qualcuno controllato da altri. Come una soap opera, ma reale. Siccome Tsipras non deve nulla all’oligarchia, ha fatto della guerra alla corruzione e all’evasione la sua battaglia e questo è stato accolto positivamente da una grande massa di giovani». Il perché è presto detto. Pensate a quanto spesso si vedono uomini ingrigiti insieme a donne giovani; è emblematico, il potere (chi ha e conta) ha un peso e attira nella sua sfera di influenza. I giovani vengono usurpati quando l’oligarchia, la corruzione e l’élite politica uccidono la meritocrazia. Molti, guardando la Grecia da fuori, vedono un pericolo, una negatività. «Ma dietro la rinascita di una sinistra radicale sta l’emersione di nuovi e positivi valori – dice ancora Mason – che sono patrimonio di una fetta di giovani molto più ampia di quella che costituisce la base naturale di Syriza. I valori di una generazione in rete: fiducia in se stessi, creatività, la voglia di prendere la vita come un esperimento sociale, con una visione globale». Un fronte, quello dei giovani, che si fa forte anche di un’altra ampia fetta di popolazione che, insieme a loro, ne ha abbastanza di corruzione e potere nelle mani di pochi. Insomma, la Grecia come esempio di cosa può accadere quando il capitalismo moderno fallisce. «Alcuni dicono che questa è la fine del neoliberismo – conclude Mason – Io non ne sono sicuro. Quello che invece è certo è che la Grecia ci ha mostrato come potrebbe finire».

Si ringrazia Paul Mason

Fonte: ilcambiamento.it

Rifkin annuncia la fine del capitalismo

“Al cuore del capitalismo c’è una contraddizione che ne sta ora accelerando la fine”. Jeremy Rifkin, consulente dell’Unione Europea e guru mondiale dello sviluppo sostenibile, ha presentato in Italia il suo ultimo libro, “La società a costo marginale zero”, pronosticando un futuro “in decrescita”.rifkin

