La cultura rigenerativa degli ecovillaggi, laboratori viventi di alternative sostenibili

Laboratori di resilienza e buone pratiche, gli ecovillaggi dimostrano che c’è un’alternativa e si prestano ad essere fonti d’ispirazione e di speranza. È quanto emerge dal film-documentario Communities of Hope che racconta la cultura rigenerativa degli ecovillaggi europei, che per migliaia di persone hanno rappresentato una porta d’ingresso verso una vita più felice e più sostenibile. È uscito Communities of Hope, il film-documentario prodotto da The Great Relation che racconta la cultura rigenerativa degli ecovillaggi europei, nella speranza di fornire ispirazione a chi è alla ricerca di alternative, di nuovi modi di guardare al mondo e di viverlo.

«In questi tempi di grande transizione sentiamo forte il desiderio di far conoscere i progetti e le storie capaci di portare guarigione e rigenerazione a livello individuale, collettivo e ambientale», scrivono Lou e Diego di The Great Relation, che negli ultimi due anni hanno visitato numerose realtà attive nella costruzione di forme più consapevoli di abitare il nostro pianeta – come Tamera (Portogallo), Sunseed (Spagna), Solheimar (Islanda) e altre.

Una parte importante delle riprese di Communities of Hope è avvenuta presso la Comune di Bagnaia, in occasione della scorsa Conferenza Europea degli Ecovillaggi dal triplice tema «Ecologia, pace e giustizia sociale». Lì, Lou e Diego, hanno avuto modo di raccogliere e registrare gli interventi di alcuni membri chiave del movimento degli ecovillaggi, come Coyote Alberto Ruz, pioniere, veterano e storico delle comunità intenzionali e dei movimenti bioregionalisti, John Croft, ideatore della metodologia Dragon Dreaming, Declan Kennedy, l’architetto e mediatore che ha co-fondato il GEN e l’italiana Genny Carraro, managing director del GEN Europe e co-fondatrice della scuola italiana di Arte del Processo e Democrazia Profonda.

«Come dice John Croft nel documentario, gli ecovillaggi sono dei laboratori per il futuro», sottolinea Fran Whitlock, responsabile della comunicazione presso GEN Europe, «Non nel senso che tutti dovrebbero o vorrebbero vivere in ecovillaggio, ma che le pratiche e le modalità di vita che caratterizzano queste realtà dimostrano che c’è un’alternativa e si prestano ad essere fonti d’ispirazione e di speranza. 

La crisi sanitaria ha messo in evidenza il lato oscuro dell’individualismo e del neoliberismo, e vista la crisi climatica e ambientale in atto è ragionevole aspettarsi nel futuro ulteriori shock.

Avremo bisogno di essere resilienti e preparati, e gli ecovillaggi possono costituire un punto di riferimento, sia per quanto riguarda le conoscenze come la bioedilizia, l’agricoltura e la rigenerazione degli ecosistemi, sia per la saggezza pratica che emerge dai processi partecipativi – è lì che ha luogo la magia! Il documentario di Lou e Diego è un invito alla scoperta. Ad interrogarci – Sto vivendo in un modo che serve me stesso e il pianeta? Che fa buon uso dei miei doni? Che aiuta me stesso e la mia comunità a fiorire, oggi e in vista del futuro?».

Communities of Hope è liberamente scaricabile e disponibile in straming su Youtube, con sottotitoli in italiano. «Offriamo questo documentario come un dono, e vi chiediamo di condividerlo a vostra volta come tale», si legge sul sito di The Great Relation. Chi volesse sostenere il lavoro svolto da Lou e Diego nella narrazione e diffusione di una cultura rigenerativa, tuttavia, può farlo tramite una donazione.

«Gli ecovillaggi sono solo uno dei modi di cambiare vita», ha evidenziato Fran, «ma per migliaia di persone hanno rappresentato una porta d’ingresso verso una vita più felice e più sostenibile. La nostra speranza è che raccontandoci accenderemo una scintilla verso un percorso». Verrebbe da aggiungere, un percorso che non è già disegnato in partenza, ma che possiamo costruire e inventare assieme, passo dopo passo.

Fonte: https://www.italiachecambia.org/2020/06/cultura-rigenerativa-ecovillaggi-laboratori-alternative-sostenibili/?utm_source=newsletter&utm_medium=email

In viaggio da quattro anni per cambiare vita e insegnare ai ragazzi

Quattro anni fa Claudio Piani ha deciso di lasciare il suo lavoro a Milano per iniziare un nuovo percorso di vita: è partito per un lungo viaggio e ha attraversato diversi Paesi, fino ad innamorarsi della Cina, dove ora insegna educazione fisica. Lo abbiamo intervistato e ci ha raccontato la sua esperienza ed i progetti per il futuro. Arrivare in Australia via terra e trasferirsi in Cina per insegnare pallacanestro ai ragazzi: è ciò che ha fatto Claudio Piani, trentenne milanese laureato in scienze motorie che, nel 2014, ha deciso di lasciare il suo impiego e di partire per andare a lavorare un anno in Australia, muovendosi via terra da solo, facendo l’autostop. Spesso, durante il viaggio, ha lavorato in cambio di un alloggio o di un pasto o per raccogliere i soldi necessari per il proseguimento del viaggio, mentre una volta giunto in Australia è riuscito a fare tanti lavori diversi che gli hanno permesso di coprire il viaggio di ritorno. È stato durante questo lunghissimo viaggio durato ben 859 giorni – da agosto 2014 a dicembre 2016, per un totale di 78.268 km percorsi e 33 nazioni attraversate – che Claudio ha attraversato due volte la Cina, all’andata e al ritorno, e se ne è innamorato.Viaggio_in_Australia

Viaggio in Australia

Tornato a Milano, riprende a lavorare in ambito sportivo, ma cresce in lui il desiderio di tornare in Cina per viverci e lavorare almeno un anno e per poterlo conoscere in modo più approfondito, così come aveva fatto in Australia. Comincia quindi a cercare informazioni e scopre che in Cina c’è una forte richiesta di insegnanti stranieri di educazione fisica, calcio e pallacanestro (lo sport più praticato del paese, più del ping-pong che, comunque, rimane “sport nazionale”) e che gli stipendi sono molto concorrenziali rispetto all’Italia. I requisiti richiesti sono: età tra 25 e 40 anni, laurea in scienze motorie (anche triennale), madrelingua inglese o conoscenza dell’inglese, fedina penale pulita e da due a tre anni di esperienza nel campo dell’insegnamento. I contratti prevedono 20-25 ore di lavoro di settimanali, stipendio dai 1500 ai 3500 dollari circa al mese, ferie pagate, assicurazione sanitaria, appartamento garantito e rimborso spese a fine contratto. Un sogno per qualsiasi laureato italiano: lavorare in Cina per un anno gli permetterebbe anche di risparmiare qualche soldo per visitare il paese durante le festività e le vacanze scolastiche.Piani2

