Porta Pazienza: la pizza solidale, etica e antimafia è più buona

A Bologna c’è una pizzeria davvero speciale, che ha trasformato questo classico della cucina napoletana in uno strumento per aiutare categorie fragili, creare inclusione sociale, favorire chi si batte per la legalità e diffondere cultura e consapevolezza. Oggi vi portiamo a pranzo da Porta Pazienza – Primi, Secondi e Ultimi. Nella tradizione sociale napoletana è ancora viva l’abitudine, in parecchi bar e locali della città partenopea, di donare un caffè a beneficio di chi non se lo può permettere. “E perché non una pizza?”, si sono chiesti i gestori di Porta Pazienza, pizzeria bolognese che non è solo un ristorante, ma anche un progetto sociale per la realizzazione di un mondo più etico ed inclusivo per tutti

All’interno del locale, oltre a una vastissima scelta di gustosissimi piatti che raccontano la tradizione napoletana, si possono assaporare diverse portate speciali: la solidarietà, scegliendo una pizza da lasciare a chi altrimenti non se la potrebbe permettere; la lotta alle mafie, grazie alla scelta di materie prime che provengono da fornitori che lavorano utilizzando beni e terreni confiscati alla criminalità organizzata, selezionati e scelti con cura dallo staff per la preparazione dei piatti che arricchiscono il menù; l’inclusione lavorativa, che ha il sorriso di ragazzi e ragazze che, tra un servizio al tavolo e un turno in cucina, possono tracciare una strada per la propria vita e per la propria indipendenza, crescendo professionalmente anche attraverso il lavoro di squadra.

A Bologna c’è una pizzeria davvero speciale, che ha trasformato questo classico della cucina napoletana in uno strumento per aiutare categorie fragili, creare inclusione sociale, favorire chi si batte per la legalità e diffondere cultura e consapevolezza. Oggi vi portiamo a pranzo da Porta Pazienza – Primi, Secondi e Ultimi. Nella tradizione sociale napoletana è ancora viva l’abitudine, in parecchi bar e locali della città partenopea, di donare un caffè a beneficio di chi non se lo può permettere. “E perché non una pizza?”, si sono chiesti i gestori di Porta Pazienza, pizzeria bolognese che non è solo un ristorante, ma anche un progetto sociale per la realizzazione di un mondo più etico ed inclusivo per tutti

All’interno del locale, oltre a una vastissima scelta di gustosissimi piatti che raccontano la tradizione napoletana, si possono assaporare diverse portate speciali: la solidarietà, scegliendo una pizza da lasciare a chi altrimenti non se la potrebbe permettere; la lotta alle mafie, grazie alla scelta di materie prime che provengono da fornitori che lavorano utilizzando beni e terreni confiscati alla criminalità organizzata, selezionati e scelti con cura dallo staff per la preparazione dei piatti che arricchiscono il menù; l’inclusione lavorativa, che ha il sorriso di ragazzi e ragazze che, tra un servizio al tavolo e un turno in cucina, possono tracciare una strada per la propria vita e per la propria indipendenza, crescendo professionalmente anche attraverso il lavoro di squadra.

All’interno della grande famiglia di Porta Pazienza, i ragazzi e le ragazze che lavorano e collaborano in questo nobile progetto trovano la giusta valorizzazione. Prima delle loro disabilità sono persone che, all’interno di questo contesto, trovano la serenità e il coraggio di far nascere dalle diverse difficoltà di ognuno qualcosa di importante e prezioso, non solo per loro stessi ma anche per la comunità che li circonda.

Michele Ammendola, responsabile del progetto ci racconta la loro storia.

Dal 2013 i nostri contenuti sono gratuiti grazie ai nostri lettori che ogni giorno sostengono il nostro lavoro. Non vogliamo far pagare i protagonisti delle nostre storie e i progetti che mappiamo. Vogliamo che tutti possano trovare ispirazione nei nostri articoli e attivarsi per il cambiamento.

Com’è iniziata la vostra avventura?

Siamo La Formica Cooperativa Sociale e siamo nati a marzo del 2017. A Bologna, al quartiere Pilastro – una zona periferica con diverse criticità – ci troviamo all’interno del Circolo La Fattoria, dove gestiamo il progetto sociale Porta Pazienza – Primi, Secondi e Ultimi.

Ci raccontate meglio la vostra mission?

