Avete mai sentito parlare della “Foresta condivisa del Po piemontese”? Si tratta di un’ambiziosa iniziativa per realizzare una “foresta di vicinato” a cui chiunque può contribuire. Grazie a un finanziamento del Ministero della Transizione il progetto metterà a dimora più di 7.000 alberi e 3.000 arbusti per contrastare gli effetti dei cambiamenti climatici. Al giorno d’oggi, con accresciute sensibilità e consapevolezza rispetto ai nostri stili di vita, stiamo imparando il valore della condivisione per ridurre il nostro impatto sul pianeta. La sostenibilità così passa attraverso l’uso comune di automobili, abiti usati, orti urbani o progetti di prestito e restituzione come le stoviglioteche, il bookcrossing e tanto altro ancora. Ma ci credereste se vi dicessimo che è possibile condividere anche un’intera foresta?
Ci auguriamo di sì e non possiamo che confermarvelo raccontandovi un progetto che si sta impegnando a proteggere la biodiversità e le ricchezze del territorio. Si chiama “Foresta condivisa del Po piemontese” e, come vi abbiamo già accennato in questo articolo, è “condivisa” proprio perché chiunque può contribuire a realizzarla diventandone partner, dalle istituzioni fino al semplice cittadino, dalle aziende agricole alle imprese private e alle associazioni.
Il progetto di riforestazione
La novità è che recentemente il progetto è arrivato primo su scala nazionale. Ci spieghiamo meglio: il Ministero della Transizione Ecologica (MiTE) ha recentemente finanziato 38 progetti in tutta Italia e questa foresta, che si estende per oltre 200 chilometri, è arrivata con successo al primo posto. L’iniziativa è stata infatti presentata tramite la Città Metropolitana di Torino nell’ambito del “Programma Sperimentale per la Riforestazione Urbana” che ha stanziato finanziamenti dedicati alle città metropolitane che hanno potuto presentare fino a 5 progetti di messa a dimora di alberi, manutenzione e creazione di foreste urbane e periurbane.
Oggi questo enorme parco, che si estende all’interno della regione Piemonte lungo il percorso del fiume Po, ha ricevuto un finanziamento di 500.000 euro e metterà in atto interventi di riforestazione al suo interno e nelle immediate vicinanze. Nei prossimi mesi saranno messi a dimora su 16 ettari 7.754 alberi e 3.713 arbusti in due aree di intervento: la prima è situata tra i comuni di Verolengo e Lauriano mentre la seconda riguarda aree molto vicine tra loro in Carignano e Carmagnola, all’interno di due siti della Rete Natura 2000. In questo caso tutti i terreni (ad eccezione di un’area demaniale a Carignano già in concessione all’Ente-Parco) sono stati messi a disposizione dai Comuni.
Contrastare il cambiamento climatico
Il piano prevede l’attivazione di azioni concrete che possano contribuire a contrastare il cambiamento climatico: tra queste c’è l’eradicazione delle specie esotiche invasive, la messa a dimora di arbusti e alberi che miglioreranno la qualità ecologica degli habitat forestali e la gestione e cura delle aree riforestate, anche per prevenire il ritorno delle cosiddette specie aliene per i prossimi sette anni. Nella scelta degli alberi e degli arbusti sono stati valutati con attenzione gli aspetti legati alle provenienze autoctone tipiche della Pianura Padana, considerando in particolare le condizioni ecologiche delle aree di intervento: ad esempio sono state selezionate tra le specie arboree la farnia, il cerro, il ciliegio selvatico, l’acero campestre, l’olmo ciliato, l’ontano nero, il salice bianco, il pioppo bianco, il pioppo nero, il carpino bianco e il ciliegio a grappoli e tra quelle arbustive il biancospino, il nocciolo, il sanguinello, il sambuco e l’evonimo.
Una riqualificazione ambientale lunga trent’anni
Tutto ciò è possibile grazie all’impegno degli Enti di gestione delle Aree protette del Po vercellese-alessandrino e delle Aree protette del Po torinese che stanno riqualificando, di anno in anno,centinaia di ettari di terreno, in gran parte pubblico. Un’ambiziosa iniziativa che vuole riprendere e consolidare gli interventi di riqualificazione ambientale avviati negli ultimi trent’anni lungo la fascia fluviale del Po. Con questi nuovi interventi si supereranno i 70.000 alberi già in fase di impianto nel vasto territorio metropolitano e questo rappresenta dunque un nuovo ed importante passo in avantianche per la “Foresta condivisa del Po piemontese”.
Ogni anno le multinazionali petrolifere spendono sempre di più per creare una cultura di massa fondata sulla convinzione che abbiamo bisogno dei combustibili fossili per vivere e che il cambiamento climatico non è di origine antropica. In questa analisi curata da Rosa Maria Currò e Simone Predelli, articolisti di Agenzia di Stampa Giovanile, qualche dato sulle cifre in ballo e sui soggetti coinvolti. Le compagnie petrolifere e di gas naturali stanno cercando di ripulire la loro immagine e lo stanno facendo inquinando la comunicazione. Questo è ciò che emerge dall’ultimo report di InfluenceMap pubblicato ad agosto 2021. Come da precedenti analisi (del 2018 e 2019), è evidente la crescita esponenziale delle campagne di sponsorizzazione che queste compagnie pubblicano – con ingenti spese – sui social media (Facebook in primis).
Durante il 2020, si fa notare, le spese sostenute da queste industrie per l’advertising raggiungono dei picchi di circa 100 mila dollari al giorno. Picchi che corrispondono al periodo elettorale negli USA. Non solo quindi le compagnie stanno scegliendo momenti propizi per la loro propaganda ma, nell’impossibilità di procedere con la loro campagna di diniego del cambiamento climatico, optano sempre più per il greenwashing. Attraverso informazioni parziali o l’evidenziare spese sostenute a favore di tecnologie per il controllo delle emissioni, l’obiettivo da raggiungere per loro è molto semplice: far dimenticare all’opinione pubblica che sono proprio i combustibili fossili i primi responsabili del cambiamento climatico.
In questa situazione, spiega InfluenceMap, un grande assente risulta essere l’intervento dei social media utilizzati per le campagne. Prendendo ad esempio Facebook infatti, nonostante si ponga come impresa green e vicina all’ecologia, non ha mostrato alcun interesse a segnalare o moderare la propaganda fuorviante delle compagnie petrolifere. Come fa notare l’articolo di Giancarlo Sturloni, già un paio di anni fa il tema era noto e, attraverso un’azione legale, l’associazione ClientEarth aveva proposto almeno che le sponsorizzazioni delle compagnie petrolifere fossero accompagnate da un disclaimer simile a quello dei tabacchi: «Il consumo di petrolio provoca il cambiamento climatico».
Tuttavia, il potere di queste compagnie non ha permesso ancora una vera e propria azione. Non stiamo parlando del solo e ovvio potere economico, ma dell’enorme forza socioculturale che esercitano in un’umanità estremamente dipendente dall’alto consumo di energia. Già nel 2017, nel suo testo “Fuori Controllo”, Thomas Eriksen faceva notare come, in una condizione di sovrappopolazione e iperconsumo, purtroppo, la nostra “energomania” raggiunge livelli tali che operare un cambiamento sistemico è difficilissimo, figuriamoci poi porre dei limiti ai nostri “spacciatori”.
