Rizomi: i cittadini si auto-organizzano per comprare un bosco e restituirlo alla comunità

Tonio Totaro ci racconta una storia. È quella di un’associazione di cui è vice-presidente e di un gruppo di cittadini che si sono attivati per compiere un’impresa: acquistare un bosco allo scopo di difendere il territorio dall’agribusiness e restituirlo alla comunità locale, facendolo diventare un bene comune.

BariPuglia – C’era una volta un paese dell’immediato entroterra adriatico, un paese pugliese di quell’assolato sud-est barese i cui cittadini decisero che qualcosa doveva iniziare a cambiare. In quel grazioso borgo – per secoli asservito al connubio del potere feudale con quello ecclesiastico e pure da sempre celebrato dai più svariati cronisti delle epoche passate come la “nobile Conversano” in virtù del suo tessuto storico, artistico – a un certo punto della sua storia, nel novembre 2021, qualcuno decise di intraprendere una forte azione di attivismo civico nel segno della rinaturazione.

A dare avvio a questa impresa fu un solido tessuto sociale fiorito dal basso intorno ai fili dell’ecologia, dell’ambientalismo antiretorico, dell’urbanistica buona, del paesaggismo concreto, dell’agronomia dissidente. Un reticolo organico reattivo a cui abbiamo dato per nome Rizomi e come obiettivo a breve termine l’acquisto collettivo di un pezzo di territorio agricolo dei più rari ancora esistenti nel circondario. Si, perché il nodo forte intorno al quale si sviluppa il nostro tessuto sociale è quello del paesaggio rurale.

La geomorfologia e le condizioni pedoclimatiche di questa porzione di bassa Murgia del sud est eleggevano l’intera zona a elevata vocazione agricola e sin dai primordi dell’agricoltura moderna facevano di Conversano e del suo agro una collezione di giardini fruttiferi, di orti variegati, di “chiusure “di olivi che si aprivano verso i bassi vigneti del primitivo, dell’antinello e di carrubi, sui terreni verso il mare e campi di grano e prati foraggeri sui terreni più alti.

Tutto questo in completa sintonia con i modi tipici di quell’”umanesimo della pietra” che faceva dell’elemento minerale sovrabbondante una vera e propria risorsa: sorgevano le masserie, gli iazzi i palmenti e le cisterne; i banchi rocciosi affioranti, se divelti dal terreno, venivano sagomati e sistemati a secco prendendo le forme di muretti, specchie, trulli, caselle pagliai.

Ci fu un tempo in cui anche il patrimonio boschivo di Conversano era consistente: si possono ricordare i due nuclei principali e cioè i 1700 ettari di terreno forestale detto Macchione e i 600 ettari del bosco di masseria San Pietro. Ma tra la fine del ‘700 e la prima parte dell’800 la maggior parte di questo tesoro veniva drasticamente impoverito e avviato a coltura, per effetto di vicende giudiziarie, espropriazioni, frazionamenti e vendite che colpirono i nobili proprietari al tramonto della feudalità.

Si apriva così la stagione delle grandi trasformazioni fondiarie portate avanti dalla pletora di coloni e mezzadri, ma soprattutto dalla figura del piccolo proprietario contadino, e facilitate dalle superfici poco acclivi e per lo più in piano che in complesso caratterizzano il territorio comunale. A questo intenso processo si deve la irrisorietà della percentuale a “bosco” all’interno dei catasti e delle statistiche che descrivevano gli ordinamenti colturali durante l’intero secolo passato.

Con l’avvento della meccanizzazione e sotto le direttive della rivoluzione verde, quell’agricoltura fatta di piccoli spazi, di margini di vegetazione selvatica e di ricerca di quell’autonomia contadina che si traduceva in un’estesa diversificazione colturale ha smesso di essere tale, prendendo la via dell’agroindustria capitalistica basata sulle leggi del più grande, più forte e più veloce. A farne le spese è stato – e lo è tutt’ora – il paesaggio rurale con tutti gli elementi antropici di cui è disseminato.

La necessità di spazi sempre maggiori per raggiungere economie di scala ha portato e porta attualmente ad accorpamenti fondiari e livellazioni superficiali che fagocitano ogni bordura, ogni angolo selvatico, ogni muretto a secco, in profondo sfregio al recente riconoscimento degli stessi, e dell’arte costruttiva, patrimonio culturale immateriale dell’umanità da parte dell’Unesco. Complice una legislazione regionale in materia agricola votata all’agribusiness, si riconducono a coltura anche quei terreni più impervi della gariga murgiana, gli arbusteti della macchia mediterranea, i pascoli aridi e con una semplice dichiarazione di miglioramento fondiario si è in regola per cancellare interi uliveti e svellere piante secolari.

Questa è la riflessione di fondo che sostanzia l’agire degli attivisti di Rizomi e non avremmo potuto scegliere nome migliore che ci identificasse. La figura dei rizomi, sotterranei reticoli radicali che si sviluppano orizzontalmente con una crescita indefinita e capaci di connettere ma anche di scalzare pavimenti duri, si presta del tutto come significante di questo primo atto: l’acquisto di un bosco.

È già stata avviata una raccolta fondi che permette di partecipare a questa compravendita simbolica ma performante, politica nel vero senso della parola. Un bosco che resiste ancora, di fianco a estensioni di ettari ed ettari di vite coperta con plastica; un bosco che è l’ultima parte di una intera collina delinquenzialmente spogliata e violentata nella sacralità di un vincolo archeologico e paesaggistico; un bosco in virtù del quale il legislatore regionale prescriveva e segnava in cartografia un’area di rispetto che è stata anch’essa illegalmente usurpata ai fini dell’industria dell’uva da tavola. In un certo senso l’acquisto collettivo di un bosco vuol dire che la comunità si fa carico della protezione di un luogo naturale più e meglio di quanto potrebbe fare un vincolo legislativo o un’indicazione di tutela urbanistica. Ed è la stessa comunità che reagisce a quegli ordinamenti di politica economica che vorrebbero fare di Conversano l’avamposto della monocoltura dell’uva da tavola del sud est barese, che già oggi rappresenta più del 20% della superficie agricola utilizzata.

Ma è anche la reazione all’immobilismo dispotico di un’amministrazione locale ultradecennale comodamente assisa su posizioni agro-liberiste, che preferisce lasciare le sue campagne al libero gioco (giogo) del mercato. La stessa che non ha volontà di istituire l’Ente che gestisca la sua Riserva Regionale Orientata dei Laghi e Gravina di Monsignore, in cui ad oggi sono disattesi tutti gli obiettivi di tutela. Un’amministrazione che non ha alcuna intenzione di adeguare i suoi strumenti urbanistici, in merito al territorio rurale, al sovraordinato piano regionale. La stessa amministrazione che conosce ma ignora un “Regolamento agro forestale”, redatto da più di vent’anni, ostacolato nella sua attuazione e finito smarrito tra gli scaffali comunali. Un’amministrazione che ignora anche un “Regolamento per le attività di trasformazione nel territorio agricolo”, approvato con una delibera del 1993, il quale prescrive il divieto assoluto di abbattimento e frantumazione delle pareti a secco lungo le strade di campagna, misura semplice ma efficace per scongiurare molte trasformazioni colturali impattanti.

