Poverty Inc., quando le cause umanitarie diventano un business

Il documentario di Michael Matheson Miller mostra il lato oscuro delle ong

Qual è il modo giusto per aiutare? Le ong che operano in campo umanitario fanno realmente il bene dei Paesi in via di sviluppo? Poverty Inc., documentario di Michael Matheson Miller in concorso nella sezione One Hour di Cinemambiente, mostra il lato oscuro delle ong, il paternalismo assistenzialista che si perpetua dal Secondo Dopoguerra e che si è trasformato in un’economia di scala sempre più articolata e strutturata. Il teorema da cui parte Miller è il seguente: chi detiene il potere vuole continuare a detenerlo lasciando in uno stato di sudditanza i più deboli. Ma il modello degli aiuti umanitari non funziona e sono in molti – sia fra gli aiutanti che fra gli aiutati – a ritenere che si debba cambiare registro passando dal paternalismo a forme di partnership. Uno degli esempi più concreti fatti da Miller è quello del terremoto di Haiti e di come il riso inviato dagli Stati Uniti (anche per compiacere le lobby agricole a stelle e strisce) abbia annichilito l’economia locale. Se prima il riso era un alimento che ci si poteva concedere due tre volte a settimana, ora gli haitiani lo mangiano anche tre volte al giorno. Un bene? Assolutamente no, come ripetono in molti. La risicoltura, una delle risorse del Paese, è stata annientata. Analogo è il discorso di un imprenditore del settore fotovoltaico che ha visto ridursi il proprio giro d’affari del 90% da quando gli Stati Uniti hanno iniziato a mandare i loro pannelli solari. Buona parte del film si svolge ad Haiti, Paese nel quale, dopo il terremoto, sono presenti 16mila ong, ma il documentario di Miller visita una ventina di altri Paesi (Sudafrica, Ghana, Perù e Kenya fra gli altri) in cui il povero non è più trattato come un soggetto ma come un oggetto degli aiuti. Se si esce dalla logica della povertà, l’industria degli aiuti umanitari diventa obsoleta, così come il modello neocolonialista a essa connesso. Coperto dalla retorica della generosità (con i vip come Bono e Angelina Jolie a fare da megafoni) il business degli aiuti umanitari alimenta soprattutto se stesso. La soluzione? Creare partnership che permettano ai Paesi in via di sviluppo di creare le proprie strutture, di consolidare le proprie competenze e di agire in totale autonomia.

Guarda la Galleria “Povertry Inc.”

Via | Cinemambiente

Cicloturismo, in Italia un business da 3,2 miliardi di euro

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Con 2.728.600 esemplari prodotti nel 2014 e una crescita del 2,1% sull’anno precedente, l’Italia si conferma come il primo produttore europeo di biciclette eppure il Paese continua a essere uno dei fanalini di coda continentali sia per quanto riguarda la ciclabilità, sia per ciò che concerne il cicloturismo. Un recente studio dell’Agenzia Nazionale del Turismo-Enit ha stimato in 3,2 miliardi di euro il possibile fatturato annuale di un cicloturismo a pieno regime nel nostro Paese. Perché ciò avvengono servono infrastrutture adeguate. Le piste ciclabili possono costare fino a 400 euro al metro, ma numerosi studi internazionali dimostrano l’alta redditività del settore: per ogni euro di investimento se ne guadagnano 4 o 5 in meno di tre anni. In Francia, tanto per fare un esempio, il cicloturismo movimenta 2 miliardi di euro l’anno, mentre nel nostro Paese brilla soprattutto la provincia autonoma di Trento con i suoi 400 chilometri di piste ciclabili che, dal 2009, generano oltre 100 milioni di euro l’anno. L’Italia è la nazione più ricca al mondo per siti e paesaggi dichiarati dall’Unesco patrimonio dell’umanità e molti di questi si prestano a una visita in sella a una bici. Tanti i progetti in cantiere, da VenTodi cui Ecoblog vi ha raccontato più volte, al progetto di un itinerario cicloturistico di 300 chilometri per collegare Verona a Firenze.

Fonte: AdnKronos

Coldiretti, furto di angurie nuovo business della criminalità

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Con il caldo e l’incremento della richiesta di uno dei frutti più freschi e reidratanti della stagione, la criminalità ha dato vita a un nuovo business fraudolento, il furto di angurie. Il pesante e redditizio frutto estivo viene portato via dai campi, con i camion, e dalle serre, con danni ingenti per le strutture. Coldiretti ha lanciato l’allarme allertando le prefetture delle zone maggiormente colpite dal fenomeno. È soprattutto il grande caldo ad avere suscitato l’interesse per questo frutto e Coldiretti avverte i consumatori consigliando loro di rivolgersi agli agricoltori nelle fattorie o ai contadini che partecipano ai mercatini di Campagna Amica. In seguito ai fenomeni sono stati chiesti maggiori pattugliamenti nelle zone rurali, con una più massiccia presenza delle forze dell’ordine nelle campagne. Il fenomeno dei furti in campagna è in preoccupante aumento con bande di malviventi che rubano di tutto, dalla frutta alla verdura, dalle piante al carburante, dagli attrezzi agricoli ai trattori.

Fonte:  Coldiretti

“Anche il biologico torni alla produzione locale”

Da 35 anni impegnati nell’agricoltura biologica con un’azienda in costante crescita e con un recente +13% nelle vendite. I membri della cooperativa La Terra e il Cielo fanno il punto di un’attività in cui hanno sempre creduto ma che oggi “conosce scenari inattesi perché molti vi vengono a cercare solo il business”. A parlare è Bruno Sebastianelli, presidente della cooperativa.cooperativa_terra_cielo

La cooperativa è in crescita? Com’è la situazione attuale in un mondo dove il biologico non rappresenta più una nicchia sconosciuta?

