Le fonti fossili hanno le ore contate? Ora anche BP “sembra” convinta

Sembra incredibile da leggere su un rapporto della BP, ma c’è scritto: la corporation che è tra i leader del petrolio e del gas ammette che occorre andare verso la transizione energetica e che siamo di fronte a un declino inesorabile delle fonti fossili. Noi, come portale di informazione, lo stiamo ripetendo da anni…

Sembra incredibile da leggere su un rapporto della BP, ma c’è scritto: ammette che occorre andare verso la transizione energetica e che siamo di fronte a un declino inesorabile delle fonti fossili. Noi, come portale di informazione, lo stiamo ripetendo da anni…

La ex British Petroleum ammette nel suo rapporto che la domanda di petrolio potrebbe non riprendersi mai completamente dall’impatto della pandemia e potrebbe iniziare a scendere in termini assoluti per la prima volta nella storia moderna, con il picco raggiunto nel 2019 e ora superato. La corporation afferma che il petrolio sarà sostituito da elettricità pulita, da parchi eolici, pannelli solari e centrali idroelettriche poiché l’energia rinnovabile emerge come la fonte di energia in più rapida crescita mai registrata.

Ci voleva la BP per sancirlo?!

Dei tre scenari ipotizzati, solo nel terzo, il più pessimista, si afferma che i livelli di consumo di petrolio rimarranno ancora costanti fino al 2035, quando inizieranno a scendere. Ma comunque si sottolinea che non aumenteranno di certo.

La pandemia dovrebbe aver contribuito alla “svolta verde” in quanto ha fermato, o comunque rallentato, secondo la BP, la crescita economica nei Paesi in via di sviluppo che in genere stimolano la domanda di energia, mentre i paesi economicamente sviluppati come la Germania stanno mettendo in atto politiche climatiche più ambiziose e aumentando le tasse sul carbonio, stanno scegliendo di puntare sulla svolta ecologica per dare una spinta alla ripresa.

Anche la crescita delle vendite di veicoli elettrici, ibridi e a idrogeno, che è già in corso, peserà anche sulla domanda di petrolio. Poi ci sono naturalmente i nuovi impegni presi dai Paesi mondiali negli accordi di Parigi, che dovrebbero (se rispettati) far scendere la domanda di energie fossili.

Fonte: ilcambiamento.it

Gas scisto più ecologico delle energie rinnovabili. Ma a dirlo è Bp

Christoph Ruehl, capo economista della British Petroleum sostiene che uno spostamento dell’1% dal carbone al gas farebbe risparmiare su scala globale quanto un aumento dell’11% delle rinnovabili

Il dibattito sul gas scisto resta aperto: la tecnica con la quale gli Stati Uniti vorrebbero svincolarsi dalla dipendenza energetica dal Medio Oriente (nel quale perdono giorno dopo giorno posizioni) è fortemente contestata dai gruppi di ambientalisti per gli effetti che provoca sulle falde acquifere e sulla stabilità dei terreni “trattati”. Eppure c’è chi è pronto a sostenere che il gas scisto sia più ecologico rispetto alle energie rinnovabili. Si tratta di Christoph Ruehl, il capo economista della British Petroleum, non propriamente la persona più equidistante e imparziale che possa discutere sull’argomento. Nel suo Energy Outlook 2035 che spinge il proprio sguardo oltre il prossimo ventennio si parla di uno shale gas che dovrebbe rappresentare il 21% di tutto il gas prodotto, contro l’8% del 2012. Ruehl sostiene che il gas scisto sia una soluzione “economicamente efficace” per ridurre le emissioni di gas che alterano il clima, teoria alla quale gli attivisti anti-fracking si oppongono sostenendo come l’utilizzo di prodotti chimici e la possibile emissione di metano rappresentino un potente gas serra. Secondo il capo economista della Bp la diffusione del gas scisto avrebbe un impatto benefico molto più veloce rispetto a quello dell’energia rinnovabile, perché il gas naturale emette la metà di carbonio di quella emessa dal carbone. Sempre secondo i numeri in mano al “guru” dell’economia di Bp, uno spostamento globale dal carbone al gas basterebbe a garantire un risparmio energetico pari a quello offerto da un aumento dell’11% delle energie rinnovabili a livello mondiale.