La conversione di un bosco da bene privato a bene comune diventa allora una presa di posizione della comunità civile che si auto-organizza per salvare un luogo importante del suo territorio e definire il suo futuro. Pensare che un tempo i boschi erano interdetti all’utilizzo popolare se non appartenenti al demanio e che il bosco in oggetto ricade all’interno di quello che un tempo era il “feudo di Monteferraro”, estesa proprietà dei conti Aquaviva D’aragona, ha il sapore quasi di un riscatto e questa riconduzione al pubblico equivale a voler ristabilire, in chiave moderna, quegli usi civici, quel diritto all’uso popolare di una risorsa locale, diritto sempre incerto e instabile, legato alla dialettica feudo-demanio. Con questo acquisto più che assecondare la richiesta di utilizzare un bosco c’è la voglia di far vivere il bosco, nei due sensi: quello di preservarne la sua evoluzione ecosistemica e di permettere alla gente di fare esperienza del bosco, del selvatico. Con l’obiettivo ultimo di provocare la nascita di connessioni naturali, di visioni condivise, di vie di fuga per il desiderio che solo un approccio rizomatico, a detta della geofilosofia di Deleuze e Guattari, saprebbe farci appiedare nella nuova visione del mondo che vogliamo, senza riprodurre ma creando.

Allora non resta che scoprire questo luogo: il bosco si apre a noi con una radura occupata, nella parte più bassa, da una grande cisterna in pietra che ancora raccoglie l’acqua di scorrimento superficiale della zona circostante e si ha già di fronte l’imponente immagine di una quercia maestosa. È un fragno ultracentenario che proprio in dicembre cambia il colore al suo mantello fogliare offrendo sfumature cromatiche sensazionali, prima di abbandonarlo quasi del tutto nei mesi a venire, essendo una semi-caducifoglia. Il bosco inizia di qui e, forte della protezione di questo “nume tutelare”, va a uniformarsi su una superficie di circa sei ettari, gran parte dei quali un intrico di vegetazione che reclama il suo “please do not disturb”. Con rispetto e curiosità, meraviglia e leggerezza percorriamo i due sentieri che ci portano davvero a contatto con questo mondo umbratile, silenzioso ma perennemente in divenire.

Per chi volesse contribuire al progetto, queste sono le informazioni per effettuare un versamento:
Codice IBAN: IT96A0501804000000017119231
Ragione sociale e indirizzo del ricevente: Ass. Rizomi O.D.V.
Causale: Donazione per bosco bene comune + Nome Cognome
Istituto bancario del beneficiario del bonifico: Banca Etica Filiale di Bari, Via Ottavio Serena, 30, 70126 Bari BA
Info: 
rizomipuglia@gmail.com

Fonte: https://www.italiachecambia.org/2022/01/rizomi-bosco-comunita/?utm_source=newsletter&utm_medium=email

Boschi liberi:“Vogliamo acquistare un bosco e renderlo di tutti”

Sulla splendida collina morenica di Rivoli, in provincia di Torino, un gruppo di associazioni e comitati ambientalisti ha lanciato “Boschi Liberi”, una campagna per acquistare collettivamente un bosco e prendersene cura in maniera condivisa. Il sogno è salvarlo dalla privatizzazione e avviare progetti di valorizzazione ambientale che coinvolgono i cittadini.

Torino – Proprio dove finisce la Val di Susa, avvicinandosi a Torino, sorge la Collina morenica di Rivoli-Avigliana: un’oasi di natura e pace su cui sorgono ampi boschi e un paesaggio agrario che, forte della sua identità, conserva ancora il sapore di un tempo. Questo territorio, tra i suoi pianalti, i corsi d’acqua, i centri abitati e i caratteristici massi erratici che testimoniano ancora oggi la presenza di antichi ghiacciai, è però in gran parte di proprietà privata.

Per questo motivo nel 2014 un gruppo di cittadini rivaltesi, che prende il nome di Truc Bandieraha acquistato collettivamente un appezzamento di bosco nella collina morenica e ha affidato a una associazione ambientalistaPro Natura Torino, la proprietà e i fondi raccolti in modo collettivo (a cui sono seguite altre acquisizioni e donazioni di privati). Da quel momento è diventato un esempio di gestione collettiva e luogo di relazione di diversi gruppi.

Ora il loro obiettivo è acquistare questo terreno, un bosco ceduo di castagno e trasformarlo in un luogo aperto e condiviso. Un luogo per donare al territorio una gestione naturalistica, facendolo diventare uno spazio di incontro e di sperimentazione, di conservazione della biodiversità, e soprattutto una proprietà collettiva di cui prendersi cura in maniera condivisa.

Salvare un bosco per aiutare le comunità

«Per sostenere l’acquisto abbiamo partecipato al bando Impatto+ lanciato da Banca Etica ed Etica Sgr per cofinanziare in crowdfunding persone under 35 con progetti di attivismo civico e cittadinanza attiva finalizzati alla salvaguardia dell’ambiente e alla lotta al cambiamento climatico e siamo stati selezionati».

Le associazioni e i movimenti coinvolti nel progetto sono accomunati dallo stesso impegno per tutelare il paesaggio e diffondere pratiche virtuose: tra questi ci sono Legambiente RivoliFridays for FutureRivoli Città Attiva, il Gruppo Scout Rivoli 2, Truc Bandiera e Pro Natura. Insieme, nel 2020 hanno dato vita al Coordinamento per la salvaguardia della collina morenica Rivoli-Avigliana per mettere in atto iniziative volte alla tutela della collina morenica attraverso il progetto Boschi Liberi.

«Dopo un anno e mezzo di pandemia in cui gli spostamenti e anche le relazioni umane sono diventati difficili e limitate, il bosco ha assunto per noi un significato ancora più forte. È un luogo dove incontrarsi all’aperto, in sicurezza, che ci ha permesso di continuare a progettare un futuro diverso. In un momento molto difficile per tutti è stato importante riscoprire le bellezze che abbiamo accanto, che a volte diamo per scontate, insieme ad altri. Questo ha favorito la nascita di nuove relazioni, condivisioni e progetti».

Dall’acquisto al monitoraggio ambientale: cosa prevede il progetto

Il progetto Boschi Liberi si concentra sull’acquisto di una porzione dell’estensione di circa un ettaro: una volta acquisito, l’obiettivo è garantire una gestione naturalistica con l’aiuto di alcuni esperti naturalisti e forestali: «Partendo da quello che già si trova nel bosco vorremo impostare una gestione mirata alla conservazione delle specie arboree e arbustive presenti; favorire l’eliminazione delle specie esotiche invasive al fine di migliorare la biodiversità; proporre un modello, replicabile anche sul resto della collina per valorizzare l’ambiente che è molto frequentato per tutto l’anno sia da camminatori che da ciclisti».

A ciò si aggiunge una seconda fase di monitoraggio dell’aria attraverso la collocazione di tre centraline in alcuni punti strategici: una verrà collocata nel bosco, una nel centro storico della città di Rivoli e una nei pressi della tangenziale adiacente, per valutare quanto incidono le attività umane sull’aria che respiriamo e di conseguenza per mostrare quanto sia importante la presenza della collina morenica come polmone verde situato a pochi passi dai centri abitati.

Boschi Liberi: la campagna di crowdfunding

Per realizzare il progetto i nostri protagonisti hanno lanciato Boschi Liberi, una campagna di crowdfunding su Produzioni dal Basso che li aiuterà a concludere l’acquisto del bosco e a iniziare le azioni di monitoraggio ambientale. «Ci serve il vostro aiuto per poter far diventare un piccolo pezzo della collina morenica un bene comune, condiviso e accessibile per vivere questo spazio in modo collettivo e comunitario, oltre che per farlo diventare un luogo di sperimentazione. È un piccolo gesto per prendersi cura del bosco in prima persona e insieme a tante realtà naturalistiche».