Proviamo a immaginare uno scenario in cui il costo di ogni ulteriore produzione sia, al netto dei costi fissi, praticamente pari a zero. Impossibile, dite voi? Invece secondo Jeremy Rifkin – che nei giorni scorsi a Milano, Mantova e Trento ha presentato il suo nuovo libro, La società a costo marginale zero – tutto questo è già realtà. Crescono infatti i prosumers – consumatori che diventano produttori in proprio – che generano e condividono informazioni, contenuti d’intrattenimento, energia verde e oggetti fabbricati con stampanti 3D, il tutto ad un costo marginale quasi zero. Ma cosa significa realmente? Una società caratterizzata da costi marginali prossimi allo zero rappresenta il contesto a massima efficienza in cui promuovere il benessere generale e, nel contempo, il punto di flesso che segna l’inevitabile uscita del capitalismo dalla scena mondiale. Infatti quando i beni e i servizi diventano quasi gratuiti, il profitto precipita, il mercato si atrofizza e il sistema capitalistico muore. A cominciare dal suo elemento fondante: la proprietà. Usando le parole del filosofo William James, la proprietà è diventata il sistema di misurazione dell’essere umano e un’estensione della personalità, così che il confine tra ciò che una persona chiama “me stesso” e ciò che chiama semplicemente “mio” è difficile da tracciare. La nostra reputazione, i nostri figli, l’opera delle nostre mani, possono esserci cari quanto il nostro corpo. Nel suo senso più ampio, il sé di un uomo è la somma totale di tutto quello che egli può chiamare suo: non soltanto il suo corpo quindi, ma anche i suoi indumenti e la sua casa. Se crescono e prosperano, si sente trionfante, se deperiscono e diminuiscono, si sente abbattuto. Oggi, però, un numero crescente di persone inizia a percepire la proprietà come un limite, un qualcosa di obsoleto e fuori moda, oltre che, in molti casi, anche poco conveniente. In Italia lo dimostra una ricerca condotta da Ipsos e commissionata da Airbnb e BlaBlaCar: il 31% degli intervistati si dimostra interessato ad utilizzare i servizi collaborativi, l’11% si dichiara già utilizzatore e solo il 27% si è dimostrato negativamente orientato verso il fenomeno. Il 57% degli intervistati prevede inoltre una forte diffusione del ride sharing, il 47% ritiene che l’house sharing crescerà nel prossimo futuro, mentre i settori che sembrano avere maggiori potenzialità sono il co-working e il car sharing, citati rispettivamente dal 61% e dal 53% degli intervistati.  Emerge dunque che il mondo non è più di chi possiede, ma di chi condivide: mentre in passato la libertà era concepita in termini negativi, come diritto di escludere gli altri dal godimento di qualcosa conquistato col sudore della fronte (logica meritocratica), oggi la libertà è intesa come diritto all’inclusione e misurata in termini di accesso (logica collaborativa e solidale). Il punto di svolta è ormai vicino, secondo le previsioni di Rifkin: stando alla sua ricostruzione, entro il 2050 il mercato capitalistico si ritrarrà in nicchie sempre più ristrette, mentre si affermerà sulla scena mondiale un nuovo sistema economico, quello del Commons collaborativo. Nel nuovo scenario la gestione e il controllo centralizzato del commercio cedono il passo alla produzione paritaria, distribuita e a scala laterale, segnando quindi la fine delle bipartizioni “proprietari e lavoratori”, “venditori e consumatori”. Arroccarsi in una Seconda rivoluzione industriale ormai al tramonto, con opportunità economiche sempre più modeste, un Pil sempre più contratto, una produttività sempre più in calo, un tasso di disoccupazione sempre più alto e un ambiente sempre più inquinato, è quindi improponibile, secondo Rifkin. Dal volume emerge che occorre favorire la convergenza dell’Internet delle comunicazioni, dell’energia e della logistica. Ad esempio, afferma Rifkin, «Occorre cambiare la piattaforma energetica perché costa sempre di più e porta al cambiamento climatico. Non capisco cosa stia aspettando l’Italia: si parla di attualità, riforme, ed è necessario farle ma non è sufficiente. L’Italia deve cambiare il proprio modello energetico. Non può restare nel XX secolo, ancora con carburanti fossili e con il nucleare perché così rimarrà un passo indietro». Questa trasformazione deve poi essere accompagnata da un cambiamento culturale, quello che Rifkin chiama “sviluppo di una coscienza biosferica”, ovvero quella coscienza che porta a riconoscere che le vite degli individui sono intimamente interconnesse, che il benessere personale dipende dal benessere della più ampia comunità nella quale si vive e che, ancora, tutto ciò che si fa lascia un’impronta ecologica.  Rifkin racconta una rivoluzione che sa di Decrescita, fatta di semplicità, ragione e rispetto: per costruire una società della decrescita bisogna cambiare radicalmente il sistema economico, attraverso una ri-localizzazione della produzione,  una forte diminuzione dei movimenti di merci e capitali e un aumento del periodo di vita dei prodotti per diminuire la massa dei rifiuti, secondo la logica della condivisione. Maurizio Pallante, Fondatore del Movimento della Decrescita Felice in Italia, suggeriva proprio qualche settimana fa l’ennesima piattaforma collaborativa (CoseInutili.it), chiedendosi nel contempo come sia possibile decrescere in un Paese in cui è così difficile fare autoproduzione. Rifkin fornisce una risposta più che ottimistica, ora tocca al governo ma anche a tutti i singoli che vogliono muoversi in questa direzione. “Cambierà tutto come è avvenuto con motore a vapore, telegrafo e ferrovia durante la Prima Rivoluzione ed elettricità, telefono e petrolio durante la Seconda. Possiamo accettarlo e agire di conseguenza oppure rimanere spettatori del cambiamento altrui”

Fonte: ilcambiamento.it

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Naomi Klein: fuori il capitalismo dai cambiamenti climatici

I cambiamenti climatici visti come occasione del rilancio dell’economia ma senza il fardello della finanza. E’ la teoria di Naomi Klein famosa per No Logo sui danni del commercio globalizzato, che riparte da This Changes Everything: Capitalism vs. the Climate sulla crisi del capitalismo e del clima.