Fonte:  Reuters

Marea nera, le bugie di BP nel processo sul disastro della Deepwater Horizon

Guerra di numeri al Tribunale di New Orleans. E i partner Halliburton e Transocean cercano di scaricare tutta la responsabilità dell’incidente sulla British Petroleum162642092-586x416

Il conto da pagare potrebbe essere salatissimo, anche se il danno fatto all’ambiente, nel Golfo del Messico, resta e resterà insanabile. Il processo per l’incidente alla Deepwater Horizon sta entrando nella fasi conclusive, quelle che potrebbero far sborsare alla British Petroleum un maxi-risarcimento di 18 milioni di dollari. L’avvocato di parte civile Brian Barr non ha usato perifrasi affermando che BP ha detto “bugie integrali” sulle conseguenze del disastro ambientale del 2010, un incidente che non ha saputo prevedere e del quale non ha saputo limitare i danni. Ma l’accusa di Barr è, soprattutto, quella di aver mentito sulle quantità di petrolio sversate nel Golfo del Messico. Mike Brock, difensore di BP, ha difeso la compagnia petrolifera parlando di risposta “straordinaria” all’incidente e sottolineando come non sia stata in alcun modo travisata la fuoriuscita di greggio in alto mare. Il giudice Carl Barbier che presiede il processo in corso al Tribunale di New Orleans sta già valutando se le azioni della BP prima del disastro e durante la successiva fuoriuscita siano passibili dell’accusa di “colpa grave”. In una seconda fase del processo verranno approfondite le dimensioni della fuoriuscita e gli sforzi fatti da BP per contenerla. Secondo il Dipartimento di Giustizia, la Deepwater Horizon avrebbe sversato in mare circa4,2 milioni di barili, mentre per la difesa di BP la cifra sarebbe vicina ai 2,4 milioni di barili. Saranno proprio questi dati a determinare l’entità del risarcimento che Bp dovrà pagare ed è probabile che le prossime udienze si trasformino in una vera e propria guerra di cifre. Bp e i suoi partner dovranno affrontare multe fino a 1100 dollari per ogni barile di petrolio rilasciato nel Golfo qualora venissero giudicate negligenti le loro azioni durante la perforazione del pozzo e nelle operazioni di limitazione dei danni dell’incidente. Ma, secondo il Clean Water Act, le ammende potranno lievitare a 4300 dollari al barile qualora venisse provata la negligenza grave o il dolo. Fra i vecchi compagni d’avventura ormai si gioca allo scaricabarile. L’entità dei risarcimenti ha trasformato l’aula di New Orleans in un nido di vipere, con Transocean e Halliburton che stanno cercando di far gravare su BP la maggior parte della responsabilità. Ieri gli avvocati di Transocean hanno dichiarato alla corte che la fuoriuscita di greggio dal pozzo continuò per settimane a causa della distorsione delle informazioni da parte di BP.

Nonostante i grandi sforzi di BP per distogliere l’attenzione dal loro ruolo nel più grave disastro ambientale nella storia degli Stati Uniti, sono fiducioso che ogni fase del processo dimostrerà come questa tragedia sia accaduta a causa delle loro azioni negligenti e di quelle di altri soggetti responsabili. È il momento di rinunciare ai protagonismi e di iniziare a lavorare al ripristino del Golfo e delle condizioni di vita delle persone che dipendono da esso,

ha dichiarato l’ambientalista Bethany Kraft, direttore del programma di ripristino Ocean Coservancy’s Gulf.