“Noi siamo da 35 anni nel biologico; oggi il mondo del bio è diventato interessante per i grandi gruppi e ci siamo accorti che le cose sono cambiate. Ora ci sono anche scandali, 30 anni fa c’erano solo gli idealisti che credevano nella coltivazione naturale, oggi tanti si buttano solo per business. Ma nonostante la crisi e gli scandali, il biologico cresce in maniera costante, secondo i dati Nomisma del 17 %. Anche noi rispettiamo questa tendenza con una crescita noi del 13%. Il problema però è che, mentre il biologico cresce, non tutte le aziende bio fanno altrettanto. Questo vuol dire che arrivano sempre più prodotti bio dall’estero e non sempre c’è trasparenza. La sfida è promuovere l’agricoltura biologica vera, perché sennò rischiamo di perdere un altro treno importante. Non è facile, le istituzioni in questo non ci danno una mano. Il biologico ha difficoltà non perché non produce reddito, ma perché è schiacciato dalla burocrazia. Il problema enorme è dato dai contributi che hanno generato una burocrazia spaventosa alla quale inginocchiarsi: se non arrivano l’azienda fallisce. L’obiettivo sarebbe arrivare a non chiedere nessun contributo. Il 40% del bilancio della comunità europea va all’agricoltura, ma realmente alle aziende agricole finisce molto meno. Noi abbiamo fatto un calcolo nella regione Marche dove alle aziende finisce il 25%. Conosco bene anche la regione Veneto dove abbiamo una cooperativa associata da diversi anni; lì alle aziende arriva solo il 18%. I soldi quindi vengono fagocitati prima di arrivare agli agricoltori. Il contributo schiavizza il produttore agricolo, noi dobbiamo slegarci da questo”.

Quali sono la mission e l’ideologia di base della cooperativa?

“Siamo un’azienda pioniera nel biologico. Quando abbiamo iniziato nel 1980 eravamo un gruppo di giovani, venivamo dagli anni ’70, poi ci siamo ritirati in campagna con l’idea finale di portare sul mercato dei prodotti sani. Il Comune di Senigallia decise di concederci un affitto politico, siamo rimasti in piedi con donazioni ed è partita l’esperienza di 32 ettari di agricoltura naturale, nell’ottica di rispettare l’ambiente e l’operatore agricolo, tutelare l’economia rurale e anche esportare l’agricoltura bio dei paesi extra Cee senza andar dietro alle speculazioni del mercato. Siamo partiti come cooperativa di conduzioni terreni, poi negli anni stavano nascendo aziende bio ed è venuto fuori il problema di come e dove commercializzare i prodotti. Nell’85 abbiamo modificato lo statuto perché c’era l’esigenza di unire le aziende, siamo passati a cooperativa di soci lavoratori”.

Quali sono i principi a cui non si deve rinunciare nonostante la crisi economica e la concorrenza?

“Naturalmente è la qualità del prodotto ma occorre tener conto del fatto che i prezzi dei prodotti alimentari non sono reali, vengono abbassati talmente tanto da non considerare i costi sociali e ambientali. Prendiamo ad esempio un pollo da allevamento intensivo; se andiamo a calcolare tutti i costi ambientali e sanitari che ha quel prodotto, che costa pochissimo, dovrebbe allora costare molto di più rispetto a quanto lo paghiamo. So purtroppo che ci sono persone che magari non arrivano alla fine del mese, ma non è giusto mangiare cibi non adeguati. Peraltro quel modo di produrre diventa concorrenza sleale. È tutto da rifondare; non si parlare di pasta a 39 centesimi al mezzo chilo, perché solo la semola di grano duro viene a costare più della pasta. Bisognerebbepuntare a un prodotto di qualità a un prezzo giusto, né troppo né poco, senza speculazioni in ribasso e in rialzo. Noi stiamo facendo questo. Stiamo nel nostro piccolo tentando di fare questo perché non è semplice. Anche nel mondo del biologico purtroppo c’è tanta concorrenza sleale, ci sono tantissimi prodotti che non sono tracciati. Io mi metto in concorrenza con chi mi garantisce una filiera tracciata italiana, con chi garantisce un prezzo giusto ai produttori. La pasta è il nostro prodotto principale; tutto il nostro prodotto integrale è macinato a pietra, nel mercato integrale invece ci sono anche il mulino a cilindri che non è ideale per ottenere un buon prodotto (la pasta bianca usa quello a cilindri). La maggior parte della pasta integrale in Italia non è veramente integrale: prendono la semola e la crusca e le mettono insieme. Che concorrenza è questa! Il mulino a pietra è fondamentale, lascia il germe e il suo contenuto proteico. Anche nell’ultima fase, la pastificazione a essiccazione lenta e a bassa temperatura, c’è un mondo da scoprire. Oggi sia nel convenzionale ma anche nel biologico, la maggior parte delle paste sono essiccate ad alta temperatura, così il calore distrugge tutte le sostanze nutritive, in pochissimo tempo avviene una perdita nutrizionale.  L’Istituto Nazionale della Nutrizione, dopo l’avvento alla fine anni ’70 dell’alta temperatura, ha condotto una ricerca sugli amminoacidi e la perdita nutrizionale: essiccando a 50 gradi risulta essere del 22%, a 80 gradi è del 47%. Oggi si essicca a 120 gradi! Noi impieghiamo 24 ore per essiccare la pasta, gli altri 4 ore. Noi cerchiamo di fare un prodotto di qualità. Chiaramente costa di più e chiaramente chi non ha soldi fa più fatica a comprarlo, se però ci si organizza con i gruppi d’acquisto noi possiamo portare il prodotto a un prezzo molto più interessante. È chiaro che se noi vendiamo ai distributori, i distributori al negozio e il negozio al consumatore ci sono tanti passaggi e il prezzo aumenta; se c’è il rapporto diretto con il gruppo d’acquisto costa molto meno”.