Naomi Klein in una lunga chiacchierata concessa a The Atlantic ragiona sulla possibilità di rilancio dell’economia globale usando la leva dei cambiamenti climatici. Le teorie sono esposte nel suo ultimo libro This Changes Everything: Capitalism vs. the Climate presentato a New York il 18 settembre, dunque proprio pochi giorni prima della Global Climate March. L’analisi della Klein parte dall’avvertimento lanciato dagli scienziati del Panel IPCC: siamo vicini al punto di non ritorno circa la possibilità di gestire il contenimento dei cambiamenti climatici attraverso il controllo delle emissioni di biossido di carbonio, che però per quanto concerne il dibattito internazionale sono trattati attualmente più come una questione squisitamente politica che non scientifico- ambientale. Sarà pure folle, sarà pure curioso che lo sia, ma le 400 mila persone scese in strada domenica 21 settembre a New York per la Climate March e poi per l’inondazione di Wall Street, hanno effettivamente dimostrato al mondo che un segnale d’allarme che proviene dal basso (movimenti grassroots) è stato definitivamente lanciato alla classe politica. Il flop della manifestazione italiana a Roma è indice, probabilmente, di quanto la controinformazione dal basso abbia ben poco funzionato nel nostro Paese e mette al contrario in luce come l’informazione ufficiale retta dal presidente del consiglio Matteo Renzisia efficace nel far passare il messaggio che a fronte di un aumento delle trivellazioni alla ricerca dello scarso petrolio italiano ci si stia muovendo in campo internazionale per la lotta ai cambiamenti climatici (per la serie: cosa manifestate se ci stiamo lavorando?)

 

 

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In effetti dice Naomi Klein:

Giusto per essere chiari, penso che quando si negano i cambiamenti climatici si stia negando la politica e non la scienza. E tutto ciò è destinato a fallire, anzi è fallito. Ho passato un bel po ‘di tempo con alcuni dei negazionisti climatici più tosti e penso che si rendono conto che se ciò che dice la scienza è vero allora viene sconvolto il loro progetto ideologico che prevede la deregolamentazione, austerità, privatizzazione della sfera pubblica, libero scambio deregolamentato. E se proprio sguardo ai tipi di politiche di cui avremmo bisogno, al fine di tenere seriamente in considerazione di quel che ci dice la scienza sui cambiamenti climatici, allora dovremmo guardare a forti regolamenti nel settore delle imprese; a grandi investimenti nella sfera pubblica per prepararci a ridurre rapidamente le emissioni; significherebbe anche il trasferimento di grandi ricchezze, argomenti di cui i negazionisti non sono fan.

Ragioniamoci su: come credere alle dichiarazioni di John Kerry che definisce i cambiamenti climatici un’arma di distruzione di massa? Se tale fosse, sarebbe lasciata in balia dei capricci del mercato? Prosegue Klein:

E ‘più facile immaginare noi stessi alla deriva verso un tracollo del clima che non immaginare di cambiare l’economia. Non solo: per un sacco di persone potenti è più facile immaginare di intervenire nel sistema climatico della Terra attraverso la geoingegneria cercando di oscurare il sole o di fertilizzare l’oceano, che non di cambiare il sistema economico in modi che sfidano la logica della crescita illimitata.

Questo modo di pensare, non vi ricorda forse le chiacchiere del nostro premier Renzi (e di quelli che lo hanno preceduto beninteso): concede trivellazioni, approva la TAP il gasdotto che va a rovinare le spiagge e l’economia turistica del Salento ma poi a New York dichiara che non c’è tempo da perdere. Dunque i cambiamenti climatici hanno una chances di rilancio delle economie occidentali se diventano leva per la sicurezza globale: il clima influenza le attività umane e se estremo causa povertà e instabilità. D’altronde, la sicurezza nazionale e il mantenimento della democrazia risultano essere le ragioni che spingono gli Stati Uniti alle operazioni di pace in mezzo mondo (o operazioni di guerra, dipende dal punto di vista dell’osservatore). In Italia, siamo un passo indietro, la nostra controinformazione sulla sicurezza nazionale non funziona seguendo la strada dei cambiamenti climatici, almeno non per ora.

© Foto Getty Images

Fonte: ecoblog.it

Flood Wall Street: la manifestazione contro il capitalismo e la distruzione del clima

Dopo la marcia per il clima, a New York anche “l’allagamento” del distretto finanziario.

