Emilio Leo ha ripreso l’antica fabbrica di famiglia datata 1873 e le ha dato una forma nuova, ispirandosi a modelli imprenditoriali virtuosi, produzioni votati alla durevolezza e alla qualità e condizioni che garantiscano il benessere di chi lavora. È ri-nato così il Lanificio Leo, un’azienda che lavora la lana nel Reventino, nel cuore della Calabria.
Catanzaro, Calabria – Tradizione e innovazione: quante volte sentiamo nominare questo binomio per raccontare delle realtà virtuose? Ma quante volte questo accostamento è reale e autentico o solo apparenza? Ecco, se c’è una domanda a cui troviamo risposta in questo viaggio nella Calabria che Cambia è questa: il Lanificio Leo è la rappresentazione concreta di cosa può venire fuori quando antico e nuovo si mescolano.
Per arrivarci, io e Daniel, abbiamo percorso le strade di montagna del Reventino piene di verde, giallo e arancione fino ad arrivare a Soveria Mannelli, dove il lanificio ha la sua sede. Qui incontriamo Emilio Leo, creative director nonché colui che ha ridato vita alla fabbrica dopo tanti anni di inattività: «Io ero l’ultimo che doveva occuparsi di questa storia: sono stato mandato a studiare proprio per sganciarmi da questo tipo di attività e paradossalmente aver studiato architettura mi ha dato strumenti per guardare questo posto con occhi diversi», ci racconta.
Il Lanificio Leo infatti è l’antica fabbrica di famiglia, la prima a produrre lana in Calabria, fondata nel 1873 dal bisnonno di Emilio. Dopo un lungo periodo di benessere – «era la sirena del lanificio a scandire la vita in paese» –, negli anni ‘70 arriva il tracollo: «Da una parte ci sono stati un cambio generazionale dovuto al boom economico e l’ingresso massivo di merci prodotte altrove e dall’altro la decisione governativa di cambiare completamente le razze da lana in Italia», spiega Emilio.
«Si è deciso infatti di investire principalmente sulla pecora sarda, che produce più latte e la cui lana però oggi è un rifiuto speciale». La lana con cui erano (e sono fatti) i prodotti del Lanificio Leo infatti viene dalle pecore merinos, di cui una volta la Sila era piena. Lentamente la fabbrica chiude, ma il padre di Emilio continua a mantenere in vita i macchinari per circa vent’anni. Una vera e propria “resistenza”, alla quale seguirà la decisione di Emilio di ridare vita a quel luogo di famiglia. Inizia tutto con delle sperimentazioni fra la fine degli anni novanta e il 2008: «Qui abbiamo organizzato Dinamismi Museali, un festival internazionale, durante il quale per tre notti d’estate la fabbrica apriva le porte a una serie di contenuti inediti ed eversivi: ad esempio qui abbiamo fatto concerti di musica elettronica e spettacoli di performing art con gruppi che venivano da Berlino e da Stoccolma».
Questa lunga stagione è servita come incubatore di idee e pratiche per far sì che l’innovazione potesse accordarsi bene con la tradizione. Come ci racconta Emilio, «questo è stato il meccanismo per riscrivere il software su un hardware che c’era già. La mia sfida era dimostrare che l’intelligenza che serviva non era cambiare macchine e capannoni e poi non sapere cosa fare, ma usare le stesse cose con un modo di fare completamente diverso e più intelligente». E lo fa custodendo e salvando saperi che altrimenti si sarebbero persi, senza però cristallizzarli in una forma antica non più valida e sostenibile di per sé.
Dal Lanificio Leo infatti escono coperte, plaid, cappelli, poncho: tutti prodotti convenzionali, che però sono durevoli, di alta qualità e soprattutto con un significato che si fonda sul modello di produzione: «Io credo che poter riattivare il meccanismo della produzione ha tutta una serie di vantaggi: per noi produrre significa poter dare più opportunità di lavoro e quindi creare presidi di dignità», aggiunge Emilio.
«Siamo una piccola realtà aziendale, dove la routine non è alienante, in cui le persone che lavorano sono co-creatrici del prodotto: ciò che è immaginato dai designer viene creato fattivamente poi dalle maestranze». Ed è portato avanti in una filiera che è molto legata al territorio, tranne che per il reperimento della lana. Anche le scelte sulla distribuzione, ad esempio, fanno tesoro di questi concetti: il Lanificio vende in Italia e all’estero, ma cerca sempre di scegliere dei punti di distribuzione significativi, come accade per il flagship nel centro di Cosenza, accanto al caffè Renzelli, un luogo storico e che pure è meno conveniente, ad esempio, di un centro commerciale.
Mentre Emilio ci racconta questa storia e ci mostra gli antichi macchinari della fabbrica, è difficile non vedere la passione con cui ne parla. È una storia affascinante anche per chi, come noi, la vede dall’esterno. «La tessitura è un po’ assimilabile al concetto matematico, grazie al telaio di legno che, di fatto, è la prima macchina automatica della storia nata già 1400 anni prima di Gutenberg», continua Emilio.
«È molto affascinante pensare che sia una macchina che attraverso una certa programmazione può gestire in modo diverso ciò che prima veniva fatto a mano: il risultato che noi vediamo nasce da qualcosa di strettamente scientifico. E questo la avvicina alla matematica e alla musica».
Sembra di sentire tornare ancora una volta il termine innovazione, che è già una base intrinseca di questi strumenti: il Lanificio Leo non ha fatto altro che seguirne la traccia, trarre ispirazione e creare qualcosa di nuovo e antico allo stesso tempo.
La storia di una donna che da anni cerca di fare rete, impresa e innovazione in un territorio storicamente ostico, anche se dalle grandi potenzialità. È quella di Paola Granata, la cui azienda si trova sull’altopiano della Sila cosentina e coltiva in modo etico e rispettoso della terra, seguendo due direzioni: l’innovazione e la multifunzionalità.
Cosenza, Calabria – Quella di Paola Granata è una storia legata alla terra, alla Calabria e alle donne. Paola Granata è proprietaria, assieme al fratello e la nipote, dell’azienda agricola di famiglia, che si trova a Spezzano Sila – sui monti della Sila cosentina a 1200 metri – ed è impegnata in prima linea come donna che lavora nel mondo dell’agricoltura e che si impegna assieme ad altre donne. Gestisce l’azienda dal 2003, anche se ha sempre avuto una vita legata alla campagna: «Quando eravamo piccoli venivamo qui alcuni mesi l’anno. Era un posto difficile, isolato, ma lo ricordo in modo positivo: eravamo liberi, andavamo in giro, giocavamo con la natura, guardavamo le stelle».
Adesso l’azienda è la vita quotidiana di Paola e di suo fratello, anche se non è rimasta la stessa di tanti anni fa: «Qui cerchiamo di fare innovazione e multifunzionalità», spiega Paola raccontando come solitamente quei terreni siano sempre stati dedicati alla patata, coltura tipica della Sila. Ma ora «abbiamo voluto diversificar, convinti che le colture di tradizione, quali ad esempio i grani e cereali comuni, non siano più sostenibili ed economicamente vantaggiosi».
Si è deciso allora di impiantare una vigna d’alta quota a bacca bianca: «A distanza di molti anni, lavorando con costanza e convinzione, stiamo raggiungendo ottimi risultati. Ci occupiamo anche della coltivazione di grani antichi e cereali minori, puntando sulla loro trasformazione; produciamo farine di vario tipo poco raffinate avendo cura di macinarle in un mulino a pietra. Abbiamo creato un nostro marchio e ci occupiamo anche di distribuirla in negozi specializzati e attraverso la vendita online».
Cambiamenti talmente inusuali in questo territorio che all’inizio Paola Granata e suo fratello erano guardati con diffidenza e con sospetto da chi ha sempre lavorato in modo standard la terra di quelle zone, mentre ora c’è interesse da parte di chi vuole provare a sperimentare: «Io penso che stimolare l’innovazione in un territorio fa sempre bene: so che grazie al nostro esempio molti si stanno avvicinando anche a queste colture».