Il bosco acquistato sarà un luogo aperto e curato da cittadini e associazioni che hanno a cuore la salvaguardia della collina morenica. Per questo l’invito a partecipare è per tutti: gruppi e singoli che vogliono e vorranno unirsi a questo progetto per renderlo sempre più aperto e condiviso.

Fonte: https://www.italiachecambia.org/2022/01/boschi-liberi-acquistare-tutti/?utm_source=newsletter&utm_medium=email

Laudato, sì; ovvero qualche frase in memoria di un bosco

Il bosco di Fiesole non c’è più. Tagliato; spariti carpini, cerri e roverelle. E i tagli dei boschi in Italia non si fermano, impoverendo i territori e impattando pesantemente sull’ambiente.

Fin da bambino sono stato un amante dei boschi. Più sono fitti e antichi, più sono vasti e silenziosi, maggiore è il mio interesse e la mia curiosità. Durante la mia infanzia, grazie alle vaste esplorazione del mondo selvatico, avevo imparato a conoscere palmo a palmo un grande e vecchio bosco non distante dalla mia abitazione. Sotto la volta degli alberi si accumulavano grandi ammassi di foglie e il buio creato dalle chiome impediva la crescita di arbusti ed erbe, fatta eccezione per alcuni ellebori e, di tanto in tanto, qualche pianta di primula. Mi fermavo spesso ad osservare il fusto slanciato dei grandi carpini neri un tempo usati per fare il carbone e diventati ormai vecchi ed altissimi. In ampi tratti le piante prevalenti erano querce della specie Quercus cerris, riconoscibili per le venature rosate all’interno della corteccia, assai rugosa, che permetteva ai molti licheni e muschi di crescere rigogliosi. Ma la magnificenza del bosco spettava a delle grandissime roverelle vecchie di oltre 100 anni, che allungavano rami scuri e contorti, accogliendo così i nidi di colombacci e poiane, rigogoli e ghiandaie. Ricordo nitidamente l’emozione che provai un pomeriggio di inizio luglio, quando scoprii tra le chiome una famiglia di sparvieri i cui tre piccoli avevano da poco spiccato il volo e chiamavano insistentemente i genitori, saltellando e svolazzando da un ramo all’altro. Fu invece una mattina d’autunno che, esplorando un ripido pendio ricoperto da carpini, mentre seguivo una pista di animali, mi imbattei in un “villaggio” di istrici. Numerose tane collegate tra loro da gallerie si aprivano di fronte a me. Le aperture, pulite diligentemente dalle foglie, mi mostravano che il luogo non era abbandonato e presto ne ebbi la conferma. Mentre ero accovacciato al fianco di una possente roverella ricoperta di muschio e piccole felci dal verde brillante, fui testimone di una rapida sbirciata: uno degli istrici fece capolino dalla tana appena il tempo di vedermi e si rituffò nell’oscurità profumata di humus. Il bosco costellò gli anni della mia infanzia  e oltre di scoperte e sorprese, dagli incontri con i cinghiali all’inaspettata visione di una martora in corsa su un tronco abbattuto, alla scoperta di grandi e curiosi talli di un raro lichene, la Lobaria pulmonaria, importante indicatore di biodiversità che si trova nei boschi antichi e in buona salute.

Oggi quel bosco non c’è più, quel bosco che appartiene alla curia di Fiesole è stato tagliato in modo increscioso. Annientati i carpini e i cerri, sparite le maestose roverelle. Al loro posto sono stati lasciati i più piccoli e fragili alberi, cresciuti per ultimi e con scarsa luce, dunque alti e sottili ed esposti al rischio di crollo a causa del vento , perché ormai soli e senza ripari. Il suolo un tempo ricco di foglie e humus sul quale crescevano funghi in abbondanza ora è ricoperto di ginestre e graminacee, segno inequivocabile di grande squilibrio, a causa del quale ci vorranno decenni prima della ricrescita di un bosco degno di chiamarsi tale. Non volano più gli sparvieri e ha fatto la sua comparsa la robinia, albero alloctono e molto invasivo. Ceppi morti o moribondi spuntano qua e la dall’erba ricordando il passato glorioso di un bosco ormai perso. Niente più nidi per sparvieri, picchi, uccelli notturni; niente più tane per istrici e martore; niente più cibo e riparo per centinaia di animali e specie vegetali che solo in boschi vetusti possono trovare il loro habitat. Perché? Che fine hanno fatto i possenti alberi che ospitavano rigogoli e martore? Semplice: sono stati bruciati in qualche centrale a biomasse delle molte sparse in Toscana. Giusto per completare il quadro, il bosco tagliato si trova in un Sito di Interesse Comunitario, costituito per valorizzare e proteggere numerose specie e il paesaggio unico, costituto proprio dai boschi e i campi del territorio chiantigiano. I terreni della Curia Fiesolana sono tanti e i boschi che ne fanno parte continuano a venire ancora tagliati. Per questo occorre farsi sentire e per questo occorre ancora indignarsi. Qualche dato a livello regionale e nazionale è d’obbligo per far capire quanto in realtà gli ecosistemi forestali siano in grave pericolo e quanto la fame di biomasse possa trasformare ecosistemi pregiati in lande desolate: prendendo ad esempio la “verde e naturale” Toscana, ogni anno vengono tagliati molte migliaia di ettari di territorio (18 000 ettari nel solo 2016) sia di boschi privati che di boschi pubblici (ma se sono pubblici non dovrebbe essere un patrimonio di tutti?). La maggiore percentuale dei tagli interessa boschi “governati” a ceduo, proprio come quello della curia di Fiesole (8 500 ettari di cedui in boschi privati nel solo 2016 ma il dato è in crescita) e, aprite bene le orecchie, il 19% di questi ricadeva in territorio sottoposto a tutela (tutela di che cosa? Degli interessi economici?), esattamente come il bosco appena descritto. A livello italiano le superfici di boschi tagliati sono sull’ordine delle centinaia di migliaia di ettari e se a questi si aggiungono gli oltre 100 000 ettari di bosco inceneriti dagli incendi ogni anno, il dato di perdita di biodiversità e boschi è davvero impressionante. Dunque, come mai si parla sempre più spesso di un aumento dei boschi in Italia? Semplice, perché viene considerata la superficie dei boschi tagliati come se i boschi ci fossero ancora, quando in realtà ci vorranno almeno 20-30 anni nel migliore dei casi e quando vengono rispettate le regole legislative del taglio, per poter definire il luogo di nuovo un bosco. Tali regole però, benché siano ormai molto permissive, il più delle volte non vengono nemmeno rispettate: le imprese dei “tagliatori” contano sul fatto che i controlli sono rarissimi e le sanzioni pecuniarie così basse che, comunque, tagliare più alberi di quelli consentiti è in ogni caso redditizio.

Dunque il nostro paese è davvero “ricco di boschi poveri “ e il trend non accenna a diminuire. Mentre incombe su di noi la crisi climatica ed ecologica, nonostante la possibilità di approcci selviculturali nettamente differenti, si persegue la distruzione sistematica. Dunque Laudato si’ chi protegge i boschi, chi li tutela davvero, chi preferisce al denaro una vecchia roverella, chi al profitto preferisce il lavoro meticoloso e la cura del Creato.