Fonte: The Guardian

 

Exxon, Shell e BP vogliono trivellare a 3 km di profondità nel golfo del Messico

Nonostante il disastro della Deepwater Horizon, i big del petrolio vogliono trivellare a grande profondità nel Golfo del Messico, dirottando importanti risorse che potrebbero servire per le fonti rinnovabili.Piattaforma-petrolifera-Shell-Exxon-586x385

Nonostante il gravissimo disastro ambientale della piattaforma BP Deepwater Horizon di tre anni fa le compagnie petrolifere non demordono, visto che proprio in questi giorni hanno svelato la loro intenzione di trivellare a 3 km di profondità. Exxon vuole sfruttare il giacimento Julia e per questo ha comunicato due giorni fa che intende investire oltre 4 miliardi di dollari per iniziare nel 2013 una produzione attesa di circa 34000 barili al giorno. E’ appena il caso di notare che un simile investimento nell’eolico porterebbe ad una produzione equivalente di energia elettrica in tempi minori di tre anni (1). Shell non vuole essere da meno ed il giorno successivo ha annunciato la decisione di voler trivellare nel giacimento Stone, con un’aspettativa di 50000 barili al giorno, un valore più alto di quello di Exxon, nonostante la consistenza del giacimento sia solo un terzo di quello della rivale (e ciò fa nascere qualche dubbio sull’ attendibilità di questi numeri). BP, dopo aver generato una marea nera di milioni di barili di petrolio, devastando l’ecosistema con serie ripercussioni anche sulla salute umana, ora vuole riprovarci con il giacimento Mad Dog, ovvero cane pazzo, un progetto da 10 miliardi di dollari (2). Il progetto al momento è rimandato a causa dei costi crescenti. Come riuscire a spiegare che ogni dollaro speso nel petrolio è un dollaro rubato alle fonti rinnovabili? Che quel dollaro servirà solo ad aggravare il global warming? Nascerà mai un movimento globale su questo tema cruciale?

Come diceva Brecht, non aspettarti nessuna risposta oltre alla tua.

(1) 34 kb equivalgono a 4,65 kt, cioè ad una produzione elettrica di 20 GWh. Con 4 miliardi si possono installare circa 4 GW che con la producibilità media mondiale di 1800 ore/anno, producono la stessa quantità di energia, con la differenza che i tempi di avvio di un progetto eolico sono in genere minori di quelli di una piattaforma petrolifera.

(2) Un investimento due e volte e mezzo quello di Exxon per un giacimento che contiene i due terzi delle risorse. Anche in questo caso i numeri non sembrano molto affidabili.

Fonte: ecoblog

 

Hugo Chavez, come cambia il mercato del petrolio con la morte del Caudillo del Venezuela

 

 

 

 

 

 

 

 


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La morte del Presidente venezuelano Hugo Chavez cambierà sensibilmente gli scenari petroliferi internazionali: il Venezuela, secondo la multinazionale British Petroleum (BP), è infatti il detentore della riserva petrolifera più grande del mondo, con 296,5 milioni di barili. Un tesoro sotterraneo, quello dello stato sudamericano, che surclassa anche quello dell’Arabia Saudita (calcolato in 265,4 milioni di barili) che mette il Venezuela in una posizione delicatissima sul piano internazionale, dopo 20 anni di chavismo dall’impronta fortemente statalista e solidarista nei confronti dell’amica Cuba. Per anni infatti Chavez ha garantito all’isola caraibica petrolio a prezzi stracciati, per non dire a titolo gratuito: petrolio in cambio di menti (medici ed insegnanti), un sistema di solidarietà socialista che ha permesso a Cuba, a singhiozzo, di tirare avanti fino ad oggi sotto il profilo energetico (nonostante spesso, chi è stato a Cuba lo sa, la corrente può mancare anche per ore, anche a L’Avana). Il commercio del petrolio rappresenta il 95% delle esportazioni venezuelane: è evidente dai numeri che il successore di Chavez, Maduro, non avrà un futuro facile sotto questo profilo. Il petrolio in Venezuela è alla base dello sviluppo economico, dell’economia domestica, la spina dorsale economica di un paese che con Hugo Chavez ha operato una scelta precisa: l’antimperialismo petrolifero. E’ evidente che tali risorse fossili non possono non fare gola alle grandi multinazionali: oggi il petrolio venezuelano è gestito dalla società pubblica PDVSA, un ente creato nel 1975, che piazza sul mercato i barili di petrolio boliviani ad un prezzo decisamente vantaggioso rispetto alla media Opec. Questo è stato possibile, fino ad oggi, grazie alla forte svalutazione del Bolivar venezuelano (dal 42 al 46%), che ha permesso a PDVSA di esportare petrolio in misura maggiore rispetto ai suoi standard: in media un barile di petrolio venezuelano costa circa 7 dollari in meno rispetto ai prezzi dei paesi Opec.