Ma quali sono gli effettivi impatti di una tale e immobilizzante dipendenza da energia? Innanzitutto, ciò a cui assistiamo ogni giorno: l’incremento di emissioni e l’aumento della temperatura globale con conseguenze devastanti per l’ambiente e gli esseri viventi. In secondo luogo, ma altrettanto importante: l’aumento delle disuguaglianze sociali. Come spiega Eriksen infatti, «a parità di altre condizioni, le società a basso consumo energetico sono più eque di società ad alto consumo energetico»; soprattutto nel caso delle società basate sul petrolio, per via dell’aumento della conflittualità, della povertà e della tendenza a formare regimi autoritari.
Ciononostante, la nostra cultura (e la tendenza globale) connette il progresso sociale all’alto consumo energetico fino al punto in cui la nostra flessibilità come specie vacilla. Le operazioni su piccola scala per costruire un mondo più paritario e frenare il cambiamento climatico sono valide e quasi onnipresenti, ma il momento è ormai maturo per pretendere degli impattanti cambiamenti su larga scala e, inevitabilmente, questi devono passare attraverso il cambiamento della comunicazione mainstream. Cosa è necessario fare? Nel mezzo di una tale complessità potrebbe apparire impossibile cambiare. “Cambiare rotta è più facile per una barca a remi che per una nave cargo”, ma questo non significa che farlo sia impossibile. Ciò che è necessario fare al momento è supportare operazioni come quella proposta da ClientEarth, fare sì che l’operazione di manipolazione delle compagnie petrolifere non sia più possibile e che sia davanti agli occhi di tutti il fatto che un tale consumo energetico nuoce gravemente alla salute.
Questo potrebbe essere un passo verso la nostra disintossicazione, verso l’emancipazione dalla nostra energomania e verso la possibilità effettiva di sviluppare un completo senso critico nei confronti del nostro modello di sviluppo. Potremmo così dedicarci finalmente e completamente a forme sostenibili di produzione energetica e consumi. Evitiamo di cadere nelle tele intessute con il preciso obiettivo di incatenarci a un sistema al collasso, pensiamo a lungo termine, pretendiamo un’effettiva azione anche da parte dei social media per garantire un’informazione trasparente.
Lo afferma uno studio coordinato dalla Harvard University. A essere più colpite sono le aree con la maggior concentrazione di inquinanti, compresi gli Stati Uniti orientali, l’Europa e il Sud-est dell’Asia. La stima è stata fatta con un modello matematico in cui sono stati inseriti i dati 2018 sulle emissioni di diversi settori, dall’energia ai trasporti
L’inquinamento dovuto alle emissioni da combustibili fossili è la causa di 8,7 milioni di morti nel mondo ogni anno, quasi un quinto del totale dei decessi e il doppio di quanto stimato in precedenza. Lo afferma uno studio coordinato dalla Harvard University pubblicato da Environmental Research. Secondo gli autori dello studio, a essere più colpite sono le aree con la maggior concentrazione di inquinanti, compresi gli Stati Uniti orientali, l’Europa e il Sud-est dell’Asia. La stima è stata fatta utilizzando un modello matematico in cui sono stati inseriti i dati, riferiti al 2018, sulle emissioni di diversi settori, dall’energia ai trasporti, per determinare la quantità di sostanze inquinanti presente nelle singole aree. A questa è stato applicato un altro algoritmo che stima gli effetti sulla salute al variare dei tassi di inquinamento.
Ricerche precedenti si basavano su osservazioni satellitari e di superficie per stimare le concentrazioni annuali medie globali di particolato fine PM2,5. Il problema è che le osservazioni satellitari e di superficie non sono in grado di distinguere tra le particelle delle emissioni di combustibili fossili e quelle della polvere, del fumo di incendi o di altre fonti.
“Con i dati satellitari, vedi solo i pezzi del puzzle”, ha affermato Loretta J. Mickley, Senior Research Fellow in Chemistry-Climate Interactions presso la Harvard John A. Paulson School of Engineering and Applied Sciences (SEAS) e coautrice dello studio. “È difficile per i satelliti distinguere tra i tipi di particelle e possono esserci delle lacune nei dati”.
Per superare questa sfida, i ricercatori di Harvard si sono rivolti a GEOS-Chem, un modello 3-D globale di chimica atmosferica condotto al SEAS da Daniel Jacob, professore di chimica atmosferica e ingegneria ambientale. “Piuttosto che fare affidamento su medie diffuse in grandi regioni, volevamo mappare dove si trova l’inquinamento e dove vivono le persone, in modo da poter sapere più esattamente cosa respirano”, ha detto Karn Vohra, studente dell’Università di Birmingham e primo autore dello studio. Per modellare il PM2,5 generato dalla combustione di combustibili fossili, i ricercatori hanno inserito le stime GEOS-Chem delle emissioni di più settori, tra cui energia, industria, navi, aerei e trasporti terrestri e la chimica dettagliata simulata di ossidanti-aerosol, guidata dalla meteorologia dalla NASA Global Ufficio Modellazione e Assimilazione. I ricercatori hanno utilizzato i dati sulle emissioni e sulla meteorologia principalmente dal 2012 perché è stato un anno non influenzato da El Niño, che può peggiorare o migliorare l’inquinamento atmosferico, a seconda della regione. I ricercatori hanno aggiornato i dati per riflettere il cambiamento significativo nelle emissioni di combustibili fossili dalla Cina, che sono diminuite di circa la metà tra il 2012 e il 2018.
“Mentre i tassi di emissione sono dinamici, aumentano con lo sviluppo industriale o diminuiscono con politiche di qualità dell’aria di successo, i cambiamenti della qualità dell’aria in Cina dal 2012 al 2018 sono i più drammatici perché la popolazione e l’inquinamento atmosferico sono entrambi grandi”, ha affermato Marais. “Tagli simili in altri paesi durante quel periodo di tempo non avrebbero avuto un impatto così grande sul numero di mortalità globale”.
La combinazione dei dati del 2012 e del 2018 dalla Cina ha fornito ai ricercatori un quadro più chiaro dei tassi di emissioni globali di combustibili fossili nel 2018. Una volta ottenuta la concentrazione di PM2,5 di combustibile fossile all’aperto, i ricercatori dovevano capire in che modo quei livelli influivano sulla salute umana. Sebbene sia noto da decenni che le particelle sospese nell’aria sono un pericolo per la salute pubblica, sono stati effettuati pochi studi epidemiologici per quantificare gli impatti sulla salute a livelli di esposizione molto elevati come quelli riscontrati in Cina o in India. I coautori Alina Vodonos e Joel Schwartz, professore di epidemiologia ambientale presso l’Harvard T.H. Chan School of Public Health (HSPH), hanno sviluppato un nuovo modello di valutazione del rischio che collegava i livelli di concentrazione di particolato dalle emissioni di combustibili fossili ai risultati sulla salute. Questo nuovo modello ha rilevato un tasso di mortalità più elevato per l’esposizione a lungo termine alle emissioni di combustibili fossili, anche a concentrazioni inferiori. Spesso, quando discutiamo dei pericoli della combustione di combustibili fossili, è nel contesto della CO2 e del cambiamento climatico e trascuriamo il potenziale impatto sulla salute degli inquinanti co-emessi con i gas serra”, ha detto Schwartz. “Ci auguriamo che quantificando le conseguenze sulla salute della combustione di combustibili fossili, possiamo inviare un messaggio chiaro ai responsabili politici e alle parti interessate sui vantaggi di una transizione verso fonti energetiche alternative”.
La ricerca sottolinea l’importanza delle decisioni politiche, ha affermato Vohra. I ricercatori hanno stimato che la decisione della Cina di ridurre quasi della metà le emissioni di combustibili fossili ha salvato 2,4 milioni di vite in tutto il mondo, di cui 1,5 milioni in Cina, nel 2018.