Non c’è solo la marcia per il clima di domenica – straordinario successo a New York, molto meno a Roma – perché ieri, sempre a NY, si è tenuta anche la marcia “Flood Wall Street”, con l’obiettivo di “fermare il capitalismo per salvare il clima”. Il distretto finanziario simbolo del turbocapitalismo è stato quindi metaforicamente allagato dai manifestanti, con il risultato che un numero davvero insolito di poliziotti si trovava da quelle parti. Nata da una costola di Occupy Wall Street, il movimento diventato famoso nel 2011 dopo l’occupazione, durata settimane, di Zuccotti Park, Flood Wall Street è un movimento di “disobbedienza civile” (citazione ormai d’obbligo di Henry David Thoreau) che ha marciato contro il capitalismo, nemico numero uno dell’ambiente. Non erano presenti tutti i vip che si sono visti nella marcia per il clima, ma oltre agli attivisti di lunga data era presente anche Naomi Klein, colei che non il libro “No logo” è considerata uno delle iniziatrici del fu movimento No Global: “Per rispondere alla crisi dobbiamo rompere l’insieme di regole del libero mercato. Dobbiamo mettere i bastoni tra le ruote delle società di combustibili fossili”, ha detto alla Msnbc, il network più a sinistra della tv americana che ha seguito la manifestazione. Si parla di 3mila manifestanti, con 102 arresti e qualche momento di forte tensione. Ma perché la scelta di quel “flood” (allagare) come motto? Lo ha spiegato Michael Premo, uno degli organizzatori della protesta: “Il cambiamento e gli eventi climatici estremi, come gli allagamenti che abbiamo visto anche a New York, con l’uragano Sandy, sono alimentati da combustibili fossili. La principale causa del cambiamento climatico è un sistema economico che mette i profitti davanti a tutto, davanti alle persone e davanti al pianeta”. La ragione per cui a New York si moltiplicano all’improvviso le manifestazione in favore del clima va ricercata nel vertice Onu che ha preso il via al Palazzo di Vetro, che ha come argomento proprio i cambiamenti climatici: “Stiamo cercando di imporre questa tematica come urgente e di mostrare come Wall Street stia traendo profitto da questa crisi”, ha spiegato ancora il portavoce Leah Hunt-Hendrix.15141964079-f6d0eedf68-z

Fonte: ecoblog.it

Il riscatto degli schiavi moderni, ossia come possiamo sfuggire allo sfruttamento economico

«Gli esseri umani sono esseri sociali e come diventano dipende profondamente dalle circostanze sociali culturali e istituzionali della loro vita». Noam Chomsky, filosofo e linguista, ci mette in guardia dai condizionamenti e ci mostra tutta l’ipocrisia di quelle verità lapalissiane di cui tanti si riempiono la bocca ma che nella pratica quasi nessuno segue.schiavi_moderni