La decisione è presa e Claudio comincia ad espletare le lunghe pratiche burocratiche italo-cinesi finché ad agosto 2017 arriva il visto provvisorio e può partire, ma stavolta in aereo. Destinazione finale Shenzhen, città di 13 milioni di abitanti nella provincia meridionale di Guangdong, affacciata sul mare e non lontana da Hong Kong. Nelle prime tre settimane a Shenzhen, Claudio abita in albergo del centro città (pagato dall’agenzia di intermediazione tra scuole cinesi e insegnanti stranieri) e, dopo aver completato nuove pratiche e fatto colloqui col provveditorato, ottiene il visto ufficiale e il permesso di lavoro annuale. Gli viene assegnato un contratto presso la “Shenzhen Bao’An Primary School” – una scuola elementare del quartiere di Bao’An, distante 30 km dal centro di Shenzhen – come insegnante di basket alle classi quarte e quinte. Shenzhen, che si affaccia sul delta del Fiume delle Perle e sul Mar Cinese Meridionale, nel 1978 contava solo 30.000 abitanti, quasi tutti pescatori e commercianti, mentre oggi è una delle capitali dell’import-export cinese e una delle città con il maggior numero di “expats” occidentali (cioè gli occidentali che risiedono e lavorano in Cina). Oggi Claudio vive e lavora nel distretto di Bao’An, uno dei quartieri “storici” di Shenzhen, ed ha trovato il giusto compromesso tra autentica “vita cinese” e “vita all’occidentale”. A Bao’An Claudio è l’unico “bianco” del suo rione, è lo “straniero” che suscita la curiosità della comunità locale, mentre quando va in centro città diventa uno dei numerosi e “normali” stranieri che vivono a Shenzhen. Abbiamo chiesto a Claudio di raccontarci meglio le sue esperienze di viaggio e di vita.

Claudio perché, tra tutte le nazioni che hai attraversato durante il tuo lungo viaggio a piedi, hai scelto come meta lavorativa proprio la Cina?

Le ragioni sono state diverse. La prima e principale è stato l’enorme fascino che questa nazione ha inaspettatamente generato in me. Il sentimento di sicurezza nel visitarla, la curiosità per ogni aspetto della sua vita così diversa da quella occidentale ed infine la varietà ambientale e sociale delle sue regioni. In secondo luogo, la Cina per me era una nazione conveniente per lavorarci. Lo sport più popolare è la pallacanestro, esattamente la disciplina che insegnavo in Italia; in più gli stipendi sono buoni ed il costo della vita piuttosto basso, permettendomi di risparmiare facilmente soldi utili per i prossimi viaggi. Esattamente come fatto in Australia. Infine, vivere in Cina mi permette di essere in un “punto strategico” per visitare alcune regioni e nazioni che desidero vedere, ad esempio Filippine, Sri Lanka e Tibet.Piani7

La tua famiglia ti ha sostenuto nelle tue scelte di partire per il tuo primo viaggio in Australia così lungo a piedi e, una volta tornato in Italia, di ripartire per lavorare un altro anno in Cina?

Ormai sono passati quasi quattro anni da quando ho iniziato a vivere questa condizione di “semi-nomadismo”. Chi mi conosceva e mi voleva bene sapeva che, prima o poi, questo sarebbe successo. Sicuramente nessuno, io compreso, si aspettava che questa fase di vita si prolungasse così a lungo. Sento di essere stato rispettato e sostenuto sia dalla mia famiglia che dai miei amici. Nonostante spesso io manchi loro (e loro manchino a me), sanno che sto facendo qualcosa che desidero fare e che mi rende felice.

Comunichi in inglese con i tuoi colleghi, superiori e, soprattutto, coi bambini oppure c’è sempre con te un traduttore o sono previsti corsi/esami obbligatori di cinese per gli “expats”?

Comunico in inglese con tutti anche se in pochissimi intorno a me parlano inglese. La direttrice della scuola, ad esempio, non lo parla e nemmeno quasi tutti i miei colleghi di educazione motoria. Condivido l’ufficio insieme agli insegnanti di inglese: almeno lì posso chiacchierare con qualche collega. Con i bambini vale stesso discorso. Parlo in inglese e non dispongo di nessun assistente che traduca in cinese. I bambini non sempre capiscono, ma è proprio qui che nasce la mia personale crescita “comunicativa” come insegnante. Devo dimostrare più dettagliatamente, il mio tono di voce ha un ruolo cruciale, la mia mimica facciale e la mia gestualità diventano elementi imprescindibili. È un’esperienza che mi arricchisce quotidianamente. Nessun corso di cinese è obbligatorio per gli “expats” e sta alla coscienza di ognuno impegnarsi nell’apprendimento della lingua cinese o meno.Shenzhen

Shenzhen

Cosa ti affascina di più di Shenzhen e della vita e della cultura cinesi?

Sono molto affascinato dalla cultura cinese, ma purtroppo Shenzhen ne offre poca. Avrei preferito finire in altre città, ad esempio Kunming o Chengdu, dove la vita è più “cinese” e meno centrata sul business, come qui. Fortunatamente insegno e vivo in quartiere periferico della città, dove riesco a respirare appieno la realtà tradizionale e dove non incontro troppo stranieri. Quella cinese è una società molto sicura, estremamente comunitaria. Le persone qui sono allegre e rilassate, per quanto possa sembrare il contrario. È un mondo totalmente diverso dal nostro e nel quale è impossibile immergersi al 100%, anche se si parla la lingua locale. È un mondo che una persona dall’animo curioso necessita di conoscere.

Quali sono i tuoi progetti per il futuro: ti fermerai in Cina più di un anno o c’è già un’altra nazione all’orizzonte nella quale vorresti vivere e lavorare?

Dopo cinque mesi di permanenza qui in Cina posso affermare che un anno credo sia sufficiente a soddisfare tutti i miei bisogni. Sto vivendo la realtà cinese, sto lentamente imparando la lingua e racimolando qualche soldo. Mi piacerebbe tornare in Italia ancora una volta via terra (magari in moto questa volta), magari aprendo una sorta di raccolta fondi per un ospedale in Nepal. Da lì in poi si vedrà, anche se mi piacerebbe fermarmi un po’ in Italia, magari in una regione diversa dalla mia per provare una vita diversa, ma nel mio paese – il più bello di tutti..!

Informazioni dettagliate e consigli utili per chi vorrebbe lavorare in Cina sono disponibili sul blog di Claudio “Piani per la Cina”

Fonte: http://www.italiachecambia.org/2018/01/viaggio-cambiare-vita-insegnare-ragazzi/?utm_source=newsletter&utm_campaign=general&utm_medium=email&utm_content=relazioni

 

Fabio Pinzi: cambiare vita attraverso la permacultura

Secondo Fabio Pinzi, la società in cui viviamo ci ha fatto perdere la capacità di progettare il nostro futuro. Proprio per questo la permacultura, che si occupa di progettazione sistemica, è lo strumento ideale per chi vuole cambiare la propria vita rendendola più sostenibile, equilibrata e felice. Fabio Pinzi è un nome di riferimento per la permacultura italiana. E – come lui stesso ricorda – permacultura equivale a cambiamento, significa riprogettare la propria vita per renderla più sostenibile, più equilibrata e anche più felice. Fabio è anche uno dei docenti del prossimo appuntamento del corso “Dalla teoria alla pratica” che si terrà a Roma a inizio dicembre (clicca qui per scoprire le altre sedi e le altre date). Ne abbiamo approfittato per rivolgergli alcune domande sul messaggio che trasmetterà ai partecipanti e su come questo messaggio potrà produrre dei cambiamenti reali e tangibili.

Quali saranno i concetti di cui si parlerà nel corso e in che modo serviranno a produrre un cambiamento nella vita dei partecipanti?