La nostra storia comincia con l’apertura della pizzeria La Fattoria di Masaniello. Il progetto viene gestito dalla Cooperativa Sociale La Formica, che si occupa dell’inserimento lavorativo di persone fragili e categorie protette. Nel giugno del 2020, il progetto cambia nome in Porta Pazienza, mantenendosi ben saldo nei suoi valori: passione, inclusione e solidarietà. Porta Pazienza è molto più di una pizzeria: è un progetto sociale, un luogo unico in cui l’attività ristorativa si trasforma in una gustosa occasione per dimostrare che un modello di consumo critico, etico e consapevole è possibile.

All’interno della grande famiglia di Porta Pazienza, i ragazzi e le ragazze che lavorano e collaborano in questo nobile progetto trovano la giusta valorizzazione. Prima delle loro disabilità sono persone che, all’interno di questo contesto, trovano la serenità e il coraggio di far nascere dalle diverse difficoltà di ognuno qualcosa di importante e prezioso, non solo per loro stessi ma anche per la comunità che li circonda.

Michele Ammendola, responsabile del progetto ci racconta la loro storia.

Dal 2013 i nostri contenuti sono gratuiti grazie ai nostri lettori che ogni giorno sostengono il nostro lavoro. Non vogliamo far pagare i protagonisti delle nostre storie e i progetti che mappiamo. Vogliamo che tutti possano trovare ispirazione nei nostri articoli e attivarsi per il cambiamento.

Com’è iniziata la vostra avventura?

Siamo La Formica Cooperativa Sociale e siamo nati a marzo del 2017. A Bologna, al quartiere Pilastro – una zona periferica con diverse criticità – ci troviamo all’interno del Circolo La Fattoria, dove gestiamo il progetto sociale Porta Pazienza – Primi, Secondi e Ultimi.

Ci raccontate meglio la vostra mission?

La nostra storia comincia con l’apertura della pizzeria La Fattoria di Masaniello. Il progetto viene gestito dalla Cooperativa Sociale La Formica, che si occupa dell’inserimento lavorativo di persone fragili e categorie protette. Nel giugno del 2020, il progetto cambia nome in Porta Pazienza, mantenendosi ben saldo nei suoi valori: passione, inclusione e solidarietà. Porta Pazienza è molto più di una pizzeria: è un progetto sociale, un luogo unico in cui l’attività ristorativa si trasforma in una gustosa occasione per dimostrare che un modello di consumo critico, etico e consapevole è possibile.

Anche la lotta per la legalità ha un ruolo importante nella vostra attività.

Siamo da sempre in prima linea nel sostegno alle realtà che lavorano sui beni confiscati alle mafie, a quelle che denunciano il pizzo, a quelle che generano lavoro nei centri di detenzione e a quelle che propongono agricoltura sociale. Il nostro obiettivo è quello di contribuire a costruire una società aperta, inclusiva e solidale. La nostra ricetta è semplice: ci occupiamo di ridare dignità e forza alle persone più fragili e proponiamo un menù ricco di prodotti etici.

Quali sono i vostri “cavalli di battaglia”?

La pizza sospesa, che è un piccolo gesto per un grande sorriso; ma anche l’inclusione lavorativa di persone fragili, l’acqua bene comune e gratuita, i prodotti provenienti da beni confiscati alle mafie, dalle carceri, da realtà “no pizzo” e i corsi di formazione e i tirocini rivolti a persone da inserire nel mondo del lavoro. Siamo inoltre la sede operativa di progetti rivolti a bimbi autistici di Angsa Bologna. Per tre anni abbiamo ospitato tutti i sabati percorsi educativi per bimbi dai 3 ai 9 anni.

Anche la lotta per la legalità ha un ruolo importante nella vostra attività.

Siamo da sempre in prima linea nel sostegno alle realtà che lavorano sui beni confiscati alle mafie, a quelle che denunciano il pizzo, a quelle che generano lavoro nei centri di detenzione e a quelle che propongono agricoltura sociale. Il nostro obiettivo è quello di contribuire a costruire una società aperta, inclusiva e solidale. La nostra ricetta è semplice: ci occupiamo di ridare dignità e forza alle persone più fragili e proponiamo un menù ricco di prodotti etici.

Quali sono i vostri “cavalli di battaglia”?

La pizza sospesa, che è un piccolo gesto per un grande sorriso; ma anche l’inclusione lavorativa di persone fragili, l’acqua bene comune e gratuita, i prodotti provenienti da beni confiscati alle mafie, dalle carceri, da realtà “no pizzo” e i corsi di formazione e i tirocini rivolti a persone da inserire nel mondo del lavoro. Siamo inoltre la sede operativa di progetti rivolti a bimbi autistici di Angsa Bologna. Per tre anni abbiamo ospitato tutti i sabati percorsi educativi per bimbi dai 3 ai 9 anni.