Da dove provengono i prodotti che vendete?

“La nostra cooperativa è composta da 100 aziende agricole soprattutto piccole, il 95% marchigiane, più qualcuna fuori regione per tutelarci negli anni di raccolto scarso. Quest’anno è stato disgraziato per il raccolto; abbiamo aziende in Lazio e una cooperativa in Basilicata per sopperire alle annate difficili”.

Quali sono i vostri prodotti principali?

“La pasta perché produciamo grano duro qui nelle Marche. Abbiamo 80 tipologie di pasta bio, di semola, bianca, linee trafilate al bronzo, integrale e semi integrale di farro. Inoltre abbiamo ripreso vecchie varietà dei contadini come la pasta di fave. Abbiamo anche recuperato i grani antichi, oggi le sementi convenzionali sono selezionate per fare grande produzione ma non qualità. Il primo cereale che abbiamo recuperato è stato l’orzo, una varietà scomparsa che andava molto negli anni guerra quando c’era il blocco del caffè. Allora tutti si erano organizzati con caffè d’orzo mondo. È una varietà più buona e nutriente rispetto all’orzo normale. Anche il farro è stato rilanciato dal mondo bio, ma pure il Senatore Capelli. Abbiamo il grano antico Taganrog, molto presente in epoca romana qui da noi, poi surclassato da altre varietà e finito stranamente in Ucraina. È stato riportato in Italia dalla zona del mar Nero, infatti si chiama così perché Taganrog è una città sul mar Nero. Stiamo lavorando con i cereali antichi perché ci siamo accorti che non danno intolleranza al glutine anche se contengono più glutine rispetto ai grani moderni. I grani creati nel dopoguerra hanno portato un disastro totale. I grani antichi vengono riconosciuti e digeriti dall’organismo che invece non  riconosce i grani che hanno subito modifiche genetiche. È un lavoro di riscoperta di queste varietà”.

Vi siete scontrati con il mondo della grande distribuzione?

“Il nostro fatturato è per il 60% in Italia e per il 40% all’estero. In Italia il 60% è diviso tra distributori, direttamente ai negozi, ai Gas e, localmente, alla grande distribuzione. In particolare per i gruppi d’acquisto abbiamo un listino a parte, questo merita attenzione perché abbiamo un listino commerciale e uno dell’economia solidale anche perché noi siamo stati promotori della rete di economia solidale delle Marche (resMarche) e collaboriamo con la res nazionale. Se uno acquista poco prodotto lo paga di più; se il Gas si impegna a fare un acquisto minimo annuale ottiene sconti. Garantiamo anche trasparenza dei prezzi, forniamo tutti i calcoli del costo del prodotto: chiariamo quanto paghiamo il grano, i costi che abbiamo (trasporto, stoccaggio, macinazione, pastificazione) fino al costo della pasta finale, più i nostri costi generali, più il 2% di utile (una cooperativa deve comunque avere un piccolo utile per sopravvivere). Inoltre il 2% del fatturato generato dai Gas (1% noi e 1% Gas) va a progetti di economia solidale. Quest’anno faremo presto l’assemblea, c’è un patto chiamato Adesso pasta! Chi ha firmato il patto può partecipare all’assemblea e decidere con noi a chi destinare il 2% (circa 4-5mila euro all’anno). L’anno scorso sono andati all’associazione no OGM, l’anno prima a un’associazione in Brianza che lottava contro un’infrastruttura che rovinava azienda biologiche. Inoltre nelle Marche vendiamo anche alla grande distribuzione solo in un discorso di economia locale. Anche perché se vai a trattare con i grandi gruppi a livello nazionale hai costi elevati; a livello locale, invece, ti cercano loro perché hanno bisogno dello specchietto per le allodole. Quindi siamo presenti in diversi supermercati”.

Quali sono le caratteristiche che contraddistinguono un vero produttore bio, che permettono all’utente di avere garanzie certe? La solita critica che i diffidenti del biologico fanno è che nessuno può garantire che un prodotto sia biologico davvero. Ora che anche i grossi produttori/distributori (Coop, Conad… ) si sono messi a fare bio, cosa fa realmente la differenza?

“Di produttori storici siamo rimasti pochissimi, noi crediamo nella salvaguardia del piccolo produttore a livello sociale, ambientale perché dove ci sono le grandi aziende è un discorso diverso. La piccola azienda tutela e presidia di più il territorio, però è anche quella più in difficoltà, non riesce a stare dietro ai costi più alti. L’agricoltura industriale ha fallito, sia quella convenzionale che quella biologica. Ci sono 3 tipi di agricoltura bio: l’agricoltura biologica di frode; quella del contributo, cioè quella di chi semina solo per prendere il contributo; e l’ultimo tipo, l’agricoltura di piccola scala dei piccoli produttori. Con piccoli produttori intendo sui 50 ettari. In Italia c’è una grande discussione sulle frodi del biologico e si parla allora di rendere le regole più restrittive. Ci rimettono i piccoli agricoltori perché sono schiacciati dalla burocrazia che si crea intorno ai contributi. Che è spaventosa. A noi è successo qui nella nostra valle l’anno scorso, hanno tolto i contributi a diverse aziende associate. I grandi speculatori pensano solo a compilare i registri aziendali, invece un agricoltore chinato a coltivare la terra può sbagliare una data o un campo e allora viene tagliato fuori. Quindi bisogna rendere più severe le regole nel modo giusto sennò sono sempre i grandi produttori che vanno avanti a frodare e i piccoli a rimetterci. La FAO dimostra in uno studio che ancora per quasi il 70% il mondo mangia con i piccoli produttori e non con l’agricoltura industriale. Ora che l’agricoltura industriale ha fallito, ci propongono gli OGM. Noi dobbiamo opporci e salvaguardare le piccole aziende; nel bio è giusto che ci sia la certificazione per garantire il consumatore, però le certificazioni costano sempre di più e una piccola azienda fa fatica”.