Illuminate e illuminanti le parole di Noam Chomsky, durante la conferenza tenuta di recente alla Columbia University davanti ad una vasta platea di attenti ascoltatori. Chomsky ha la capacità di mettere a nudo le ipocrisie di tutti noi, dell’uomo comune come del grande uomo, evidenziando con schiettezza quelle contraddizioni e quelle scomode verità che, nel macro e nel micro, spesso cerchiamo di non vedere. Quelle che Chomsky definisce le verità virtuali, sono quelle verità «che tutti professano, universalmente, ma che poi, altrettanto universalmente, tutti nella pratica rifiutano» dice. Pensiamo solo a quella «verità lapalissiana secondo cui dovremmo applicare a noi stessi gli stessi standard che applichiamo agli altri, dedicandoci alla promozione della democrazia e dei diritti umani, proclamati a livello universale, anche dai peggiori mostri, mentre poi il panorama generale non mostra altro che crudeltà». Non a caso Chomsly adotta come esempio gli scritti di John Stuart Mill, nella fattispecie Saggio sulla libertà, dove si fa riferimento alla «assoluta ed essenziale importanza dello sviluppo umano nella sua più ricca diversità». Le parole vengono citate da Wilhelm von Humboldt, fondatore del liberalismo classico, ha ricordato Chomsky. «Ne consegue che le istituzioni che ostacolano tale sviluppo sono illegittime, a meno che non riescano in qualche modo a giustificarsi». E quando Adam Smith accenna a una delle massime più seguite dall’essere umano, cioè “tutto per noi e niente per gli altri”, aggiunge anche che, secondo lui, «le passioni originarie, più positive, della natura umana sapranno comunque compensare questo pensiero patologico». Insomma, Chomsky spiega e rende evidente con le sue parole l’ipocrisia che sta dietro alle aspirazioni umanistiche dei fondatori del capitalismo. Poi fa sua l’affermazione di un pensatore e attivista anarchico del secolo scorso, Rudolf Rocker, laddove sostiene che «il problema che si pone ai giorni nostri è quello di liberare l’uomo dal gioco dello sfruttamento economico e dalla schiavitù sociale». Perché lo fa? Per smascherare un’altra ipocrisia, quella degli equivoci che si giocano sulle parole e che vorrebbero forse ancora far credere che il brand americano del libertarianismo abbia qualcosa di analogo al pensiero libertario. «Il primo – spiega Chomsky – accetta e anzi invoca la subordinazione dei lavoratori ai padroni dell’economia e la soggezione di tutti alla disciplina restrittiva e ai tratti distruttivi dei mercati». Il secondo, cioè il pensiero anarchico, «si oppone notoriamente allo Stato e invoca una amministrazione organizzata delle cose nell’interesse della comunità, come dalle parole di Rocker, oltre ad ampie federazioni di comunità e luoghi di lavoro che si autogovernano».  «Oggi però – prosegue Chomsky – il pensiero anarchico può spesso arrivare anche a sostenere il potere dello Stato al fine di proteggere i più deboli, la società e il pianeta dai saccheggi del capitale privato. Non c’è contraddizione, la gente vive e soffre e va avanti in questa società e gli strumenti a disposizione dovrebbero essere utilizzati a salvaguardia e beneficio di essa, anche se un obiettivo a lungo termine è quello di costruire alternative preferibili». Oggi la condizione in cui viviamo è quello di una plutocrazia, dice ancora Chomsky: «Circa il 70% della popolazione, nello scalino più basso della scala sociale, non ha influenza sulla politica; salendo la scala sociale, l’influenza lentamente aumenta. Ai vertici ci sono quelli che determinano la politica. Il risultato non è una democrazia, ma è, appunto, una plutocrazia». C’è chi ha già confezionato un termine per “travestire” di rosa la plutocrazia, definendola una neo-democrazia, socia del neoliberismo; attenzione all’apparente innocuità del termine, si tratta di un sistema in cui la libertà è privilegio di pochi e la comprensione del pieno senso delle cose è accessibile solo ad una elite, eppure tutto inserito in un contesto di diritti generalizzati benchè solo formali e non sostanziali. Ma non è questa la vera democrazia, come anche Rocker ha sostenuto. «La vera democrazia ha le caratteristiche di un’alleanza fra gruppi liberi di uomini e donne basata sul lavoro in cooperazione e su una pianificata amministrazione dei beni per l’interesse della comunità». Chomsky ha poi continuato nella sua affascinante disamina dei pensieri a confronto. «Nessuno prenderebbe mai il filosofo americano John Dewey per un anarchico. Eppure considerate le sue idee. Egli riconosce che il potere oggi risiede nel controllo dei mezzi di produzione, degli scambi, della pubblicità, dei trasporti e della comunicazione. Chi li possiede, regola la vita del paese, anche se resta la forma democratica. E i politici resteranno la casta ombra nella società dei grandi affari, come si vede già oggi. Questo riconduce a una visione della società basata sul controllo dei lavoratori, com’era nel diciannovesimo secolo». Insomma, una “democrazia” di questo tipo ha geneticamente in sé molti rischi e molti limiti, già peraltro ben noti fin dall’antichità, cioè da quando Aristotele riconobbe nella democrazia la “meno peggio” forma di governo, ravvisandone un solo “difetto” (oggi annullato da chi ha il potere di imporre anche nomi e volti per i quali votare): la massa dei poveri potrebbe usare il proprio voto per prendersi le proprietà dei ricchi, che ne sarebbero molto dispiaciuti!  E di fronte a questo “rischio”, c’è chi, come Aristotele, consigliava di ridurre le disuguaglianze e chi, come molti altri anche oggi, consigliano invece di ridurre la democrazia!
La tradizione libertaria si può dunque ricondurre fino ad Aristotele? Si è conservata ed evoluta nei secoli, pur rimanendo sotto la superficie?Chi ne è l’erede oggi? E cosa vogliamo farne? Potrà aiutare le comunità di persone ad uscire da questa crisi strutturale? Vale la pena rifletterci.