In azienda si lavorano i cereali, piantando soprattutto quelli meno coltivati come la segale, il verna e altri, utilizzando semi antichi, alternandoli con colture rispettose dell’ambiente e puntando sempre più al mantenimento della biodiversità. Paola ha infatti aderito al regime del biologico e punta alla certificazione dei propri prodotti. In questo modo, riesce a rendere l’azienda multifunzionale e allo stesso tempo a portare innovazione su un territorio più ampio, contaminando grazie all’esempio. L’innovazione va intesa anche in senso più ampio dello stretto ambito agricolo: «Abbiamo impiantato diversi ettari di alberi da legno pregiato per diversificare e arricchire le essenze già presenti nel nostro piccolo bosco, con ciliegi e frassino, alternati a querciole e cerro».
Tutto questo lavoro è collegato al suo impegno all’interno di Confagricoltura e in particolare di Confagricoltura Donna Calabria, di cui per tanti anni ha fatto parte, lavorando con un team di donne e facendo rete fra le aziende. Oggi Paola Granata è presidente di Confagricoltura Cosenza e ricorda che la sua esperienza con le donne «è stata appassionante e piena di fervore: ho trovato un modo di relazionarmi diverso rispetto alla stessa Confagricoltura, nella quale le donne sono ancora poco presenti».
A tutto questo si aggiungono le difficoltà dell’essere donne, con a carico la gestione della vita domestica e familiare: «Le donne solitamente hanno meno tempo degli uomini, avendo anche la famiglia di cui occuparsi: questo influisce sulle loro possibilità di dedicarsi all’azienda. Se contiamo che poi qui le difficoltà sono numerose, il tempo diminuisce drasticamente».
Non è tutto rose e fiori in Calabria. Paola lo ammette – «bisogna essere un po’ folli per essere agricoltori e con una visione positiva», dice – e non nega le difficoltà: la burocrazia che rallenta e ostacola la vita degli agricoltori, le infrastrutture che mancano e che rendono più lente la distribuzione e le vendite, le normative che dovrebbero sostenere questo tipo di lavoro, la perenne lotta per il ribasso dei prezzi delle produzioni . Per questo emerge ancora più forte la necessità di fare rete: «È fondamentale fare rete sui territori mettendo insieme le aziende: un piccolo passo già abbiamo iniziato a farlo, ma bisogna continuare», spiega dicendo che è uno dei suoi obiettivi come presidente della Confagricoltura provinciale. Per quanto riguarda l’azienda in sé, sicuramente c’è l’intenzione di «farla crescere, continuando nella ricerca e realizzazione di produzioni di pregio, magari allargando lo sguardo verso l’accoglienza, il territorio, la riconsiderazione della montagna.»
La direzione dei prossimi passi è molto chiara. Così come quella più ampia dell’Italia che cambia: «Per me Italia che cambia significa farsi carico in modo responsabile ed etico delle problematiche agricole, semplicemente perché l’agricoltura è dare da mangiare al mondo».
Due giovani, uno svizzero e uno spagnolo, hanno unito i loro cammini in un percorso comune che li ha portati a Badolato, in Calabria. Qui hanno lanciato un progetto in permacultura che punta alla rigenerazione del suolo e alla creazione di un modello incentrato sulla condivisione, sulla sostenibilità e sull’autosufficienza.
Catanzaro, Calabria – È difficile riassumere in poche righe la ricchezza trasmessa da Chris e Mario, due giovani europei interessati alla permacultura che hanno deciso di cambiare vita e portare avanti il loro progetto di rigenerazione del suolo a Badolato, un paesino di circa 3000 abitanti sulle pendici della costa ionica in Calabria. «Non abbiamo ancora molto da far vedere, il nostro progetto è soltanto all’inizio», mi avevano detto prima che li incontrassi. Eppure non mi ero lasciata fermare da queste parole. Già tante volte mi ero chiesta come mai uno svizzero (Chris) e uno spagnolo (Mario) dovrebbero decidere di venire a vivere qui in Calabria, in un piccolo paese, e intuivo la complessità di questa scelta. Così, ancora una volta, decido di macinare qualche chilometro per andare a trovarli. Il casolare in cui vivono Chris e Mario è nella campagna badolatese, a metà fra la montagna e il mare. È un’oasi di verde, azzurro e tante sfumature di giallo, molto intense in un periodo caldo come l’agosto 2021.
Il loro progetto è frutto di tanti anni di viaggio e cambiamento interiore: Chris ha lavorato per molto tempo nel mondo del cinema e Mario in quello del marketing, prima di decidere che questo tipo di vita non faceva per loro. Inizia una fase di ricerca legata al mondo della permacultura e a un tipo di vita che fosse in connessione con loro stessi, con gli altri e con la natura. Durante questa fase, i loro cammini si sono incrociati nel 2016 in Portogallo in occasione di un corso e i due hanno capito di essere destinati a rimanere connessi nel tempo, anche se si trovano in diverse parti d’Europa.
«Cercavo un posto in cui applicare i principi di permacultura che stavo studiando e costruire un progetto di vita, finché non sono arrivato qui a Badolato nel 2018 perché la mia ex ragazza partecipava a un progetto di home school e ho visto tutta la ricchezza e la biodiversità di questa terra», racconta Chris, che coinvolge anche Mario in questa possibilità. La ricchezza della terra, il calore degli abitanti del paese, la possibilità di una vita più sana e a contatto con la natura e la bellezza del borgo li convincono a compiere il passo definitivo: nel marzo 2020 si trasferiscono così in un casolare che decidono di acquistare con i loro risparmi. E così cominciano i lavori, che mirano in primo luogo a rigenerare il suolo e la terra. È questo il punto focale del loro impegno, nella convinzione che «non esistono terreni poveri, ma piuttosto una mancanza di vita nel suolo». Si dedicano molto allo studio del terreno e istituiscono il primo laboratorio di vita del suolo in Calabria, grazie al quale possono valutare gli ecosistemi presenti nel terreno (così come nei compost e negli stagni) e quindi anche la loro capacità di dare vita.
«Nel corso delle mie ricerche mi chiedevo quale fosse l’elemento che fa davvero la differenza nella vita e alla fine mi sono detto: è il suolo, la terra. Perché quando la terra è in salute, anche l’essere umano che ci vive sta bene», racconta Mario.
In connessione a questo studio, iniziano a lavorare alla creazione di compost, proprio nell’ottica di nutrire la terra e darle la capacità – a lungo andare – di riprendersi le sostanze vitali che anni di agricoltura convenzionale le hanno tolto. Tramite un processo di compostaggio a caldo creano compost solido biologicamente attivo, composto di tre parti (letame, materiale carbonioso e materiale ricco azoto come le foglie verdi) ed estremamente nutriente per il terreno. Inoltre, utilizzano il compost solido per creare compost liquido per due scopi: in un caso lo utilizzano così com’è per irrigare in modo più nutriente il terreno; in altri lo mescolano con delle sostante nutrienti al fine di creare il “té di compost”, cioè un fungicida completamente naturale che può poi essere spruzzato su alberi e piante, formando una patina protettiva. La rigenerazione del suolo è quindi il filo conduttore di ogni lavoro e nel futuro Chris e Mario sognano di costruire un impianto di compostaggio per lavorare meglio e con quantità più grandi. Ma già ci sono i primi frutti di questo impegno, dal momento che nel giro di un anno e mezzo sono riusciti a ripristinare un piccolo orto (la cui terra non era più fertile) e a gestire l’uliveto, producendo olio. L’attenzione per il suolo poi, si ritrova anche in altri progetti già in campo, sempre ispirati alla permacultura: uno di questi, ad esempio, è il bosco alimentare, che si trova in un piccolo avvallamento del terreno e che, mi spiegano, è «una piantagione diversificata di piante commestibili che cerca di imitare gli ecosistemi e i modelli trovati in natura». Annone, arance, pesche, bergamotti sono solo alcuni dei frutti che crescono in questo piccolo giardino dell’Eden che, una volta stabile, sarà resistente in modo naturale e a sua volta nutrimento per la terra che lo ospita.