E’ evidente che un mercato così florido e attraente verrà messo sotto le mire degli squali petroliferi mondiali: non a caso Rosneft (il colosso petrolifero russo) sarebbe disposto ad offrire 800 milioni di euro per lo sfruttamento dei giacimenti nel sud-est del Venezuela, ma è chiaro che la morte di Chavez apre anche ai colossi britannici, olandesi, inglesi, americani e, perché no, italiani. Una situazione non facile da gestire per Maduro: la svalutazione di cui sopra, che ha permesso un abbassamento del prezzo del greggio al barile, ha tuttavia complicato la vita di quel popolo che ha adorato come un dio il Caudillo Hugo Chavez: l’alzarsi dei prezzi dei beni di prima necessità nè è solo uno degli aspetti socialmente più critici. E’ ovvio che è nell’interesse dei petrolieri abbassare il prezzo del petrolio, aumentato negli anni anche per ‘colpa’ delle politiche energetiche del governo Chavez: tra il 1999 e il 2011 il Venezuela ha incassato oltre 300 milioni di dollari di profitti in petrolio e derivati, ottenendo un aumento del prezzo internazionale del petrolio e ‘vincendo’, sotto certi punti di vista, la sua battaglia contro l’imperialismo statunitense: nel 1999 il prezzo al barile era 10 volte inferiore ad oggi. La strategia petrolifera del chavismo è stata la chiave della rivoluzione boliviana, fatta a petrolio e solidarietà: quella fratellanza tra i paesi sudamericani Chavez l’ha cementificata grazie ad una sorta di ricatto sorridente, nei confronti di Cuba e della Bolivia, per certi versi incastrati nella rivoluzione boliviana chavista, dalla quale è dipeso il sostentamento energetico dei due alleati di Chavez negli ultimi anni, e per i quali si prospetta oggi un periodo di buio.

E’ forse collegabile con la malattia di Hugo Chavez l’apertura di Cuba ai viaggi dei cittadini cubani all’estero (la blogger Yoani Sanchez era a Bruxelles questa mattina, per la prima volta)? Forse si, se la guardiamo nell’ottica di un paese, Cuba, che deve ora necessariamente aprirsi al mondo per non capitolare nel buio delle notti caraibiche. Il chavismo petrolifero non ha visto il suo sbocco: il Caudillo stesso aveva annunciato un incremento della produzione di greggio, per arrivare a 6 milioni di barili al giorno, anche a fronte della Statistical Review of World Energy 2012, pubblicata da BP. Nonostante ciò, il Venezuela produce la sua energia elettrica al 70% grazie al fiume Caronì, nella Guyana: la siccità degli ultimi anni ha tuttavia complicato il panorama energetico nazionale, spingendo Chavez tra le braccia dell’atomo russo: Mosca dovrà costruire la prima centrale nucleare venezuelana. Lo scorso anno il chavismo ha visto la sua svolta verde: i progetti eolici del Parque Eolico de Paraguaná e del Parque Eolico de la Guajira sono stati approvati dal Caudillo nel 2012, prima della ricaduta nella grave malattia: in totale produrranno 176,4 MW di energia per i venezuelani. Altrettanto, il progetto Sembrando Luz mira all’installazione di pannelli fotovoltaici in tutto il paese, per portare energia elettrica anche nelle zone più disagiate. Per anni in Venezuela il petrolio ha finanziato il sociale: la morte di Chavez cambierà sensibilmente l’approccio della rivoluzione boliviana al mondo (come in parte è avvenuto durante la malattia), anche perché qui parliamo di fonti fossili non rinnovabili contro diritti umani: cibo ed energia cominciano a costare troppo in un paese che da vent’anni punta alla‘Rinascita’.