I concetti base che tratterò sono tutti racchiusi nella definizione – o nelle definizioni – di permacultura. La cosa che faccio normalmente è attualizzare e ridare vita a ogni parola e vedere se quello che attualmente percepiamo corrisponde o meno al valore effettivo. Questo serve ed è uno stimolo per riposizionarsi nel proprio mondo che diventerà poi il punto di partenza per iniziare a cambiare. “Metodo di progettazione per la creazione e gestione di società umane sostenibili” e “buon senso applicato” sono due delle tante definizioni che io ho scelto e che utilizzo per lo scopo prefissato. Logicamente si apre un mondo! Partiamo ad esempio dalla parola sostenibile: cosa intendiamo? Quali sono le interpretazioni dei più? Quale la definizione adottata nella permacultura, ma anche in molti testi? Dobbiamo verificare se quello che ci viene propinato corrisponde al vero, salvo poi scoprire che è una delle parole più usate dalla pubblicità, spesso in maniera fuorviante. Ridare valore, riappropriarsi della capacità di progettare, serve a farci capire dove siamo e cosa fare per attuare il nostro cambiamento.

Quali sono a tuo avviso gli ostacoli principali che chi vuole cambiare vita deve superare, sia dal punto di vista pratico che da quello mentale?

Gli ostacoli principali sono legati alla percezione errata o meglio bizzarra della realtà. Come diceva Enzo Tiezzi in “La bellezza e la scienza”, conosciamo il costo di tutto e il valore di niente. La realtà che ci circonda è figlia di proiezioni di mercato ed è molto distante dalle aspettative reali e umane delle persone. Ma la cosa peggiore è che è molto semplice e soddisfacente, se hai uno stipendio commisurato. Tutto il resto richiede tempo, fatica, pensiero. Paradossalmente è un sistema conservativo, ma al ribasso. Quindi gli ostacoli nascono ogniqualvolta si cerca di avere la propria visione. E noi per primi, ma anche chi ci circonda, ci diamo la famosa giustificazione – “ma tutti fan così!” – e quel “così” è semplice da realizzare, ma rende complicato il resto.pinziedu2

Pensare altrimenti, realizzare piccole grandi cose diverse e progettarle creerà tensione e stress, ma proprio per questo quando ci si affranca tutto diventa speciale. Drogati dal denaro abbiamo perso la memoria storica evolutiva e avendo paura di progettare il nostro futuro ci siamo buttati a consumare il presente. Forse storicamente non è neanche originale tutto questo, ma essendo tanti come non mai e avendo a disposizione un quantitativo mai visto di energia stiamo riuscendo nell’impresa di incidere fortemente sull’ambiente e sulle menti. La permacultura è ascolto, ricentramento e progettazione; forse l’opposto di quello che stiamo vivendo come masse, ma proprio per questo affascinante. I suoi principi etici sono la forza quelli di progettazione gli
strumenti.

Pensi che il territorio di Roma sia un buon posto per mettere in pratica un percorso di cambiamento?

Roma e il suo territorio sono un ottimo posto dove cominciare e portare avanti la permacultura e di conseguenza il cambiamento. Come direbbe l’amico Daniel Tarozzi, “le persone sono molto più belle di quello che si raccontano”. Così, Roma è molto più bella di come viene raccontata. Il suo clima favorevole, l’energia che si respira e l’umanità sono punti di forza oggi come un tempo per progettare e realizzare una nuova società sostenibile. Sono condizioni fantastiche ma non facilmente ritrovabili in molti posti.

Che ruolo rivestono in questo percorso gli esempi di chi l’ha già fatto? Ce ne puoi citare qualcuno?

Ho amici romani che hanno cominciato a praticare e sperimentare la permacultura – e di conseguenza – il cambiamento diversi anni fa, partendo dall’idea di fare la dovuta esperienza per poi scappare nel paradiso tanto sognato ma lontano dalla città eterna. Hanno studiato, sperimentato, progettato e cambiato anche i loro rapporti sociali con questo obiettivo e alla fine hanno scoperto che anche dentro Roma era possibile ricavarsi il proprio piccolo grande bel mondo. Quello che è rivoluzionario è il modello: Mollison diceva che “i permacultori costruiscono piccole cose, ma la loro somma è gigantesca e rivoluzionaria”.pinziedu1

Penso al mio amico Gianni Marotta, che addirittura si era comprato un podere in Toscana per soddisfare la sua “fame” di cibo e di rapporti sani, oltre che un ambiente e una casa salutare. Fantasticamente dopo anni di pratica non solo si è liberato del podere, ma ha rilanciato il proprio progetto di vita su Roma creando PURO, un centro urbano di Permacultura romano che sta diventando un centro di aggregazione, di progettazione e di applicazione dei principi di Permacultura. La palazzina che ha messo a disposizione dei permacultori che stanno compiendo un percorso di crescita e di cambiamento è diventata un laboratorio aperto per dare forma ai sogni e ai progetti dei partecipanti, une specie di palestra che cura il corpo e la mente e produce risultati visibili. Inoltre è un luogo-no-logo dove la gente si incontra per il piacere di farlo a prescindere da tutto il resto. Dopo un anno i risultati sono fantastici: ognuno ha voglia di riprogettarsi e sa che non è da solo e se vuole – e spesso lo vuole – ha amici pronti a supportarlo senza altri fini.  Tutti coloro che cominciano a riprogettarsi si incamminano nel percorso di cambiamento e ognuno ci mette il suo tempo e la propria energia, ma in questo viaggio ogni giorno ci si arricchisce. Non solo potenzialità, ma azioni concrete e crescita di singoli e di gruppo. Sapendo quello che ci circonda non è poca cosa. Se questo articolo vi ha incuriosito e anche voi volete avvicinarvi alla permacultura per cambiare la vostra vita seguendo le indicazioni di Fabio Pinzi, cliccate qui!

Fonte: http://www.italiachecambia.org/2017/11/fabio-pinzi-cambiare-vita-permacultura/?utm_source=newsletter&utm_campaign=general&utm_medium=email&utm_content=relazioni

«Non smettete mai di cercare il vostro orizzonte»

Claudio Pelizzeni a 32 anni aveva un lavoro in banca come vicedirettore. Nel 2014 decide di mollare tutto e di cominciare a credere nel suo sogno: fare il giro del mondo. E tutto è iniziato su un treno. Oggi Claudio è convintissimo: «Non smettete mai di cercare il vostro orizzonte».9666-10441

Tornando a casa una sera dall’ufficio, Claudio rimane colpito da un tramonto che, d’improvviso, lo pone davanti a mille domande: il senso di una vita passata a realizzare i sogni degli altri e a soddisfare aspettative che non sono mai state le sue. Così decide di partire per un viaggio lungo 1000 giorni senza mai prendere un aereo. In pullman, a piedi, in nave per recuperare la lentezza del viaggio, quella necessaria a percepire e conoscere i luoghi e le persone che si incontrano ma anche a guardarsi dentro. La storia di Claudio, affetto da diabete, è anche un messaggio a chi pensa di non poter neppure osare di superare le proprie paure e le proprie fragilità. Nel 2017 esce il suo libro, L’orizzonte, ogni giorno, un po’ più in là, edito da Sperling & Kupfer, a metà tra il romanzo e il diario di viaggio.

Ne parliamo con l’autore.

Qual è stata la molla che ti ha fatto decidere di intraprendere questo viaggio?