«Il nostro obiettivo nel lungo termine è costruire una comunità in questo spazio», spiega Chris. «Qui ognuno porta un pezzetto, che però è in sincronia con il tutto». Anche chi viene per un breve periodo: in questo anno e mezzo, infatti, già molte persone sono passate di qui, grazie alla piattaforma workaway o anche semplicemente tramite il passaparola.
E così nel corso del tempo Chris, Mario e gli altri volontari hanno attrezzato l’area in modo da poter accogliere diverse persone: c’è un’area camping, dove ci sono docce fatte con canne di bambù, un’area comune e una compost toilet, come a rimarcare il concetto che non siamo separati dalla terra su cui poggiamo i piedi ma che, anzi, contribuiamo noi stessi a sostenerla, come insegna la permacultura. Sempre grazie ai volontari, sono riusciti a costruire due cisterne che raccolgono l’acqua piovana: questo garantisce un’autosufficienza di circa sei mesi all’anno.
Possiamo quindi affermare che quella che vi abbiamo appena raccontato non è affatto la storia di chi decide di scappare dal mondo perché è brutto e cattivo e quindi isolarsi, ma è anzi quella che celebra chi ha voglia di cercare la bellezza che già c’è e condividerla con altre persone. Per questo Mario e Chris hanno continuato a ripetermi fino all’ultimo che «ci sono ancora tante cose da fare», perché di certo non tutto si è concluso con la loro sistemazione a Badolato. «Sentiamo che stiamo crescendo molto e che c’è un processo che segue tanti impulsi diversi, è parte di un percorso», aggiunge Chris e conlcude: «Siamo ancora in viaggio».
Antonio Scaglione è un liutaio di Acri, in Calabria, nel cuore della Sila. È stato un allievo di Vincenzo, uno dei maestri liutai appartenuto alla famiglia De Bonis, che dal 1600 crea strumenti musicali rispettando l’antica tradizione. Vi raccontiamo la sua storia personale, fatta di dedizione e passione per una tradizione unica, che rischia oggi di perdersi.
Sulla particolare emozione che si prova nell’entrare in una bottega artigiana sono state scritte centinaia e centinaia di parole, talmente tante che spesso si rischia la retorica. Eppure queste sensazioni sono vere. Si tratta di quel misto di romanticismo e nostalgia che anche noi abbiamo provato entrando nel laboratorio del liutaio Antonio Scaglione, in quella terra che durante il nostro viaggio si è rivelata a noi piena di sorprese e di storie curiose: la Calabria. Siamo ad Acri, nel cuore della Sila: la nostra guida del posto e amica Cristiana Smurra ci introduce Scaglione come uno degli allievi del maestro liutaio Vincenzo de Bonis, scomparso nel 2013. La famiglia De Bonis è una vera e propria dinastia di liutai, originaria di Bisignano, a circa quindici chilometri da Acri. «Dal 1600 costruiscono strumenti musicali senza interruzione – ci spiega Scaglione – rimanendo assolutamente fedeli ai sistemi costruttivi classici di allora». Una tradizione caratterizzata dalla fabbricazione degli strumenti musicali a mano, dall’utilizzo di solo legno e di materiali naturali per la costruzione.
Fin dal nostro ingresso nel suo laboratorio, Antonio è un fiume in piena. Ci mostra ogni angolo del suo mondo, fatto di colle naturali, resine, stufa a legna per modellare le forme degli strumenti musicali e tutti gli attrezzi necessari a lavorare e modellare lo strumento nascente.
«La passione per la falegnameria ce l’ho da quando sono bambino – ci racconta Antonio – frequentavo una bottega di un falegname che era vicino alla casa dove vivevo. Da sempre sono anche uno strimpellatore e un appassionato di chitarra, ma per lavoro ho cominciato facendo altro altro: insieme a mio padro realizzavamo pavimenti e rivestimenti per le case».
Nel 1994 la ‘svolta’: la Regione Calabria, insieme alla Comunità Europea e al Comune di Bisignano, organizzò un corso per la costruzione della chitarra classica, e la cattedra fu affidata proprio a Vincenzo de Bonis. In questo corso, finito nel 1996, Antonio apprese direttamente da De Bonis i segreti e le tecniche per costruire lo strumento. Da allora, la sua vita è cambiata completamente: «Nel 1997 ho iniziato a lavorare come liutaio. Io conoscevo già il maestro De Bonis, ma dopo il corso è nata una vera e propria amicizia, che mi ha permesso di frequentare la sua famiglia e il suo laboratorio negli anni successivi».
Fu così che Scaglione ha gradualmente acquisito le necessarie abilità per costruire altri strumenti musicali, oltre la chitarra ora costruisce strumenti musicali ad hoc per musicisti che glielo chiedono, e nel video che vi presentiamo possiamo ammirare una parte della sua sapienza e il suono di alcune delle sue creazioni.
«La grande qualità che ha reso inimitabile la famiglia De Bonis nella costruzione degli strumenti è quella di aver sviluppato un metodo unico. La tecnica è la stessa che si utilizzava nel seicento, è il tipico metodo italiano. Esistono diversi costruttori di chitarre in Italia, ma molti oggi utilizzano il metodo spagnolo, un’altra modalità di lavorare lo strumento. Alcuni inoltre utilizzano anche materiali sintetici per la costruzione degli strumenti. Esistono delle chitarre oggi chiamate ‘Double Top’: sono una specie di panino, dove una parte dello strumento è costruito in legno, mentre un’altra è fabbricata in fibra di carbonio e nomex. Vengono spesso utilizzate, in questo metodo di costruzione, colle sintetiche e resinose. Si tratta di un altro sistema rispetto a quello utilizzato dai De Bonis, che avvantaggia la potenza del suono a discapito della qualità dello stesso. Nel metodo italiano tutto viene fatto a mano, è un metodo molto più preciso e ti permette di lavorare sulla forma interna dello strumento».
Una tradizione che, come ci spiega Cristiana Smurra uscendo dal laboratorio, merita di essere raccontata perché rischia di scomparire: «È nostro compito cercare di raccontare queste storie e tutte le storie degli artigiani e dei produttori della nostra terra, per preservare, trasmettere e tutelare queste esperienze fatte di passione ed impegno».
Mentre camminiamo per ripartire alla scoperta di nuove esperienze da raccontarvi, ci tornano in mente le ultime frasi di Antonio: «Ci vogliono circa due mesi per costruire una chitarra, così come ci vuole perseveranza nel rendere questa passione un lavoro vero e proprio. Io alla fine ce l’ho fatta, con impegno e dedizione costante. Il risultato finale è la parte più emozionante del mio lavoro: quando metti le corde alla fine, ti rendi conto che ogni strumento che hai costruito ha la sua voce e la sua particolarità, il suo carattere peculiare che si percepisce attraverso il suo suono. È come un figlio, a cui tu dai forma e carattere».
Vi proponiamo la storia di Francesca e Cristina Cofone, due giovani sorelle calabresi che, una volta laureate, hanno deciso di rimanere in montagna, nel cuore della Sila, per sviluppare l’azienda agricola di famiglia, allevando, mungendo, coltivando, facendo i formaggi e vivendo la gioia di una profonda comunione con gli animali e la terra che li ospita.