Secondo i parametri convenzionali bisogna sempre incrementare la produzione e crescere per essere concorrenziali; voi che intenzioni avete?

“Per organizzarci al meglio dovremmo fare un salto di qualità nel percorso produttivo e ci manca un anello nella filiera della pasta (che è il 70 % della produzione): il pastificio. Collaboriamo con un pastificio artigianale da 32 anni. Il problema è che questo pastificio non ha futuro, il titolare va in pensione e gli eredi non ne vogliono sapere. Siamo quindi costretti a fare il salto di qualità e ammoderneremo pastifici vuoti. È ovvio che per fare un pastificio devi avere un fatturato minimo. Crescere è importante, ma noi non vogliamo diventare una grande azienda nè crescere solo per fare fatturato. Vorremmo solo vendere a un prezzo giusto. Comunque siamo per un’economia di sussistenza su piccola scala; abbiamo un fatturato di 20 milioni di euro quindi siamo piccoli. Dagli anni 80, ma soprattutto dai 90, abbiamo iniziato a vendere all’estero. Ci sono problemi di impatto ambientale ed economici e preferiamo privilegiare lo sviluppo di un’economia più locale. Stiamo promuovendo aziende della nostra valle, la valle del Nevola da Arcevia a Senigallia, nelle Marche. Tutti i Comuni eccetto uno hanno iniziato ad acquistare i prodotti e con i sindaci stiamo promuovendo l’agroalimentare bio, sviluppando l’agricoltura bio e le energie rinnovabili. In base consumi nazionali pro capite di pasta, nella nostra valle si consumano 24000 quintali di pasta all’anno; noi produciamo 8000 quintali di pasta all’anno rifornendo tutta l’Italia ed esportando in più di 20 paesi del mondo. È assurdo! La nostra produzione basta per un terzo della popolazione della zona, è chiaro che non riusciremo mai a venderla tutta qui ma dobbiamo puntare sull’economia locale”.

http://www.macrolibrarsi.it/data/partner/2867/31489.html

fonte: ilcambiamento.it

Ecomafia 2014, il rapporto di Legambiente: business da 15 miliardi di euro all’anno

Legambiente ha presentato oggi il Rapporto Ecomafia 2014sulle attività criminali legate all’Ambiente dove si è registrato un aumento di reati nel ciclo dei rifiuti e contro la fauna, mentre raddoppiano quelli nel settore agroalimentare. Una buona notizia c’è: calano gli incendi dolosi

Legambiente ha presentato oggi il Rapporto Ecomafia 2014sulle attività criminali legate all’Ambiente dove si è registrato un aumento di reati nel ciclo dei rifiuti e contro la fauna, mentre raddoppiano quelli nel settore agroalimentare. Una buona notizia c’è:; calano gli incendi dolosi. Le ecomafie sono un business da 15 miliardi di euro all’anno: questo in sintesi il senso del dossier Ecomafia 2014 presentato oggi da Legambiente. Lo scorso anno nel rapporto Ecomafia 2013 il giro d’affari stimato era di 16,7 miliardi di euro e gestito da 302 clan il che apre uno spiraglio di ottimismo per la lieve flessione registrata. Secondo Legambiente il calo nel volume d’affari è da ricercarsi nella contrazione degli investimenti a rischio, passati da 7,7 a 6 il che lascia pensare che la spending review abbia inciso sulle occasioni di guadagno illegali. Il 47% dei reati ambientali si è registrato in Campania, Puglia, Calabria e Sicilia e dove ci sono state 4.072 persone denunciate, 51 arresti e 1339 sequestri. In Lazio invece ci sono stati 2084 reati, 1828 denunce, 507 sequestri e 6 arresti; in Liguria si sono registrati 1.431 reati. La classifica delle province con la maglia nera vede in testa Napoli, seguita da Roma, Salerno, Reggio Calabria e Bari. Nel 2013 sono state dunque accertate 29 mila infrazioni ossia 3 all’ora e i clan coinvolti sono stati 321; il settore che ha cumulato maggiori infrazioni è stato l’agroalimentare con 9540 reati ossia più del doppio rispetto al 2012 quando ne furono registrati 4173; il 22% di infrazioni si sono registrate nel settore della fauna, il 15% nei settore dei rifiuti e il 14% nel settore del ciclo del cemento. In ascesa i reati contro la fauna: 8504 ossia +6,6% rispetto al 2012 con 67 arresti, 7894 denunce e 2620 sequestri. A essere bersaglio delle Ecomafie anche la Green economy oggetto di truffe ai danni delle energie rinnovabili. Infatti la deregulation che vige nel settore ha permesso alla criminalità di approfittare di join-venture con aziende del settore. Altro ambito di interesse lo si trova nella GDO e nei centri commerciali di tutta la Penisola: la criminalità può arrivare a gestire l’intera filiera dalle assunzioni, alle forniture per il riciclo di denaro sporco.

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Una buona notizia però c’è e riguarda gli incendi dolosi che hanno fatto registrare una notevole contrazione: 3.042 del 2013 ossia -63%, con 375 persone denunciate e 7 arresti. Il numero di ettari persa però resta alto.

