Fukushima, il Giappone scaricherà in mare oltre un milione di tonnellate di acqua radioattiva

Il Giappone scaricherà in mare oltre un milione di tonnellate di acqua radioattiva dalla centrale nucleare di Fukushima. Lo scrive Manlio Dinucci su Il Manifesto e ne riportiamo l’articolo, di estrema importanza benché l’attenzione ormai non si focalizzi che sul Covid.

Qui l’articolo di Manlio Dinucci comparso su Il Manifesto.

Non è Covid, per cui la notizia è passata quasi inosservata: il Giappone scaricherà in mare oltre un milione di tonnellate di acqua radioattiva dalla centrale nucleare di Fukushima. Il catastrofico incidente di Fukushima fu innescato dallo tsunami che, l’11 marzo 2011, investì la costa nord-orientale del Giappone, sommergendo la centrale e provocando la fusione dei noccioli di tre reattori nucleari. La centrale era stata costruita sulla costa appena 4 metri sul livello del mare, con dighe frangiflutti alte 5 metri, in una zona soggetta a tsunami con onde alte 10-15 metri. Per di più vi erano state gravi mancanze nel controllo degli impianti da parte della Tepco, la società privata di gestione della centrale: al momento dello tsunami, i dispositivi di sicurezza non erano entrati in funzione. Per raffreddare il combustibile fuso, è stata per anni pompata acqua attraverso i reattori. L’acqua, divenuta radioattiva, è stata stoccata all’interno della centrale in oltre mille grandi serbatoi, accumulandone 1,23 milioni di tonnellate. La Tepco sta costruendo altri serbatoi, ma a metà del 2022 anch’essi saranno pieni. Dovendo continuare a pompare acqua nei reattori fusi, la Tepco, in accordo col governo, ha deciso di scaricare in mare quella finora accumulata, dopo averla filtrata per renderla meno radioattiva (non si sa però in quale misura) con un processo che durerà 30 anni. Vi sono inoltre i fanghi radioattivi accumulatisi nei filtri dell’impianto di decontaminazione, stoccati in migliaia di container, ed enormi quantità di suolo e altri materiali radioattivi.

Come ha ammesso la stessa Tepco, particolarmente grave è la fusione avvenuta nel reattore 3 caricato con Mox, un misto di ossidi di uranio e plutonio, molto più instabile e radioattivo. Il Mox per questo e altri reattori giapponesi è stato prodotto in Francia, utilizzando scorie nucleari inviate dal Giappone. Greenpeace ha denunciato i pericoli derivanti dal trasporto di questo combustibile al plutonio per decine di migliaia di chilometri. Ha denunciato inoltre che il Mox favorisce la proliferazione delle armi nucleari, poiché se ne può estrarre più facilmente plutonio e, nel ciclo di sfruttamento dell’uranio, non esiste una netta linea di demarcazione tra uso civile e uso militare del materiale fissile. Si sono accumulate finora nel mondo (secondo stime del 2015) circa 240 tonnellate di plutonio per uso militare diretto e 2.400 tonnellate per uso civile, con cui si possono però produrre armi nucleari, più circa 1.400 tonnellate di uranio altamente arricchito per uso militare. Basterebbero poche centinaia di chilogrammi di plutonio a provocare il cancro ai polmoni ai 7,7 miliardi di abitanti del pianeta, e il plutonio resta letale per un periodo corrispondente a quasi diecimila generazioni umane.

Si è così accumulato un potenziale distruttivo in grado, per la prima volta nella storia, di far scomparire la specie umana dalla faccia della Terra. I bombardamenti nucleari di Hiroshima e Nagasaki; le oltre 2.000 esplosioni nucleari sperimentali nell’atmosfera, in mare e sottoterra; la fabbricazione di testate nucleari con una potenza equivalente a oltre un milione di bombe di Hiroshima; i numerosi incidenti con armi nucleari e quelli ad impianti nucleari civili e militari, tutto questo ha provocato una contaminazione radioattiva che ha colpito centinaia di milioni di persone. Una parte dei circa 10 milioni annui di morti per cancro nel mondo – documentati dall’Oms – è attribuibile agli effetti a lungo termine delle radiazioni. In dieci mesi, sempre secondo i dati dell’Organizzazione mondiale della sanità, il Covid-19 ha provocato nel mondo circa 1,2 milioni di morti. Pericolo da non sottovalutare, ma che non giustifica il fatto che i mass media, in particolare quelli televisivi, non abbiano informato che oltre un milione di tonnellate di acqua radioattiva sarà scaricata in mare dalla centrale nucleare di Fukushima, col risultato che, entrando nella catena alimentare, farà ulteriormente aumentare le morti per cancro.

Fonte: ilcambiamento.it

Il 5G e la ricerca sul cancro

La direttrice dell’Istituto Ramazzini Fiorella Belpoggi fa il punto sulla situazione 5G. Un’occasione per parlare di ricerca indipendente, delle linee guida sugli studi e della necessità di valutare l’inquinamento diffuso e continuativo nella ricerca sul cancro.  In occasione dell’intervista alla ricercatrice e direttrice dell’Istituto Ramazzini, Fiorella Belpoggi, abbiamo chiesto un aggiornamento sulla situazione 5G. “È un momento di grande fermento – sottolinea la direttrice – e vengo invitata continuamente ad eventi sull’impatto delle radiofrequenze organizzati da cittadini e amministratori: c’è molta attenzione anche tra ricercatori, fondazioni e amministrazioni. Anche dall’estero ricevo continuamente richieste di intervista, ci sono pochissime informazioni ma soprattutto è un tema ancora poco studiato. L’Istituto Ramazzini è l’unico soggetto di ricerca indipendente dai finanziamenti delle industrie che abbia studiato l’impatto almeno sul 3G, sulla frequenza di 1.8 GHz, attualmente in uso. Invece il 5G utilizzerà una fascia di radiazioni elettro magnetica delle onde millimetriche su cui non esistono studi per la salute delle persone. Oltretutto l’utilizzo dei telefonini è sempre più massiccio e continuato anche nelle giovanissime generazioni quindi bisognerebbe impostare nuove metodologie di ricerca oltre che indipendenti.