Come avete affrontato/state affrontando il periodo difficile che stiamo vivendo? Avete trovato un modo per reinventarvi?

Dopo quasi un anno di inattività abbiamo la necessità di reinventarci per preservare il percorso collettivo fatto finora: abbiamo pertanto scelto la formula dell’on the road. Vogliamo acquistare un Food Truck per uscire dalla nostra pizzeria e continuare a svolgere la nostra attività anche sulle strade. Per riuscirci abbiamo lanciato una campagna di crowdfunding sulla piattaforma IdeaGinger che si è conclusa con un successo incredibile e ci ha consentito di raccogliere il doppio dell’obbiettivo fissato. Abbiamo pensato di utilizzare questo strumento per riprodurre all’esterno il nostro modello economico.

Progetti per il futuro?

Per il futuro ci vediamo impegnati sempre di più nel proporre modelli alternativi. Ci immaginiamo di poter trasformare – grazie al food truck – qualunque parcheggio da spazio vuoto a luogo aperto e accogliente. Speriamo di poter continuare ad avere una visione trasversale e inclusiva del mondo. Noi non molleremo e ci metteremo tutta la passione che in questi anni ci ha accompagnato. Fonte: https://www.italiachecambia.org/2021/04/porta-pazienza-pizza-solidale-etica-antimafia/?utm_source=newsletter&utm_medium=email

Emporio Sociale Camilla: oltre 500 soci in meno di un anno

Oltre cinquecento soci in meno di un anno, di cui l’80% circa attivi nei turni cooperativi: sono i numeri che l’emporio sociale Camilla di Bologna ha saputo “guadagnarsi” insieme alla fiducia e alla stima di cittadini e comunità.

Emporio Sociale Camilla: oltre 500 soci in meno di un anno

Tutti i grandi progetti hanno un tempo di germinazione che può sembrare lungo ma che è necessario affinché si realizzino e prendano forma. E l’emporio sociale Camilla è nato da un’idea che due anni fa era in embrione e che un gruppo di persone, che ci ha creduto fino in fondo, ha portato alla piena realizzazione.

Oggi l’emporio sociale e condiviso ha la sua sede a Bologna, in via Vincenzo Casciarolo 8/D.

«Camilla è una società cooperativa che nasce da due esperienze di consumo consapevole e autogestito: Campi Aperti e GAS Alchemilla, basate sulla partecipazione attiva e sulla relazione di fiducia tra chi produce e chi compra – spiegano i promotori – e su un sistema di garanzia partecipata che rispetta i valori della Carta dei principi ovvero l’autodeterminazione alimentare, l’economia di prossimità e il sostegno dell’agricoltura biologica contadina. Il progetto Camilla è uno spazio di libertà sottratto alle logiche del profitto a scapito delle persone e degli ambienti naturali. E’ un luogo dove far rinascere il valore delle parole abusate: benessere, sostenibilità, politica».

L’impegno per l’ambiente risulta essere il focus centrale per i soci; per esempio entrando nell’emporio, si nota l’impegno concreto e fortemente voluto per la riduzione e il recupero degli imballaggi.

«Abbiamo superato le cinquanta referenze di prodotti in vendita sfusi, senza imballaggi, sia alimentari che per la detergenza, inclusi i saponi solidi» proseguono i promotori. «E’ già possibile inoltre per i soci riportare i vuoti in vetro, che rendiamo poi ai produttori perché vengano riutilizzati, per i prodotti identificati in emporio con un bollino rosso visibile. Un impegno concreto per l’ambiente a cui siamo molto sensibili. Un altro aspetto fondamentale è come vengono scelti i prodotti. Vengono privilegiate filiere corte e locali tramite conoscenza diretta, ovvero tramite un Sistema di Garanzia Partecipata (SGP), che prevede la verifica della qualità dei produttori e del rispetto dei principi di Camilla a diretta cura di soci attivi e competenti.

Come funziona dunque Camilla?

«Diventi socio-proprietario-gestore dell’emporio versando una quota di capitale sociale di 125 euro (o suoi multipli) una tantum e offrendo 2,45 ore del tuo tempo ogni mese per gestire l’emporio: aiuto magazzino, cassa, ordine e pulizia, dare informazioni alle persone, rifornimento scaffali – spiegano ancora i promotori – Siamo arrivati, appunto, a oggi a 504 soci che hanno versato il capitale sociale della cooperativa e l’80% di loro sono attivi nei turni di gestione dell’emporio».
L’emporio è divenuto quindi un luogo dove acquistare prodotti di qualità, biologici e sostenibili, scelti direttamente dai soci. «E’ un luogo dove incontrare persone motivate da uno spirito comune di partecipazione alla creazione di un’economia locale e sociale innovativa e nata dal basso».