Dopo aver attraversato paesaggi mozzafiato di mezza Calabria, io e Paolo giungiamo insieme alla nostra guida d’eccezione – Cristiana Smurra – presso l’Azienda Agricola Cofone, nel cuore della Parco Nazionale della Sila. Tra una mucca e una balla di fieno, una dolce collina e qualche stalla, scorgiamo due giovani donne, tra i 25 e i 30 anni. Sono entrambe laureate, una al Dams e l’altra in Lingue e letteratura straniera, eppure hanno scelto di occuparsi di mucche allevate allo stato brado, latte, formaggi, mozzarelle, grano, ortaggi, frutta. Francesca Cofone, la sorella più “giovane” tra le due, ci racconta di come l’azienda fu fondata dal padre una volta tornato dalla Svizzera, dove era emigrato quando aveva 16 anni in cerca del denaro con cui avviare l’attività. «Io e mia sorella siamo nate e cresciute qua – ci confida Francesca – insieme ad un altro fratello che ora vive in Svizzera. Abbiamo studiato e poi abbiamo scelto di restare». La parola “scelta” mi sembra da subito la parola chiave. In un’epoca in cui molti giovani sognano le città e vogliono fuggire dalle zone cosiddette marginali, incontrare due giovani donne laureate che scelgono con entusiasmo di rimanere in Calabria, in montagna, e dilavorare la terracolpisce, soprattutto per la naturalezza con la quale sembrano vivere la situazione. «Fin da piccolissime abbiamo lavorato, ma con più spensieratezza. Lo abbiamo sempre fatto, anche quando studiavamo all’università o lavoravamo fuori. Abbiamo sempre aiutato». Purtroppo tra il 2013 e il 2015 sono mancati entrambi i genitori delle ragazze e a quel punto è stato quasi inevitabile prendere in mano la situazione: «Abbiamo deciso di portare avanti quello che nostro padre ci aveva insegnato e ci siamo riuscite. Non è stato semplice ma abbiamo avuto piccole e grandi soddisfazioni».
La titolare dell’azienda è la sorella Cristina. «Nel momento in cui è venuto a mancare nostro padre, – ci spiega Francesca – mia sorella ha preso in mano la situazione. Abbiamo rifatto i capannoni, cambiato i tetti, eliminato 2000mq di amianto. Abbiamo avuto la fortuna di incontrare realtà e persone che ci hanno dato tanta fiducia e hanno avuto la pazienza di aspettare con i pagamenti. Il loro aiuto è stato determinante. Se si incontrano persone oneste che ti danno fiducia si può fare tutto. Oggi non puntiamo a diventare un’azienda grossissima; ci bastano venti mucche in modo da poterne mungere dieci per volta, a rotazione. In questo modo riusciamo a fare tutto noi due». Una volta iniziati i lavori è arrivato anche il caseificio aziendale dove lavorano il latte che mungono al mattino. Le due sorelle, quindi, si mantengono vendendo i prodotti trasformati: latticini, cacio cavallo e altri formaggi. La loro peculiarità sta nella materia prima. Lavorano, infatti, con il latte crudo anziché con quello pastorizzato. Questo è possibile grazie al numero limitato di bovini che consente loro di mantenere standard qualitativi elevati.
«Le nostre mucche vivono allo stato semi brado. Comandano loro e noi cerchiamo di starle dietro. Le mungiamo solo una volta al giorno, mentre altri lo fanno due o tre volte e lasciamo il vitellino con la madre almeno tre mesi, anziché separarlo dopo pochi giorni come fanno in molti. Le mucche sono quasi la nostra famiglia. Quando vivi sempre con gli animali, ti rendi conto che ogni animale ha una sua personalità e sensibilità». Non ci sono solo mucche quindi. «Abbiamo bovini, mucche, vitellini, maiali, due capre, un cavallo, cani e gatti». Non solo. La proprietà comprende 15 ettari di terreno e circa 25 in affitto. Qui coltivano fieno, grano, segale. Questi prodotti, una volta macinati nel loro mulino, in parte vengono utilizzati per nutrire gli animali, in parte venduti. Anche in questo caso, l’idea è di non ampliare troppo la produzione agricola, per mantenere un’agricoltura sostenibile, senza pesticidi. Le soddisfazioni non hanno tardato ad arrivare. «Il primo anno non ci calcolava nessuno, il secondo è andata un po’ meglio, il terzo siamo andati alla grande, e adesso siamo vip e tutti ci vogliono stare vicini! – scherza Francesca, e poi continua – Nessuno credeva in noi, ci vedevano come delle pazze; è stata una bella soddisfazione passare dal “ma che devono fare quelle due” al “ma ci aiutano loro”. Io sono contentissima. Credo proprio di restare qui in Calabria anche in futuro. Mi ricordo che quando ero piccola andavo dietro le mucche con il cavallo e pensavo che ero fortunata a vivere qui. Beh, quel pensiero ce l’ho sempre. Non mi cacciano!».
A Civita, nel nord della Calabria, un gruppo di donne è riuscita a sfidare il pensiero vigente, portando in consiglio comunale una lista tutta al femminile tesa a riattivare una democrazia locale sopita e soprattutto a coinvolgere e rendere protagoniste – a livello sociale e politico – le tantissime donne che silenziosamente vivono e portano avanti questi magnifici territori pregni di ricchezze e contraddizioni. Arriviamo a Civita, in provincia di Cosenza e nei pressi del Pollino, all’imbrunire e in leggero ritardo. Con Paolo “corriamo” nel luogo indicatoci dalle protagoniste dell’intervista che stiamo per realizzare e restiamo subito abbagliati dalla bellezza del paesaggio, tra montagne e “gole” del fiume Raganello. Pochi passi e vedo tre giovani donne sedute su una panchina, una di esse mi sorride e capisco immediatamente che è la persona con cui avevamo fissato l’incontro, Michela Cusano. Accanto a lei Maria Pirrone e Eliana Bruno.
La storia che ci stanno per raccontare è quella dell’Osservatorio Donne Pollino, una storia di resistenza, di comunità, di vittorie, difficoltà, paure, realizzazioni. L’Osservatorio nasce nel 2016, pochi mesi dopo l’arrivo di Michela – di origine romana – qui a Civita. Michela era incinta e cercava un luogo dove poter far nascere e crescere il figlio. Giunta a Civita è subito rimasta colpita dalla presenza delle donne che lei definisce “incredibile”.
«Venivo costantemente accudita da queste donne nonostante fossi per loro una “sconosciuta”, era tutto un voler scambiare e parlare. Mi sono presto accorta che queste donne tenevano una sorta di microeconomia. Pastore e contadine preservano senza sovrastrutture antiche pratiche condivise. Una economia circolare, istintiva dovuta alla necessità di sopravvivere in un territorio a tratti difficile. Spesso qui la spesa non la fai in piazza, ma in montagna!».
Michela doveva fermarsi a Civita per poche settimane e invece ci è rimasta per anni. Inizialmente, insieme ad un gruppo di amiche di Genuino Clandestino o del Teatro Valle occupato, cominciano a fotografare le donne del posto mentre lavoravano insieme, organizzavano le dispense invernali, o le attività legate al rammendo, il ricamo, il cucito. Molte donne lavorano ricamando l’oro per alcune vesti ecclesiastiche. Anche i b&b sono spesso gestite dal cosiddetto “sesso debole”. Eppure – socialmente e politicamente – le donne erano “escluse”, assenti, quasi invisibili.
«Erano tante, ma chiuse nelle loro case e nelle loro cose – spiega Michela nel video che vi proponiamo – e quindi ho pensato di trovare l’occasione per aggregarle, per tirarle fuori, venire allo scoperto».
L’occasione sono state le elezioni comunali del 2019, quando Michela e altre donne del posto decidono di presentare una lista tutta al femminile. Ma tra il dire e il fare…
Mentre all’inizio molte cittadine si erano dette interessate, infatti, sono presto emerse le prime difficoltà: le famiglie si sono opposte, i mariti, i fratelli, i genitori, persino le istituzioni. Molte potenziali candidate sono state vessate, bloccate.
Già, si sa, ladonna sta a casa con i figli… «Ci hanno deriso. Non apertamente magari perché non potevano, però a denti stretti non siamo state prese sul serio – continua Michela – Ma alla fine siamo riuscite a costituire una lista e parlando nelle case con gli abitanti del posto, perché qua si va a chiedere il voto casa per casa, abbiamo scoperto che in molti casi votavano solo gli uomini o comunque molte donne tendevano ad affermare solo ciò che veniva dettato dalla famiglia».