“Il nostro studio si aggiunge alla crescente evidenza che l’inquinamento atmosferico derivante dalla continua dipendenza dai combustibili fossili è dannoso per la salute globale”, ha affermato Marais. “Non possiamo in buona coscienza continuare a fare affidamento sui combustibili fossili, quando sappiamo che ci sono effetti così gravi sulla salute e alternative praticabili e più pulite”.
Alchimilla Apicoltura è l’azienda agricola di Stefania Conte e Andrea Peretti, una giovane coppia che vive a Mathi, in provincia di Torino, e che qui ha deciso di autocostruire la casa dei propri sogni e di condividerla con le loro api, dedicandosi all’apicoltura e alla produzione di mieli naturali e locali. Arriva un momento, nella vita, in cui i sogni non possono più rimanere chiusi nel cassetto a prendere polvere e in cui è necessario un po’ di coraggio per dare loro la forma giusta. Spesso sono proprio questi momenti, costellati da punti interrogativi e tante incertezze, ad anticipare i cambiamenti più belli della nostra vita. Solo che ancora non lo sappiamo! Momenti in cui rischiare è la sola scelta possibile per creare il nostro futuro. La storia di oggi parla di una giovane coppia, qualche ape e un sogno grande come una casa… fatta con legno e paglia. È la storia di Stefania Conte e Andrea Peretti che dopo la laurea si sono trovati a un bivio, come sovente succede a molti giovani: rimanere in Italia facendo i conti con un futuro incerto o avventurarsi all’estero, alla ricerca di maggiori sicurezze economiche.
«Subito dopo una laurea in lingue ho cercato lavoro nell’ambito dell’organizzazione di eventi culturali ma purtroppo sono entrata nel mondo del lavoro in un momento di crisi, trovando soltanto lavori saltuari. Andrea, il mio compagno, si è laureato in architettura con una tesi in ambito edilizio sul tema dell’autocostruzione attraverso l’impiego della paglia. Nello studio in cui lavorava, però, passava molte ore seduto al computer e la vita da ufficio non era ciò che desiderava. Pian piano ci siamo resi conto che insieme potevamo creare qualcosa di diverso. Abbiamo voluto farlo, non fuggendo ma rimanendo, poiché sentivamo forte l’esigenza di dare speranza al nostro territorio, anche a scapito delle certezze economiche».
Così Andrea e Stefania hanno deciso di reinventarsi e avvicinarsi al mondo agricolo, per sperimentare una vita a misura dei loro sogni, dove il contatto con la natura, il lavoro manuale e le mille sfumature dei colori delle stagioni li facessero sentire a casa. Così la scelta è stata quella di vivere nelle valli di Lanzo, in provincia di Torino.
«In quel periodo cercavamo una casa che avesse un terreno da poter coltivare ma non abbiamo trovato nulla che facesse al caso nostro». La speranza però è l’ultima a morire e i nostri protagonisti si sono lanciati in un’impresa coraggiosa e quasi impossibile: costruire da soli la casa dei loro sogni! Una casa a basso costo e a basso impatto, coibentata con isolanti naturali come la paglia. Una casa realizzata a quattro mani, mettendo in pratica le loro conoscenze nell’ambito di bioedilizia e facendosi aiutare da qualche amico. Negli anni, grazie all’aiuto di un amico che allevava le api, si sono appassionati all’apicoltura e hanno deciso di dare vita alla loro azienda agricola che hanno chiamato Alchimilla Apicoltura, dove producono miele artigianalmente con metodi naturali, senza l’utilizzo di trattamenti chimici. Qui, insieme alle loro api, alternandosi tra la pianura e la montagna, producono miele di acacia, millefiori, tiglio, tarassaco, rododendro e castagno. Nella loro accogliente casa ospitano chiunque abbia voglia di conoscere da vicino il magico mondo delle api: organizzano ogni anno un corso di apicoltura insieme ad ATA – Associazione Tutela Ambiente di Ciriè e hanno fondato il progetto “Adotta un alveare”, che prevede un’esperienza in apiario e la consegna di qualche vasetto di miele.
«Non è facile vivere di sola apicoltura. Negli ultimi anni abbiamo visto che si riesce a produrre sempre meno miele a causa di diversi fattori ambientali, del cambiamento climatico e dell’inquinamento. Noi ci sentiamo fortunati perchè viviamo in una zona dove non ci sono coltivazioni intensive e le api stanno bene. Si tratta di una zona molto ambita poiché, spostando le arnie anche di poco, si possono raggiungere altitudini con fioriture diverse. Una volta costruita la casa abbiamo smesso di fare tutto il resto e ci siamo dedicati solo all’apicoltura. Questa è la nostra idea di vita tranquilla e naturale: prenderci cura delle api, seguire personalmente gli alveari, occuparci della parte di laboratorio e della vendita».
All’inizio Stefania alternava il lavoro in modo da avere il tempo di seguire la creazione della casa e Andrea, con la sua voglia di mettersi in gioco, ha dimostrato che tutto ciò che ha studiato sui libri poteva essere trasformato in una realtà fatta a loro misura.
«Le fatiche sono state tantissime e l’autocostruzione è un progetto molto più impegnativo di quanto i libri ti raccontano. Ci sono stati momenti difficili dove la stanchezza prendeva il sopravvento e per anni abbiamo lavorato alla costruzione della casa nei ritagli di tempo, sacrificando molto del nostro tempo libero. Ma sono proprio i progetti più faticosi quelli che ti formano e ti fanno crescere. Dall’inizio della nostra avventura siamo cambiati molto e sappiamo che ogni fatica ne è valsa la pena, proprio perché questa era la vita che volevamo». Fonte: https://www.italiachecambia.org/2021/01/stefania-andrea-costruiamo-casa-misura-noi-nostre-api/?utm_source=newsletter&utm_medium=email
In occasione degli Stati Generali della Green Economy in programma il 3 e 4 novembre in versione digitale causa Covid, abbiamo raggiunto Eco Ronchi per sapere quali saranno le riflessioni condivise sull’economia verde ai tempi della pandemia. Cosa dobbiamo aspettarci dall’edizione 2020 degli Stati Generali della green economy 2020? Quali saranno le riflessioni condivise, in modalità digitale, il 3 e il 4 novembre da esperti del settore e politici, tra cui 5 ministri, che offriranno un focus sull’economia verde ai tempi del Covid-19? Molto atteso il confronto sul Green deal e su come investire in Italia i 209 miliardi del Recovery fund. Ne abbiamo parlato con il padrone di casa, l’ex Ministro dell’ambiente e presidente della Fondazione per lo Sviluppo Sostenibile, Edo Ronchi.
La diffusione del Covid ci sta presentando un conto salato non solo in termini di vite umane. La pandemia ha messo a nudo la fragilità del nostro sistema economico-sociale oltre alla nostra incapacità di proteggere l’ambiente in cui viviamo. Ne verremo fuori imparando la lezione?