Fonte: ilcambiamento.it

La nuova vita di una famiglia in una Casetta Ben Nascosta nel bosco

Stanchi dello stress causato dal lavoro, Jyothi e Daniele hanno deciso di cambiare radicalmente e di andare a vivere con i figli sulle pendici del Monte Cimino in un casale di campagna che hanno ristrutturato e ribattezzato La Casetta ben Nascosta del Bosco. Qui sperimentano un vivere sostenibile fatto di autoproduzione, riciclo creativo, contemplazione e riscoperta delle relazioni e della comunità.

 “Dimmi, piccolina, se ne usciamo vivi, che cosa ti farebbe veramente piacere?

“Ritrovare Ernest – disse subito Celestine. – E tornare con lui nella casetta ben nascosta nel bosco”

Da questo passo del libro Ernest e Celestine, scritto da Pennac, Jyothi e Daniele hanno preso spunto per battezzare la loro casa-laboratorio per una vita sostenibile con il nome La Casetta ben Nascosta nel Bosco. La coppia fino a qualche anno fa conduceva insieme ai tre figli una delle tipiche vite che comunemente si ritengono essere di successo. Dagli Stati Uniti, dove allora abitavano, hanno iniziato tuttavia ad osservare ciò che oggi è diventato evidente anche in Europa, ovvero “come la società ci fa correre, non ci consente di essere presenti e di coltivare le relazioni per poi riempirci di stupidaggini così da sopperire al fatto di essere come un criceto sulla ruota”.

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La Casetta ben Nascosta nel Bosco

«I bambini – ci ha raccontato Daniele – vengono sempre più spesso cresciuti da dispositivi elettronici, mentre gli algoritmi decidono sempre di più le nostre vite».

Lasciato il lavoro nel settore hi-tech, dunque, Daniele e la sua famiglia, hanno deciso di tornare in Europa e, successivamente, in Italia. Visti una decina di casali in campagna fra Lazio, Umbria e Toscana, Jyothi e Daniele hanno trovato “in uno di quei posti che ci arrivi solo se lo sai, o se ti perdi” quella che sarebbe diventata La Casetta ben Nascosta nel Bosco, a Soriano nel Cimino. La casetta anni ‘50 è circondata da ulivi e noccioli, qualche castagno e noce, meli, ciliegie e fichi. I primi mesi nella nuova casa sono stati dedicati a rendere agibili un paio di stanze, mentre oggi la vecchia stalla è diventata un bagno. Poco lontano c’è una yurta e tutt’intorno alla casetta che è stata ristrutturata ci sono i pannelli solari, un orto, una piccola serra e un pollaio.

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Nella casa-laboratorio per una vita sostenibile, Jyothi e Daniele coltivano e producono il proprio cibo: un atto rivoluzionario in un mondo che spinge le persone a mangiare cibo sempre più scadente e alterato. Gli oggetti di scarto, invece, diventano lavori artistici e divertenti, come i vecchi copertoni diventati un gioco per bambini o le lattine e le vecchie scatole di alluminio che diventano strumenti musicali. Questa scelta di vita ha consentito a Jyothi e Daniele di avere più tempo da dedicare a loro stessi, alle relazioni o anche, più semplicemente, alla contemplazione. «Il bombardamento di informazioni e di stimoli cui siamo sottoposti quotidianamente – osserva Daniele – non ci consente né di riflettere né di metabolizzare esperienze ed emozioni, e questo contribuisce a farci ammalare».
Jyothi e Daniele, dunque, intendono continuare a «lavorare il giusto per ottenere il giusto, senza strafare» e si augurano che sempre più persone prendano una decisione simile. «C’è tanta campagna che sta andando in malora, in un’incuria totale. In Olanda – paese da cui proviene Jyothi – le piccole botteghe di stampo familiare sono già state smantellate 25 anni fa senza che neppure le persone se ne accorgessero. In Italia, invece, questo smantellamento è più recente e la società civile inserita in un contesto di borghi e di paesi può essere ancora salvaguardata e ricostruita».

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Dal tornare ad abitare le campagne al fare comunità il passo è breve: ne è un esempio la Comunità Rurale Diffusa nata dalla collaborazione fra i piccoli coltivatori e le famiglie – compresa quella di Jyothi e Daniele – prossimi alla Casetta ben Nascosta nel bosco. Non solo ecovillaggi dunque: secondo Daniele se le persone ripopolassero borghi e paesi le comunità si creerebbero spontaneamente. Si potrebbe ricominciare ad andare a piedi, incontrarsi sulla piazza e raccontarsi quello che succede.

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Discarica abusiva nei boschi della Sabina

La scoperta durante una passeggiata nel bosco nella zona della Sabina, l’area a monte di Roma che costeggia il corso del fiume Tevere: elettrodomestici e rottami abbandonati nell’ambiente abusivamente.scarica

Dal grande casale di pietra di un amico che abita la Sabina (area che si estende sulla sinistra del basso corso del Tevere, a monte di Roma) da oltre 30 anni, decidiamo di fare una passeggiata: splendida giornata tra i vecchi e nuovi olivi che si distendono a centinaia tra le case sparse. Non ci sono rumori se non quelli sordi e soffici delle querce d’intorno che lasciano andare le ghiande al tappeto di foglie autunnali. Dalla sua veranda, la sagoma dell’abbazia millenaria di Farfa, il monte boscoso di San Martino, i cani di campagna liberi e giocosi, olivi a perdita d’occhio, spazio per gli sguardi che puoi lanciare senza limiti. Poco distante Castelnuovo, borgo medievale tra i più belli della zona. Aria da respirare. Per i polmoni e per il cuore. Ci inoltriamo in un bosco tra i più suggestivi di queste parti. Il sentiero, ripristinato da un gruppo di residenti a colpi di falce, è accogliente e molle di acqua e impronte: cinghiali in movimento, segni di lotte di istrici, aculei lasciati in regalo ai passanti, ciclamini a colorare i bordi e, fittissimi ai lati, tigli, roverelle, querce, olivi selvatici. E ancora tane, terra smossa, prospettive di luci e ombre color ocra e verde castano. Appena in basso il torrente Riana, affluente del Farfa, che scorre parallelo al nostro sentiero, vivace, fresco, come finalmente liberato dalla stretta dell’arsura estiva. Ci addentriamo e il silenzio sacro del bosco è violato dagli spari sempre più frequenti dei cacciatori in agguato: giocatori a dadi con le vite degli altri. Mi attrae uno strano colore blu, proprio sul ciglio, appena evidente, nascosto tra le foglie cadute. Faccio per avvicinarmi e si tratta di fili intrecciati, sintetici e indistruttibili, come in una matassa aggrovigliata e seminterrata. Scavo appena con le mani e tocco un ammasso enorme come di fili di grandi spazzole o tappeti per giganti o di macchinari per chissà quale funzione. Mi sporgo sulla lieve scarpata che porta al fiume e la vista si abitua alla poca luce lasciata filtrare dalle piante. Provo a scendere appena perché scorgo il bianco di quello che sembra l’angolo di un elettrodomestico. Scendo solo di un po’ perché è troppo ripido per arrivare in fondo ma ora che gli occhi si sono abituati lo scenario è chiaro: un frigorifero abbandonato e sostituito da uno che consuma di meno in classe A. Perché noi ci teniamo all’ambiente e sostituiamo, rottamiamo, ci mettiamo in regola con le norme vigenti. Un vecchio computer ormai obsoleto perché noi ci aggiorniamo, noi facciamo l’upgrade, l’update, il patch, il download (perché scaricare è brutto). Appena più in là, mezzo interrato, un vecchio secchio di vernice e poco distante ma irraggiungibile una lavatrice. Non perché non potesse più funzionare ma per un nonnulla da quattro soldi che non si poteva riparare. Non conviene, si sa, e noi ci teniamo a risparmiare. Inciampo in qualcosa proprio dietro il mio piede: qualcosa di rigido, piccolo, ancora lucido, dal design moderno e bombato, oggetto insostituibile e necessario: una pallina dispenser per ammorbidente. Evidentemente ce n’era un’altra più nuova e colorata nell’ultimo flacone di detersivo. Quasi completamente interrata fa capolino quel che riesco a immaginare di una vecchia Tv. D’altra parte, senza “plasma” sappiamo bene che non si può vivere…Poco distante sul ciglio a salire, un’altra discarica. In poche centinaia di metri percorsi ce n’è abbastanza per avvelenare un intero ecosistema. Sappiamo tutti che cosa significhi smaltire gli elettrodomestici nell’ambiente: rilascio di gas ozono-lesivi, plastiche, vernici, rame, metalli pesanti che si mescolano alla terra e la avvelenano. La terra si impregna e gli effetti sulle piante e gli animali sono tossici anche a distanza di decenni. Le acque del fiume che si mescolano alle piogge colate dalle scarpate, costeggiano i boschi scorrendo per chilometri e danneggiando altre terre e altri animali. Di conseguenza, l’uomo. E tutto, drammaticamente, torna. Eppure, la possibilità di smaltire i rifiuti c’è. Esistono le isole ecologiche che li ritirano gratis in tutte le città, giornate ecologiche di ritiro gratuito sotto casa, possibilità di riciclare, regalare, passare, cedere, riparare, riutilizzare. Basterebbe informarsi. Profanare il bosco in questo modo è un gesto criminale, sacrilego e profondamente stupido contro la natura, che dovrebbe essere il nostro  tempio inviolabile, e contro ogni forma di vita. Le conseguenze, prima o poi, le pagheremo tutti se non capiremo al più presto che un cambio di direzione, dalla necessità dell’acquisto allo smaltimento dei milioni di oggetti di cui ci circondiamo, è indispensabile e sempre più urgente.