Ha detto alla presentazione Rossella Muroni Direttrice nazionale di Legambiente:

Ecomafia 2014 evidenzia un nuovo aspetto delle attività degli ecocriminali che si muovono con strategie sempre più sofisticate camuffate di legalità che si espandono verso nuovi settori. Sul fronte della corruzione è necessaria una risposta urgente perché è proprio l’area grigia dei funzionari pubblici corrotti che arricchisce e rende ancora più potente l’ecomafia. Nelle banche straniere transitano soldi accumulati trafficando rifiuti, prodotti alimentari contraffatti e opere d’arte rubate. Diminuisce leggermente il numero dei reati che diventano però più gravi, invasivi e pericolosi. La corruzione, la complicità di quella che abbiamo chiamato ‘area grigia’ dei funzionari pubblici consenzienti, amplifica il fenomeno che riguarda tutta l’Italia e si allarga all’Europa, danneggiando pesantemente l’economia legale, consumandone spazi e risorse e condizionando profondamente alcuni settori strategici, come quello delle rinnovabili ad esempio, dove le organizzazioni criminali investono sempre di più approfittando dei prestiti e degli aiuti europei che gli permettono di ripulire i profitti illeciti attraverso attività economiche legali.

Infine il dossier di quest’anno è intitolato alla memoria di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin e del sostituto commissario di Polizia Roberto Mancini, scomparso per cancro, malattia sorta a causa del suo lavoro di indagine sui traffici di rifiuti tra Campania e Lazio.

Fonte:  Legambiente

 

Cinemambiente 2014: criminalità e ambiente, due documentari contro le ecomafie

Nella manifestazione torinese due documentari che puntano il dito contro le conseguenze ecologiche dei business della criminalità organizzata

Due documentari contro le ecomafie che le ecomafie le lasciano sullo sfondo sono stati presentati al festival CinemambienteNella Terra dei Fuochi di Marco La Gala entra nelle vite di alcune persone toccate dal dramma degli sversamenti illegali nelle campagne ai piedi del Vesuvio. In quella stessa terra che i Romani chiamavano “terra felix” sono state stimate 2500 discariche illegali di rifiuti. Da decenni a questa parte, in particolare nelle provincie di Napoli e Caserta, sono infatti centinaia i terreni abbandonati dagli agricoltori che sono diventati aree gestite dai clan camorristici per smaltire scarti industriali spesso tossici. Ed è proprio qui che la cooperativa sociale Ottavia di Marigliano ha deciso di recuperare un campo inutilizzato da più di vent’anni, riportandolo alla sua funzione originaria: la produzione agricola. Riscoprendo così una cultura, come quella contadina, che è sempre più a rischio estinzione. Alle voci dei coraggiosi contadini e abitanti del luogo che raccontano i “fuochi” si alternano in uno straniante controcanto quelle dei festeggiamenti, con altri fuochi, della festa di Sant’Antonio. Tematiche affini a quelle toccate dal documentario di La Gala si ritrovano anche in Patti sacri del collettivo artistico Dott. Porka P-Proj formato da tre fratelli che, a partire dal 2002, si sono distinti per performance e interventi in zone rosse, aree sequestrate e vietate al pubblico. In Patti Sacri la loro attenzione si concentra sulla cementificazione sulle Alpi e sull’intreccio fra politica, malavita organizzata ed edilizia.Immagine29-620x395

Foto | Nella Terra dei Fuochi

Fonte: ecoblog.it

Confessioni di un trafficante di uomini: il business spietato che sta dietro alle migrazioni clandestine

È un vero e proprio mercato dove vige la legge del più forte, un business spietato, una tratta di esseri umani che valgono solo come fonte di denaro. È il business delle migrazioni clandestine, raccontato da Andrea Di Nicola e Giampaolo Musumeci nel loro libro “Confessioni di un trafficante di uomini”. È un viaggio alla scoperta dell’indicibile, un libro a metà tra narrazione e inchiesta dal quale, grazie alle testimonianze dei protagonisti, emerge una realtà che sconcerta, ma che è più vero del vero. Ed è sotto i nostri occhi, anche se non vogliamo vedere.

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L’immigrazione clandestina è un fenomeno attualissimo, come dimostrano Andrea Di Nicola – docente di criminologia all’Università di Trento – e Giampaolo Musumeci, giornalista, fotografo e videoreporter, che hanno percorso un lungo viaggio in molti paesi dell’Europa e dell’Africa per far emergere le testimonianze dei protagonisti, i cosiddetti trafficanti di uomini, che nel libro-inchiesta raccontano la loro vita, la loro prospettiva e i metodi per far valicare illegalmente le frontiere a migliaia persone. Il risultato è sconcertante, lo si legge inConfessioni di un trafficante di uomini (Chiarelettere, gennaio 2014), che in maniera semplice e chiara svela quello che sta dietro alla mafia delle migrazioni clandestine. Il libro racconta le testimonianze di queste persone spiegando chi sono, perché fanno tutto ciò, com’è organizzato il traffico, che rotte e metodi utilizzano. Noi ve lo raccontiamo attraverso le parole degli autori.

Cosa c’è veramente dietro l’arrivo dei migranti in Occidente? Chi sono i trafficanti di uomini? «Abbiamo deciso di scrivere questo libro perché l’apparenza inganna , siamo abituati a sentire dai media solo dei continui sbarchi a Lampedusa con barconi fatiscenti e tutte queste notizie ci impediscono di capire cosa c’è veramente dietro al fenomeno dell’immigrazione. Non si è mai parlato e riflettuto sulle vere cause di questi avvenimenti né con il piccolo né con il grande pubblico. È quindi importante analizzare la situazione per capirci qualcosa in più. I trafficanti possono essere considerati dei facilitatori di immigrazioni clandestine, si parla di “maggiore agenzia viaggi del mondo” che offre “pacchetti” che variano a seconda delle esigenze del “cliente”. Il tutto ha alle spalle un network criminale organizzato. Noi siamo riusciti a entrare in questa rete per parlare con trafficanti di media importanza che agiscono tra l’Europa e l’Africa ed è fuoriuscito che non è così semplice come sembra, non ci sono solo i barconi di Lampedusa, ma, per quanto riguarda soprattutto l’Italia, anche “ingressi” dai Balcani, dalla Slovenia con visti turistici falsi o permessi di soggiorno per questioni lavorative. Inoltre spesso l’Italia non è il paese di destinazione, ma funge da ponte per i Paesi del centro e nord Europa».