Fiorella Belpoggi, direttrice dell’Istituto Ramazzini

Abbiamo studiato le basse frequenze cioè quelle indotte dal flusso della corrente elettrica, le radiofrequenze 1.8 GHz e abbiamo visto che tutte le onde possono indurre il cancro soprattutto alcuni tipi di cancro al cervello. Infatti abbiamo rilevato l’impatto negativo sulle cellule di Schwann che formano la mielina attorno ai filamenti dei neuroni. I tumori che abbiamo osservato noi e i colleghi negli Stati Uniti sono gli stessi che avevano indotto la IARC (Agenzia internazionale per la ricerca sul cancro) nel 2011 ad affermare che le radiofrequenze erano “possibilmente cancerogene” negli utilizzatori assidui del cellulare. Poiché questi device sono tenuti vicini o addosso al corpo tutto il giorno, l’energia che viene assorbita dall’organismo è maggiore rispetto alle stesse frequenze emesse dalle antenne: c’è una maggiore interferenza con il materiale biologico. Di fronte al fatto che esistono le due evidenze scientifiche di pericolosità, dei due diversi laboratori, abbiamo chiesto di inserire nelle prossime nuove valutazioni delle radiofrequenze una revisione più completa e aggiornata degli studi. Importante infatti è tenere conto delle eventuali amplificazioni del sistema della trasmissione di onde ancora maggiori cioè con maggiore capacità di trasmettere anche se meno penetranti. Non c’è una evidenza scientifica di emergenza come ci accadde quando studiammo gli effetti del benzene e della formaldeide. Ma prima di espandere queste tecnologie bisognerebbe studiarle perché coinvolgono miliardi di persone. Possiamo chiedere alle compagnie di costruire apparecchi meno pericolosi, con misure che espongano meno cioè maggiormente schermati o con incorporate applicazioni per renderlo funzionante solo quando è ad una certa distanza dal corpo oppure dotati di auricolari integrati; già a 5 cm di distanza dal corpo l’esposizione è 25 volte minore, ma sempre alta. Il wifi ha una frequenza intermedia ma sono sempre onde elettro magnetiche ed è meglio non tenerlo acceso di notte. Sarebbe importante ad esempio cambiare il modo di far vedere ai figli un film: bisognerebbe prima scaricarlo. La condizione più preoccupante consiste nel numero di apparecchi cellulari contemporaneamente accesi, ad esempio in un vagone di un treno possiamo avere 100 cellulari accesi, con 50 persone che parlano al telefono; l’esposizione aumenta moltissimo.

In particolare le onde millimetriche del 5G, quelle dei forni a microonde, sollecitano gli atomi di acqua, quindi i bambini, che hanno una percentuale maggiore di acqua, sono i più esposti. Queste onde hanno scarso potere di penetrazione, ma quanto è sottile la calotta cranica di un bambino? E per le gestanti quanto penetrano nel liquido amniotico? Anche se penetrassero solo l’epidermide bisognerebbe considerare che è un tessuto molto innervato e gli impulsi nervosi sono trasportati da cariche elettriche fino al Sistema Nervoso Centrale. Non c’è più alcun dubbio che irrorando di campi magnetici ci sia interazione, abbiamo visto svilupparsi cancri ai nervi facciali, mandibolari, acustici.  

Gli allarmi precoci andrebbero ascoltati e con metodologie nuove. Considerando che siamo tutti immersi in questo surplus di onde risulta quasi impossibile selezionare una parte di popolazione “pulita” per evidenziare le differenze con il caso controllo. 

Gli studi sul cancro 

Gli studi di cancerogenesi durano 3/4 anni, c’è bisogno di tempo, ma bisogna studiare anche le modificazioni biomolecolari sulle cellule e se ci sono biomarkers tumorali come quelli che abbiamo trovato nel 3G. Nella ricerca sono necessari i modelli uomo equivalenti, eseguiti fin dall’ esposizione prenatale, invece le linee guida fanno iniziare gli studi ad una età equivalente di 15 anni, di fatto togliendo la parte più sensibile alle esposizioni. Ma questo vale per qualsiasi studio di cancerogenesi. Il cancro ha una latenza di circa 10 anni e veniamo in contatto con sostanze, ormai da decenni riconosciute cancerogene, in età sempre più precoce. Quindi se vediamo sempre più casi di cancro mammario a 30 anni o linfomi e leucemie nell’infanzia vuol dire che le esposizioni sono diventate molto precoci. Gli enti autorevoli di controllo come l’EFSA controllano gli studi commissionati dalle aziende, ma l’oggetto di ogni studio e le metodologie scelte sono l’anello più importante e dovrebbero essere affidate a laboratori indipendenti. Non basta segnalare la presenza o meno dei conflitti d’interesse. Risparmieremmo anche molti soldi se gli studi valutassero più parametri biologici e non il singolo danno neurologico o immunitario o la cancerogenesi. Bisogna prevedere studi che analizzino tutti questi effetti contemporaneamente.

In Italia ci sono grossi centri di ricerca ma sono sponsorizzati, sono laboratori che lavorano a contratto soprattutto per l’industria farmaceutica e devono produrre profitto. Le Università che fanno ricerca indipendente hanno piccoli laboratori non in grado di fare grandi studi, non hanno il know how, durano massimo un anno. 

Rischi cancerogeni diffusi 

Bisogna cambiare il sistema di valutazione, le regole che sono state fatte negli anni 70 quando la maggiore tossicità era nei luoghi di lavoro, ora l’inquinamento è molto più diffuso, costante e continuo dalla vita prenatale in poi e su tutta la popolazione umana. Il tema delle regole sono in pochissimi a conoscerle e chi le conosce lavora a contratto e/o segue l’applicazione delle linee guida senza la visione delle ricadute; è attento solo alla parte tecnica. Sono studi di nicchia e pochi ricercatori ne capiscono le reali conseguenze, io stessa l’ho capito solo dopo anni. Dobbiamo abbassare il potenziale cancerogeno ambientale totale ma se continuiamo a sintetizzare centinaia di nuovi composti chimici come cosmetici, farmaci, pesticidi e non ritiriamo dal commercio quelli obsoleti e più pericolosi, andiamo in accumulo.