La diffusione del virus, che ci obbliga a una versione degli Stati Generali a distanza, crea un po’ di problemi determinando un quadro fortemente cambiato rispetto al 2019. La prima riflessione riguarda proprio la lezione che dobbiamo imparare da questa pandemia. Ovviamente adesso siamo impegnati nell’ emergenza a rispettare le norme sanitarie e a sostenere le misure di compensazione economica e sociale. Ma contemporaneamente bisogna pensare al futuro in modo da uscire da questa pandemia migliori di come eravamo quando ci siamo entrati. Tra le lezioni da imparare da questa situazione c’è indubbiamente anche quella sulla sostenibilità ecologica. Abbiamo capito a nostre spese quanto siamo vulnerabili di fronte alla natura. È bastato un micro organismo per sconvolgere le nostre sicurezze e la nostra potenza tecnologica ed economica. Quando si danneggia la natura certe conseguenze sono inevitabili. Aver trattato con superficialità altre specie e aver devastato habitat naturali provocando, come già accaduto, passaggi di virus da animali all’uomo, in questo caso ha determinato questa pandemia disastrosa.
Qual è la strategia vincente suggerita da Gli Stati Generali della Green Economy per uscire dalla pandemia senza danneggiare ulteriormente la natura?
Bisogna cambiare il modo di pensare. Bisogna adottare verso la natura un principio di cautela e di precauzione, non avere questi atteggiamenti superficiali verso gli habitat naturali e le altre specie generando conseguenze come quelle he stiamo verificando. Pensando alla strategia, cioè anche al futuro e non solo all’emergenza durante la crisi, vogliamo sottolineare come la green economy possa essere una leva fondamentale di rilancio sociale ed economico dell’Italia per una serie di motivi non astratti. Intanto lo sviluppo non è durevole se non è sostenibile. L’economia ormai del futuro deve essere decarbonizzata altrimenti non ha prospettive. Un paese manifatturiero come il nostro non può che puntare alla conversione dell’economia tradizionale in circolare. La neutralità climatica proposta dall’Unione europea è una strategia ambiziosa, necessaria, ricca di grandi cambiamenti e di forti potenzialità. Nulla come una green economy circolare e decarbonizzata può alimentare innovazione, nuovi investimenti e nuova e buona occupazione. Queste sono un po’ le chiavi dell’impostazione di questi Stati Generali.
Come interpreta i segnali che arrivano dall’Unione europea?
Prendiamo atto che a livello europeo c’è una svolta green. E vogliamo sottolineare la portata innovativa di questa svolta che non è solo la qualificazione del Recovery fund centrato sul Green Deal. Ma si tratta di una serie di misure che accompagnano il Next Generation fund che hanno questa connotazione come l’individuazione di una tassonomia sugli investimenti sostenibili, la Farm to fork e i nuovi target di neutralità climatica che entreranno in vigore entro il 2021 con l’obiettivo del 50% al 2030. C’è la nuova strategia industriale, c’è il secondo piano di azione per l’economia circolare con una serie di misure e indicazioni molto importanti. C’è l’accelerazione delle scelte verso la mobilità sostenibile e decarbonizzata. Un pacchetto complessivo di svolte green europee con le quali vogliamo dialogare da una posizione avanzata. Non da freno. L’Italia deve essere parte dei paesi europei green e avanzati. E quindi presenteremo la piattaforma nazionale avanzata approvata dal Consiglio nazionale della Green economy che comprende 69 organizzazioni di imprese, che non è una struttura poco influente, che indica una serie di obiettivi e misure sia di investimenti che di riforme da attuare nell’impiego dei fondi di Next Generation e di questi famosi 209 miliardi da destinare all’Italia.
Il raggiungimento della neutralità climatica entro il 2050 ci pone obiettivi, anche intermedi, talmente sfidanti da rischiare di passare come proclami di difficile attuazione.
Noi con “Italy Climate Network” abbiamo già cominciato a lavorare su una road map per studiare come si traducono questi obiettivi nei vari settori, non solo nella politica energetica delle rinnovabili e dell’efficienza ma in tutti i settori. Abbiamo visto che sono target impegnativi da raggiungere entro il 2030. Ma si possono realizzare e stimolano cambiamenti importanti, investimenti e innovazione. Quindi sì, sono sfidanti, ma chiedono impegno e soprattutto sono un’occasione importante come leva di Green deal. Cioè l’innovazione tecnologica di nuovi investimenti e occupazione. Per due motivi sostanziali. Perché c’è una maturazione delle tecnologie green e che possono stare sul mercato ed essere accessibili anche economicamente. C’è anche una crescita di consapevolezza dei consumi e un’attenzione dei cittadini che sono disposti a premiare i diritti green. Oggi se vuoi essere un’economia avanzata non puoi non puntare sulla decarbonizzazione e costringere i paesi e i settori più arretrati a inseguirli.
Non abbiamo scelta quindi?
Io penso che sia una scelta da fare più che non abbiamo scelta. É una scelta necessaria ma anche utile. É il momento buono per farla questa svolta climatica. É un’occasione per il Green deal, una leva formidabile di nuovo sviluppo, di nuova innovazione tecnologica, investimenti e occupazione. Non c’è nulla come questo mix in grado di cambiare e trainare un nuovo tipo di sviluppo.
Avete individuato quali sono le priorità che l’Italia dovrebbe finanziare? Ci sono dei settori che proprio non possiamo non coinvolgere in questo cambiamento?
Bisogna seguire questa road map e dare seguito agli investimenti per l’efficienza energetica. Per esempio l’ecobonus deve essere gestito in maniera efficiente con un po’ di supporto perché le pratiche sono complicate. Se si riesce a semplificarle è meglio. Ma soprattutto bisogna dargli continuità, non basta un anno. Entro il 2020 ormi si potrà fare qualche lavoro di adeguamento e ristrutturazione. Dovrebbero avere carattere pluriennale questo tipo di interventi. Con una seria attenzione alla saturazione energetica degli edifici pubblici che deve essere seguita in materia più puntuale. Invece ci si basa solo sugli edifici privati.
Il cambiamento climatico ci mostra la fragilità delle nostre città. Quali azioni concrete nei contesti urbani?
Occorre collegare la ristrutturazione alla rigenerazione urbana tenendo conto dell’adattamento ai cambiamenti climatici. Le alluvioni hanno provocato tanti danni e dunque non è sufficiente strutturare gli edifici. Bisogna preoccuparsi anche dei territori con l’adeguamento ai piani di adattamento climatico. Se ne è parlato con l’ondata delle alluvioni e il dissesto idrogeologico. Si tratta di adattamento al cambiamento climatico che richiede politiche più attive di gestione del territorio. Sì, anche l’adattamento climatico è una priorità. Significa che bisogna creare delle aree di espansione delle acque, impermeabilizzazione. Fermare il consumo di suolo nuovo, moltiplicare le infrastrutture verdi, creare aree verdi periurbane nelle cinture delle città per assorbire le cosiddette bombe d’acqua. É un lavoro importante la rigenerazione urbana ed è un’occasione di rilancio della qualità delle città.
Coronavirus, un aggressore che arriva in conseguenza di un’alterazione degli equilibri ecologici e ambientali senza precedenti: è in sintesi quanto sostiene Gianni Tamino, docente emerito di Biologia generale all’Università di Padova, già deputato ed europarlamentare e oggi membro dei Comitati Scientifici dell’Associazione medici per l’ambiente- ISDE (International Society of Doctors for the Environment) e dell’Associazione Italiana per lo Sviluppo dell’Economia Circolare.
Coronavirus, un aggressore che arriva in conseguenza di un’alterazione degli equilibri ecologici e ambientali senza precedenti: è in sintesi quanto sostiene Gianni Tamino, docente emerito di Biologia generale all’Università di Padova, già deputato ed europarlamentare e oggi membro dei Comitati Scientifici dell’Associazione medici per l’ambiente- ISDE (International Society of Doctors for the Environment) e dell’Associazione Italiana per lo Sviluppo dell’Economia Circolare.