I trafficanti sono solo interessati al guadagno facile o ci sono dietro anche altre motivazioni? Da alcuni vengono dipinti come criminali e da altri come benefattori, quale potrebbe essere una giusta valutazione? «I trafficanti sono uomini d’affari che mettono sul mercato un servizio, non si può parlare di benefattori. Ogni criminale ha una precisa rappresentazione di sé: c’è chi si crede un professionista, c’è chi dice di “vendere sogni”, c’è chi si sente onesto perché viene amato da tutti e c’è chi non vuole avere morti sulla coscienza per non far calare la fiducia nel proprio business perché si parla spesso di mercato e quindi i clienti chiedono e vanno da questa o da quella agenzia a seconda del prezzo e del nome che il trafficante si è creato. La motivazione principale che li spinge a fare tutto ciò sono i fiumi di denaro che circolano, si parla anche di 6 milioni di euro all’anno per un medio trafficante. Ovviamente queste cifre coprono tutti i rischi che si incontrano nello svolgere queste operazioni. Secondo i dati dell’Organizzazione internazionale delle migrazioni (2011) “i proventi di questa attività si aggirano fra i tre e i dieci miliardi di dollari l’anno”, si può parlare, quindi, di un business che è secondo solo a quello della droga. Infatti ogni trafficante può trasportare anche 300/400 persone all’anno e, considerando che, per esempio, un viaggio Pakistan-Italia vale dai 3000 ai 45.000 euro, si può facilmente immaginare il profitto complessivo. Altri esempi di tariffe dei trafficanti, in dollari Usa, sono: Afganistan-Regno Unito 25.000, Cina-Usa 40-70.000, Iraq-Germania 7-14.000. (Dati Global Black Market Information)».

L’azione di questi trafficanti è soggetta alla giurisdizione del diritto internazionale o nazionale? Cosa accade loro quando vengono presi? «In generale vengono presi solo i “pesci piccoli”, gli scafisti quando arrivano nel paese di destinazione. Si parla quindi di una goccia nel mare che serve solo come notizia mediatica, per avere la coscienza a posto e per dimostrare di aver fatto qualcosa per impedire o limitare questo problema come quando viene arrestato uno spacciatore e si crede di aver bloccato l’intero traffico. Per i “boss” i rischi di essere presi sono bassi e i soldi che girano nell’ambiente coprono questo rischio. Inoltre non c’è ancora l’idea diffusa che ci sia un’organizzazione criminale che agisce nelle retrovie e che sta attenta a non farsi scoprire (per esempio avendo telefoni in altri stati, usando rotte sempre diverse…) contrastando le indagini della polizia e della magistratura grazie anche a problemi di burocrazia internazionale».

Cosa si può fare, agendo alle origini, per impedire un dramma di questo tipo?  «L’emigrazione non si può fermare, è causata da macrocause geopolitiche come: richiesta d’asilo, scappare da guerre, povertà, differenza di benessere sociale e sanitario… Quindi il nostro stile di vita “occidentale” e “consumistico” influisce sulla scelta di abbandonare il proprio paese. Se non si va ad agire direttamente sul miglioramento delle loro economie povere questo movimento non si arresterà mai. Purtroppo non si può parlare, perlomeno questo non è nell’intento del testo, di eliminazione delle disparità. La soluzione implicita che viene fuori dal libro è un maggior controllo: si sa ormai che alcuni sotterfugi per “passare di qua” sono falsificare le richieste d’asilo o i permessi di soggiorno per il lavoro, si può agire solo su questo o si rischia di essere presi per sognatori utopici».

Fonte: il cambiamento.it

Confessioni di un Trafficante di Uomini - Libro
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Uranio impoverito, il business segreto della regina Elisabetta

La Casa Reale britannica, incurante dell’impatto ambientale, avrebbe investito nell’uranio circa 4 miliardi di sterline. Una rivelazione shock sull’intreccio fra Buckingham Palace e società produttrici di armi 174296391-586x393

La notizia, se confermata, è destinata a fare parecchio rumore. Secondo il gruppo pacifista Stop the War Coalition, la regina Elisabetta II, una delle donne più ricche e potenti del pianeta, avrebbe fatto affari con l’uranio impoverito, portando ingenti guadagni nelle casse di Buckingham Palace. Nel video, pubblicato su Youtube, gli attivisti raccontano di come, in sessant’anni, il capitale della Casa Reale Britannica sia cresciuto da 300 milioni di sterline a 17 miliardi di sterline. Come? Con investimenti nell’industria petrolifera nazionale (BP) e nelle aziende che producono armi che utilizzano l’uranio impoverito, come la Rio Tinto Zinc. Il video cita l’esperto Jay M. Gould che nel 1996 pubblico The Enemy Within, libro nel quale rivelava come la casa reale britannica, ma soprattutto la regina in prima persona, avesse investito una cifra di circa 4 miliardi di sterline nell’uranio attraverso la Rio Tinto Zinc, la compagnia mineraria fondata nel 1950 (con il nome Rio Tinto Mines) daRonald Walter Rowland, per volontà della casa reale britannica. Nel video si sostiene che la Regina e gli altri reali abbiano investito nell’uranio impoverito, senza farsi troppi scrupoli sulle conseguenze sanitarie e ambientali delle loro speculazioni. Le armi all’uranio impoverito sono state utilizzate dai militari degli Stati Uniti durante la prima Guerra del Golfocontro l’Iraq, nel 1991. Da allora sono diventate di uso comune in numerosi conflitti, fra cui quelli in Afghanistan, nei Balcani e, nuovamente, in Iraq. Secondo il Ministero della Difesa degli Stati Uniti solamente in quel conflitto furono utilizzate fra le 315 e le 350 tonnellate di uranio impoverito in bombe, granate e proiettili. Secondo Doug Rocchi, che fu responsabile del Pentagono per i progetti sull’uranio impoverito, la decontaminazione dell’ambiente dove è stato utilizzato uranio impoverito è impossibile. A ventidue anni dal primo conflitto ea quasi dieci anni dalla “guerra preventiva”, in Iraq continua a crescere il numero di malformazioni, leucemie e patologie genetiche attribuibili all’utilizzo di uranio impoverito. I problemi del Medio Oriente, però, sono distanti dagli affari della casa reale, quegli affari che nascondono parecchie zone d’ombra che la stampa mainstream bada bene a tenere sotto silenzio, interessandosi piuttosto ai cappellini delle principesse e al nome del Royal Baby.