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Fonte: ilcambiamento.it

Difendiamo i nostri boschi

I boschi italiani, ci dicono i dati e le fonti ufficiali, sono in aumento. Lo dicono e non mentono. Almeno non “ufficialmente” Il problema è intendersi sul significato di “boschi”.boschi

Per l’enciclopedia Garzanti del 1964, che io ho ancora tutta intera dai tempi delle medie e ancora mi è utile consultare ogni tanto, i boschi sono «vaste associazioni di vegetazione arborea o fruticosa, spontanea o di origine artificiale. Generalmente costituiti da piante di alto fusto, accompagnate da un sottobosco di arbusti… Grande è la loro importanza soprattutto in montagna, in quanto trattengono l’acqua e impediscono le frane. Perciò il taglio del bosco deve essere regolato… essi sono sottoposti a una speciale disciplina giuridica che ne assicura la conservazione al fine di evitare che possano con danno pubblico subire denudazioni».

I tempi cambiano e le leggi pure, ultimamente quasi sempre in peggio. “L’appetito vien mangiando” dice il proverbio, e il capitalismo del ventunesimo secolo, a furia di strafogarsi, ha sviluppato un appetito tale che potrebbe divorarsi persino tutti i nostri boschi. Che però rimarrebbero ufficialmente “boschi”. Come e perché?

Per esempio, la legge del 2000 della Regione Toscana per il taglio del bosco ceduo, e per la quale Panda, la rivista del WWF intitolò “Toscana rasa al suolo” prevede che si possa tagliare a raso, cioè senza lasciare neanche un albero, fino a mille metri quadri di bosco, indipendentemente dalla pendenza dei suoli, dal clima, dalla natura del terreno, e senza bisogno di permessi e controlli. Quei mille metri quadri denudati risulteranno sempre ufficialmente bosco.

Per chi non lo sappia, nel nostro paese non è previsto alcun rimboschimento, dove il bosco viene tagliato. E’ previsto e dato per scontato che dalle radici nascano nuovi polloni. Il che non sempre accade, dato che i tagli si ripetono costantemente e che a volte anche le piante si stancano di essere sfruttate. Durante l’Impero Romano nel suo massimo splendore, le foreste dell’Appennino furono rase al suolo: il legname serviva per l’industria edilizia che anche allora non scherzava, serviva per le navi commerciali e per quelle da guerra di cui c’era un gran bisogno e poi, naturalmente, era una merce in sé. Allora, come oggi, tutto si vendeva e si comprava. L’erosione dei suoli dovuta al disboscamento fu allora talmente vasta e massiccia che ad essa dobbiamo ancora in parte la conformazione delle nostre coste, tanta fu la terra portata dalla pioggia ai fiumi, dai fiumi al mare. Con ripetute alluvioni, co me si può ben immaginare. Dopo la caduta dell’Impero, in quegli “anni bui” in cui il commercio sparì e con esso anche la schiavitù, le terre ricominciarono ad essere coltivate da libere comunità contadine e le foreste tornarono a ricoprire le montagne. Per venire di nuovo distrutte nel medioevo più tardo, quando le “forze produttive” si stavano sviluppando alla grande, lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo rifioriva altrettanto velocemente e i mercanti delle città italiane possedevano milioni di pecore che brucavano in appennino per fornirli di lana e tessuti da vendere in tutta Europa e anche oltre, in competizione con fiamminghi e inglesi (possiamo considerarli i Benetton dell’epoca). Dunque, dopo aver fatto scomparire le libere comunità contadine col ferro e col fuoco, detti mercanti facevano sparire le foreste per metterci a pascolare i loro futuri tessuti. Ma almeno loro, i romani imperiali e i mercanti italiani (o inglesi o fiamminghi) della fine del medioevo, non avevano il problema del riscaldamento del pianeta e dell’aumento sempre più veloce dell’effetto serra. Noi questo problema ce l’abbiamo, è il problema vitale della nostra epoca, quello che sta mettendo a repentaglio il futuro del pianeta. E abbiamo, nell’Impero Globale, anche il problema di tutti gli imperi: quello dello “sviluppo” dell’avidità e della corruzione, del dominio e dello sfruttamento. In quest’epoca di sviluppo si stanno sviluppando le cosiddette “imprese forestali”, che hanno soppiantato i vecchi boscaioli. Da quando le cosiddette “imprese forestali” hanno fatto irruzione sulla scena, le Regioni italiane, o almeno buona parte di esse, hanno cambiato le leggi che regolano il taglio del bosco. Rendendole molto più vantaggiose per le imprese, a discapito dei boschi, della biodiversità, dell’equilibrio idrogeologico, della produzione di ossigeno e dell’assorbimento di anidride carbonica. A discapito della vita. In Toscana, per fare un altro esempio (ma sicuramente altre Regioni ci darebbero esempi non meno agghiaccianti), se si vuole tagliare più di 1000 metri quadri, cioè fino a cinque ettari (50.000 metri quadri) qualcosa bisogna lasciare: sessanta alberini per ettaro, metà dei quali di almeno vent’anni. Si parla di querce, castagni. Sessanta fuscelli ogni diecimila metri quadri. E quegli ettari denudati saranno sempre ufficialmente “bosco”. Quando voi vedete colline o pendii di montagne coperte da un bel manto verde di alberi frondosi e sani, pensate di vedere bellezza, vita rigogliosa e varia, speranza per il futuro vostro e dei vostri figli. Ma c’è chi invece vede quattrini: centinaia di migliaia di euri di legname pregiato, legna da ardere, pellet, cippato, biomasse per le centrali elettriche liberalizzate. In tempi di crisi economica perché limitarsi a disboscare l’est Europa, l’Africa o l’Asia? Abbiamo risorse nostrane da sfruttare, risparmiando così sul trasporto. E così, come sempre quando ci sono grossi interessi economici in ballo (“gli OGM ci salveranno dalla fame”, “l’energia nucleare ci salverà dall’inquinamento”), sono nati anche gli ideologi del “taglio del bosco come necessità sociale nazionale”.