E’ stato un tramonto. Ero in treno mentre tornavo a casa. Lavoravo in banca da oltre dieci anni ed ero vicedirettore di filiale. Un giorno tornando da Milano in treno, guardando il tramonto al di là del finestrino, ho capito che non ne potevo più di fare quella vita. Ho capito che stavo vivendo le aspettative degli altri: della famiglia, della società, ma non stavo di certo vivendo i miei sogni e le mie passioni. Mi sono reso conto di essere falso verso me stesso e ho deciso così di prendere in mano la mia vita. Ho tirato fuori il mio sogno nel cassetto: fare il giro del mondo. In quel momento ero completamente indipendente, non avevo una relazione né un animale domestico e così ho deciso di partire.

Come sei arrivato a scegliere di lavorare in banca?

Da ragazzo non sapevo cosa fare della mia vita e mi sono iscritto a Economia, mi sono laureato e poi sono partito per l’Australia per 10 mesi. Sono partito con lo zaino in spalla e senza sapere davvero cosa avrei voluto fare. Mi piaceva questo modello di viaggio e ho viaggiato così anche durante la mia attività lavorativa. Passavo le mie ferie viaggiando, specialmente in Asia. Avevo quindi già questo sogno. Tutti mi dicevano che avrei dovuto fare dei viaggi il mio lavoro ma, in realtà, non volevo lavorare in un’agenzia o fare il Tour Operator. Io volevo viaggiare. Ho provato a realizzarlo e ce l’ho fatta.

Come hanno preso la tua decisione in ufficio?

Non avevo detto niente a nessuno e l’avevo accennato solo alla mia famiglia e ai miei amici. Anche perché potevano esserci ritorsioni e ho preferito non dire niente. Sono andato a parlare col mio capo  e gli ho detto che avrei rassegnato le mie dimissioni. Non ho preso aspettative o altro. Qualcuno ha provato a convincermi a rimanere ma sostanzialmente pensavano che lasciassi quella banca per un’offerta più vantaggiosa di un altro istituto bancario. Quando hanno capito che lasciavo tutto per fare il giro del mondo non hanno potuto dirmi niente.

E la famiglia?

All’inizio non hanno capito ma poi quando hanno visto che ciò che facevo mi rendeva felice, mi hanno appoggiato.

Qual era inizialmente il tuo programma di viaggio?

Sapevo che volevo iniziare dall’Australia e dal Sud asiatico. Avevo studiato la fattibilità di determinate frontiere più che l’itinerario. Tutto l’itinerario preparato è saltato dopo sei mesi per un problema che ho avuto con i trasporti e ho dovuto quindi riprogrammarlo strada facendo.

Hai viaggiato da solo?

Sono partito da solo ma ho condiviso il mio viaggio con molte persone.

Come ti sei sostenuto durante il viaggio?

Avevo programmato di fare un viaggio di 1000 giorni con 15 euro al giorno e quindi 15000 euro totali. Non ero affatto pieno di soldi come molti pensano. Ho fatto molti lavori durante il viaggio: dal receptionist al bracciante agricolo.

L’idea del libro come ti è venuta?

Durante un viaggio in nave ho iniziato a scrivere una sorta di diario che poi si è trasformato in un romanzo.

Come ti sei spostato?

Non ho usato l’aereo. Mi sono mosso con navi private e mercantili (ho fatto in questo modo tre tratte: la prima per andare in Australia, poi dall’Australia per il Canada e, infine, dal Brasile al Senegal), in treno, in autobus e a piedi.

Perché la scelta di non viaggiare in aereo?

Sono stato ispirato da Un indovino mi disse, un libro di Tiziano Terzani. Volevo un viaggio diverso e introspettivo e avevo bisogno di lentezza. Volevo scoprire luoghi che normalmente non vengono toccati dai tragitti tradizionali.

Convivi con il diabete da molti anni. Come ti sei organizzato durante il viaggio?

Mi sono portato delle scorte di insulina ma non mi sono bastate. Molti amici mi hanno raggiunto durante il viaggio per venirmi a trovare e trascorrere un po’ di tempo insieme. Gli chiedevo di portarmi dell’insulina. Mi è capitato di rimanere senza in Argentina e ho contattato un gruppo di diabetici su Facebook. Mi hanno invitato a parlare della mia esperienza e mi hanno regalato in cambio delle fiale di insulina. Nulla è precluso, basta informarsi.

Ci sono stati momenti in cui hai avuto paura?

Sì, certo. La paura è fondamentale. La paura ci aiuta a prendere le decisioni più giuste. Chi non ha paura è un incosciente e prima o poi la paga. Ho convissuto con le mie paure e le ho affrontate e poi gestite. La mia paura più grande era che succedesse qualcosa a casa mentre ero lontano. E’ morto mio padre mentre ero in viaggio. Sono tornato a casa. Avevo appena attraversato la frontiera con la Birmania, una delle più difficili. Ho ricevuto un messaggio della mia famiglia e sono tornato a casa. Pochi giorni dopo il funerale sono ritornato e ho continuato il mio viaggio.

Qual è la cosa più interessante che hai visto?

Sicuramente i tramonti, le dune, i ghiacciai della Patagonia e tantissime altre cose mi hanno impressionato. In Nepal ho fatto un’esperienza in un orfanotrofio che mi ha colpito moltissimo.

Di cosa parla il libro?

E’ un libro in cui tutti si possono ritrovare. Non cito mai il nome del protagonista proprio perché potrebbe essere chiunque. E’ un viaggio all’interno del genere umano e di se stessi in cui il mondo fa da sfondo. E’ un libro scritto interamente in viaggio.

Adesso cosa fai?

Adesso ho fatto dei viaggi il mio lavoro e ho realizzato il mio sogno. Organizzo viaggi di tipo esperenziale. Ho chiamato il mio progetto Backpackers Academy. Ad esempio ho portato recentemente un gruppo di ragazzi a seguire in Marocco le migrazioni di una famiglia berbera. Riesco a fare queste cose perché nel mio viaggio ho preso contatti con le persone locali. Sto cercando di portare un gruppo in Nepal dove i ragazzi dell’orfanotrofio in cui ho lavorato ci faranno da guide. Ho la possibilità di viaggiare e accumulare materiale per documentari. Sto scrivendo, inoltre, un secondo libro. Sto facendo il lavoro più bello del mondo ed era quello che volevo fare.

Vuoi dire qualcosa a chi non ha ancora trovato il modo di seguire i propri sogni?

Credo sia importante fermarsi un momento a riflettere, ad essere sinceri verso se stessi e porsi le domande importanti. La mia più importante fu se ero felice e come avrei potuto essere felice nella vita. La conseguenza è stata, poi, il giro del mondo ma non vuol dire assolutamente che sia questo per tutti. Il mio messaggio è: interrogatevi, siate sinceri verso voi stessi e seguite soprattutto il vostro cuore e le vostre passioni.