La ricerca indipendente 

Noi abbiamo iniziato nel 2005 con un unico finanziamento ma gli altri fondi sono arrivati dai volontari dell’Istituto che oggi ha 50.000 soci perché siamo una cooperativa sociale e siamo finanziati da donazioni. Ci abbiamo messo più tempo ma siamo indipendenti e no-profit. Il nostro scopo è il pareggio di bilancio e il nostro guadagno da Statuto è diffondere informazioni per una cultura della prevenzione. Facciamo una ricerca che cerca di riprodurre le situazioni espositive umane con modello uomo equivalente. Con approccio simile al nostro c’è in America il National Toxicology Program, finanziato dall’FDA e per fare il nostro studio sul 3G hanno speso 30.000 euro iniziando a studiare dalla vita prenatale come noi, per rendere il modello più sensibile, ma non rilasciano interviste. Siamo gli unici che riescono a divulgare i risultati sulle radiofrequenze, un servizio a miliardi di persone. Nei diversi incontri a cui sono invitata, sempre più cittadini sentono che stiamo esagerando nell’uso incontrollato della tecnologia ma anche ricercatori universitari, fondazioni, amministratori sono d’accordo e spingono per comportamenti più cautelativi. Poi bisognerebbe investire molto di più nell’informazione sull’uso corretto degli apparecchi, non bastano le istruzioni per l’uso nelle confezioni che nessuno le legge. I device devono migliorare man mano che aumentano le conoscenze; per i produttori sono spese minime, è solo una questione di volontà. E’ una grossa sfida tecnologica: l’innovazione deve avere un miglioramento non solo sul comfort ma anche sulla salute. Bisogna imparare a gestire ciò che via via scopriamo di poter fare.” 

Per approfondire clicca qui

Fonte: http://www.italiachecambia.org/2019/07/5g-ricerca-cancro/

L’amianto toglie ancora il respiro (parte prima)

Tremila morti all’anno solo in Italia, più di 30milioni di tonnellate ancora da bonificare, 370mila edifici contaminati, fra cui moltissime scuole. L’emergenza amianto non è affatto un problema del passato. Abbiamo intervistato Maura Crudeli, presidente AIEA (Associazione Italiana Esposti Amianto), che denuncia come colossi industriali quali Cina, India e Russia non abbiano proibito l’uso di questo agente tossico e che l’amministrazione Trump lo abbia reintrodotto nell’edilizia degli USA.

“Fra i 3 e i 4mila morti ogni anno solo in Italia, quasi 15mila in Europa e più di 100mila nel mondo. Se qualcuno pensa che l’emergenza amianto sia un problema del passato è smentito dai numeri del RENAM-Registro Nazionale dei Mesoteliomi, dell’ISS-Istituto Superiore della Sanità e dai dossier di Legambiente”. Ce lo ha detto Maura Crudeli, presidente dell’AIEA-Associazione Italiana Esposti Amianto – una delle associazioni che compongono il neonato Coordinamento Nazionale Amianto e facente parte della rete internazionale Ban Asbestos  – tutte impegnate nella sensibilizzazione verso il problema, nella pressione alle istituzioni e nel supporto alle vittime e ai loro parenti.

Maura è una friulana trapiantata a Roma, dove è diventata una conosciuta organizzatrice di eventi e una filmaker. Fra i suoi lavori, vanno citati il documentario “Attenti al treno”, sul reparto di coibentazione della FIAT Ferroviaria di Savignano, un posto di lavoro ambitissimo fino a qualche decennio fa, che gli operai svolgevano immersi in una fitta nebbia polverosa… d’amianto; “I Vajont”, altro documentario, stavolta a episodi, su alcune fra le più eclatanti tragedie provocate dall’avidità, dalla sete di potere e dall’indifferenza dell’uomo, inclusa quella di Broni, sede di uno stabilimento della Fibronit, una tra le più grandi aziende produttrici di cemento amianto in Italia; infine, l’ultimo spot di AIEA ONLUS  volto a mantenere alta l’attenzione sul tema, dal titolo estremamente efficace: l’amianto ti toglie il respiro. Come sottolinea lei stessa nella nostra intervista video, la lotta all’amianto (detto anche asbesto) e il sostegno alle sue vittime è diventata una delle missioni nella sua vita dal 2010, ossia da quando  suo padre Mauro, coibentatore all’interno dei cantieri navali di Fincantieri, è morto a causa di un mesotelioma, un tumore raro associato all’esposizione all’amianto. 

A 30 anni esatti dalla sua fondazione, AIEA – una Onlus senza fini di lucro – continua a battersi a livello globale per l’abolizione dell’amianto in ogni forma diversa dallo stato di minerale in cui si trova in natura (l’unico stato nel quale non è nocivo per la salute). In accordo con quanto afferma l’OMS-Organizzazione Mondiale della Sanità, l’AIEA sostiene che, “secondo gli attuali livelli di conoscenza scientifica sui danni causati alla salute dall’inalazione di fibre di amianto, non esiste alcun livello minimo di soglia al di sotto del quale vi sia sicurezza, per cui la massima concentrazione accettabile di fibre non può che essere zero”.

Nata dal movimento di lotta per la salute Medicina Democratica, l’AIEA è stata fondata nel 1989 a Casale Monferrato, sede della celebre fabbrica di fibrocemento Eternit. Tre anni dopo la sua costituzione fu approvata, dopo una lunga e difficile gestazione, la legge 257/1992, ovvero “Norme per la cessazione dell’impiego dell’amianto”. Una vera e propria legge-svolta, alla quale ha contribuito in misura determinante proprio la grande mobilitazione sociale dovuta all’attività delle associazioni degli esposti, delle associazioni ambientaliste e di quelle sindacali. Nella legge si stabilisce che, in Italia, “sono vietate l’estrazione, l’importazione, l’esposizione, la commercializzazione e la produzione di amianto, di prodotti di amianto o di prodotti contenenti amianto”.

Tuttavia, nonostante l’approvazione della legge e la capillarità della successiva azione di bonifica nelle cave e nei siti industriali nei quali in passato sono state realizzate le lavorazioni, resta ancora molto da fare. In Italia, per esempio, dove non tutte le regioni hanno applicato i piani regionali per l’amianto e provveduto alla mappatura prevista dalla legge 257/92, si stima vi siano ancora fra le 33 e le 39 milioni di tonnellate della fibra killer ancora da bonificare, fra cui quasi 58 milioni di metri quadri di coperture in cemento amianto. Sconcertante il dato riguardante il censimento degli edifici nel nostro paese, che rivela come, dei circa 370mila edifici contenenti amianto presenti oggi sul nostro territorio, più di 50mila siano pubblici e di questi molte siano scuole. Secondo Censis e Legambiente, infatti, il 10% delle scuole italiane presenta ancora strutture in amianto.  