«L’obiettivo evolutivo di tutte le forme viventi è la propria riproduzione, per colonizzare l’ambiente di vita, obiettivo che entra in relazione, talora conflittuale, con lo stesso obiettivo riproduttivo di tutti gli altri organismi – spiega Tamino – da queste relazioni si sviluppano gli equilibri che caratterizzano gli ecosistemi e che pongono limiti alla crescita delle popolazioni e dei consumi di ciascuna specie. In ecologia si parla di carrying capacity (o capacità di carico) per spiegare che, sulla base delle caratteristiche di un ecosistema, gli individui di una popolazione non possono superare i limiti imposti dalle risorse disponibili. Un classico esempio per spiegare questo fenomeno è quello della relazione tra preda e predatore: alla crescita del numero di predatori corrisponde una diminuzione significativa del numero delle prede, che innesca – per scarsità di cibo – un conseguente calo anche dei predatori».
«Nel caso della popolazione umana si utilizzano concetti simili a quelli di carrying capacity ma con terminologie e metodi di valutazione un po’ diversi – prosegue Tamino – Si parla di “impronta ecologica”, cioè la misura del territorio in ettari necessario per produrre ciò che un uomo o una popolazione consumano. Questa analisi facilita il confronto tra regioni, rivelando l’impatto ecologico delle diverse strutture sociali e tecnologiche e dei diversi livelli di reddito. Così l’impronta media di ogni residente delle città ricche degli USA o dell’Europa è enormemente superiore a quella di un agricoltore di un paese non industrializzato, per cui sul pianeta un solo statunitense “pesa” più di 10 afgani».
«L’Overshoot Day è, invece, il giorno in cui il consumo di risorse naturali da parte dell’umanità inizia a superare la produzione che la Terra è in grado di mettere a disposizione per quell’anno: nel 2019 questo giorno è stato il 29 luglio. Dunque in circa sette mesi, abbiamo usato una quantità di prodotti naturali pari a quella che il pianeta rigenera in un anno. Il nostro deficit ecologico, pari a cinque mesi, provoca da una parte l’esaurimento delle risorse biologiche (pesci, alberi ecc.), e, dall’altra, l’accumulo di rifiuti e inquinamento, responsabile anche dell’effetto serra. Le attività umane stanno, dunque, cambiando l’ambiente del nostro pianeta in modo profondo e in alcuni casi irreversibile. Stiamo dunque superando, anzi abbiamo già superato i limiti delle capacità del pianeta di sostenere la popolazione umana e mettiamo a rischio la sopravvivenza di molte altre specie. L’attuale sistema produttivo industriale ed agricolo sta gravemente compromettendo anche la biodiversità del pianeta. Molte specie di animali e di piante sono ridotte a pochissimi esemplari e, quindi, in pericolo o, addirittura, in via di estinzione».
Tamino spiega ancora: «Le dimensioni e i consumi delle popolazioni umane sono variati moltissimo nel corso dei millenni, ma ogni volta che le risorse disponibili diventavano insufficienti, le popolazioni venivano ridimensionate, attraverso sistemi di autoregolazione. Fino a 12 mila anni fa la popolazione umana di raccoglitori e cacciatori, già presente in tutto il pianeta, per motivi di sostenibilità, cioè disponibilità di cibo, non superava probabilmente 1-2 milioni di abitanti, dato che ogni tribù doveva avere un ampio territorio di raccolta e di caccia e quel cibo costituiva il limite alla crescita. Si trattava di un sistema ben autoregolato e in equilibrio con il proprio ambiente; in qualche modo le società di allora potevano essere felici, perché utilizzavano quanto la natura offriva loro, senza un lavoro che occupava tutto il tempo di vita e quindi con tempi adeguati per le relazioni e per il riposo, come il mitico periodo dell’Eden».
«In seguito, in varie zone del pianeta, come nella mezzaluna fertile, in medio oriente, un importante cambiamento climatico, con riscaldamento globale, diffusione di animali e piante nelle regioni in cui il clima divenne più caldo e umido, favorì la cosiddetta rivoluzione neolitica, cioè l’agricoltura e l’allevamento. In tal modo i limiti della crescita demografica cambiarono perché, seminando piante e allevando animali, sullo stesso territorio si potevano sfamare fino a 1000 persone anziché 40-50, portando la popolazione ben oltre la dimensione di un paio di milioni. Tuttavia quando l’annata dava raccolti scarsi o quando la popolazione cresceva troppo, non restava altra via che la migrazione verso nuove terre da coltivare. Così pian piano questa nuova cultura si estese, a partire dall’Anatolia, a tutta l’Europa e, partendo da altre zone, a gran parte dell’Asia e parte dell’Africa. In tal modo la popolazione mondiale arrivò prima a decine, poi a centinaia di milioni di abitanti, già alcuni secoli avanti Cristo. Si stima che nell’Impero Romano, tra il 300 ed il 400 d.C., vivessero tra 60 e 120 milioni di abitanti; ma tale popolazione fu duramente colpita dalla cosiddetta Peste di Giustiniano, che portò a decine di milioni di decessi. In pratica quando, in base alle caratteristiche ambientali, climatiche, politiche e tecnologiche (capacità di produrre cibo), si superava il limite demografico per quel territorio, intervenivano fattori ambientali e sociali che riportavano la popolazione sotto il limite. Analogamente tra il ‘300 e il ‘600 scoppiarono varie epidemie, associate a carestie e guerre, come la peste decritta dal Manzoni ne “I promessi sposi”, e la popolazione europea subì periodiche drastiche riduzioni».
«Anche l’emigrazione ha costituito un elemento equilibratore dell’incremento demografico – prosegue il docente – La popolazione europea ha trovato, dopo la scoperta dell’America, nuove terre da coltivare, spazi da abitare, ricchezze da sfruttare, sottraendoli ai nativi che, oltre a essere massacrati, venivano debilitati da epidemie di malattie portate dai conquistatori. Oltre alle epidemie di peste già ricordate, nel corso della storia umana, anche recente, si sono succedute molte altre epidemie/pandemie, alcune collegate a guerre e carestie».
«Come abbiamo visto, epidemie e pandemie sono uno dei possibili meccanismi di controllo delle popolazioni, insieme a carestie, guerre e migrazioni: quanto più si superano i limiti della disponibilità di risorse del territorio, quanto più si altera l’ambiente di vita, tanto più facilmente uno o tutti insieme questi meccanismi entrano in funzione – dice ancora Tamino – La crescita della popolazione umana fino a più di 7 miliardi di abitanti, è stata resa possibile dalla Rivoluzione Industriale, che ha utilizzato enormi quantità di energia di origine fossile per attività impensabili in precedenza, non solo nell’industria, ma anche in agricoltura, con la cosiddetta Rivoluzione Verde. Tuttavia il cibo ottenuto potrebbe sfamare anche più di 7 miliardi di persone se venisse equamente distribuito e prodotto in modo sostenibile, ma una iniqua utilizzazione delle risorse, una crescente disparità tra pochi ricchi e molti poveri, una riduzione delle terre coltivabili a causa della cementificazione, la perdita di fertilità dovuta alle monocolture gestite chimicamente, l’inquinamento ambientale, l’alterazione del clima, danno origine a frequenti casi di carestie e di malnutrizione in ampie fasce della popolazione, soprattutto al sud del mondo».