 

Fonte: ilcambiamento.it

La paura del cambiamento spesso è una tigre di carta

Siamo in un periodo in cui, almeno nelle società del primo mondo, non c’è mai stata così tanta ricchezza, tanta opulenza e spreco a tutti i livelli; malgrado ciò, quando si tratta di pensare a cambiamenti in meglio per la propria esistenza, spesso le persone frappongono fra sé e questi cambiamenti mille paure, problematiche e difficoltà.Senza nome

Se fanno un lavoro che odiano, noioso o che non dà loro nulla oltre i soldi,  dicono che non ci sono alternative e inoltre, in tempi di crisi, meglio non fare colpi di testa. Eppure ci sono persone che hanno cambiato il loro lavoro, sono più soddisfatte e realizzate e non sono morte di fame. Magari guadagnano meno, magari non hanno più il famoso posto fisso ma proprio perché hanno affrontato il cambiamento si sentono più salde e si basano maggiormente sulle sicurezze psicologiche che gli possono derivare dall’avercela fatta. Anche perché ogni difficoltà superata ci rende inevitabilmente più forti e consapevoli. Spesso si ritiene che per fare dei cambiamenti si debbano avere a disposizione più o meno grandi quantità di soldi. Ma ci sono persone che hanno fatto cambiamenti senza avere particolari ricchezze o soldi in banca, senza sicurezze, senza paracaduti ma solo con la loro convinzione. E allora in questi casi  si pensa che quelle persone siano chissà quanto forti caratterialmente.  Invece no, sono persone come noi che hanno solo creduto in se stessi un po’ più di noi. Altro argomento/scusa è quello che c’è la famiglia da mantenere ma poi ci sono esempi di chi la famiglia la mantiene lo stesso facendo scelte diverse. Chi addirittura si è licenziato dal posto sicuro, ha iniziato a costruire dei lavori più consoni a quello che voleva fare davvero e contemporaneamente ha deciso di fare dei figli e attualmente né queste persone, né tantomeno i figli sono alla Caritas. Poi c’è la scusa classica, la madre di tutte le scuse: ho il mutuo da pagare. Penso che abbia ucciso più speranze il mutuo da pagare che una qualsiasi epidemia. Il mutuo può rivelarsi la tomba di ogni cambiamento, di fronte a quello finisce tutto, si chiude qualsiasi discorso o possibilità. Ho il sospetto che per molte persone sia una specie di assicurazione a vita per non cambiare mai. Anche perché una volta finito di pagare il mutuo, viste le condizioni da furto che fanno le banche (e che si accettano del tutto consapevolmente), si è così vecchi da riuscire a pianificare al massimo una partita a carte al circolo degli anziani sotto casa. Il mutuo in cambio della vita, non mi sembra un bell’affare.

Questo quadro cela una costante corsa alle (false) sicurezze fatte soprattutto di consumismo che ci  regala vite di stress, di insoddisfazione e ci fa dire che il cambiamento non è possibile, non è attuabile. Ma per molti casi la paura del cambiamento è una tigre di carta, che quando l’hai affrontata e ti accorgi di quello che veramente era, ci rimani anche male.  Ma come, tutta questa paura, tutto questo tempo sprecato e poi era solo un bluff? Ho conosciuto tante persone che avevano soldi, sicurezze di ogni tipo, nessuna difficoltà economica, lamentarsi del loro lavoro e della loro vita e non fare nulla per cambiare, anche se cambiare non determinerebbe nessun particolare contraccolpo dal punto di vista strettamente materiale. Non è quindi necessariamente una questione di soldi o sicurezze materiali, il problema spesso è solo nella nostra testa.

Il bluff, le paure sono in gran parte quelle che crea una società che ci vuole paurosi, incoscienti e possibilmente dormienti anche se facciamo mille cose e soffriamo di insonnia. E’ il perfetto incantesimo in cui ci tengono sedati e ubbidienti, l’importante è che non si decida troppo con la propria testa ma si faccia quello che altri ci dicono che è giusto fare, anche se è contro la nostra libertà interiore, contro le nostre convinzioni, contro la nostra vita. La vittoria completa della società che ci vuole automi, si verifica quando quello che altri hanno deciso che per noi era il meglio, diventa anche quello che pensiamo noi. Ci convinciamo che è giusto fare quello che ci dicono la voce del padrone e la pubblicità. E cerchiamo anche di convincere gli altri e se non fai così sei un estremista, un radicale, un talebano. Al massimo puoi esprimere il tuo essere te stesso comprando il profumo della pubblicità dove si afferma che proprio con quel profumo tu sarei te stesso. Oltre lì  non devi andare, non ti devi spingere, non devi mai pensare di essere veramente te stesso, di decidere secondo i tuoi parametri e non quelli fotocopia di milioni di altre persone. Parametri fotocopia che oltre a farti vivere una vita incolore, stanno portando alla rovina il mondo che abitiamo.

Iniziate a pianificare cambiamenti, di lavoro, di vita ma non per passare ad una ditta che vi fa guadagnare di più, sfruttare gli altri e distruggere l’ambiente. Pianificate il vostro cambiamento per rendere voi e il mondo circostante più sano e saggio e fatelo anche unendovi assieme agli altri perché sarete più forti e potrete affrontare le difficoltà con più possibilità di superarle.

Fonte: ilcambiamento.it

Da Roma alla vita nel bosco

Due trentenni, stanchi di condurre un’esistenza preconfezionata intrappolati nel grigiore della città, hanno scelto di vivere nella natura per cercare la felicità al ritmo delle stagioni. Da Roma a una remota borgata alpina della Valle Maira, da una quotidianità fatta di traffico e interminabili ore in ufficio, all’orto e alla legna nel bosco. “Ci siamo lasciati alle spalle la vita frenetica della città per iniziare una nuova avventura: la vita frenetica in campagna”.9496-10237

Tommaso D’Errico, 35 anni, grafico e web designer, e Alessia Battistoni, 31 anni, biologa. Due giovani romani, nell’aprile 2015, decidono di prendere in mano le loro vite per ricondurle su binari più vicini a bisogni e aspirazioni personali. Si trasferiscono in una borgata di montagna disabitata, a 1400 metri di quota, circondata dalla natura incontaminata e selvaggia della Valle Maira. Continuando a esercitare a distanza le loro professioni, iniziano intanto a sperimentare una nuova quotidianità, ritrovando modo e tempo per nutrire le loro passioni e scoprirne di nuove: la coltivazione di un orto, lo studio e l’osservazione degli animali selvatici, la raccolta della legna, la ricerca di frutti, funghi ed erbe spontanee, l’approccio a lavori manuali e di artigianato, la pratica di attività creative e artistiche, la produzione di cibo fatto in casa.
Nasce dunque il progetto “Al ritmo delle stagioni”, dalla volontà di raccontare la bellezza della natura e di condividere la loro esperienza, per trasmettere il proprio entusiasmo e diffondere la consapevolezza che una vita diversa è possibile, nel rispetto di sé stessi e dell’ambiente.

«Non siamo asceti né eremiti, non siamo misantropi né asociali, siamo semplicemente due comuni trentenni che, stanchi come tanti nostri coetanei di subire le sevizie di un’esistenza disumana, violentata da regole e ritmi che riteniamo senza senso, hanno deciso di prendere in mano le proprie vite per ricondurle su binari più vicini a bisogni reali e aspirazioni personali – spiegano – Questi binari ci hanno portato lontano dal grigiore della città, dalle luci al neon e dalle vetrine dei centri commerciali, fino al remoto capolinea di una piccola borgata alpina, ultimo avamposto abitato, a 1400 metri di quota, di una splendida vallata che ancora conserva buona parte della sua bellezza primordiale e selvaggia. In questo contesto, finalmente liberi da uno stile di vita preconfezionato incentrato sul lavoro e sul consumo di merci, abbiamo iniziato a sperimentare una quotidianità a stretto contatto con la natura, riscoprendone i ritmi e le leggi immutabili: il giorno e la notte, il bello e il cattivo tempo, il ciclo della vita, l’alternarsi delle stagioni».