Come se non bastasse, il dato internazionale è ancora più preoccupante. Se nel corso degli ultimi due decenni in tutta Europa l’amianto è stato proibito – sia in fase di estrazione che in fase di produzione e commercializzazione – la stessa cosa non si può dire del resto del mondo. Al momento sono difatti solo 53 (su un totale di 196) i paesi del mondo che ne hanno proibito l’estrazione e l’utilizzo. In tutti gli altri, inclusi colossi industriali come Cina, India e Russia, questo materiale è ancora utilizzabile, a volte in tutte delle sue molteplici forme, a volte solo in alcune. Come nel caso degli USA, nei quali l’amministrazione Trump, nell’estate 2018, è tornata sui passi tracciati dai governi precedenti reintroducendo l’uso dell’amianto nell’edilizia (da cui era stato bandito nel 1989). Insomma, la parola d’ordine è, ora come prima, vietato abbassare la guardia!

Continua…

Fonte: http://www.italiachecambia.org/2019/01/amianto-toglie-ancora-respiro-parte-prima/?utm_source=newsletter&utm_campaign=general&utm_medium=email&utm_content=relazioni

Inquinamento e cancro: ecco perché i tumori infantili non sono più una «patologia rara»

Generalmente si pensa al cancro come a una malattia della terza età e si sostiene che il trend continuo di incremento di tumori nel corso del XX secolo in tutti i paesi industrializzati possa essere spiegato mediante la teoria dell’accumulo progressivo di lesioni genetiche stocastiche e il miglioramento continuo delle nostre capacità diagnostiche.9922-10711

Troppo spesso si dimentica che l’aumento, dalla fine degli anni ’80 ad oggi, ha riguardato tutte le età e in particolare i giovani e, soprattutto, i bambini. L’incremento significativo di tumori infantili in Europa (ACCIS: Automated Childhood Cancer Information System) e specialmente in Italia negli anni ’90 ha destato apprensione, anche perché impone una riconsiderazione critica dei modelli di cancerogenesi. Ancora pochi decenni fa i tumori infantili erano una patologia rara e la forma tumorale prevalente era la leucemia linfoblastica, anche nota come “common”, che è oggi curabile nella stragrande maggioranza dei casi. Oggi, invece, uno su 5-600 nuovi nati è destinato ad ammalarsi di cancro prima del compimento del quindicesimo anno d’età; nonostante i miglioramenti prognostici il cancro rappresenta la prima causa di morte per malattia nei bambini che hanno superato l’anno d’età; sono in continuo aumento le forme tumorali prima rare come linfomi, sarcomi, tumori del sistema nervoso e leucemie diverse dalla “common” (e in genere caratterizzate da prognosi molto più severa). Tali dati provengono dal più grande studio europeo, lo studio ACCIS, coordinato dalla IARC (Agenzia Europea di Ricerca sul Cancro) e non devono essere sottovalutati per almeno quattro ragioni: le notevoli dimensioni del campione in studio (oltre 60 registri oncologici di 19 Paesi europei, per un totale di oltre 150 mila tumori di tutti i tipi); il tempo di osservazione sufficientemente protratto (25 anni); l’incremento massimo nel primo anno di età, che depone per un’origine transplacentare (da esposizione materno-fetale ad agenti pro-cancerogeni) o addirittura transgenerazionale (epigenetica/gametica); il concomitante incremento in tutto il Nord del mondo di tutta una serie di patologie cronico-degenerative (endocrino-metaboliche: obesità, diabete 2; immunomediate: allergie, malattie autoimmuni; del neuro sviluppo e neuro-degenerative: autismo, ADHD, malattia di Alzheimer), per le quali è stato ipotizzato un ruolo patogenetico significativo degli stessi meccanismi di disregolazione epigenetica precoce (fetal programming) a carico di vari organi e tessuti (Developmental Origins of Health and Diseases) e, quindi, in ultima analisi, un ruolo preponderante dell’ambiente (traffico veicolare, pesticidi, interferenti endocrini, radiazioni ionizzanti e, con sempre maggior evidenza, campi elettromagnetici). È vero che non tutti gli esperti concordano con queste valutazioni, evidentemente preoccupanti. Alcuni hanno anche affermato che l’incremento massimo si era avuto negli anni ’90 e che i dati più recenti sembravano più confortanti. Purtroppo, l’ultima accurata e ampia revisione dei dati pubblicata recentemente su The Lancet conferma appieno le valutazioni precedenti.

Un’attenta riflessione su questi dati è necessaria e urgente: non soltanto perché nei bambini dovrebbero svolgere un ruolo minore l’esposizione ad agenti inquinanti legata alle cattive abitudini personali (in primis il fumo di sigaretta) e lo stress ma, soprattutto, perché non potrebbe realizzarsi in così breve tempo a partire dal concepimento l’accumulo di alterazioni genetiche tuttora considerate la causa prima di qualsiasi degenerazione tessutale in senso neoplastico.

È opportuno ricordare come, per quanto concerne i tumori della prima infanzia, le prime fasi del processo siano già presenti alla nascita. L’importanza degli eventi genetici insorti in utero è stata per molti anni sospettata sulla base di studi di concordanza su gemelli affetti da leucemia e poi confermata da studi genetici, che hanno trovato nei campioni di sangue calcaneare di neonati, che avrebbero in seguito sviluppato forme leucemiche, le traslocazioni e le sequenze geniche corrispondenti ai geni di fusione successivamente trovati nei blasti. Oggigiorno traslocazioni e cloni pre-leucemici si formano nel feto e nel sangue cordonale con grande frequenza. Tutto questo è difficilmente accettabile per chi si attenga al paradigma tradizionale del cancro come incidente genetico da mutazioni stocastiche del DNA. È sempre più evidente che il cancro, soprattutto nella prima infanzia, deve essere considerato la conseguenza di una instabilità epigenetica secondaria all’esposizione sempre più precoce e massiccia ad agenti epi-mutageni: una sorta di processo evolutivo/adattativo, potenzialmente fallito o distorto.