Fonte: il cambiamento

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L’Istituto Prout: “Ecco la nostra alternativa al capitalismo”

Equità, sostenibilità, solidarietà. Scelte ovvie? Nient’affatto. Basta guardare in che direzione sta andando il mondo. Eppure c’è un sistema, che si propone come alternativo al capitalismo dominante, fondato proprio con l’obiettivo di «garantire a tutti le minime necessità per l’esistenza e favorire lo sviluppo equilibrato di ogni essere umano, dal punto di vista fisico, mentale e spirituale, in armonia con la natura» dicono dall’Istituto italiano di Ricerca Prout.capitalismoprout

Il Movimento

Il movimento Proutist Universal, registrato in Italia nel 1979, ha condotto opera di formazione e divulgazione della teoria Prout in molte città con seminari e conferenze, dibattiti pubblici e l’Associazione di promozione sociale ” IRP  Istituto di Ricerca Prout”, registrata nel 1999, è stata fondata con lo scopo primario di aiutare le persone a implementare le idee sulle quali si fonda questo sistema economico. A spiegare il razionale di questo sistema è Tarcisio Bonotto, presidente dell’IRP. «La teoria economica PROUT (Teoria della Utilizzazione PROgressiva – PROgressive Utilisation Theory) proposta dal filosofo e neo-umanista indiano Sarkar a partire dal 1967, si è rivelata a pieno titolo un sistema socio-economico alternativo al capitalismo e al defunto socialismo sovietico» dice Bonotto. «Sarkar ha fondato nel 1969 l’associazione socio-culturale PROUTIST UNIVERSAL, un movimento globale con il compito di divulgare i valori, le soluzioni della teoria PROUT, nei campi della società, economia, cultura, educazione, politica, istituzioni, che possa portare ad una nuova visione mondiale basata sulla necessità di garantire a tutti le minime necessità per l’esistenza e favorire lo sviluppo equilibrato di ogni essere umano, dal punto di vista fisico, mentale e spirituale, in armonia con la natura».  «Sarkar afferma che lo sviluppo economico non è in contraddizione con lo sviluppo delle potenzialità umane e la salvaguardia dell’ambiente. Per raggiungere questi obiettivi propone la suddivisione del territorio in aree socio-economiche autosufficienti, contrariamente a quanto sostengono i fautori della globalizzazione economica attuale. La teoria economica PROUT, dalla vasta portata sia filosofica che tecnica, propone una nuova visione dell’evoluzione della storia. Famoso il Ciclo Sociale proposto da Sarkar, applicato in modo eccellente dall’economista Ravi Batra per le sue 20 previsioni azzeccate, sugli eventi del secolo scorso». «Sarkar propone poi una ristrutturazione della teoria economica stessa trasformando la macro economia in economia generale, (per lo studio delle teorie economiche) la micro economia in economia commerciale e aggiungendo due nuove branche di studi e applicazioni: l’economia popolare, che dovrebbe proprio interessarsi della garanzia delle minime necessità (alimenti, vestiario, abitazione, cure mediche, educazione) e la psico-economia che affronta il problema dello sfruttamento nei luoghi di lavoro e la massima utilizzazione delle capacità individuali e collettive per la trasformazione scientifica ed economica». «Il PROUT è una teoria economica dinamica, può essere applicata in qualsiasi circostanza e paese e in qualsiasi condizione, da qui la definizione di progressiva. Prevede la massima utilizzazione delle potenzialità materiali, fisiche, mentali e spirituali, dell’individuo e della società, da qui il termine utilizzazione. Fonda le sue radici sul neo-umanesimo, che insegna il rispetto dell’ambiente nel suo insieme, quindi non solo esseri umani, ma anche animali, piante e oggetti inanimati, come espressioni tutte dell’armonia dell’Universo. Per questo viene definita socialismo umanistico, proposto, nelle parole di Sarkar, per il benessere e la felicità di tutti».