«Così facendo, abbiamo trovato finalmente modo e tempo di nutrire le nostre passioni e di scoprirne di nuove – aggiungono Tommaso e Alessia – la coltivazione di un orto, la contemplazione della natura in tutte le sue manifestazioni, lo studio e l’osservazione degli animali selvatici, la raccolta della legna, la ricerca di frutti, funghi ed erbe selvatiche, l’approccio a lavori manuali e di artigianato, la pratica di attività creative e artistiche, la produzione di cibo fatto in casa, la fruizione di prodotti culturali non relegata a semplice passatempo. Attività fino a poco tempo fa soltanto sognate o vissute in modo marginale e insoddisfacente come brevi fughe da esistenze e contesti alieni. Senza saperlo ci siamo avvicinati in punta di piedi a correnti di pensiero molto attuali e tipiche della controcultura degli ultimi anni, come la decrescita volontaria, l’autoproduzione, la ricerca della frugalità. Lo abbiamo fatto muovendoci in modo indipendente, riconoscendoci cioè in certe filosofie di vita solo dopo aver sviluppato noi stessi precise opinioni e punti di vista. Per esempio, abbiamo appreso la base teorica della decrescita soltanto dopo averla immaginata noi stessi. Questo ci ha dato coraggio, la consapevolezza di non esserci fatti convincere da altri, di non aver “abboccato” a nessuna ideologia. Anche per questo, ma soprattutto perché non ci sentiremmo mai in grado di farlo, non vogliamo dare consigli o convincere nessuno a seguire le nostre orme intraprendendo percorsi di vita simili al nostro».

«Questo progetto piuttosto dalla volontà di raccontare la bellezza della natura e di condividere la nostra esperienza, anche in riposta a un evidente interesse espresso da amici, conoscenti e perfetti sconosciuti che in modo diretto o attraverso i social network sono venuti in contatto con noi e con la nostra storia. Una storia che non si avvicina in nessun modo a un idillio, che non ci ha portati neanche lontanamente a condurre un’esistenza priva di difficoltà materiali e turbamenti interiori ma che tuttavia sembra presentare spunti di riflessione e stimoli positivi. E di impulsi positivi, in un mondo dominato da paure, ansie, sofferenza e negatività, dove la quasi totalità della comunicazione è urla, minacce, insulti e lamenti, riteniamo esserci un grande bisogno».

Se volete seguire Tommaso e Alessia, al ritmo delle loro stagioni, potete farlo sul loro blog QUI , su Facebook o su Vimeo .

Fonte: ilcambiamento.it

«Libertà? È non essere schiavi di ciò che si possiede…liberandosene»

Matteo, 29 anni, nato e cresciuto a Verona. Lo scorso anno decide di cambiare vita, lasciare il lavoro di tecnico informatico, sicuro e ben pagato, che svolgeva da quasi dieci anni, e partire per il Sud America, zaino in spalla, alla scoperta di se stesso e di un’altra vita. A distanza di sette mesi ci racconta come (e dove) sta andando.mateo_baraldo

Matteo un lavoro sicuro, tanti amici e una vita felice, perché hai deciso di mollare tutto? Cosa ti mancava?

Sembrerà assurdo, ma non mi mancava proprio niente. Avevo un buon stipendio, amici e famiglia che mi vogliono bene e una carriera lavorativa che andava a gonfie vele. L’avere, più che il non avere, mi ha fatto mettere tutto in discussione.

Ci puoi spiegare meglio?

Ho cominciato a farmi delle domande, domande sempre più affamate di risposte, una tra le tante: è solo materialismo o c’è dell’altro? Ho iniziato a chiedermi quale fosse l’utilità di tante cose che possedevo. Ho iniziato a pensare che molte di queste cose ci stanno trasformando in robot, in automi.

Cosa è successo da lì in poi?

Ho deciso di lasciare il lavoro e ho dato il preavviso al mio capo. Da lì in poi ho iniziato a metabolizzare davvero quello che stavo facendo e che avrei voluto fare. L’idea del viaggio si concretizzava sempre più: non volevo fare un viaggio normale, volevo mettermi alla prova e, soprattutto, volevo mettermi a disposizione degli altri, in particolare delle persone meno fortunate di me.

Cosa hai provato il giorno in cui ti sei licenziato?

Non so come si senta un leone, dopo aver vissuto in gabbia per molto tempo, a essere liberato. Ma credo di aver provato un’emozione simile. Con questo non voglio dire che non stavo bene al lavoro, anzi. Non smetterò mai di ringraziarli per come mi hanno trattato. Però ho sempre avuto problemi ad essere comandato e inquadrato, mi sentivo come una bomba ad orologeria, pronta a esplodere. Mi ricordo ancora le forti emozioni del giorno che ho annunciato le dimissioni in ditta, quando sono uscito dalla porta dell’ufficio mi è salita un’energia fortissima, in radio davano Jumping Jack Flash dei Rolling Stones e l’ho cantata a squarciagola. Era il primo passo verso la libertà.

Com’è stata presa questa decisione dalla tua famiglia e dai tuoi amici?

Tra i miei amici si sono formati due gruppi: uno che mi ha caricato e fatto i complimenti fino al giorno della partenza e l’altro che mi ha chiesto varie volte se ero sicuro e cosa farò dopo, alimentando le paure pre-viaggio. Ancora oggi ci sono persone che non hanno capito la mia decisione e non credo la capiranno mai. Ma del resto non si può piacere a tutti. La mia famiglia invece mi ha colpito molto. Papà Luciano, da sempre molto ponderato e con i piedi per terra, è stato il primo a darmi la carica e a dirmi “vai”. Mia mamma Carla ha continuato a chiedermi se fossi sicuro fino alla partenza. Ma credo che qualsiasi mamma lo avrebbe fatto. Mio fratello Emanuele invece era entusiasta: mi ha detto subito che mi sarebbe venuto a trovare e avremmo fatto surf o snowboard insieme.

Perché proprio il Sud America?

Volevo partire da solo, zaino in spalla e viaggiare con meno mezzi a motore possibili, facendo esperienze di volontariato, dedicando il mio tempo agli altri, magari in cambio di vitto e alloggio, immergendomi nella natura e in me stesso. Le due mete possibli erano l’Asia e il Sud America. Ho scelto la seconda perché l’associazione di volontariato con cui collaboro opera in Perù, Ecuador, Bolivia e Brasile.

Da quanto sei in viaggio e come sta andando?

Sono partito il 5 novembre scorso e ringrazio Dio e l’universo per avermi dato la forza di prendere questa decisione. Sto vivendo un sogno, a tratti non me ne rendo conto e mi schiaffeggio la faccia per vedere se è vero. Non posso far altro che dire grazie, più volte al giorno: grazie. Il primo Paese che ho visitato è stato il Perù dove ho fatto un’esperienza di volontariato nella Sierra. Ho vissuto in comunità locali, mangiando i prodotti che offre la terra e scoprendo i suoni e i colori della natura più incontaminata. Dopo il Perù sono stato in Ecuador dove, grazie a un sito internet che si chiama Couchsurfing (dove crei un profilo e chiedi ospitalità), ho potuto girare praticamente tutto il Paese spendendo pochissimo. Poi sono andato in Colombia e ho lavorato in cambio di vitto e alloggio in una fattoria organica che produce caffè. Ora sono in Brasile, per arrivarci ho attraversato in barca il Rio delle Amazzoni in piena. E’ stata un’esperienza molto forte.matteo470

Dove andrai domani?