Costoro sono allarmati per “la crescita incontrollata dei boschi italiani”. Vogliono controllarla loro, la crescita, e in questo unico caso trasformarla in decrescita, e gli amministratori regionali italiani li aiutano a farlo. La teoria è che un bosco non “gestito”, e per gestione intendono solo il taglio degli alberi e niente più, sia pericoloso per sé e per gli altri. “Una foresta impenetrabile” dice l’esperto di turno parlando di boschi che non vengono tagliati “è quasi indifendibile in caso di incendi o di attacchi parassitari” perché, secondo lui “c’è molto meno spazio tra un albero e l’altro, il sottobosco è impenetrabile”. Fingendo di non sapere e di non vedere quello che chiunque abbia occhi, collegati ad almeno qualche centimetro cubico di cervello, può capire e constatare di persona: che più il bosco cresce, più gli alberi diventano grandi e le loro chiome si espandono coprendo il suolo e attenuando la luce, più il sottobosco, privato di luce, si riduce a poche e piccole piante. Quindi il bosco maturo con grandi alberi e chiome espanse, è proprio quello dove si può entrare e che si può percorrere con più facilità. Quanto agli attacchi parassitari, come constatiamo noi che viviamo in Toscana dove i boschi collinari sono praticamente monoculture di cerri e roverelle tagliati e ritagliati da secoli, una delle loro cause è proprio il sovra sfruttamento del bosco e la mancanza di biodiversità. Rimpiangono, questi esperti, i bei tempi in cui “era quasi impossibile trovare un ramo secco in un bosco”, ma dimenticano di dire che le “imprese forestali” di cui stanno facendo gli interessi schiaffano e abbandonano sul terreno del bosco tonnellate di ramaglie ammassate in mucchi, perché non è per loro redditizio perdere tempo per tagliare rami medi e piccoli e per portarli via. Questa è la “gestione” di cui parlano.

E mentre alberi e rami morti, nella quantità spontanea e naturale di un bosco, hanno un’importante funzione per la vita di molte specie animali e vegetali (dai picchi ai rapaci notturni, agli insetti predatori, ai batteri e alle muffe, ai muschi e licheni) che contribuiscono all’equilibrio naturale e alla salute del bosco, i mucchi di ramaglie alti un metro e più, quelli sì impenetrabili, impediscono la crescita di qualsiasi nuovo alberello. Mentre agevolano rovi, edere e vitalbe. Ma questo non preoccupa gli ideologi del “tagliamo i boschi per il loro bene”. Come non li preoccupa che le “imprese forestali qualificate” usino enormi macchinari, gru e scavatrici, camion e mastodontici trattori dentro i boschi, distruggendo il suolo, danneggiando anche gli alberi che non tagliano, facendo piste di esbosco che alla prima pioggia diventano fiumi di fango inarrestabili. La paura della natura, vista come minaccia da tenere a bada, che contraddistingue la cultura della civiltà occidentale, ha reso facile diffondere l’idea che il bosco vada “regolato” o, come si dice ora, “gestito”. Un’idea che si sposa anche a quella cultura per la quale l’uomo ne sa più della natura, che è stupida e rozza e va “migliorata”, che sappiamo come perfezionarla. E’ un’idea che corrisponde semplicemente a degli interessi economici, e non certo agli interessi delle foreste, che senza di noi hanno vissuto e vivono e prosperano allegramente. Certo, il bosco si può anche tagliare senza distruggerlo, ma allora regole e leggi dovrebbero essere ben diverse e privilegiare il suo benessere e non il lucro delle imprese forestali, come sta succedendo. “Nuovi posti di lavoro!”. Ecco un altro degli argomenti. E chi vive dove ci sono i boschi li vede, questi nuovi posti di lavoro. Anche le guardie forestali li vedono, quando gli operai delle imprese forestali scappano al loro arrivo perché lavorano in nero e senza permesso di soggiorno. Ma anche nel migliore dei casi, questi immigrati dell’est Europa che non hanno orario di lavoro se non quello del sorgere e tramontare del sole, non hanno neanche caschi, guanti e le tute protettive per le motoseghe, che possono significare vita o morte. Ed ecco i posti di lavoro per gli immigrati che, come si può constatare “sono una ricchezza”. Per chi li può sfruttare. Come i boschi.

E come dice l’esperto: “L’Italia ha nei suoi boschi un potenziale economico inutilizzato”. Perché ormai siamo tutti, donne, uomini, bambini, animali, terra, acqua (a quando l’aria?) “potenziali economici”. Così, mentre la Forestale lancia allarmi perché ormai in alcune zone d’Italia si disbosca illegalmente, i nostri politici-amministratori, che si preoccupano della legalità hanno trovato un modo semplice per combatterla: rendere legale quello che prima non lo era. Per essere ancora più sicuri di eliminare l’illegalità, hanno deciso di eliminare anche il Corpo Forestale dello Stato, e di togliere alle Guardie Provinciali la competenza sui reati ambientali. Cos’è l’ambiente? Si può vendere? E’ quotato in borsa?

I boschi non sono “legna”. Così come gli animali non sono “carne” e gli esseri umani non sono “manodopera”.

I boschi sono vita; sono terra, aria e acqua protette e rigenerate; sono animali di ogni specie, frutti e fiori; sono barriere all’erosione e alla desertificazione. Anche all’erosione e alla desertificazione delle nostre anime, della nostra cultura, dei nostri sogni. Difendiamo i nostri boschi dalla rapacità rovinosa di un sistema ormai del tutto distruttivo e autodistruttivo. Difendiamo la Vita.