Fonte: ecoblog

 

 

 

 

 

 

 

Troppi fondi alle energie fossili: l’Earth Policy Institute fa i conti ai governi

Piattaforma-Shell-Alaska-586x263   Secondo l’Earth Policy Institute (EPI), un’organizzazione ambientale neoliberista fondata dall’analista ambientale Lester Brown nel 2001, nel 2011 i fondi garantiti dai governi mondiali alle fonti energetiche convenzionali ammontano a 623 miliardi di dollari, mentre per le rinnovabili appena a 88. EPI, che ha basato il suo studio su alcuni dati dell’International Energy Agency (IEA), l’organizzazione intergovernativa dell’OCSE, sottolinea quanto l’evidente sproporzione sia figlia delle politiche energetiche retrograde dei vari governi, che a parole sono tutti d’accordo nel combattere i cambiamenti climatici ma che, nella sostanza, erogano alle fonti fossili molti più sussidi che a quelle rinnovabili. EPI parla chiaramente di un gioco truccato in favore delle energie non rinnovabili, anche perché vengono omessi i costi ambientali e sanitari del carbone ardente, del petrolio e del gas naturale dai loro prezzi di mercato. Dei 623 miliardi di dollari garantiti alle fonti energetiche fossili, circa 100 sarebbero assegnati per la produzione mentre i restanti sono per il consumo: il 20% in più rispetto al 2010, anche per colpa dell’aumento del prezzo del petrolio che, invece di disincentivare i combustibili fossili ne ha visto crescere i sussidi. Dei 523 miliardi dollari garantiti per il consumo, 285 miliardi sono andati al mercato del petrolio, 104 miliardi al gas naturale e 3 miliardi per il carbone; un ulteriore supplemento di 131 miliardi è stato suddiviso tra le tre fonti di energia fossile appositamente per il loro utilizzo nella produzione di energia elettrica.

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Gli Stati che hanno avuto maggior peso in questa insostenibilità delle politiche energetiche mondiali sono Iran, Arabia Saudita, Russia, India e Cina: solo il regime iraniano degli Ayatollah ha garantito 82 miliardi di dollari alle fonti fossili, l’equivalente del 17% del Pil; allo stesso modo, anche tutti gli altri paesi hanno garantito incentivi miliardari alle fonti non rinnovabili. Secondo il rapporto tuttavia, la cifra spaventosa dei 623 miliardi non rappresenta tutte le misure di sostegno per questo tipo di fonti energetiche: le agevolazioni fiscali, che variano da paese a paese, i fondi investiti nella ricerca, sono tutti elementi di forte criticità nella gestione dei fondi energetici. Degli 88 miliardi erogati a livello mondiale per le fonti rinnovabili invece la maggior parte vengono pagati al produttore di energia: la cifra è equamente distribuita tra solare, fotovoltaico, eolico, biomasse e biocarburanti.

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Secondo l’EPI tuttavia l’industria dei combustibili fossili non necessita di questi ingenti aiuti, anzi: nel 2012 le Big-Five Companies petrolifere (Royal Dutch Shell, ExxonMobil, BP, Chevron e Conoco-Phillips) hanno rastrellato un totale di 137 miliardi di dollari di profitti a fronte di 285 miliardi di dollari di “sostegno” al petrolio. Cifre che fanno girare la testa e la calcolatrice.

Fonte:  EPI