Michela, Eliana, Maria e le altre, però, non si sono arrese e alla fine la lista ha raccolto oltre 100 voti su 500, raggiungendo il 20%. Per la prima volta dopo anni a Civita è stata eletta un’opposizione, formata da tre consigliere, che si sono subito attivate per portare in Amministrazione una serie di tematiche e di modalità “inusuali”. Tra queste, il tema – purtroppo grandemente sottovalutato in tutta Italia e in Calabria in particolare – della violenza sulle donne. Le consigliere, infatti, hanno contattato la casa delle donne dell’Aspromonte e un centro antiviolenza di Corigliano, per poi formarsi con l’obiettivo di aprire un centro di ascolto per donne a Civita. Il percorso è solo all’inizio. Le difficoltà non mancano. La mentalità vigente non viene certo scalfita da una singola elezione e il pensiero dominante è pervasivo e insidioso. Ma questa storia dimostra come con il dialogo, l’ascolto e la capacità di mettersi in gioco in prima persona si possano abbattere i più grandi tabù. Magari partendo dalla sapienza delle agricoltrici e delle pastore calabresi e dalla lucida follia di una romana che vaga inquieta per il Sud Italia alla ricerca di radici e cambiamento.
Intanto le cose si muovono, a piccoli passi ma si muovono.
Stefania Emmanuele ci racconta la sua scelta di
vita, che l’ha portata a ritornare nel piccolo paese dove è cresciuta e dove ha
ideato e lanciato un progetto di tutela e rivitalizzazione dei borghi italiani.
«A un certo punto la vita a Roma era diventata bulimica e il tempo, quel
prezioso indicatore della felicità interna lorda, si era ridotto in una
corsa continua alla produttività e al lavoro senza sosta, in cui le relazioni,
quelle vere, si erano dileguate». Stefania ha vissuto per anni nella Capitale,
fino a che non ha deciso di tornare a Civita, piccolo borgo calabrese dove ha
passato la sua infanzia. Una scelta di vita, ma non solo: qui ha lanciato il
progetto di tutela dei paesi Borgo Slow e ha aperto il b&b Il Comignolo di
Sofia.
Stefania è anche una delle relatrici della Summer School sul Turismo
Ispirazionale in Calabria. Le chiediamo di parlarcene, partendo però dalla sua storia personale,
così intimamente legata con l’ambiente del borgo.
Veduta di Civita
Come sei arrivata –
o meglio, ritornata – a Civita?
Fino all’età di 18
anni non ho vissuto a Civita, ma in una cittadina a 14 chilometri di
distanza e poi ho vissuto a Roma per dodici anni dove ho studiato grafica
pubblicitaria e mi sono laureata in Sociologia. Civita è il paese dei miei
nonni paterni, è il luogo in cui mio padre ha insegnato per molti anni, dove ha
realizzato un Museo etnico e una rivista italo-albanese che nel 2020 compie
cinquant’anni di attività. Civita era il paese della domenica a pranzo dai
nonni col caminetto acceso, del pane e olio abbrustolito sul fuoco, delle
giornate estive trascorse lungo campagne e dirupi a smontare muretti a secco
per trovare il tesoro, delle prime pedalate in bicicletta lungo le salite
ripide per poter conquistare l’ebrezza della discesa con le gambe in aria,
delle fughe di nascosto al torrente Raganello per fare il bagno, cosa che per i
bambini del posto ha sempre rappresentato un divieto assoluto. A un certo punto
la vita a Roma era diventata bulimica e il tempo, quel prezioso indicatore
della felicità interna lorda, si era ridotto in una corsa continua alla
produttività e al lavoro senza sosta, in cui le relazioni, quelle vere, si
erano dileguate. Così, senza troppe riflessioni, in un afoso giorno di giugno
ho comunicato in famiglia la mia decisione di tornare definitivamente a casa,
ma nella casa in cui avevano vissuto i miei nonni, a Civita. Ho noleggiato un
furgone caricando 12 anni di vita e mi sono messa in viaggio verso una terra
che dovevo e volevo riconoscere.
Ora vivo a Civita
con mia figlia Sofia da quindici anni; anche la mia famiglia si è trasferita
qui e posso dire che in nessun altro luogo ho viaggiato così tanto con la
testa. Appena arrivata, ed era il 2002, dopo un anno sono stata catapultata in
un’avventura amministrativa per rappresentare le quote rosa, unica donna in una
compagine fatta totalmente di uomini che non sapevano che dietro quell’aspetto
da ragazzina c’erano tante fervide energie da mettere in gioco.
Contemporaneamente decido di frequentare un master triennale che mi forniva
competenze nella mediazione e nella gestione del patrimonio culturale in
Europa, così la mia missione politica diventa un percorso formativo in cui
applicare quello che stavo imparando del marketing culturale e della
valorizzazione del territorio. Da quell’esperienza durata cinque anni ho
imparato ciò che non è politica e, soprattutto, ciò che dovrebbe essere la politica
al servizio del bene comune. Ho impiegato le mie energie affinché Civita
potesse avere gli strumenti per iniziare un percorso responsabile verso
l’accoglienza turistica che oggi è il suo fiore all’occhiello e rappresenta
l’economia per tanti giovani, soprattutto donne, che sono tornati a vivere qui.
Anche io ho fatto della mia casa un bed and breakfast e dal 2008 accolgo
viaggiatori provenienti da tutto il mondo. Questa attività è la mia finestra
sul mondo e mi abilità al cosmopolitismo, alle relazioni e, soprattutto,
all’umanità, ingrediente fondamentale per sentirsi a casa ovunque e far sentire
a casa tutti coloro che accolgo. Oggi conosco il mio villaggio e il suo
territorio nelle sue intime pieghe, è la mia palestra e la mia farmacia ed
offro l’ esperienza del mio stile di vita ai viaggiatori traendo piccole gioie
e lo stimolo a realizzare idee e progetti. Credo che se tutti i paesi si
percepissero come rifugi d’aria piuttosto che come limite e periferia, forse
riusciremmo con questo poco a fare grandi cose, a farci ispirare e a restare
aperti.
Quali sono i
pilastri su cui si fonda il “modello dei borghi”?
I pilastri su cui
tutti i paesi e i borghi dovrebbero ricostruire un futuro possibile sono senza
dubbio l’agricoltura naturale e la cucina popolare, il recupero conservativo e
il riutilizzo delle case e degli edifici storici abbandonati, il turismo di
comunità e l’innovazione sociale e tecnologica. Non si può pensare di vivere in
questi paesi senza i servizi essenziali e una vita relazionale di qualità.
L’unico modo per contrastare lo spopolamento è stimolare l’innovazione
tecnologica e il turismo responsabile. Come dice il paesologo Franco Arminio, bisogna mettere insieme computer e pero selvatico,
politica e poesia. Ci vuole anche molta immaginazione per vivere in un paese. Grazie
alla tecnologia questi paesi possono diventare laboratori viventi di
tradizioni e di accoglienza. Ma per favorire questo è necessario creare
competenze sia nella comunità locale che in chi si occupa di turismo e di
sviluppo locale. Conoscere il proprio territorio vuol dire viverlo senza
rimanere incastrati nel suo stomaco, partire e tornare, viverlo per com’è e
immaginarlo per come può diventare, aprirsi al mondo e portare mondo. Nella
maggior parte dei casi la percezione dei paesi è di luoghi ai margini in cui si
vive per sottrazione. Se non si cambia punto di vista rimarranno solo le nuvole
e il vento a farci compagnia, anche se in alcuni casi può essere un privilegio.
Il percorso di
rinascita di Civita è stato drammaticamente segnato dalla tragedia dell’agosto
2018, in cui sono morti dieci escursionisti. Come ha reagito la comunità a
quell’evento?
Nulla arriva per
caso. Già qualche anno prima alcuni di noi erano allarmati per la fruizione
selvaggia delle gole del Raganello. Un luogo oggettivamente bello e insidioso
che è sempre stato attraversato, anche se in maniera molto più soft ,e in cui
nel 1959 l’ornitologo Gustav Kramer perse la vita durante l’osservazione di
alcuni uccelli. Ma la trasmissione di una percezione errata del torrente ha
attratto negli ultimi tre anni molti cercatori di adrenalina. E anche chi
probabilmente cercava altro è rimasto vittima di questo approccio. Oggi la
comunità è segnata dalla tragedia e come in molti casi accade si tende al
fatalismo, come se la tragedia fosse stata causata dalla mano del diavolo. Ma
l’inconsapevolezza e la mancata elaborazione del lutto potrebbe essere ancora
più fatale bloccando la rigenerazione del tessuto sociale ed economico.