Soltanto la riduzione dell’esposizione materno-fetale e infantile a questi fattori e agenti procancerogeni può aiutarci a ridurre l’incremento continuo non solo di tumori infantili e giovanili ma di tutte le patologie croniche – obesità, diabete 2 giovanile, malattie allergiche e autoimmuni, disturbi del neurosviluppo – che sembrano poter avere questa stessa origine.

*European Cancer and Environment Research Institute, Bruxelles

L’articolo è comparso su Il Sole 24 Ore Sanità

Fonte: ilcambiamento.it

Quanto “costa” l’inquinamento? Sei milioni di morti. Ed è solo l’inizio

Il recentissimo rapporto dell’Organizzazione Mondiale della Sanità riassume i dati degli ultimi anni su inquinamento e suo impatto sulla salute e fornisce il dato dei morti prematuri a causa proprio dei contaminanti ai quali siamo espossti: 6 milioni. Eppure si continua a parlare a fare altro…9507-10262

L’inquinamento atmosferico – proveniente sia da sorgenti indoor che da fonti esterne – rappresenta il più grave rischio ambientale per la salute e, secondo l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), nel 2012 (che rappresenta il dato più recente disponibile per l’analisi appena pubblicata) risulta correlato alla morte prematura di oltre 6 milioni di persone. Quindi, proviamo a pensare a quante morti ci sono state e con quale possibile e plausibile trend in aumento dal 2012 ad oggi! Il rapporto dell’Oms si intitola “Evolution of WHO air quality guidelines: past, present and future” e riassume i principali documenti pubblicati a partire dagli anni Cinquanta, la loro evoluzione relativamente ai criteri di valutazione della qualità dell’aria e dell’impatto sulla salute umana, e che hanno portato allo sviluppo di una serie di linee giuda, sia per l’inquinamento dell’aria indoor sia outdoor. Il documento sottolinea l’evoluzione dell’evidence scientifica sugli effetti dell’inquinamento dell’aria sulla salute ed è uno strumento di supporto per i decisori nella definizione di strategie di gestione e controllo della qualità dell’aria. Vengono inoltre presentate le attività in corso e le direzioni future auspicate.

QUI il documento completo “Evolution of WHO air quality guidelines: past, present and future”

QUI il comunicato stampa sul sito dell’Oms.

Tra le vittime più colpite dall’inquinamento atmosferico ci sono senza dubbio i bambini. E a questo proposito è utile e interessante la visione del video messo a disposizione dall’associazione “Cittadini per l’aria” sulla conferenza che si è tenuta lo scorso 26 gennaio a Milano dal titolo “Salute e inquinamento atmosferico. Nuove evidenze sui danni allo sviluppo cognitivo dei bambini”, con presentazione di studi e ricerche, dati certi, nuove evidenze e immagini chiare che fanno luce sulle conseguenze, a livello fisico e mentale, dell’esposizione all’aria inquinata.

QUI per vedere il video della conferenza

Nel dicembre scorso, poi, è stato pubblicato il primo studio di coorte in Europa, svolto dall’Istituto Nazionale dei Tumori con il supporto di strumentazioni satellitari, che mette in relazione la mortalità per il tumore femminile con le concentrazioni di PM 2.5. La ricerca è stata effettuata su una coorte di 2.021 donne con  diagnosi di tumore al seno tra i 50 e i 69 anni, nel periodo compreso tra il 2003 e il 2009, e si è  basata su dati del Registro Tumori. “I risultati dello studio sono altamente rappresentativi in quanto basati su un Registro Tumori di popolazione capace di intercettare tutti i casi di neoplasia presenti su un territorio e su una popolazione di donne numericamente elevata (2021). Inoltre i risultati sono simili a quanto già osservato nello studio californiano e in quello cinese. Il nostro studio indica che il rischio di mortalità per tumore della mammella aumenta con l’esposizione al PM2.5. Anche se da un punto di vista scientifico
serviranno altre ricerche per una migliore definizione del percorso causale in oggetto, questi risultati aprono la strada a interventi rivolti al miglioramento della prognosi delle pazienti con tumore della mammella, basati sulla riduzione dell’esposizione a PM 2.5”. Hanno spiegato dall’Istituto.

Mancano forse le informazioni per rimboccarsi le maniche e cambiare radicalmente paradigma? No.

Fonte: ilcambiamento.it

Più allattamento al seno salverebbe 800mila bambini all’anno

Solo 1 bambino su 5 è allattato al seno fino all’anno di età nei paesi ad alto reddito, solo 1 su 3 è allattato esclusivamente al seno per i primi 6 mesi di vita nei paesi a basso e medio reddito. Il risultato? Milioni di bambini vengono privati dei grandi benefici dell’allattamento materno. Su The Lancet sono stati pubblicati i risultati di uno degli studi più ampi e dettagliati che hanno quantificato il livello, l’andamento e i benefici dell’allattamento nel mondo.