Fonte:  Stop The War Coalition

 

In Norvegia i rifiuti si trasformano in business

Dal Regno Unito e da altri Paesi d’Europa arrivano in Norvegia rifiuti pronti a essere bruciati nei termovalorizzatori e a fornire energia e soldi in cambio dello smaltimento157076659-586x389

Nonostante disponga di abbondanti riserve petrolifere, la Norvegia sta importando parecchia spazzatura con una strategia che gli consente di generare energia nei propri termovalorizzatori, facendosi persino pagare da Paesi come il Regno Unito che arrivano nei fiordi con i loro carichi di rifiuti. In sei mesi – fra l’ottobre 2012 e l’aprile di quest’anno – il Regno Unito ha spedito dai porti di Bristol e Leeds ben 45mila tonnellate di rifiuti domestici.

I rifiuti sono diventati una merce. C’è un grande mercato europeo legato allo smaltimento dei rifiuti, così grande da aver spinto i norvegesi ad accettare l’immondizia proveniente da altri Paesi,

spiega Pål Spillum, capo del recupero rifiuti presso l’Agenzia per il Clima e l’Inquinamento della Norvegia. I proventi di queste attività sono un perfetto fifty-fifty: il 50% del reddito arriva dal pagamento dei rifiuti, l’altro 50% dalla vendita di energia. Secondo le ultime stime, sarebbero oltre 400 i termovalorizzatori attivi in Europa, impianti in grado di fornire calore ed elettricità a 20 milioni di persone. Fra le maggiori importatrici vi sono Germania, Svezia, Belgio, Paesi Bassi e Norvegia, ma è quest’ultima a vantare la maggiore produzione di energia per il teleriscaldamento derivante dai rifiuti. In termini economici un successone, ma in termini ecologici?

I norvegesi dividono meticolosamente in tre sacchetti la loro immondizia: blu per la plastica, verde per l’umido e nero per tutto ciò che va nel termovalorizzatore. Tutto perfettamente diviso, ma qualcuno inizia a essere preoccupato per i rifiuti che arrivano dal Regno Unito. Greenpeace, per esempio, oppure Friends of the Earth secondo il quale gli inceneritori hanno un potere dissuasore nei confronti delle buone pratiche del riciclo. Secondo Julian Kirby

utilizzare i rifiuti per produrre energia non è così “green” come sembra. Questo perché, secondo le stime, l’80% di ciò che viene incenerito è facilmente riciclabile. Se si pensa che il rifiuto possa essere bruciato si è più inclini a buttare le cose piuttosto che a pensare a come riciclarle.

Anche dal punto di vista paesaggistico gli inceneritori non sono affatto graditi, ma la percentuale dei sostenitori è più alta di quella dei detrattori: un 71% che sa di plebiscito.

Fonte:  The Guardian

 