L’imprevedibilità
della natura è una componente genetica della natura stessa e i dispositivi
di prevenzione in questi luoghi sono affidati alla memoria storica, ai saperi
degli anziani e di coloro che con queste gole e i pericoli ci convivevano
conducendo i pascoli e recandosi nelle proprie terre. È proprio a partire dalla
memoria tramandata che oggi con l’Associazione Placco attiva da 35 anni, si è
deciso di investire sull’antropologia applicata affidando questo delicatissimo
lavoro di recupero della memoria storica all’archeo antropologa Anna Rizzo.
Proprio in questi giorni sono in corso le interviste a pastori e anziani del
paese per comprendere cosa ci è sfuggito di mano e riattualizzarlo attraverso
momenti di animazione sociale e condivisione con il fine di fornire competenze
alle nuove generazioni ed informazioni, percezioni e conoscenza ai visitatori.
Ora abbiamo il compito di dare alla cultura la sua funzione civile e sociale di
ricostruire il tessuto connettivo tra territorio, patrimonio e popolazione.
Ospitalità in case
d’epoca
Gli
equilibri fra abitanti, amministratori e persone estranee alla comunità, che
magari intendono insediarvisi, sono delicati. Come si fa a mantenerli?
È una sinergia
necessaria quanto difficile. Gli abitanti e gli amministratori dovrebbero
mettersi nei panni di chi visita il paese, viverlo dal di dentro e guardarlo da
fuori senza autoreferenzialità e senso di inferiorità. Nutrire ambizioni più
che invidia. Esaltare le vocazioni del paese e soprattutto dare ascolto ai
ragazzi, a quello che vorrebbero realizzare perché senza di loro la comunità
non può rigenerarsi e senza i viaggiatori si resta chiusi nella ripetitività e
nelle false compensazioni. Il problema è chi è sempre stato nel paese e ci vive
conficcato dentro, gli scoraggiatori militanti e i distributori di livore; essi
rappresentano il vero ostacolo alla sinergia armoniosa e creativa tra
abitanti, amministratori e cittadini temporanei. È una fortuna quando in un
paese ci sono molte persone che gestiscono strutture ricettive e per
traslazione si relazionano a tanti viaggiatori che condividono
quell’esperienza; nel caso di Civita grazie ai tanti b&b, ma soprattutto
alle tante persone che si occupano di accoglienza la gestione degli equilibri è
più immediata poiché si entra sintomaticamente nel circuito in cui per alzare
l’appeal del territorio e produrre benessere nel viaggiatore si lavora in
maniera sinergica e integrata. Poi al di fuori del sistema turistico, la vita
di tutti i giorni può essere molto diversa e meno esaltante. Ecco perché ora
stiamo lavorando a rigenerare il tessuto sociale e culturale per riportare
nella comunità l’orgoglio, la tenerezza e il senso di appartenenza.
C’è un collegamento
fra i segnali di corto circuito sociale e culturale che si percepiscono oggi e
il fatto che più del 60% degli italiani vive in aree metropolitane?
Le città sono
stracolme e sature, seppure in molte si stiano applicando i principi della
smart city per migliorare la qualità della vita, c’è un gran numero di persone
in Italia e all’estero che guarda ai paesi come a luoghi in cui ritrovare
l’umanità. Quindi, ora anche i paesi dovranno attrezzarsi per diventare borghi
smart in cui connettere i servizi socio assistenziali e sanitari, in cui
innovare l’agricoltura che riporti nelle tavole e nel mondo i prodotti
indentitari, grazie alle nuove tecnologie la tradizione può aprire nuovi
scenari. E non nego che vedo tutto questo con moderato ottimismo.
È possibile e
auspicabile tornare ad abitare i borghi?
È possibile, ma c’è
ancora molto lavoro da fare, anzitutto su se stessi e sul modo di viverli.
Attraverso Borgo Slow voglio mettere in atto una piccola rivoluzione e
dimostrare sulla mia pelle che è possibile e anche entusiasmante. Ci sto
lavorando.
È un progetto
coraggioso e necessario che ha l’obiettivo di fornire competenze nella
rigenerazione dei borghi, ma anche la possibilità di creare nuove reti e
relazioni tra i partecipanti e chi si occupa di sviluppo locale con competenze
diverse. Perché spesso è proprio l’isolamento umano e professionale ad
immobilizzarci. Se io non avessi partecipato a diverse occasioni formative non
avrei mai conosciuto Destinazione Umana e Inspirational travel company con cui
oggi mi appresto a sviluppare altri aspetti pratici della community Borgo Slow
di cui sono project manager. Investire su se stessi è il miglior investimento
che si possa fare e questa è una di quelle occasioni.
Contrastare il caporalato, restituire dignità alle
lavoratrici e ai lavoratori stranieri ed italiani, costruire una filiera
agroalimentare naturale e biologica, promuovere una nuova economia etica. Il
tutto partendo dal pomodoro, il cibo più pop del mondo. Nato nel 2015 nel sud
Italia, il progetto Funky Tomato testimonia che è possibile costruire un
modello di produzione sostenibile per chi lavora nei campi, per chi produce e
per chi acquista e poi mangia. Cosa c’è dietro la
produzione di una semplice passata di pomodoro? Quando penso a questo
prodotto mi vengono in mente i miei nonni e zii che quando ero piccolo
accendevano un grande fuoco e – dopo aver raccolto e macinato i pomodori – li
facevano bollire per ore in bottiglie di recupero. Poi, rifletto, e penso a
campi di pomodori intensivi, irrorati di sostanze chimiche e cresciuti a forza
in serre lontane. Poi rifletto ancora e vedo le persone che lavorano su questi
campi. Dentro e fuori le serre. In Italia e all’estero. Italiani, immigrati,
uomini e donne, piegati nel piantumare e raccogliere, sottopagati, spesso senza
contratto né diritti riconosciuti. Non solo. Se penso alla salsa di pomodoro
dei miei nonni mi viene in mente un sapore intenso, spesso variabile,
sicuramente autentico. Se penso alle salse di pomodoro del supermercato penso
ad un sapore predefinito, zuccherato, sempre uguale a se stesso.
E quindi? Perché vi
sto raccontando le mie immaginazioni limitate su uno dei prodotti più
utilizzati nelle cucine italiane e non? Per introdurre la storia di oggi,
quella di Funky Tomato.
Già leggendo le
prime righe della visione, sul loro sito, si capisce che
l’approccio non è dei più tradizionali: “Funky Tomato individua nella
partecipazione l’atto fondante di un cambiamento migliorativo delle condizioni
economiche e sociali di individui e comunità nel loro insieme. Una visione che
implica l’assunzione di responsabilità nella cura delle persone, dei territori,
delle comunità coinvolte nella filiera agroalimentare”.
Che c’entra la
partecipazione con il sugo per la pizza e la pasta? Più avanti nella pagina si
legge: “Funky Tomato vuole tracciare un solco percorribile da tutti, un
progetto d’impresa pop, nel senso artistico e culturale del termine, e
attraverso il cibo più pop del mondo – il pomodoro – e diffondere il messaggio
che una nuova economica etica, equa e partecipata è possibile. […] per questo
Funky Tomato vede nella varietà meravigliosa del mondo naturale la stessa
bellezza multiforme che si ritrova nella molteplicità umana. La comunità
Funky Tomato è fondata sul rifiuto di ogni forma di discriminazione, perché
nasce dalle relazioni tra le persone, dalla socialità innata dell’essere
umano”.
Insomma, come si
dice a Roma, “robba forte”. E la citazione romana non è un caso. Il fondatore
di questa avventura, infatti, è proprio romano. Si chiama Paolo Russo, e
– dopo gli studi – ha vissuto in molte zone del sud Italia, principalmente in
Puglia. Ora ha la sua base in una meravigliosa cittadina nel nord della
Calabria, Civita. Qui io e Paolo Cignini, in viaggio alla ricerca di nuove
storie, lo incontriamo
quasi per caso nei e dopo due giorni trascorsi insieme, lo intervistiamo.