«A partire dalla rivoluzione industriale abbiamo imposto un’economia lineare su un Pianeta il cui sistema produttivo funziona in modo ciclico. La conseguenza è una continua crescita dell’inquinamento e un cambiamento climatico sempre più minaccioso per il mantenimento degli ecosistemi e della biodiversità. Tutto ciò comporta la morte prematura di molti milioni di persone, ma anche un incremento di malattie cronico-degenerative, con conseguente indebolimento di tutta la popolazione, che risulta meno idonea a difendersi da altre malattie come quelle infettive. I cambiamenti climatici e la riduzione delle foreste con l’alterazione degli habitat di molte specie animali mettono sempre più facilmente a contatto animali selvatici con esseri umani, un contatto ancora più stretto quando questi animali vengono catturati per essere venduti in mercati affollati, rendendo più facile il salto di specie per i loro patogeni (si pensi al virus di ebola). Inoltre gli allevamenti, in particolare di polli e suini, con concentrazioni di molti capi in spazi ridotti, alimentati con mangimi contenenti antibiotici, favoriscono una forte pressione selettiva sui loro virus e batteri, che mutano velocemente verso ceppi e tipi più aggressivi anche verso la specie umana, come è avvenuto per l’influenza aviaria e suina. Un ulteriore contributo alla diffusione di agenti patogeni è dato poi dalla globalizzazione, che, grazie al frenetico trasferimento in ogni parte del pianeta di persone e merci, favorisce il passaggio da epidemie a pandemie».
La pandemia da Covid-19
«Dunque la nuova pandemia del virus Covid-19 era prevedibile e ampiamente prevista, se non proprio nei termini e nei tempi precisi, sicuramente come evento probabile – sostiene il docente – Già nel 1972, nel rapporto del MIT per il Club di Roma, dal titolo “I limiti dello sviluppo” si affermava che se la popolazione mondiale continuava a crescere al ritmo di quegli anni, la crescente richiesta di alimenti avrebbe impoverito la fertilità dei suoli, la crescente produzione di merci avrebbe fatto crescere l’inquinamento dell’ambiente, l’impoverimento delle riserve di risorse naturali (acqua, foreste, minerali, fonti di energia) avrebbe provocato conflitti per la loro conquista; malattie, epidemie, fame, conflitti avrebbero frenato la crescita della popolazione».
«Vi è poi il libro “Spillover” di David Quammen; egli stesso spiega in una recente intervista: “Nel 2012, quando il libro è stato pubblicato, ho previsto che si sarebbe verificata una pandemia causata da 1) un nuovo virus 2) con molta probabilità un coronavirus, perché i coronavirus si evolvono e si adattano rapidamente, 3) sarebbe stato trasmesso da un animale 4) verosimilmente un pipistrello 5) in una situazione in cui gli esseri umani entrano in stretto contatto con gli animali selvatici, come un mercato di animali vivi, 6) in un luogo come la Cina. Non ho previsto tutto questo perché sono una specie di veggente, ma perché ho ascoltato le parole di diversi esperti che avevano descritto fattori simili.”».
Come evitare pandemie future
«Il Covid-19 è una reazione (tra le altre) allo stato di stress che abbiamo causato al pianeta e quindi per prevenire nuovi eventi simili dobbiamo ridurre le alterazioni dell’ambiente, come la perdita di biodiversità, l’alterazione degli habitat e i cambiamenti climatici, favorendo processi produttivi industriali ed agricoli basati sull’economia circolare, sostenibili, con ricorso a fonti energetiche rinnovabili – sostiene Tamino – Già pochi mesi di blocco dei movimenti delle persone e di parziale riduzione di attività produttive hanno portato a un netto miglioramento della qualità dell’aria sia in Cina che in Italia (soprattutto nel Veneto): questo dato va colto non come futura necessità di impedire la circolazione delle persone e delle merci o di non produrre beni necessari, bensì di ripensare i trasporti e le produzioni industriali ed agricole, in particolare ridurre gli allevamenti animali: attualmente vi sono nel mondo 1,5 miliardi di bovini, 1 miliardo di suini, oltre 1,5 miliardi di ovini e caprini e circa 50 miliardi di volatili. La massa degli animali allevati è ben maggiore di quella di tutti gli esseri umani, con enormi sprechi di cibo, forte inquinamento e forte aumento di virus e batteri che possono fare il salto di specie. Inoltre l’abuso in zootecnia di antibiotici è responsabile anche dell’aumento di batteri resistenti agli antibiotici, vanificando uno degli strumenti a nostra difesa da queste infezioni. Oltre a nuove pandemie virali, il futuro potrebbe riservarci una diffusione pandemica di nuovi batteri resistenti ad ogni trattamento farmacologico».
In occasione del World Economic Forum di Davos, Fairwatch, Terra! e Cospe, nell’ambito della campagna Stop ISDS lanciano un nuovo rapporto. I dati raccolti dalle tre organizzazioni tracciano un quadro allarmante: cresce il numero delle imprese inquinanti che fanno causa ai governi contro le norme sul clima e l’ambiente. Teatro di queste controversie sono le corti arbitrali, dove regnano l’opacità e il conflitto di interessi. Nel 2020 le cause in tutto il mondo supereranno quota 1000. In occasione del World Economic Forum di Davos, Fairwatch, Terra! e Cospe lanciano“Processo al futuro”, un nuovo rapporto di denuncia che rivela la strategia delle compagnie fossili per bloccare o rallentare la transizione ecologica. Sempre più spesso, infatti, le grandi imprese attaccano la legislazione ambientale tramite l’arbitrato internazionale, un sistema di corti sovranazionali non trasparenti a disposizione del settore privato. Grazie a questo vero e proprio sistema giudiziario parallelo, le aziende possono chiedere compensazioni miliardarie agli Stati che promuovono leggi lesive dei loro profitti, anche se queste politiche vanno in direzione dell’interesse pubblico o della lotta al cambiamento climatico. In un processo senza giuria né pubblico, davanti a tre avvocati commerciali, i governi devono difendere moratorie sulle trivellazioni, piani di uscita dal carbone o dall’energia nucleare. E spesso perdono la causa o sono spinti a patteggiare per evitare risarcimenti troppo onerosi. Ma spesso il patteggiamento comporta il ritiro delle proposte di legge o l’indebolimento dei piani climatici, con grave danno per i cittadini e l’ambiente.
«L’esistenza di questi tribunali semi-segreti è possibile grazie a migliaia di accordi sul commercio e gli investimenti che gli Stati hanno firmato in questi anni – spiega Monica Di Sisto, vice presidente di Fairwatch e portavoce della Campagna Stop TTIP/CETA – Con questa nuova indagine vogliamo dimostrare che l’agenda commerciale italiana ed Europea oggi è incompatibile con il Green New Deal proposto nelle scorse settimane. Bisogna invertire le priorità fra business e i diritti umani, e i signori di Davos devono essere fermati».La clausola di protezione degli investitori (ISDS – Investor-to-State Dispute Settlement) è infatti un punto cardine della maggior parte dei 3 mila trattati commerciali in vigore fra due o più Paesi. Gli ultimi dati disponibili – anche se molte cause rimangono secretate – raccontano che le imprese l’hanno utilizzata 983 volte per trascinare alla sbarra governi “colpevoli” di proporre politiche sgradite. Un numero che nel 2020, stando ai trend attuali, supererà quasi certamente quota 1000. Ad oggi, sono 322 le cause ancora in attesa di sentenza. Delle 677 passate in giudicato, ben 430 hanno visto un successo totale o parziale delle aziende (191 risolte in favore dell’investitore, 139 chiuse con un patteggiamento), 230 hanno visto scagionare lo Stato, 73 sono state sospese e 14 chiuse senza l’attribuzione di un risarcimento. Nella gran parte dei casi, il Paese denunciato (l’ISDS è un sistema a senso unico, in base al quale uno Stato può solo comparire come imputato, mai nelle vesti dell’accusa) ha pagato almeno le spese legali, che mediamente ammontano a 8 milioni di euro ma possono lievitare fino a 30. Organizzazioni della società civile e movimenti in tutto il mondo si oppongono all’ISDS perché, soprattutto negli ultimi venticinque anni, ha determinato un numero crescente di cause pretestuose, con imprese che hanno preso di mira leggi sulla tutela del lavoro, dei servizi pubblici e dell’ambiente.