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Secondo lo studio, aumentare l’allattamento al seno in tutto il mondo salverebbe la vita a oltre 800mila bambini ogni anno, l’equivalente del 13% di tutte le morti dei bambini sotto i 2 anni, e consentirebbe di prevenire altre 20mila morti per cancro al seno nelle donne ogni anno. «C’è la diffusa e sbagliata percezione che i benefici dell’allattamento al seno siano relativi solo ai paesi poveri. Nulla potrebbe più lontano dalla verità» ha spiegato il professor Cesar Victora dell’università federale di Pelotas in Brasile. «Il nostro lavoro dimostra chiaramente che l’allattamento salva vite in tutti i paesi, siano essi ricchi o poveri». Sono stati analizzate 28 revisioni sistematiche e meta-analisi ed è emerso che l’allattamento non ha solo molteplici benefici per bambini e madri, ma ha anche effetti incredibili sull’aspettativa di vita. Per esempio, nei paesi ad alto reddito riduce il rischio di morte infantile improvvisa di oltre un terzo, mentre nei paesi a basso e medio reddito potrebbe evitare la metà dei casi di diarrea e un terzo delle infezioni respiratorie. L’allattamento materno aumenta anche l’intelligenza e può proteggere da obesità e diabete in età più avanzata. Per le madri una estesa durata dell’allattamento riduce il rischio di cancro al seno e alle ovaie. Lo studio pubblicato su Lancet ha anche stimato che aumentare l’allattamento al seno nei bambini sotto i 6 mesi fino al 90% in Usa, Cina e Brasile e fino al 45% in Inghilterra potrebbe tagliare le spese per le comuni malattie dell’infanzia e far risparmiare ai sistemi sanitari almeno 2,45 miliardi di dollari in Usa, 29,5 milioni in Inghilterra, 223,6 milioni in Cina e 6 milioni in Brasile. Nel mondo la percentuale di allattamento al seno è bassa, soprattuto nei paesi ad alto reddito. Per esempio, in Inghilterra meno dell’1%, Irlanda 2% e Danimarca 3% fino a 12 mesi di età. Il Codice internazionale sul commercio dei sostituti del latte materno è stato adottato nel 1981 ma non è mai stato veramente rafforzato, sostenuto e non vengono fatti adeguati monitoraggi sull’effettivo rispetto delle regole. Ciò ha condotto ad aggressive campagne di marketing da parte dei produttori di latte artificiale che mina gli sforzi per aumentare l’allattamento al seno. E, visto che in Occidente il mercato è ormai saturo, le aziende cercano di farsi largo nei paesi più poveri. Sempre secondo il professor Victora, «c’è l’errata convinzione che il latte materno possa essere sostituito con prodotti artificiali senza conseguenze negative per la salute. Ma le evidenze emerse nel nostro studio non lasciano adito a dubbi: la decisione di non allattare ha forti effetti negativi a lungo termine sulla salute, sulla nutrizione e sullo sviluppo del bambino e sulla salute delle madri».

QUI I TESTI INTEGRALI DELLO STUDIO

PARTE PRIMA

PARTE SECONDA

Fonte: ilcambiamento.it

L’unico futuro possibile è quello senza carne

“Il report dell’OMS conferma quanto già era noto dal 2007, il consumo di carne favorisce il cancro. Già otto anni fa le indicazioni di eliminare la carne rossa e quella trasformata erano chiare. Come sono chiare oggi molte altre raccomandazioni alimentari che, purtroppo, però, vengono ignorate”. Intervista alla dottoressa Michela De Petris, specializzata nell’alimentazione terapeutica in oncologia.carne_rossa_iarc

Dopo che lo IARC (International Agency for Research on Cancer) ha inserito le carni lavorate nel gruppo 1 delle sostanze che causano il tumore, mettendole di fatto allo stesso livello del fumo, alcol, arsenico e benzene e le carni rosse non lavorate nel gruppo 2A, quello delle sostanze “probabilmente cancerogene“, allo stesso livello del glifosato, ingrediente attivo in molti diserbanti, il dibattito nei media, nei social e a tavola, non sembra placarsi. Da un lato c’è chi denuncia l’eccessivo allarmismo creato attorno alla questione, dall’altro chi invece invece appoggia ed enfatizza gli studi condotti dall’Organizzazione.
Per cercare di fare chiarezza e di avere un ulteriore punto di vista sulla faccenda, il Cambiamento dopo l’intervista alla Dottoressa Simona Mezzera, ha contattato anche Michela De Petris, specializzata nell’alimentazione terapeutica in oncologia. membro della Società Scientifica di Nutrizione Vegetariana (SSNV) e dell’Istituto per la Certificazione Etica ed Ambientale (ICEA). Già ricercatrice in studi di intervento alimentare presso l’Istituto Nazionale dei Tumori di Milano e docente di nutrizione clinica in diversi corsi indetti dalla Provincia di Milano e dalla Regione Lombardia.

Dottoressa De Petris, cosa significano i dati emanati dall’OMS in merito alla correlazione tra il consumo di carne rossa e lavorata e il rischio di tumori? 

Il report dell’OMS conferma quanto già era noto dal 2007, e cioè che il consumo di carne favorisce il cancro. Già otto anni fa, infatti, il Fondo mondiale per la ricerca sul cancro (WCRF) affermava che l’aumento del rischio del cancro al colon-retto era riconducibile al consumo di carni rosse e trasformate. E le indicazioni di abolire, eliminare, limitare erano già chiare da allora.

Evitare totalmente o ridurre come sostengono alcuni?

Le indicazioni parlano chiaro: “Limitare il consumo di carni rosse ed evitare il consumo di carni trasformate”. Certo è che ogni medico, specialista, nutrizionista può sostenere quello che vuole, ma queste raccomandazioni sono molto chiare e lo erano da tempo. Per esempio: fumare una sigaretta fa bene o male? C’è chi sosterrà che dieci sigarette fanno più male che una ma non per questo una sigaretta non fa male. Lo stesso vale per le carni trasformate, quelle non trasformate e per molti altri cibi.

A quali altri cibi bisogna stare attenti? 

A tutti i cibi di origine animale: al latte, i formaggi, soprattutto se stagionati, alle uova, correlate al rischio di tumore al seno, alle ovaie e alla prostata, al pesce, che comunque è carne e che è uno degli alimenti più inquinati di metalli pesanti come mercurio e piombo, sul mercato, ricchissimo di grassi saturi e colesterolo e, nel caso di pesce di allevamento, ricco di antibiotici promotori della crescita. E poi grande attenzione alla carne tutta in generale e, soprattutto, ai salumi. I cibi di origine animale fanno male e ormai di evidenze scientifiche a confermarlo ce ne sono in abbondanza. Poi che ci siano in ballo altri interessi è fuori discussione…

Di che genere di interessi parla?

Purtroppo, come si può vedere anche in questi giorni, di interessi in gioco ce ne sono molti. Quelli dell’industria della carne, ovviamente, che si è affrettata fin da subito a negare persino l’evidenza proveniente dall’OMS. Ma anche quelli dell’economia italiana, del mercato, delle case farmaceutiche… Non si può lasciare che queste informazioni spaventino la popolazione, perché l’unico rischio che sta a cuore a certi settori è quello che calino i consumi, non certo quello per la salute umana. Per questo sia io che la Società Scientifica di Nutrizione Vegetariana che molti colleghi esortiamo tutti i consumatori a informarsi per non assistere impotenti a questa nuova mistificazione, che vede ancora la salute sottomessa al profitto, esattamente come già accaduto per il fumo di sigaretta. Ci dicevano che bastava fumarla con il filtro, proprio come ci dicono che basta consumare carne italiana, e stare tranquilli… come se potesse fare differenza il dove la carne è prodotta. E’ imperativo non fidarsi delle rassicurazioni dei produttori, visto il loro palese conflitto di interessi, e occuparsi invece in prima persona della propria salute.