L’analisi

Franco Bressanin, cofondatore di IRP, mette poi in evidenza gli evidenti fallimenti del sistema capitalistico.
«Dal punto di vista  dell’uguaglianza sociale, dei diritti umani e dello sviluppo materiale, intellettuale e culturale-spirituale, negli ultimi decenni si è avuto un peggioramento. Il sistema capitalista attuale sovverte i valori umani, ponendo il denaro e l’accumulo di ricchezze al vertice dei valori, mentre solidarietà, arte, cultura, spiritualità, desiderio e sforzo di migliorarsi sono denigrati e spogliati della loro importanza. Il capitalismo impedisce la crescita e lo sviluppo interiore dell’essere umano, snaturandolo, e questo è  un primo fallimento. Il secondo fallimento è che rende le persone egocentriche, accresce le disparità economiche e  favorisce un pensiero puramente materialistico. Trasforma le persone in animali feroci attraverso una forma di competizione che calpesta tutti i diritti umani. Favorisce l’uso della forza, non solo fisica, al puro scopo di impadronirsi anche delle ricchezze degli altri, creando povertà e indigenza. Un terzo fallimento: la globalizzazione, che avrebbe dovuto propagare il benessere e l’affluenza in tutto il mondo, invece ha propagato e diffuso povertà e diseguaglianze. E ancora, un quarto fallimento: ci siamo dimenticati la funzione stessa del denaro come mezzo per lo scambio di beni e servizi. Aristotele stesso proclamava la natura di mezzo di scambio del denaro, arrivando a condannare il profitto. Oggi il denaro è tolto dalla circolazione nelle attività produttive ed inserito nelle attività finanziarie, massacrando la produzione di beni e servizi e di fatto impoverendo l’economia. Il quinto fallimento: il neoliberismo, nel contesto attuale di amoralità, sfociando spesso nella illegalità o peggio nella criminalità, non può che essere distruttivo e degenerante». Quindi, secondo Bressanin, «il sistema capitalista fondato sul profitto indiscriminato ha portato la società alla disintegrazione sociale ed economica. E la globalizzazione, come massima espressione del capitalismo a livello planetario, ha distrutto in ogni paese il tessuto produttivo, la coesione sociale e prodotto un oceano di debiti, sotto il cui peso la società stenta a riprendere il suo normale corso. Ha favorito l’indiscriminato accumulo di ricchezza in mano a poche persone, aumentando il divario tra ricchi e poveri. Allo stesso tempo è diminuita la circolazione del denaro, creando recessione e alla fine depressione economica». «Inoltre attraverso i media si nascondono i problemi veri, si devia l’attenzione pubblica su cose non importanti, o la si anestetizza con telenovela,  giochini a premio, o con il gioco d’azzardo di Stato. In questo modo la gente sciupa il suo tempo in inutili attività invece di dedicarlo al proprio sviluppo interiore. Ovviamente tutto ciò non può durare all’infinito, così si arriverà al punto di rottura, quando l’ignoranza pubblica, considerata un mezzo per tenere sotto controllo le masse, emergerà con tutta la sua forza dirompente e farà grippare la macchina economica e sociale. Se ci sono diseguaglianze sociali, nessuno vi pone rimedio, tanto la gente si arrangia in un modo o nell’altro. Si inquina l’ambiente, scaricando i rifiuti in mare, bruciandoli, seppellendoli,  tanto  i tumori compaiono dopo decine di anni, così si può continuare ad inquinare, tanto al momento la gente non muore. Ma alla fine la natura chiede il conto e la gente comincia a stare sempre peggio. La miopia mentale, la mancanza di pianificazione, la visione sfruttatrice dell’ambiente, delle persone e delle conoscenze miete le sue vittime. Il sistema socio-economico grippa e si ferma, per poi distruggersi, con dolore e sofferenza per i più. Nessuno può più venderlo come un successo».