«È proprio la legislazione ambientale a trovarsi oggi sotto attacco diretto delle multinazionali del fossile – aggiunge Francesco Panié, ricercatore dell’associazione Terra! tra gli autori del rapporto – Mentre l’Italia e l’Unione Europea si trovano a dover fronteggiare gli effetti del cambiamento climatico, i giganti dell’inquinamento remano contro, usando i tribunali arbitrali come clava per bloccare o rallentare l’azione per il clima».
In particolare, il Trattato sulla Carta dell’Energia è il più invocato dagli investitori per avviare contenziosi contro i governi: ben 128 cause arbitrali sono state mosse impugnando questo accordo. Il rapporto “Processo al futuro” elenca una serie di casi emblematici in cui diversi Paesi tra cui Italia, Francia, Olanda e Svezia sono stati bersaglio di richieste di risarcimento avanzate da compagnie energetiche dei settori di carbone, gas e petrolio. In particolare, l’Italia potrebbe trovarsi nel 2020 a dover pagare fino a 350 milioni di dollari alla Rokchopper, compagnia petrolifera britannica che nel 2017 ha fatto ricorso in arbitrato contro l’introduzione del divieto di trivellazioni entro le 12 miglia marine.
«Di fronte a questo scandalo l’Unione europea non sta facendo abbastanza – dichiara Alberto Zoratti, ricercatore del Cospe tra gli autori del rapporto – Invece di eliminare l’ISDS dai trattati sugli investimenti, sta negoziando a Vienna in questi giorni una proposta per trasformarlo in una Corte internazionale permanente che diventerebbe a tutti gli effetti un tribunale mondiale per le grandi imprese. Questo non è accettabile».
Questo processo, che si svolge nell’ambito della Commissione ONU per il diritto commerciale internazionale (UNCITRAL), va in direzione opposta a quanto chiedono centinaia di esperti, organizzazioni e giuristi.
«Bisogna mettere fine al sistema dell’ISDS ed eliminarlo dagli accordi commerciali già conclusi – dichiara Nicoletta Dentico, di Society for International Development e tra gli autori del rapporto – Nel frattempo, l’Unione Europea deve lavorare per concludere un ambizioso trattato vincolante dell’ONU su imprese e diritti umani, che obblighi il settore privato a rispondere delle violazioni perpetrate lungo la filiera e aiuti le comunità colpite da attività impattanti ad ottenere giustizia. Finora Bruxelles ha usato due pesi e due misure, supportando strumenti come l’ISDS, che rafforzano il potere delle corporation, e contrastando l’accordo a difesa dei diritti e dell’ambiente. Senza un’inversione di priorità, la crisi ecologica e sociale non potrà che farsi più acuta». Fonte: https://www.italiachecambia.org/2020/01/compagnie-fossili-denunciano-stati-bloccare-transizione-ecologica/?utm_source=newsletter&utm_medium=email
Negli spazi della Fondazione Pistoletto artisti e professionisti si sono incontrati per comprendere come i produttori locali si possano attrezzare in vista dei cambiamenti climatici, prendendo come spunto l’area agricola del Biellese. Un workshop multidisciplinare che attinge alla ricerca, alla letteratura e alla teoria della psicologia ambientale e del design urbano per far progredire la comprensione di ciò che rende efficaci gli spazi di aggregazione pubblica: sono questi, in sintesi, gli obiettivi e le peculiarità dell’iniziativa formativa promossa da UNIDEE e Illycaffè S.p.A., nata per celebrare i vent’anni di collaborazione tra le due realtà. Il riferimento è a Climavore: Losing Cultures, che si rivolge ad artisti, architetti e designer con la finalità di indagare nuove forme di produzione e consumo di cibo in tempi di crisi climatica. Il tema centrale non è casuale: il modulo è guidato dal duo artistico Cooking Sections (composto da Daniel Fernández Pascual e Alon Schwabe), che porta avanti da anni una ricerca su come il cambiamento climatico stia ridisegnando le frontiere di territori legati a specifiche produzioni agricole in tutta Europa. Cosa si mangia in un periodo di siccità? Come si innaffia senza acqua? In che modo i pesci si sono trasformati da cibo a fonte di inquinamento? Queste sono solo alcune delle questioni affrontate durante il workshop.
“Diversamente da un onnivoro, un carnivoro, un vegetariano o un vegano – si legge in un estratto dell’outline del modulo – Climavore utilizza le diete come strumento per indagare le scelte alimentari umane durante l’attuale cambiamento climatico. Questo implica trovare nuovi modi per adattare i nostri modelli di produzione e consumo alimentare, nonché i nostri immaginari culturali, a trasformazioni ambientali sempre più evidenti indotte dall’uomo. Utilizzando il caso della Regione Piemonte, il workshop verterà su come i cambiamenti climatici stiano sfidando la correlazione tra “origine” e “qualità” in tutta Europa”.
Il workshop ha previsto una serie di incontri e visite in linea coi contenuti del modulo. In quest’ottica, mentori e partecipanti sono stati alla “Tenuta Margherita”, dove Andrea Calciati (UNIDEE Digital Comunication Consultant) ha illustrato loro come una tenuta agricola attiva dal 1904, per far fronte ai cambiamenti globali tra clima, mercati e territorio, abbia scelto di puntare alla qualità e alla cura del territorio, invece che alla quantità; un processo che avviene anche grazie all’utilizzo di macchinari degli anni ’40 e ’50.
Successivamente il gruppo è stato al mercatino settimanale di Let Eat Bi e, per l’occasione, Armona Pistoletto ha illustrato ai presenti le peculiarità dell’associazione che presiede. L’ultimo talk ha visto come relatore il viticoltore Daniele Garella (comunicazione web di Cittadellarte), che ha focalizzato il suo incontro sul vino piemontese e biellese, con un focus sulla sua produzione e sull’impatto che il cambiamento climatico ha sul territorio.
La scienza diventa arte per raccontare a tutti il cambiamento climatico. Dopo aver raccolto i dati sulle temperature negli ultimi 100 anni, il climatologo inglese Ed Hawkins ha deciso di tradurre la gravità dell’emergenza in un’immagine universalmente comprensibile. Le sue Warming Stripes dimostrano in modo immediato l’entità del riscaldamento globale.
Ed Hawkins, climatologo del National Centre for Atmospheric Science (NCAS) dell’Università di Reading in Gran Bretagna, ha avuto un’idea geniale: raccontare in modo immediato, bello e colorato il cambiamento climatico. Le sue Warming Stripes parlano a tutti, grandi e piccoli, in tutte le lingue, dicono che il cambiamento climatico è realtà. E invitano tutti a condividerle.