In molti sostengono che il problema non sia la carne in sé ma il metodo di lavorazione e il luogo in cui questa viene prodotta. Cosa ne pensa?

La cosa vera è che l’Europa e l’Italia sulla carne hanno controlli più stretti, più precisi e più efficaci. Per questo siamo maggiormente tutelati. Ma ciò non significa che, in Italia come altrove, la carne non sviluppi sostanze cancerogene dannose e, soprattutto, non significa che la frequenza di consumo, più che la provenienza, non siano incisive. E poi sfido qualsiasi consumatore di carne a vedere con certezza da dove la carne è arrivata, dove è stata prodotta o lavorata… C’è tantissima ignoranza, disinteresse e disinformazione in merito.

Perché secondo lei?

Interessi economici, gola e abitudini alimentari scorrette delle persone credo che siano i fattori maggiori. Sicuramente la non voglia di prendere coscienza, di cambiare per sé stessi, per la propria salute ma anche per la tutela degli animali e del pianeta. L’industria della carne e dei derivati è uno dei maggiori inquinanti in ambito ambientale.

In tanti sostengono che è normale, invece, che sia così. Che l’uomo è da sempre onnivoro e che i nostri nonni sono arrivati a novant’anni grazie a questa alimentazione. Cosa risponde?

Rispondo che non è assolutamente così. L’uomo nasce frugivoro non onnivoro. Nasce raccoglitore di frutta, bacche, radici, ortaggi… La carne la mangiava quando riusciva a raggiungere, catturare e uccidere un animale. Quindi sicuramente non spesso e comunque con un grande dispendio calorico. Anche i nostri nonni mangiavano carne molto raramente e quella che mangiavano non era di certo prodotta come al giorno d’oggi. Un tempo l’animale era libero, si cibava di alimenti sani, non era costretto a vivere in allevamenti intensivi, a cibarsi artificialmente e ad essere imbottito di sostanze chimiche.

Dopo la notizia dell’Oms, secondo lei, cambierà qualcosa?

Di certo questi dati hanno dato una bella scoccata all’industria della carne. Sempre più persone oggi, vuoi per paura o per maggiore consapevolezza, stanno iniziando a informarsi. Sempre più gente decide ogni giorno di intraprendere una dieta a base vegetale perché più sana, meno costosa, più etica o perché meno dannosa per l’ambiente. I motivi sono tanti… ma sta di fatto che, ormai, per fortuna, i prodotti vegani sono ovunque e anche la ristorazione tradizionale si sta adeguando a questo. Stiamo facendo passi da gigante.

Lei è ottimista?

Certo che sì! Quello di portare le persone verso un’alimentazione consapevole e sana è il mio lavoro. E sono totalmente convinta che l’alimentazione del futuro sia quella a base vegetale. L’unica alimentazione in grado di migliorare lo stato di salute delle persone, del pianeta e degli animali è quella vegana.

Fonte: ilcambiamento.it

Tribunale penale internazionale per la Chevron: crimini contro l’umanità

Le comunità indigene dell’Amazzonia ecuadoriana hanno portato la Chevron davanti al Tribunale penale internazionale accusando la multinazionale di crimini contro l’umanità perché si rifiuta di bonificare la devastazione provocata nella foresta.chevron_ecuador

I rifiuti ripetuti della Chevron di bonificare ed eliminare la contaminazione tossica della foresta amazzonica ecuadoriana costituiscono un attacco alla popolazione civile e, come tale, questo crimine deve essere oggetto di inchiesta da parte del Tribunale penale internazionale: lo sostengono le comunità indigene impattate dalla devastazione e dall’inquinamento provocato dalla società petrolifera americana. «Nel contesto della legge sui crimini internazionali, la decisione presa dal Ceo di Chevron, John Watson, ha deliberatamente mantenuto e alimentato l’inquinamento ambientale che minaccia la vita delle persone della regione orientale dell’Ecuador» afferma la requisitoria inoltrata al Tribunale internazionale dal procuratore capo Fatou Bensouda nei giorni scorsi in rappresentanza d circa 80 comunità per complessive decine di migliaia di persone. Nel 2011 questi villaggi avevano già ottenuto una vittoria davanti alla corte dell’Ecuador contro la Texaco (acquisita dalla Chevron nel 2001) per l’inquinamento tossico provocato nel lago Agrio in una regione del nordest tra il 1964 e il 1992, contaminazione che aveva provocato emergenze di salute pubblica e devastazione ambientale, oltre a un aumento dell’incidenza di cancro e difetti alla nascita nei bambini dei residenti. L’anno scorso, il Tribunale nazionale ecuadoriano ha confermato il verdetto ma ha dimezzato la multa portandola da 18 miliardi di dollari a 9,5. La Chevron si è ripetutamente rifiutata di pagare quei 9,5 miliardi e ha anche provveduto a smobilitare diverse sedi in Ecuador per sottrarsi alle rivendicazioni di pagamento. I reclamanti definiscono questa condotta «attacchi collaterali multipli contro la sentenza e gli avvocati che rappresentano i villaggi colpiti». Dopo anni di battaglie legali, le comunità intossicate non hanno avuto ancora nessun risarcimento. «Le condizioni di salute oggi delle comunità agricole e indigene delle zone orientali sono pesanti» sostiene il procuratore. «I danni, che sono stati documentati e confermati da innumerevoli ispezioni, hanno conseguenze gravi, l’acqua è contaminata, aumentano i casi di cancro, si riducono gruppi etnici, certi villaggi vengono abbandonati oltre a molto altro che viene qui descritto» aggiunge il procuratore nella sua requisitoria. La richiesta è quella di ritenere questi danni sistematici come crimini contro l’umanità. «È sconcertante vedere che malgrado siano stati utilizzati tutti gli strumenti giuridici possibili, per la Chevron, società petrolifera americana dai profitti miliardari, ci sia ancora sostanziale impunità; tutto ciò sebbene siano evidenti i crimini commessi contro popolazioni vulnerabili» ha detto Pablo Fajardo, avvocato portavoce delle comunità impattate.