Paolo, seduto nel
suo piccolo orto di casa, ci racconta come Funky Tomato sia nato nel 2015. In
quell’anno il fenomeno del caporalato diventa di importanza pubblica,
quando un evento drammatico raggiunge le cronache dei nostri mass
media: muore,
infatti, una bracciante sul ‘campo’ – Paola Clemente – e Paolo viene coinvolto
da una serie di ricercatori nel creare un modello che non rendesse necessario
lo sfruttamento dei braccianti per mettere in piedi una produzione di pomodori
sostenibile a livello economico ed ecologico. Sostenibile per chi lavora nei
campi, per chi produce e per chi acquista e poi mangia.
“Non ci riteniamo
una impresa, ma un progetto sperimentale che ha l’ambizione di essere
quanto più trasversale possibile e quanto più includente possibile – ci spiega
Paolo – Abbiamo cercato di coinvolgere tutti i soggetti coinvolti nel processo
produttivo. Tra questi i lavoratori e i consumatori, che normalmente non sono
considerati come parte della filiera. Abbiamo deciso di ragionare sul processo
dell’immigrazione come una cosa funk, una cosa che contamina la retorica della
ruralità e utilizza la contaminazione per migliorare i propri processi.
Noi riteniamo i braccianti, che sono in gran parte stranieri, delle risorse, un
valore aggiunto, un’opportunità per proseguire con la nostra storia e la nostra
visione agricola. Abbiamo scelto il pomodoro come rappresentazione principale
delle problematiche legate allo sfruttamento del lavoro, ma anche perché
questo ‘frutto’ dimostra come la contaminazione rappresenti un valore aggiunto:
il pomodoro è arrivato in Italia – come prodotto esclusivamente ornamentale –
con la ‘scoperta’ dell’America. Era giallo principalmente; una volta diffusosi
a Napoli ha ridotto i livelli di solanina ed è diventato rosso ed è stato usato
come prodotto alimentare. La contaminazione, quindi, dà vita a una nuova
cultura e nuove tradizioni”.
Per mettere a
sistema questo processo e coinvolgere in modo veramente paritario i vari attori
della filiera, è stato realizzato un contratto di rete: attraverso
meccanismi mutualistici le diverse criticità possono così essere sostenute e
remunerate. Questo strumento si differenzia nettamente dalla filiera
agroalimentare convenzionale dove i rapporti sono ‘uno a uno’ e vengono quindi
determinati dalla forza finanziaria dei singoli soggetti. Dentro Funky Tomato
si genera così un processo osmotico: le realtà più forti sostengono quelle più
deboli. Come detto, i braccianti e i consumatori sono attori del contratto di
rete al pari di produttori e distributori. I primi hanno costituito una
loro assemblea, i secondi partecipano attraverso i gruppi di acquisto. Non
solo. Sono stati inseriti nella filiera anche formatori agricoli, creativi,
ricercatori, studiosi di governance. Grazie all’incontro tra le diverse
componenti sono arrivate proposte e soluzioni per i diversi problemi. Per
combattere le logiche del caporalato, inoltre, si è cercato di contrastare la politica
del cottimo secondo le quali un lavoratore vale l’altro, esattamente come
se il loro lavoro fosse svolto da una macchina. Per questo Funky Tomato ha
scelto di puntare su pomodori meno industriali possibili, puntando su varietà
come il San Marzano, che richiedono una raccolta qualificata. In questo modo,
il lavoro del bracciante diventa anche culturale ed è più difficilmente
sostituibile. I lavoratori sono retribuiti rispettando le regole del contratto
provinciale agricolo che costringe il datore di lavoro a limitare il numero di
ore del bracciante a 6-8 per 5 giorni a settimana, riconoscendo sussidi di
disoccupazione, prevenzione dei rischi e così via. Cose teoricamente scontate,
ma troppo spesso ignorate, non solo sulla pelle degli immigrati, ma anche su moltissime
donne italiane che spesso lavorano in questo settore.
Le coltivazioni
sono biologiche e naturali e sono situate principalmente al sud e in particolare
in tre regioni, Puglia, Calabria e Campania. “In Campania – spiega Paolo
Russo – produciamo nel più grande bene confiscato alla mafia, fondo rustico
Amato Lamberti. Il bene è stato affidato alla cooperativa Resistenza
Anticamorra. La disoccupazione è uno strumento del caporalato. Per questo
lavoriamo a Scampia a Napoli. In Puglia, produciamo a Foggia con una OP,
organizzazione di produttori, che lavora a 500 metri dalla più grande
bidonville d’Europa. Volevamo incidere su questo territorio e confrontarci con
chi ogni giorno vive questo fenomeno. In Calabria lavoriamo sul Pollino che è
l’area a più alto rischio di spopolamento d’Europa, perché le aree interne sono
totalmente dimenticate”.
I risultati
non hanno tardato ad arrivare. I consumatori entrano nel contratto di rete con
un preacquisto dei prodotti, sostenendo così tutte le fasi di produzione della
materia prima. L’avvio della produzione, nel 2015, fu finanziato con un
fundraising di circa 40.000 euro. Nel 2018 il fundraising ha portato 120.000
euro, e ha generato un fatturato di circa 500.000 euro di pomodoro. Nelo 2019
il dato dovrebbe raddoppiare. Il tutto senza ricorrere a finanziamenti legati
all’accoglienza o all’inclusione. “Questo – commenta Paolo Russo – significa
che si può fare. Questo processo funziona e potrebbe essere replicato in altre
filiere identiche alle nostre: pasta, olio, vino ecc.. Sulla nostra etichetta –
conclude Paolo – c’è scritto che vogliamo alimentare la cultura. Funky Tomato
porta avanti una rivoluzione culturale, non identifica un nemico ma
crede che tutti siano parte della soluzione. Ecco perché una quota del nostro
vasetto viene investita in progetti culturali legati al territorio su cui
andiamo a impattare”.
Riparto da Civita
dopo aver mangiato una pasta con sugo Funky Tomato Tra le altre cose, devo
ammetterlo, è proprio buono!
C’è una Calabria
che vuole cambiare, che è stanca di essere etichettata e conosciuta solo per
storie di mafia, clientelismo, corruzione. Questa Calabria vede in GOEL una delle sue storie più suggestive e di successo. GOEL
– Gruppo Cooperativo nasce nel 2003 nella Locride dall’unione di persone,
imprese e cooperative sociali accomunate dall’obiettivo di riscattare il
territorio calabrese e i suoi abitanti attraverso il lavoro legale, la
promozione sociale e un’opposizione attiva alla ‘ndrangheta. Da lì in poi è
stato un susseguirsi di importanti traguardi da tutti i punti di vista:
sociale, culturale, occupazionale. In altri termini, un percorso di rinnovato
cambiamento.
Fra le tante
attività nate in seno a GOEL ce n’è una che dichiara questo obiettivo già nel
nome. Stiamo parlando di CANGIARI, marchio di moda eco-etica che in dialetto calabrese
significa proprio “cambiare”. Cangiari nasce
dalla riscoperta di un sapere artigianale antico, quello della tessitura
tradizionale calabrese, che ha origine grecanica e bizantina, ma vi unisce una
buona dose di ricerca e innovazione. Inoltre, tutta la filiera produttiva
avviene secondo i principi di etica a 360 gradi tipici di GOEL: sostenibilità
ambientale nella scelta dei tessuti e delle colorazioni biologiche, rispetto
del lavoro e giusta retribuzione, valorizzazione del territorio, legalità.
Vincenzo Linarello,presidente di GOEL, ci spiega gli ingredienti di questa ricetta calabrese che è riuscita a salvaguardare unsapere antico trasformandolo in un’attività di successo.
CANGIARI in
dialetto calabrese significa cambiare. Di che tipo di cambiamento si fa
portavoce questo marchio?