La proposta Prout

«La teoria economica PROUT, propone un sistema economico collettivo, dove la proprietà dei mezzi di produzione sia collettiva, in mano alle persone che lavorano e il potere politico in mano a persone morali e capaci» prosegue Bressanin. In sostanza un’economia a responsabilità collettiva, con un sistema di cooperazione coordinata, non subordinata. La finalità è garantire le necessità basilari per l’esistenza a tutti,  l’aumento in modo progressivo del potere di acquisto, per il benessere di tutti, nessuno escluso. Dobbiamo ripristinare il circolo virtuoso PRODUZIONE- LAVORO-REDDITO-CONSUMI necessario a produrre un reddito utile a soddisfare i bisogni primari, per la sopravvivenza e lo sviluppo, diritto di nascita di ogni essere vivente». Rivoluzione Industriale  «La teoria economica PROUT propone un cambiamento strutturale del sistema produttivo, una rivoluzione industriale» continua Bonotto. Per le industrie prevede un sistema tripolare:
1. Aziende Pubbliche deputate alla produzione di materie prime a livello nazionale, regionale o locale. Saranno di loro competenza luce, acqua, gas, rifiuti, estrazione e  produzione di metalli ferrosi, filati, materiali edili con il criterio ‘né perdita, né profitto’ per regolare il mercato e non creare inflazione.
2. Aziende Cooperative, spina dorsale dell’economia, attraverso le quali la popolazione può controllare il potere economico. Alle cooperative sarà affidata la produzione e distribuzione dei beni essenziali all’esistenza per la popolazione. Come passo immediato chiediamo che il 51% delle azioni delle grandi imprese siano nelle mani dei lavoratori, i quali controlleranno gli amministratori e manager.
3. Aziende private che producono beni e servizi non essenziali o di lusso, piccole e micro imprese. Le aziende devono essere create nelle zone in cui sono presenti materie prime e decentrate sul territorio in ragione di esse, in modo tale da sviluppare ogni singola area socio-economica di ogni regione».

Riforma Agraria

«Il PROUT propone una gestione COOPERATIVA dell’agricoltura, in 3 fasi progressive che potranno durare circa 5 anni, sempre se gli agricoltori, attraverso la formazione, ne comprenderanno la necessità. L’Italia oggi non è più autosufficiente nella produzione agricola. Importiamo frutta e verdura dalla Cina. Attualmente circa il 95% delle proprietà agricole ha un’estensione media  di 5-10 ettari, risultando poco sostenibili e produttive. Si propone perciò la creazione di aree economicamente sostenibili unendo terreni anche non adiacenti, mantenendone la proprietà, da condividere in cooperazione. La gestione individuale/familiare della terra, la mezzadria, l’affitto delle terre non utilizzano appieno le potenzialità produttive della terra. Nel sistema agricolo cooperativo ciò può invece avvenire e si può applicare anche la cosiddetta agricoltura integrata: produzione non solo estensiva, ma integrata con orticoltura, floricoltura, allevamento, piscicultura, erbe officinali, sistemi di irrigazione, progetti di ricerca su fertilizzanti e sementi, utilizzando al meglio le potenzialità della terra e producendo un reddito più sicuro per gli agricoltori. Le cooperative avranno la capacità di fare ricerca affrancandosi dai privati». Pianificazione economica decentralizzta  «Il PROUT adotta il sistema di pianificazione decentralizzata. Vale a dire programmazione in funzione dello sviluppo per aree che vanno dai 5.000 ai 100.000 abitanti. “Conosci il territorio e pianifica” questo è il motto della pianificazione decentrata. La popolazione locale ha diritto di pianificare ogni aspetto del proprio territorio, inclusa certo l’amministrazione eletta».

Decentralizzazione Economica

«Per rendere possibili questi programmi il PROUT adotta la decentralizzazione economica (Economia nelle mani dei lavoratori e decentrata sul territorio)

• Obiettivo fondamentale: devono essere garantite a tutti le necessità basilari per l’esistenza

• Le persone non locali, esterne all’area socio-economica in questione, non devono interferire nell’economia locale. Occupazione prima alla popolazione locale.

• Le materie prime non devono essere esportate, solo i prodotti finiti per generare reddito locale

• Tutti i beni non prodotti in loco devono essere eliminati  dal mercato.

In poche parole siamo agli antipodi rispetto alle regole della globalizzazione, adottate per l’Italia dall’Europa, che impediscono lo sviluppo di ogni singolo paese.

• L’Italia deve diventare autosufficiente nella produzione dei beni essenziali.

• Deve avviare la manifattura per soddisfare il mercato interno e un 10-15% di esportazioni.

• Per questo deve salvaguardare le produzioni, disconoscendo i trattati WTO di globalizzazione.

• L’economia in mano alla popolazione (democrazia economica) eliminerà la corruzione prodotta dall’inciucio tra élite politiche ed economiche. Questa in sintesi la nostra visione socio-economica, un cambiamento di paradigma nello sviluppo socio-economico del nostro paese.

Per saperne di più: www.irprout.it

Fonte: il cambiamento