Ed Hawkins, come molti scienziati, si scontra spesso con i “si dice” o, peggio, con le voci che negano l’esistenza della questione ambientale. Sa anche molto bene che non è semplice districarsi in un materia è tecnica: la scienza non sempre parla il linguaggio di tutti i giorni. Ha voluto così, scrive sul sito showyourstripes.info, creare qualcosa che non richieda una preparazione scientifica per essere inteso e che sia il più semplice possibile, “cristallino”. Ha reso visibile il cambiamento climatico: è un problema di tutti, tutti devono vederlo ma devono anche aver voglia di guardare. Con le Warming stripes la bellezza della scienza diventa quasi manifestazione artistica. Sul sito showyourstripes.info ciascuno può liberamente scaricare ed utilizzare i grafici, scegliendo il Paese.
Le strisce vanno dal blu al rosso a seconda che la temperatura sia minore o maggiore della media e rappresentano i cambiamenti nelle temperature degli ultimi 100 anni. Ogni riga verticale è un anno, dal 1901 al 2018 (per UK, USA, Germania e Svizzera si inizia da fine ‘800).
Per la maggior parte dei Paesi, i dati vengono da Berkeley earth, un gruppo indipendente di scienziati che opera su un data base molto ampio di dati relativi alle temperature terrestri. Ed Hawkins per costruire i grafici ha raccolto i dati sulle temperature per ogni Paese, fra il 1901 e il 2018, li ha comparati alla media dei valori fra il 1971 e 2000, e poi ha attribuito un colore a seconda della diminuzione o aumento rispetto alla media.
Vietare i pesticidi chimici, trasformare l’agricoltura e salvare la natura. A tal fine è stata lanciata ieri una maxi campagna europea promossa da una coalizione di 90 organizzazioni da 17 diversi paesi europei, con il supporto delle associazioni degli agricoltori biologici. Parte oggi una nuova Iniziativa dei Cittadini Europei finalizzata ad eliminare gradualmente i pesticidi sintetici entro il 2035, sostenere gli agricoltori e salvare la natura. Se raccoglierà un milione di firme entro Settembre 2020, la Commissione europea e il Parlamento saranno tenuti a considerare la possibilità di trasformare le richieste della campagna in legge [1]. La campagna è promossa da una coalizione di 90 organizzazioni da 17 diversi paesi europei, con il supporto delle associazioni degli agricoltori biologici. Numerosi appelli di scienziati da ogni parte del mondo richiedono la messa di atto di un urgente “cambiamento trasformativo” per fermare il collasso della natura. Un quarto degli animali selvatici europei è gravemente a rischio di estinzione, mentre la metà dei siti naturali è in condizioni ecologicamente sfavorevoli e i servizi ecosistemici si stanno deteriorando [2].
Nel frattempo, la sussistenza di milioni di agricoltori viene schiacciata da prezzi iniqui, dalla mancanza di sostegno politico e dall’operato delle grandi imprese multinazionali. Quattro milioni di piccole aziende agricole sono scomparse nell’UE tra il 2005 e il 2016 [3].
La ICE invita la Commissione europea a presentare proposte legislative finalizzate a:
Eliminare gradualmente i pesticidi di sintesi entro il 2035: Eliminare gradualmente i pesticidi sintetici nell’agricoltura europea dell’80% entro il 2030, a cominciare dai più pericolosi, perché diventi al 100% priva di pesticidi entro il 2035.
Ripristinare la biodiversità: Ripristinare gli ecosistemi naturali nelle zone agricole affinché l’agricoltura diventi un vettore di recupero della biodiversità.
Sostenere gli agricoltori nella transizione: Riformare l’agricoltura dando priorità all’agricoltura su piccola scala, diversificata e sostenibile, sostenendo un rapido aumento delle pratiche agroecologiche e biologiche e consentendo la formazione e la ricerca indipendente degli agricoltori in materia di agricoltura senza pesticidi e OGM.
Ruchi Shroff, direttrice di Navdanya International ha dichiarato: «Circa l’84% delle colture in Europa dipende direttamente o indirettamente dalle api e da altri insetti impollinatori. Il loro declino è una realtà comprovata che avrà conseguenze molto estese sugli ecosistemi e loro servizi, inclusa l’accelerazione della scomparsa di molte altre specie animali e vegetali. Questa ICE è un significativo strumento democratico nelle nostre mani per spingere la politica europea a sostenere la transizioni verso sistemi agroalimentari ecologici, per difendere la biodiversità, la salute e il benessere di cittadini e agricoltori».
Helmut Burtscher, esperto di pesticidi e prodotti chimici di Global 2000/Friends of the Earth Austria ha dichiarato: «Solo un’agricoltura sostenibile e priva di pesticidi può garantire l’approvvigionamento alimentare delle generazioni presenti e future e fornire risposte alle crescenti sfide poste dal cambiamento climatico. Inoltre, contribuisce alla conservazione della biodiversità e riduce le emissioni di gas serra. Una politica agricola europea responsabile deve quindi promuovere l’ulteriore sviluppo di metodi agroecologici e sostenere gli agricoltori nella loro transizione verso una produzione senza pesticidi».
Veronika Feicht dell’Istituto per l’ambiente di Monaco di Baviera ha dichiarato: «Stiamo portando la lotta contro i pesticidi sintetici a livello europeo, dando ai cittadini di tutta Europa che chiedono un nuovo sistema agricolo la possibilità di esprimersi con una sola voce. I cittadini reclamano un sistema che non danneggi la biodiversità e gli ecosistemi, che non metta a dura prova la salute dei consumatori, ma che invece garantisca il sostentamento per api e agricoltori ed sia più sano per le persone. Con la nostra iniziativa ci impegniamo a fare di questo tipo di agricoltura una realtà in tutta Europa».
François Veillerette, direttore di Générations Futures, ha dichiarato: «Invitiamo i cittadini europei a sostenere massivamente questa iniziativa per una graduale rapida eliminazione di tutti i pesticidi sintetici nell’UE. Speriamo che milioni di persone si uniscano presto alle nostre richieste di vietare i pesticidi, trasformare l’agricoltura, sostenere gli agricoltori nella transizione e salvare la biodiversità».
La campagna è gestita da un’alleanza intersettoriale di organizzazioni della società civile che si occupano di ambiente, salute, agricoltura e apicoltura. Tra molte altre, le organizzazioni promotrici comprendono le reti europee Friends of the Earth Europe e Pesticide Action Network (PAN), nonché l’Istituto per l’ambiente di Monaco di Baviera, la fondazione Aurelia (Germania), Générations Futures (Francia) e GLOBAL 2000/Friends of the Earth Austria.
[2] Le api e gli altri impollinatori sono indispensabili per preservare i nostri ecosistemi e la biodiversità. Fino a un terzo della nostra produzione alimentare e due terzi della frutta e della verdura che consumiamo quotidianamente dipendono dall’impollinazione da parte delle api e di altri insetti. Tuttavia, la loro stessa esistenza è minacciata dalla costante contaminazione da pesticidi e dalla perdita del loro habitat a causa dell’agricoltura industriale. (Media Release: Nature’s Dangerous Decline ‘Unprecedented’; Species Extinction Rates ‘Accelerating’).
[3] Il rapido declino delle piccole aziende agricole e della fauna selvatica è profondamente radicato nel nostro attuale modello di produzione agroalimentare che si basa fortemente sull’agricoltura monoculturale su larga scala e sull’uso di pesticidi sintetici. A peggiorare le cose, l’UE finanzia attivamente questa forma di agricoltura attraverso la sua attuale agenda agropolitica e il suo sistema di sovvenzioni che favorisce la produzione di massa rispetto ad un’agricoltura su piccola scala ed ecologica. (More farmers better food)