Sto per partire per la Bolivia. Viaggerò su un treno molto vecchio che qui chiamano “trem da morte”, spero che il nome sia di fantasia… In Bolivia vorrei perdermi in qualche paesino. In questo cammino ho constatato che la vera cultura non è nelle grandi città ma nei piccoli villaggi.

Qual è stata l’esperienza più bella che hai fatto finora? 

Tra le esperienze più bella c’è sicuramente quella vissuta in Perù. Lì ho abitato in un caserio, un piccolo villaggio sperduto nella sierra peruviana in alta quota, dove io e altri due operai della parrocchia abbiamo costruito una casa per una famiglia del villaggio. Il mio letto era fatto di paglia, avevo una coperta (presumo) piena di pidocchi e dormivo insieme a una ventina di animaletti simili a conigli. Le persone che ci ospitavano, pur non avendo niente, sorridevano sempre. E io non facevo altro che domandarmi: perché?

Con quanti soldi vivi? Quanto ti sta costando il viaggio?

Non so di preciso con quanti soldi vivo al giorno ma quando sono partito mi sono prefissato un budget di 1500 euro per 5 mesi. Ci sono riuscito ma penso di poter fare ancora di meglio.

Quando pensi di tornare? Cosa farai dopo?

Ho messo in preventivo un anno, vedremo… Per ora sto scrivendo un diario che spero al mio ritorno di trasformare in un libro: una guida per chi vuole intraprendere un percorso del genere, tra il viaggio low cost e la meditazione sulla vita. Vorrei pubblicarlo per donare il ricavato ad alcune famiglie che ho conosciuto. Famiglie che pur non avendo niente hanno un cuore grande e mi sono ripromesso di aiutare.

A volte la parte più difficile di un viaggio è partire, decidere di mollare tutto. Cosa consiglieresti a chi vuole farlo ma non ha il coraggio?

Dico solo che la vita, che io sappia, è una e che i nostri limiti e le nostre paure sono tutte nella nostra testa. Sta a noi conoscerle, superarle o conviverci. Quindi molliamo gli ormeggi e partiamo, sempre pensando a casa, che è il nostro porto. Una volta partiti sarà come camminare in un sogno, una vera e propria scuola di vita, che ci cambierà in meglio.

Sei felice?

Molto felice. A volte non credo a quello che vedo, chiudo gli occhi e li riapro per essere sicuro.

Segui Matteo sulla sua pagina facebook:https://www.facebook.com/matteo.baraldo.73

Fonte: ecoblog.it

Cambiare vita: da Roma alle montagne della Val Pusteria, la storia di una famiglia

Lasciarsi alle spalle la vita in una metropoli e vivere in un maso nel Tirolo: nel video il racconto mozzafiato della Famiglia Barbini

Cambiare vita, lasciarsi alle spalle la vita della metropoli frenetica e farneticante e scegliere uno stile di vita umano a contatto con la Natura: quante volte abbiamo sognato di dare una svolta alla nostra vita? Ma la famiglia Barbini lo ha messo in pratica e il loro racconto mozzafiato commuove e coinvolge per la bellezza della vita che si sono scelti. Abitano un maso in Tirolo, tra le montagne e vivono in totale armonia con la Natura che li circonda. Stefano Barbini è il capofamiglia che con la moglie Giorgia e i 3 figli ha deciso ad un certo punto della sua vita di dare un taglio netto alla esistenza sin li condotta: viaggi all’estero, carriera, tanto lavoro e poco tempo per godersi il suo di tempo. Il maso è stata l’occasione per intraprendere una nuova vita, un rudere da rimettere in sesto con tempo e pazienza e con l’aiuto dei contadini della zona. Oggi è un gioiello che vede la valorizzazione degli elementi naturali presenti in zona e Stefano con la moglie accudisce personalmente al maso e alla sua manutenzione, provvede alla raccolta della legna e al prato presente nella proprietà nonché al campo da golf; Giorgia gestisce l’orto di casa e si occupa della cucina per gli ospiti. Dal vivere il maso e la realtà che li circondava al trasformare questa loro esperienza in una nuova attività il passo è stato breve. Infatti il maso dei Barbini in Val Pusteria è diventato il resort di lusso San Lorenzo Mountain Lodge e si è ingrandito con una nuova struttura il che che viene messa a disposizione degli ospiti. Parliamo di vacanze superlusso e esclusive con clientela molto esigente.

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Oggi i Barbini sono completamente integrati nella vita della Val Pusteria, dove figli frequentano la scuola tedesca e parlano più il tedesco che non l’italiano. Le giornate si svolgono secondo i ritmi della Natura e le attività svolte all’aperto in ogni stagione sono tantissime: dalla raccolta delle erbe allo sciare in inverno in alta montagna. La macchina è solo uno strumento usato per portare gli ospiti al Lodge o per scendere in città quando necessario. In genere ci sono le passeggiate nei boschi e gli incontri con i cervi a ristabilire le priorità della famiglia Barbini.

Fonte:  Sued Tirol

Foto | Storie da vivere

Cambiare vita. Si ricomincia anche… dalla scrittura

Le storie sono potenti, possono ispirare, possono infondere determinazione e coraggio, possono costituire un esempio, possono muovere e smuovere. Anche, o forse soprattutto, dalle esperienze raccontate può partire il cambiamento. Un cambiamento dal basso, perchè ciascuno di noi può raccontare la propria storia in modo che diventi patrimonio della comunità. E se vuoi cambiare vita puoi anche ricominciare…dalla scrittura.selfpublishing

Le storie possono muovere il mondo soprattutto quando sono storie di vita vissuta, esperienze di chi va avanti tra difficoltà, magari soffrendo ma senza arrendersi e cercando di cambiare ciò che di questa società e di questo mondo non piace. Attraverso la scrittura si può anche“cambiare”, modo di vivere, di sentire, di relazionarsi con gli altri. Gli esempi sono tanti, tanti gli scritti che si sono guadagnati il loro pezzetto di immortalità restando per sempre nel cuore delle generazioni e riuscendo ad essere motore di cambiamento nei loro autori. E’ una sorta di potere che sta nelle mani di chi scrive, perché scrivere è comunicare in un modo che non sparisce, che rimane, su cui si può riflettere, perché si parla anche con se stessi, non solo di se stessi. E quando si racconta la propria esperienza di cambiamento, di scelta sostenibile, allora non si sta solo praticando un “esercizio terapeutico” per se stessi ma lo si fa anche per gli altri.
Mauro l’ha fatto. Mauro Sandrini, fino a qualche anno fa dirigeva il servizio elearning di una università. «Il lavoro mi piaceva perchè coniugava due interessi che ho da sempre: l’innovazione da un lato e l’educazione dall’altro. Inoltre potevo farlo coniugando due aspetti che per me sono imprescindibili: l’umanizzazione degli strumenti tecnologici che adoperiamo. In quel contesto partecipavo a congressi internazionali e scrivevo saggi scientifici. Ma… c’era un grande “ma”» racconta Mauro. «Tutto quello che scrivevo era “interno” ai codici di comunicazione della comunità scientifica: preciso, asettico, lineare. I conti non mi tornavano, facevo fatica ad adattarmi. La cosa mi si è chiarita solo quando quell’esperienza di lavoro si è interrotta e con essa la possibilità di un lavoro all’università che era quanto avevo desiderato per anni. Eppure, dopo un periodo di crisi non facile, mi sono accorto che c’era qualcosa di più che non dipendeva dal lavoro che facevo nè per chi lo facevo. Questo “qualcosa” sono appunto questi due interessi che io continuamente tentavo, e tento, di coniugare: l’innovazione tecnologica e un utilizzo consapevole e umano degli strumenti. Era il momento in cui nel nostro paese si cominciava a ragionare di ebook e di libri digitali. Allora ho scritto un libro,“L’elogio degli e-book. Manifesto dell’autopubblicazione” . Un libro che per la prima volta non doveva rispettare nessun codice esterno, un libro scritto a partire da me, dalle mie passioni e interessi. I risultati sono stati stupefacenti. Ne ha parlato la stampa nazionale e una piccola comunità di persone ha cominciato a fare lo stesso dopo aver letto il libro: condividere la propria passione professionale attraverso la parola scritta senza dover chiedere nulla a nessuno. In totale libertà».
«Oggi se si ha una passione e se piace scrivere, si può raccontare quella passione senza che nessuno lo impedisca. E lo si può fare approfittando delle possibiltà della tecnologia, con gli ebook e il print on demand che permettono di far arrivare il libro digitale sugli scaffali delle librerie elettroniche di tutto il mondo e di spedirlo ai lettori che lo desiderano anche in versione cartacea. I critici si interrogano sulla qualità di questo processo, ma a me importa di più mettere l’accento sulla libertà. Neppure l’editoria tradizionale è in grado di garantire la qualità, gli esempi sono innumerevoli».
Catartico, ma può anche diventare una professione, un modo di comunicare se stessi agli altri. Un’idea, un’opportunità, una fantasia che si concretizza. Tentar non nuoce. «Raccontiamola allora la nostra storia, l’esperienza che abbiamo accumulato lungo le strade che abbiamo percorso. Un’esperienza che può essere utile ad altri, ma prima di tutto a noi stessi, per ripartire. Quando si ricomincia non lo si fa mai da zero, chi lo dice racconta una bugia».
Buona scrittura a tutti!