Essenzialmente
tutto GOEL, quindi anche CANGIARI, converge su un obiettivo, su una missione
unica che è quella di innescare percorsi di riscatto in Calabria da mafia,
politica corrotta, affarismo, clientelismo. Così come abbiamo realizzato in
altri settori, utilizziamo le attività economiche che portiamo avanti per
piegarle a questo scopo di riscatto e cambiamento. CANGIARI da questo punto di
vista è un’attività speciale perché, pur non essendo fra le attività più grandi
di GOEL, si esprime con un linguaggio e in un ambito del tutto nuovo. Da questo
punto di vista, purtroppo, i nostri mondi, quelli legati al sociale, utilizzano
sempre un linguaggio e un approccio molto tradizionali, identici a se stessi
nel tempo. Questa iniziativa, che abbiamo sviluppato anche per dare
sostenibilità economica ad un artigianato che non aveva prospettive, quello dei
tessuti fatti con il telaio a mano, ci è piaciuta fin dall’inizio perché è un
potentissimo mezzo di comunicazione che usa un linguaggio completamente nuovo.
Di conseguenza, questo è il ruolo importante che ha il marchio CANGIARI
all’interno del nostro progetto di cambiamento.
A proposito
dell’aspetto economico. Spesso uno dei limiti dei progetti a forte spinta etica
è proprio la sostenibilità economica. Come è stata vissuta questa vostra scelta
dagli altri attori del mondo del Terzo settore?
E’ stata accolta
come momento di innovazione. Oggi il Terzo settore è in crisi, e lo è perché
gran parte, per non dire tutto, si regge sulla commessa pubblica dei servizi
socio-assistenziali. Di conseguenza, oggi l’impresa sociale che va sul mercato
privato è tutta da inventare, non è il punto di partenza in Italia. Con la
crisi dei trasferimenti pubblici agli enti locali, si è verificata anche una
crisi nel mercato pubblico dei servizi socio-assistenziali e molte cooperative
si sono trovate costrette a reinventarsi anche una prospettiva sul mercato
privato, per continuare almeno a fare inserimento lavorativo di persone
svantaggiate. Rispetto a questo, il Gruppo GOEL in generale è stato visto come
uno degli esempi in Italia di realtà che sta costruendosi, pur avendo anche noi
un mercato pubblico, un’alternativa sul mercato privato.
Spesso sentiamo che
l’artigianato, anzi gli artigianati, sono una delle principali ricchezze del
nostro paese, ma tanti di questi saperi antichi sono oggi a rischio estinzione.
Voi siete riusciti ad arginare questo processo. Pensate che la vostra
esperienza sia replicabile anche in altri luoghi?
Il discorso
sull’artigianato viene trattato troppo spesso con tanta retorica. Il nodo
fondamentale non è che l’artigianato si perde per via della volontà di qualcuno
che lo vuole mettere ai margini: l’artigianato si perde perché non c’è
sostenibilità. L’artigianato ha un grande difetto in un’epoca di
meccanizzazione o addirittura robotizzazione della produzione: costa ore di
lavoro. Le ore di lavoro significano un aumento di costo di un prodotto che ha
un equivalente industriale che viene messo sul mercato a prezzi enormemente
inferiori. Quindi o c’è una capacità di innovazione tale da restituire la sostenibilità
economica agli artigianati oppure gli artigianati cesseranno di esistere, se
non come forma artistica. Da questo punto di vista, CANGIARI potrebbe
rappresentare un modello. Detto ciò, però, non è sempre facile – e a volte non
è possibile – inventarsi un “CANGIARI” da tutti gli artigianati.
La scelta di un
pubblico di fascia medio-alta è legata a questi motivi?
È stata una scelta
obbligata. Nella tessitura a mano con il telaio tradizionale calabrese si
realizza un tessuto che è largo 70-80 centimetri, contro un tessuto industriale
largo un metro e cinquanta. Pur essendo largo la metà, comunque per farne un
metro lineare ci si mette da tre a sei ore di lavoro. Retribuendole con un
costo sindacale si arriva a un costo del tessuto spropositato rispetto a quelli
industriali messi sul mercato. Quindi o ci rivolgevamo a questo segmento di
fascia alta oppure non era proprio possibile retribuire dignitosamente il
lavoro dell’artigiano.
Progetti per il
futuro di GOEL?
Tanti, qualcuno
direbbe troppi. Abbiamo intenzione di lavorare molto, di potenziare il segmento
di ricerca, anche di ricerca pura, soprattutto in relazione agli estratti
botanici e agli oli essenziali. Stiamo lanciando la nostra linea di
bio-eco-dermocosmesi che sarà marchio GOEL Bio Cosmethical, c’è un progetto nei
negozi Yamamay già in vendita in questi giorni. Poi a partire da febbraio,
marzo, avremo una linea tutta nostra. E soprattutto stiamo scrivendo il piano
di sviluppo di GOEL per i prossimi dieci anni, dove la grande sfida sarà quella
di crescere “crescendo” anche in etica. Che è un po’ un’eresia, perché tutti
quanti abbiamo la convinzione che più si diventa grandi e meno si diventa
etici. Invece la grande sfida di GOEL è quella di dimostrare che l’etica è
efficace non solo nelle dimensioni piccole ma può esserlo anche in quelle
grandi, togliendo giustificazione a tutti quelli che pensano che la
spregiudicatezza economica sia assolutamente necessaria quando le dimensioni
del business diventano elevate, come ad esempio la ‘ndrangheta, giusto per non
fare riferimenti casuali.
Dalla seta al mandolino, dalla lana ai carretti siciliani. Fondazione CON IL SUD in collaborazione con l’Osservatorio dei Mestieri d’Arte di Firenze (OMA) lancia un bando per sostenere la tradizione artigiana meridionale che oggi rischia di scomparire. La Fondazione CON IL SUD intende sostenere alcune eccellenze della tradizione artigiana meridionale che stanno scomparendo. A questo scopo, in collaborazione con l’Osservatorio dei Mestieri d’Arte di Firenze (OMA), rivolge un invito alle organizzazioni del Terzo settore per progetti di valorizzazione di antiche produzioni e competenze in Basilicata, Calabria, Campania, Puglia, Sardegna e Sicilia, da realizzare anche in partenariato con enti pubblici o privati, profit o non profit. Le proposte dovranno essere presentate online entro il 17 ottobre 2018 tramite la piattaforma Chàiros.
Il sapere e la tradizione artigianale sono tra le cifre più caratteristiche della cultura e dell’economia italiana e rivestono un’importanza strategica anche sul piano sociale: il lavoro artigiano, grazie alla qualità dei manufatti, restituisce dignità alle persone, rendendole orgogliose e gratificate, e permette di rafforzare, quando non di ricostruire, il legame con il territorio.
“Uno dei più lampanti paradossi del nostro paese, famoso per i suoi prodotti di qualità e con un’altissima disoccupazione giovanile, è che scarseggiano sempre di più calzolai, vetrai, falegnami, sarti o scalpellini – scrive Fondazione CON IL SUD – Questo succede perché i nipoti non seguono le orme dei nonni e perché questi mestieri risultano poco redditizi su un mercato veloce e globalizzato. La sfida di Fondazione CON IL SUD e OMA è quella di riscoprire il saper fare tradizionale, immaginando nuovi campi di applicazione tecnologica e commerciale e trovando nuovi potenziali talenti anche nelle giovani generazioni e tra le persone più fragili”.
Il bando interviene su settori artigianali particolarmente vulnerabili: dal ricamo tradizionale, come lo squadrato lucano, all’intreccio di fibre vegetali per realizzare cesti a Reggio Calabria o nasse e reti da pesca in Sardegna; dalla produzione di fili di seta a Catanzaro alla costruzione del mandolino napoletano e della chitarra battente cilentana; dalla costruzione di carretti siciliani alla tessitura con la tecnica del fiocco leccese o alla filatura della lana in Sardegna. Sono solo alcuni degli esempi di saperi antichi che rischiano realmente l’estinzione e che, inseriti in opportuni percorsi di innovazione e inclusione sociale, possono al contrario rappresentare opportunità per nuovi talenti e occasione per sperimentare approcci e modelli inediti di valorizzazione. Per la realizzazione delle singole iniziative, la Fondazione mette a disposizione complessivamente un contributo di 800 mila euro, in funzione della qualità delle proposte ricevute e della loro capacità di generare valore sociale ed economico sul territorio.