 

Fonte: ilcambiamento.it

 

 

Un bosco dove si gioca e si impara

Gnomi, fate, natura, gioco, niente wi-fi perchè lì, in quel bosco, ci si connette solo con la natura. E’ il Giocabosco, un luogo che è divenuto parco didattico dal 2005, voluto e creato da Michela Sartori. Quando si dice dare forma a un sogno…

giocabosco (1)

A Gavardo nel Bresciano c’è un luogo dove ci sono gnomi e fate che accolgono bambini e genitori, la magia della natura ci ricorda la vera realtà che abbiamo perso di vista e i bambini possono giocare, imparare, scoprire. “Mente” e cuore di tutto questo è Michela Sartori, che da anni con convinzione e passione rende indimenticabili le giornate per grandi e piccini.
«L’Idea di creare un bosco che potesse accogliere i bambini di una fascia d’età bassa, dai 2 ai7 anni, è nata dal desiderio di unire le mie capacità e i talenti naturali che erano stati messi da parte e risvegliati nel diventare mamma» spiega Michela.  «Ho lasciato un lavoro fisso e sicuro per dedicarmi ai miei bambini e cercare la mia strada, poco dopo è arrivata questa idea. Sono cresciuta a stretto contatto con la natura e nella passione scout dell’infanzia ho trovato l’ispirazione per creare un luogo che potesse riavvicinare i bambini all’ambiente naturale, insegnando loro attraverso la fantasia e le fiabe, sia la gioia dello stare all’aria aperta, sia il rispetto ambientale».
«Cominciare anche burocraticamente non è stato facile, per avere la partita Iva ci sono voluti 6 mesi perché la Camera di Commercio era in difficoltà con l’inquadramento; non ero fattoria didattica, non ero parco con attrazioni meccaniche, non ero ludoteca. Sarebbe stato più facile creare un’associazione e fare attività culturale, ma non era la strada corretta, volevo creare un’attività vera e propria, senza cercare scappatoie.  Purtroppo nessuno a livello territoriale ha creduto in questa idea, quindi sono partita con le sole forze mie e della mia famiglia». giocabosco

«Al contrario, alle scuole la proposta è piaciuta moltissimo da subito e quindi fin dall’apertura Giocabosco ha cominciato ad ospitare gruppi e famiglie da fine marzo a fine ottobre. Per stimolare l’apprendimento è fondamentale l’immaginazione, la curiosità, il sentimento, non basta la trasmissione di conoscenze ecologiche per far prendere coscienza della realtà della natura, bisogna immergersi e viverla, questa è la finalità di Giocabosco. Al termine del decimo anno di attività posso dire che le soddisfazioni sono state innumerevoli. Far parte dei più bei ricordi d’infanzia di un bambino è per me il riconoscimento più grande. I bambini ormai hanno poche possibilità di giocare in ambienti naturali, più per comodità e abitudine che per mancanza di spazi. Si preferisce il centro commerciale caldo e pulito per festeggiare il compleanno e passare le domeniche o i pomeriggi. Giocabosco fa da tramite tra la natura “selvaggia” e gli spazi gioco chiusi.  Dà la possibilità di stare in un bosco con la sicurezza però di essere in un ambiente sicuro, protetto e studiato per la sicurezza dei più piccoli, senza togliere il fascino dell’avventura che un bosco di querce può offrire. L’ambientazione fantastica rende la giornata trascorsa in questo luogo ancora più magica».
«Sia le scuole che le famiglie vengono da tutta Italia per passare con noi una giornata – prosegue Michela – siamo vicini al Lago di Garda e spesso tappa finale delle vacanze. Un grande rammarico di sempre è di non essere un valore per il mio territorio. Poi mi auguro sempre si poter collaborare con realtà simili sfruttando la mia esperienza in maniera costruttiva e proficua per tutti». «Giocabosco è un luogo nato per far sognare i bambini; provate a far uscire il bambino che c’è in voi, altrimenti non aspettatevi di restare a bocca aperta, per quanto le fate siano belle e brave, non succederà. Se i vostri figli restano affascinati da una lumaca e non vogliono partecipare alle attività ma restare ad osservarla, non offendetevi. E… non c’è wifi gratuito, ci si connette alla natura!».

Fonte: ilcambiamento.it

Buon compleanno a Boscoincittà, primo intervento di forestazione urbana d’Italia

“Per fare un bosco, ci vuole una città” : la festa per i 40 anni di Boscoincittà ha ripercorso le tappe della nascita di un parco nato dal lavoro, dalla passione e dalla visionarietà dei suoi ideatori e di tre generazioni di milanesi che hanno lavorato per trasformare un’area abbandonata e abusiva in un modello verde da esportare380400

di Aglaia Zannetti

Era il 1974 quando Geppi Torrani, Renato Bazzoni, Luisa Toeschi e Giulio Crespi di Italia Nostra sfidarono Milano, ostile metropoli all’epoca capitale dello smog e del cemento, costruendo su un terreno dismesso, pieno di immondizia e sterpaglie quello che in molti, non a torto, hanno definito un vero e proprio Sogno, un’Utopia divenuta realtà grazie al lavoro di almeno ventimila cittadini volontari che hanno permesso a questo luogo (che occupa oggi una superficie di centoventi ettari, dai 35 iniziali del 1974) di trasformarsi in un parco verdissimo dove la Natura trova il suo posto e l’uomo ritrova il suo spazio vitale, a pochi chilometri dal caotico e moderno centro della città.
Pionieri nel 1988 dell’istituzione degli orti – che oggi chiamiamo “condivisi” e che allora furono battezzati “orti del tempo libero” – in anni in cui orto era sinonimo di abusivismo e l’idea di un progetto unitario ben definito, con aree e strutture comuni e bandi per l’assegnazione, quasi fantascienza, questo Bosco urbano si è arricchito di ampie zone naturalistiche che ospitano specchi d’acqua e un’interessante varietà faunistica,oasi protetta dove solo da pochi mesi la caccia è vietata e gli animali possono dormire sonni tranquilli. Un compleanno importante, dunque, quello del 20 settembre, per un progetto sul quale in pochi avrebbero scommesso, in continua evoluzione ed espansione ( come testimonia, ad esempio, il neo nato giardino acquatico, fiore all’occhiello del lavoro degli instancabili volontari) con l’obiettivo di triplicare le aree verdi nella zona ovest connettendosi col Parco delle Cave e il Parco Trenno, per una Milano città metropolitana sempre più immersa nel polmone verde dove la Natura non vive dietro le sbarre ma riesce a trovare una sua dimensione autentica, a tutto beneficio anche dell’uomo.

 

Sentieri in città: 1974-2014, Milano per il Bosco, il Bosco per Milano [9,48 MB]

Quarant’anni di Boscoincittà, una storia di passione e ambientalismo nell’ultimo numero del 24 settembre 2014 di Sentieri in Città

Fonte: ecodallecitta.it

Rancho Margot: tanti esperimenti, una realtà (sostenibile)

“Un laboratorio di sostenibilità in continua evoluzione”. In Costa Rica si trova Rancho Margot, un po’ progetto di ecoturismo rurale, un po’ comunità autosufficiente, un po’ scuola di sostenibilità e sopravvivenza, un po’ centro di recupero di animali selvaggi, un po’ altro ancora.costa_rica3

Rancho Margot si trova in Costa Rica, al confine tra il “Bosco Eterno dei Bambini” e il Parco Nazionale dell’Arenal.