Fonte: il cambiamento

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Rancho Margot: tanti esperimenti, una realtà (sostenibile)

“Un laboratorio di sostenibilità in continua evoluzione”. In Costa Rica si trova Rancho Margot, un po’ progetto di ecoturismo rurale, un po’ comunità autosufficiente, un po’ scuola di sostenibilità e sopravvivenza, un po’ centro di recupero di animali selvaggi, un po’ altro ancora.costa_rica3

Rancho Margot si trova in Costa Rica, al confine tra il “Bosco Eterno dei Bambini” e il Parco Nazionale dell’Arenal.

In Costa Rica, al confine tra il “Bosco Eterno dei Bambini” e il Parco Nazionale dell’Arenal, su 152 ettari di terreno precedentemente deforestato ed adibito a pascolo, si estende il sogno di Juan Sostheim, cileno di nascita, statunitense e poi tedesco di adozione e una vita in giro per il mondo. Circa 10 anni fa, in seguito a seri problemi di salute, Sostheim decise di cambiare vita, e da semplice turista si innamorò di questa valle e di questa proprietà. Risulta difficile descrivere Rancho Margot, un po’ progetto di ecoturismo rurale, un po’ comunità autosufficiente, un po’ scuola di sostenibilità e sopravvivenza, un po’ centro di recupero di animali selvaggi, un po’ altro ancora. Incuriosito dalla fama che Rancho Margot si è costruito in pochissimi anni, una mattina ho alzato il telefono e ho chiesto di poter rendere visita per capire se davvero questa fama era meritata. Ho passato tre giorni parlando con Juan, i suoi figli, i dipendenti; ho visitato tutto quello che c’era da visitare. In tutta sincerità il progetto è talmente ampio che mi è stato difficile coglierne l’intera portata, anche perché Sostheim non è di certo il tipo che se ne sta con le mani in mano e le cose cambiano continuamente. Juan è un vulcano di idee che prima pensa e poi realizza e proprio per questo credo che la definizione più appropriata per Rancho Margot sia “laboratorio di sostenibilità in continua evoluzione”.rancho_margot

Rancho Margot può essere definito “un laboratorio di sostenibilità in continua evoluzione”

Ma andiamo con ordine. Avendo come primo obiettivo quello di essere esempio di comunità autosufficiente, Rancho Margot ha iniziato sin da subito ad operare in questa direzione. L’elettricità è completamente prodotta da due idroturbine (da 8 e 42 kw rispettivamente) grazie alle acque che scorrono nella proprietà e che assicurano l’intero fabbisogno energetico (tra le altre cose Rancho Margot è stato certificato, primo in Costa Rica, carbon negative), mentre un grande orto organico (in cui vengono seguiti i principi della permacultura) ed il frutteto assicurano il 50-60% della esigenze dei circa quaranta residenti e del ristorante. A fianco dell’orto si trova l’area per le piante medicinali utilizzate nella produzione dei saponi e di insetticidi ed erbicidi naturali. Latte e formaggi provengono da mucche allevate all’aperto mentre maiali e galline garantiscono la produzione di carne (cose su cui io, da vegano, faccio molta fatica ad essere d’accordo). Lo sterco animale, oltre ad essere utilizzato nell’orto, viene trasformato in gas-metano per la cucina del ristorante grazie ai “biodigestori”, mentre il riscaldamento dell’acqua per i 20 bungalows della struttura avviene grazie a scambiatori di calore situati all’interno dei forni per il compost. “A Rancho Margot”, dice Sostheim “non esistono rifiuti ma solo risorse”. Sia le case che i bungalows sono state costruite con l’utilizzo di materiali locali mentre i mobili vengono preparati nella falegnameria con legname della proprietà. In aggiunta ci sono due piscine naturali (una calda e una fredda) un dojo per la pratica dello yoga, sentieri e cascate per rilassare mente e fisico. rancho_margot6

“Quando la gente viene qui, anche solo in vacanza, deve tornare a casa ispirata e determinata a cambiare la propria vita”

Una cosa che devo dire mi ha colpito immensamente è la quasi totale assenza di mosche ed insetti negli allevamenti e nella stalla dei cavalli (che, sembrerà incredibile, è situata a fianco di bar e ristorante). Juan sostiene che questo è dovuto alla dieta organica e bilanciata che viene data agli animali. Questo è ciò che vedono gli occhi. Per il resto bisogna ascoltare Juan o i suoi figli, perché Rancho Margot è soprattutto un sogno ad occhi aperti: scuola di sopravvivenza, dipendenti che diventeranno soci, coinvolgimento quotidiano con la vicina comunità di El Castillo, collaborazione con il “Bosco Eterno dei Bambini”, progetto di riforestazione (oltre 40.000 alberi piantati), scuola per volontari e davvero tanto altro ancora. Ma è giusto che siano le parole di Juan Sostheim ad indicare il futuro di Rancho Margot: “Voglio trasformare questo posto in una comunità totalmente autosufficiente e sostenibile e che al tempo stesso sia un esempio ed una scuola per il mondo intero. Quando la gente viene qui, anche solo in vacanza, deve tornare a casa ispirata e determinata a cambiare la propria vita. Facciamo errori ovviamente, ma non ci abbattiamo e anzi guardiamo al futuro con rinnovato ottimismo. E soprattutto vogliamo condividere le nostre esperienze. Vogliamo insegnare ad altri ma anche imparare da altri. Il tempo dell’individualismo è finito. È ora di reimparare a vivere condividendo cose e saperi”.

Fonte: il cambiamento