Per saperne di più sulla campagna: Chevron Toxico

Fonte: ilcambiamento.it

Tinture per capelli: trovate sostanze cancerogene in alcuni prodotti

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Diverse ricerche hanno analizzato il problema della tossicità delle tinture per capelli, soprattutto nello sviluppo di malattie gravi. Non solo, quindi, sensibilità ai composti chimici adoperati nella realizzazione dei prodotti, ma anche aumento della percentuale di tumori tra chi è costantemente a contatto con queste sostanze. Secondo un nuovo studio condotto dallaUniversity’s Division of Occupational and Environmental Medicine di Lund (Svezia), alcune tinture permanenti per capelli potrebbero ancora contenere delle sostanze chimiche cancerogene, già bandite per la loro pericolosità. I ricercatori dell’Università di Lund hanno infatti riscontrato la presenza di sostanze tossiche, in concentrazioni più elevate, nel sangue dei parrucchieri che applicano tinture permanenti. A rischio sarebbero quindi i professionisti e i consumatori che fanno uso mensile di questi prodotti. La sostanza incriminata è l’o-toluidina, un’ammina aromatica, tossica e pericolosa per l’uomo e per l’ambiente. Secondo i ricercatori, le presunte sostanze cancerogene entrerebbero a far parte della composizione delle tinture durante il processo di produzione. Le tinture permanenti per capelli funzionerebbero infatti sfruttando una reazione chimica tra i cosiddetti “intermedi”, appunto le ammine aromatiche. Molte delle ammine aromatiche, tra cui l’o-toluidina, sono sospettate di provocare cancro della vescica, linfoma non-Hodgkin, leucemia e cancro al seno. Tali sostanze, come fa notare il DailyMail, sono state vietate dall’UE nei primi anni ’90 proprio per la loro pericolosità. Gli scienziati che hanno realizzato lo studio hanno misurato i livelli di otto composti cancerogeni, tra cui l’o-toluidina, nel sangue di 295 parrucchieri, 32 clienti che tingono regolarmente i capelli, e 50 persone che non avevano usato alcuna tintura permanente per 12 mesi. I risultati hanno evidenziato che le persone che sono entrate regolarmente a contatto con le tinture per capelli presentavano livelli di toluidina più alti, con un più alto rischio di cancro. La conclusione è chiara: l’esposizione ad alcune tinture permanenti porta all’introduzione nel flusso sanguigno di sostanze coloranti cancerogene. Per tali ragioni, i ricercatori hanno deciso di effettuare ulteriori studi sugli ingredienti presenti in tali prodotti, anche per verificare la probabilità che queste sostanze chimiche vengano trasferite nell’acqua. C’è ancora un ampio dibattito sulla presenza o meno di composti cancerogeni nelle moderne tinture per capelli. Questi prodotti sono così complessi, che spesso non si ha idea di cosa contengono e delle reazioni chimiche che possono innescare. Proprio per questo, le persone che li utilizzano dovrebbero adoperare guanti monouso e cercare di ridurre al minimo il contatto con la pelle. Già precedenti studi hanno collegato l’uso di tinture per capelli a un aumento del rischio di alcuni tumori (carcinoma della vescica e della mammella). Ricordiamo, ad esempio, una ricerca presso la University of Southern California (“Use of permanent hair dyes and bladder-cancer risk” Int J Cancer. 2001 Feb 15;91:575-9.) condotta nel 2001, che aveva dimostrato come le tinture per capelli potessero provocare il cancro. Lo studio aveva evidenziato che le donne che erano solite tingersi i capelli una volta al mese avevano il doppio dei rischi di contrarre il cancro. Un rischio che si triplicava se l’uso raggiungeva  i 15 anni o più (se volete approfondire l’argomento, potete farlo a questo link). Nel nostro articolo avevamo avuto modo di vedere come anche alcuni prodotti naturali per la tintura dei capelli contenessero in realtà degli aiuti chimici per potenziarne il colore. Cosa fare quindi?

Di sicuro, il primo passo è imparare a leggere bene l’etichetta dei prodotti. In alternativa, potete utilizzare dei metodi naturali per coprire i capelli bianchi, come ad esempio l’Henné o dei preparati a base di erbe. Potete trovare alcuni consigli utili a questo link:http://ambientebio.it/tinture-naturali-per-coprire-i-capelli-bianchi/

(Foto: ohsarahrose)

Fonte: ambientebio.it

Fukushima: 89 casi di cancro alla tiroide tra i bambini e oltre centomila a rischio

130000 bambini, quasi la metà dei sottoposti a screening, presentano noduli e cisti. Confermati via via il 98% dei casi sospetti

Gli effetti sanitari del disastro nucleare di Fukushima iniziano a manifestarsi in tutta la loro estensione. 370000 bambini sono stati sottoposto a screening per la tiroide e 130000 (il 48%)risultano a rischio perché presentano noduli fino a 5 mm o cisti fino a 20 mm. Sono invece 89 i veri e propri casi di cancro diagnosticati tra i bambini della prefettura di Fukushima. (1). La loro distribuzione geografica è rappresentata nella mappa qui sotto: le cifre rappresentano il numero dei casi in ogni territorio, mentre i colori esprimono la densità dei casi, da uno ogni 4000-7000 (azzurro) fino a meno di uno su mille (rosso). Alcuni tra i piccoli malati avevano metastasi nei linfonodi e nei polmoni per cui è stato necessario ricorrere a interventi chirurgici. Stanno inoltre crescendo timori, rabbia e la protesta popolare per i piani di reinsediamento delle famiglie, anche con minori, nelle regioni contaminate intorno alla centrale. Non solo i bambini soffrono per il fall-out radioattivo: è morto all’età di 58 anni Masao Yoshida, uno dei tecnici dell’impianto che non ha voluto abbandonare la centrale nei momenti peggiori della crisi. Quanti altri lavoratori hanno fatto la stessa fine? E’ difficile dirlo, perché i lavoratori che lavorano per le aziende a contratto (alcune dominate dal crimine organizzato) spesso non vengono monitorati per esposizione alle radiazioni o follow up sanitario.89-casi-cancro-tiroide-bambini-Fukushima

(1) Tecnicamente si tratta di 50 casi confermati e 39 sospetti. Tuttavia fin’ora il 98% dei casi sospetti è stato poi confermato.

Fonte: ecoblog.it