In Costa Rica, al confine tra il “Bosco Eterno dei Bambini” e il Parco Nazionale dell’Arenal, su 152 ettari di terreno precedentemente deforestato ed adibito a pascolo, si estende il sogno di Juan Sostheim, cileno di nascita, statunitense e poi tedesco di adozione e una vita in giro per il mondo. Circa 10 anni fa, in seguito a seri problemi di salute, Sostheim decise di cambiare vita, e da semplice turista si innamorò di questa valle e di questa proprietà. Risulta difficile descrivere Rancho Margot, un po’ progetto di ecoturismo rurale, un po’ comunità autosufficiente, un po’ scuola di sostenibilità e sopravvivenza, un po’ centro di recupero di animali selvaggi, un po’ altro ancora. Incuriosito dalla fama che Rancho Margot si è costruito in pochissimi anni, una mattina ho alzato il telefono e ho chiesto di poter rendere visita per capire se davvero questa fama era meritata. Ho passato tre giorni parlando con Juan, i suoi figli, i dipendenti; ho visitato tutto quello che c’era da visitare. In tutta sincerità il progetto è talmente ampio che mi è stato difficile coglierne l’intera portata, anche perché Sostheim non è di certo il tipo che se ne sta con le mani in mano e le cose cambiano continuamente. Juan è un vulcano di idee che prima pensa e poi realizza e proprio per questo credo che la definizione più appropriata per Rancho Margot sia “laboratorio di sostenibilità in continua evoluzione”.rancho_margot

Rancho Margot può essere definito “un laboratorio di sostenibilità in continua evoluzione”

Ma andiamo con ordine. Avendo come primo obiettivo quello di essere esempio di comunità autosufficiente, Rancho Margot ha iniziato sin da subito ad operare in questa direzione. L’elettricità è completamente prodotta da due idroturbine (da 8 e 42 kw rispettivamente) grazie alle acque che scorrono nella proprietà e che assicurano l’intero fabbisogno energetico (tra le altre cose Rancho Margot è stato certificato, primo in Costa Rica, carbon negative), mentre un grande orto organico (in cui vengono seguiti i principi della permacultura) ed il frutteto assicurano il 50-60% della esigenze dei circa quaranta residenti e del ristorante. A fianco dell’orto si trova l’area per le piante medicinali utilizzate nella produzione dei saponi e di insetticidi ed erbicidi naturali. Latte e formaggi provengono da mucche allevate all’aperto mentre maiali e galline garantiscono la produzione di carne (cose su cui io, da vegano, faccio molta fatica ad essere d’accordo). Lo sterco animale, oltre ad essere utilizzato nell’orto, viene trasformato in gas-metano per la cucina del ristorante grazie ai “biodigestori”, mentre il riscaldamento dell’acqua per i 20 bungalows della struttura avviene grazie a scambiatori di calore situati all’interno dei forni per il compost. “A Rancho Margot”, dice Sostheim “non esistono rifiuti ma solo risorse”. Sia le case che i bungalows sono state costruite con l’utilizzo di materiali locali mentre i mobili vengono preparati nella falegnameria con legname della proprietà. In aggiunta ci sono due piscine naturali (una calda e una fredda) un dojo per la pratica dello yoga, sentieri e cascate per rilassare mente e fisico. rancho_margot6

“Quando la gente viene qui, anche solo in vacanza, deve tornare a casa ispirata e determinata a cambiare la propria vita”

Una cosa che devo dire mi ha colpito immensamente è la quasi totale assenza di mosche ed insetti negli allevamenti e nella stalla dei cavalli (che, sembrerà incredibile, è situata a fianco di bar e ristorante). Juan sostiene che questo è dovuto alla dieta organica e bilanciata che viene data agli animali. Questo è ciò che vedono gli occhi. Per il resto bisogna ascoltare Juan o i suoi figli, perché Rancho Margot è soprattutto un sogno ad occhi aperti: scuola di sopravvivenza, dipendenti che diventeranno soci, coinvolgimento quotidiano con la vicina comunità di El Castillo, collaborazione con il “Bosco Eterno dei Bambini”, progetto di riforestazione (oltre 40.000 alberi piantati), scuola per volontari e davvero tanto altro ancora. Ma è giusto che siano le parole di Juan Sostheim ad indicare il futuro di Rancho Margot: “Voglio trasformare questo posto in una comunità totalmente autosufficiente e sostenibile e che al tempo stesso sia un esempio ed una scuola per il mondo intero. Quando la gente viene qui, anche solo in vacanza, deve tornare a casa ispirata e determinata a cambiare la propria vita. Facciamo errori ovviamente, ma non ci abbattiamo e anzi guardiamo al futuro con rinnovato ottimismo. E soprattutto vogliamo condividere le nostre esperienze. Vogliamo insegnare ad altri ma anche imparare da altri. Il tempo dell’individualismo è finito. È ora di reimparare a vivere condividendo cose e saperi”.

Fonte: il cambiamento

 

Incendi boschivi: il decreto “svuota carceri” favorisce i piromani

Legambiente lancia un forte appello alla Commissione Giustizia del Senato, dove in questi giorni è in corso la discussione per la conversione del decreto legge cosiddetto ‘svuota carceri’ che, tra l’altro, prevede la concessione delle misura alternative per i criminali incendiari, condannati alla pena definitiva.incendi_boschi

“Sembra assurdo ma è così: proprio nel periodo estivo, il più difficile sul fronte dell’emergenza incendi boschivi, si propone di derubricare il reato di incendio boschivo cancellando, di fatto, il ruolo deterrente della pena carceraria. Non si può tutelare il paesaggio, l’ambiente e il patrimonio boschivo e forestale, facendo sconti a chi ha l’obiettivo di distruggerlo, accentuando inoltre il gravissimo fenomeno del dissesto idrogeologico del già fragile territorio italiano”. Con queste parole Legambiente lancia un forte appello alla Commissione Giustizia del Senato, dove in questi giorni è in corso la discussione per la conversione del decreto legge cosiddetto ‘svuota carceri’ che, tra l’altro, prevede la concessione delle misura alternative per i criminali incendiari, condannati alla pena definitiva. “È un grave errore di valutazione non avere inserito il 423 bis, che punisce con la reclusione chi si rende responsabile degli incendi boschivi tra i delitti di particolare allarme sociale, per i quali non possono scattare gli sconti di pena previsti dal decreto”, dichiara il presidente nazionale di Legambiente Vittorio Cogliati Dezza. “Non si tiene conto, in questo modo dei gravissimi danni causati da queste attività criminali, dietro i quali si muovono forti interessi speculativi e mafiosi, ma soprattutto si finisce per azzerare l’efficacia preventiva di sanzioni adeguate. Ogni anno vanno in fumo in Italia decine di migliaia di ettari di bosco, causando vittime, danni al paesaggio e alle risorse naturali, alle economie locali delle aree interne. Basti pensare che negli ultimi trent’anni è andato distrutto il 12% del patrimonio forestale nazionale, tra i più importanti d’Europa per ampiezza e varietà di specie”. Solo nel 2012, come rivela l’ultimo Rapporto Ecomafia di Legambiente, sono stati ben 8.304 gli incendi che hanno colpito il patrimonio boschivo del nostro paese, con 742 persone denunciate, 21 arresti e 154 sequestri. Numeri in crescita rispetto al 2011, che pure era stato un anno pesantissimo, con un +4,6% di roghi. Non a caso, nelle quattro regioni a tradizionale presenza mafiosa (Campania, Calabria, Puglia e Sicilia) si concentra il 48,4% di incendi. “Per fermare questa emergenza criminale – ha aggiunto Cogliati Dezza – devono essere messi in campo tutti gli strumenti possibili, senza mai abbassare la guardia: dalla vigilanza delle aree boschive, che deve essere rafforzata, a un sistema di interventi tempestivi per lo spegnimento dei roghi; dalle attività investigative e di contrasto del fenomeno, anche queste da potenziare, fino alla realizzazione e l’aggiornamento da parte di tutti i Comuni del catasto delle aree percorse dal fuoco, uno strumento indispensabile per disincentivare le molte speculazioni sulle aree bruciate. In questo contesto sarebbe davvero incomprensibile depotenziare l’efficacia della pena prevista dal 423 bis. Siamo convinti che la Commissione Giustizia del Senato e lo stesso ministero correggeranno un grave errore di valutazione sull’effettiva pericolosità di questi fenomeni criminali, che il Paese rischia di pagare molto caro”.

Fonte: il cambiamento