Il business dell’acqua in bottiglia, un vizio tutto italiano

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Business miliardari con introiti enormi per le aziende e scarsissimi ritorni per le Regioni. Enorme impatto ambientale e alti costi per i consumatori. In occasione della giornata mondiale dell’acqua, che si celebra oggi 22 marzo, Legambiente e Altreconomia presentano ‘Acqua in bottiglia’, il dossier che svela le pecche di un vizio tutto italiano. Un giro d’affari pari a 2,25 miliardi di euro che riguarda 168 società per 304 diverse marche commerciali; l’uso di oltre 6 miliardi di bottiglie di plastica prodotte utilizzando 456 mila tonnellate di petrolio, che determinano l’immissione in atmosfera di oltre 1,2 milioni di tonnellate di CO2: c’è un vero e proprio business dentro una bottiglia d’acqua. L’abitudine tutta italiana di preferire l’acqua in bottiglia a quella del rubinetto innesca, infatti, un meccanismo economico che porta immensi guadagni alle aziende imbottigliatrici e un’enorme consumo di risorse per il Paese, oltre ad alti livelli di inquinamento indotto e consumo di risorse. Nel 2011 i consumi di acqua sono aumentati rispetto all’anno precedente, passando da 186 a188 litri per abitante all’anno (nel 2011), numeri che confermano il primato europeo del nostro paese per i consumi di acque minerali: dei 12,350 miliardi di litri imbottigliati nel solo 2011, oltre 11,320 miliardi sono stati consumati dentro i confini nazionali. Senza dimenticare che ancora oggi solo un terzo delle bottiglie viene avviato correttamente al riciclo, mentre la gran parte continua a finire in discarica o ad essere dispersa nell’ambiente e che per l’85% dei carichi si continua a preferire il trasporto su gomma. Questo vuol dire che una bottiglia d’acqua che proviene dalle Alpi percorre oltre 1000 km per arrivare in Puglia, con consumi di carburante e emissioni di sostanze inquinanti conseguenti. Cifre che potrebbero aumentare visto che l’affare delle acque in bottiglia continua ad essere molto vantaggioso per le società che lo gestiscono. Infatti, i canoni richiesti dalle Regioni per le concessioni sono, in molti casi, risibili, come nel caso della Liguria che chiede solo 5 euro per ciascun ettaro dato in concessione, senza prendere in considerazione i volumi emunti o imbottigliati, e incassando appena 3.300 euro all’anno per le 5 concessioni attive sul territorio.
L’unica Regione promossa nella classifica di Legambiente e Altreconomia è il Lazio. Ricordiamo che sui canoni di concessioni è intervenuta, già nel 2006, la Conferenza Stato-Regioni, provando a mettere ordine nel settore con un documento di indirizzo che proponeva di uniformare i canoni su tutto il territorio nazionale, prevedendo l’obbligo di pagare sia in funzione degli ettari dati in concessione che per i volumi emunti o imbottigliati, indicando come cifre di riferimento almeno 30 euro per ettaro e un importo tra 1 e 2,5 euro per m3 imbottigliato. Nonostante ciò, a sette anni dall’approvazione di tale documento, la situazione è ancora caotica e indefinita, come evidenzia il dossier di Legambiente e Altreconomia appena presentato, che divide le Regioni e le Province autonome in promosse, promosse con riserva, rimandate e bocciate, sulla base dei canoni richiesti, tutte comunque accomunate dalla medesima peculiarità, per cui le condizioni sono sempre molto più vantaggiose per le società che imbottigliano l’acqua che per le Amministrazioni. Nel dettaglio, l’unica Regione promossa nella classifica di Legambiente e Altreconomia è il Lazio che prevede un triplo canone, in funzione degli ettari dati in concessione (65 euro), dei volumi emunti (1 euro/metro cubo) e di quelli imbottigliati (2,17 euro a metro cubo), mentre 10 Regioni (Calabria, Friuli Venezia Giulia, Lombardia, Marche, Sicilia, Toscana, Umbria, Valle d’Aosta, Veneto e Provincia autonoma di Trento) sono state promosse con riserva perché prevedono il doppio canone (volume + superficie) secondo le linee guida nazionali, con canoni per i volumi imbottigliati o emunti tra 1 e 1,50 euro per metro cubo. Seguono poi 4 Regioni rimandate che, pur prevedendo un canone in funzione dei volumi imbottigliati, applicano ancora importi inferiori a 1 euro per metro cubo, in disaccordo con le linee guida nazionali: Basilicata, Campania, Piemonte Abruzzo. Infine, la Provincia autonoma di Bolzano, l’Emilia Romagna, la Liguria, il Molise, la Puglia e la Sardegna risultano inderogabilmente bocciate perché adottano i criteri solo in funzione degli ettari dati in concessione o delle portate derivate. “Da Nord a Sud, sono ancora troppe le Regioni che non si sono ancora dotate di adeguati meccanismi per far pagare un canone equo alle aziende che imbottigliano – ha dichiarato Pietro Raitano, direttore di Altreconomia -. In tempi di crisi economica, il beneficio sarebbe importante per tutto il Paese, perché aumenterebbe le entrate senza intaccare posti di lavoro ma semmai contribuendo a processi economici più sostenibili. Processi che tuttavia hanno bisogno ancora di un costante impegno informativo, che noi di Altreconomia e Legambiente perseguiamo ormai da 7 anni”. Una bottiglia d’acqua che proviene dalle Alpi percorre oltre 1000 km per arrivare in Puglia. “Da questa situazione emerge un’unica certezza: le Società che imbottigliano l’acqua continuano ad avere elevatissimi vantaggi economici. Degli oltre 2,25 miliardi di euro di affari incassati nel solo 2011, il ritorno economico per Comuni, Province o Regioni è stato assolutamente irrisorio, nonostante la risorsa alla base del profitto sia un bene comune che appartiene alla collettività – ha sottolineato il responsabile scientifico di Legambiente Giorgi Zampetti -. Se invece si applicasse un canone uniforme e soprattutto più elevato, come i 10 euro al metro cubo, proposti più volte da Legambiente, si arriverebbe ad avere degli introiti molto maggiori da vincolare a investimenti sul territorio riguardanti la tutela degli ecosistemi acquatici”. Con queste cifre, per esempio, la Liguria potrebbe incassare oltre 1,250 milioni di euro. La Basilicata passerebbe dagli attuali 323.464 euro a 9,2 milioni di euro, la Sardegna dagli attuali 39.464 salirebbe a 2,5 milioni di euro. Il problema dei canoni di concessione delle acque minerali e il tema della gestione delle risorse idriche ritornano fortemente attuali oggi in occasione della giornata mondiale dell’acqua per ribadire alcuni principi condivisi che andrebbero tenuti in conto per ogni attività relativa alla risorsa: l’acqua è risorsa limitata; l’acqua è un bene comune; chi inquina paga. Tre principi che dovrebbero guidare le Regioni nell’opera di revisione dei canoni di concessione, considerando l’altissimo valore della risorsa idrica, a maggior ragione quella di sorgente e di ottima qualità. Al tempo stesso occorre mettere in campo anche una forte azione per aumentare la fiducia nell’acqua di rubinetto per convincere anche quel 30% di famiglie italiane che ancora non ce l’anno – dato a cui ha contributo le vicenda altrettanto italiana delle deroghe sulle acque potabili, oggi ampiamente rientrata con la sola eccezione di alcuni Comuni della Regione Lazio. Occorre mettere in campo azioni per la promozione e la diffusione dell’utilizzo dell’acqua di rubinetto, attraverso campagne di sensibilizzazione dei cittadini e nelle scuole, la distribuzione delle “etichette dell’acqua potabile” (cioè la pubblicazione delle informazioni sulle caratteristiche organolettiche e chimiche dell’acqua di rubinetto nella bolletta), l’utilizzo di acqua in brocca nelle mense scolastiche o l’installazione di erogatori sui luoghi di lavoro, nelle strade e nelle piazze cittadine. Iniziative alla base della campagna Imbrocchiamola (www.imbrocchiamola.org) di Altreconomia e Legambiente.

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Fonte: il cambiamento

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