L’emporio è aperto 5 giorni su 7 e al mercoledì e al sabato anche al mattino.

Si trovano tantissimi prodotti a un prezzo giusto per chi compra e chi produce: cereali, cosmetici, detergenti per il bucato, detergenti per la casa e la persona, farine, alimenti freschi, legumi secchi, olio, passate di pomodoro, pasta, prodotti di carta per la casa, riso e riso integrale, vino, birre, caffè e succedanei.

Di recente si è anche svolta la festa di Camilla e Campi Aperti in Piazza VIII Agosto. La parola autogestione è stata la protagonista dell’evento con diversi attori che hanno portato la propria esperienza:  il Movimento dei Pastori Sardi, il Movimento Sem Terra e la ong ESPLAR dal Brasile, le Transition Town di Totnes, Stefano Liberti oltre a Campi Aperti, Arvaia, MAG6 di Reggio Emilia, ARESS. Perché autogestione? «Perché altrimenti c’è dipendenza e quindi sfruttamento, senza una presa diretta di responsabilità da parte di chi è coinvolto nella cura dei beni – spiegano i promotori della realtà – E parlando di contadino come guardiano e custode del territorio, inteso non solo come terra ma come sistema complesso, la sua figura impone una tutela. Tuteliamo la sua libertà perché è nella libertà che nasce la sensibilità di sentire il legame con la natura e cooperare con lei in armonia coltivando cibo genuino. Camilla è un esempio di autogestione incredibile, dove tante variabili vengono messe in gioco per consentire una visione libertaria dell’economia».

Altre realtà simili stanno nascendo. Facciamo gli auguri a Mesa Noa Food Coop a Cagliari ed a OltreFood a Parma! Fonte: http://www.ilcambiamento.it/articoli/emporio-sociale-camilla-oltre-500-soci-in-meno-di-un-anno?idn=58&idx=29812&idlink=5

Un nuovo mo(n)do per fare salute

Manca pochissimo alla presentazione in anteprima di “Un nuovo mo(n)do per fare salute”, il primo libro della Rete Sostenibilità e Salute, di cui anche Italia Che Cambia fa parte. Appuntamento venerdì 11 ottobre a Bologna con i curatori Chiara Bodini, Jean-Louis Aillon, Matteo Bessone. Dopo circa un anno di gestazione, è uscito in libreria il libro della Rete Sostenibilità e Salute: “Un nuovo mo(n)do per fare salute”. Come suggerisce il titolo, si tratta di riflessioni e spunti, teorici e pratici, per ripensare la salute e la cura all’interno di un più ampio ripensamento dell’attuale sistema socio-economico e culturale, insostenibile e patogeno.

I vari capitoli, a cura di autori e autrici afferenti alla Rete, affrontano gli snodi principali della Carta di Bologna, il manifesto fondativo con cui la Rete è nata cinque anni fa: la salute come prodotto sociale, la centralità delle relazioni e dunque della cultura e della partecipazione, la questione ambientale e le alternative al dogma della crescita, i diversi approcci alla cura e l’importanza del servizio sanitario nazionale, le minacce rappresentate da conflitti di interessi e sistemi che premiano la malattia e non la salute, e molto altro.  

Il libro sarà presentato a Bologna, in prima nazionale, venerdì 11 ottobre alle 18.00 a Venti Pietre (Via Marzabotto 2). Grazie alla presenza di Giuditta Pellegrini, giornalista ambientale e fotografa per Terra Nuova e Il Manifesto, sarà possibile un dialogo approfondito con i curatori (Chiara Bodini, Jean-Louis Aillon, Matteo Bessone) e le autrici e gli autori.

Per maggiori informazioni, trovate allegati la scheda libro (copertina, indice ed introduzione), la locandina e l’evento facebook. A questo link può essere, invece, acquistato il libro online (cartaceo o pdf), oppure scaricato gratuitamente il primo capitolo introduttivo. 

“Secondo l’autorevole rivista «The Lancet», i cambiamenti climatici saranno la principale minaccia per la salute del XXI secolo. Contemporaneamente, l’acuirsi delle disuguaglianze alimenta problemi sociali e di salute, sia fisica che mentale, in tutta la popolazione e a tutti i livelli. […]. Che cosa possiamo fare di fronte a tutto ciò? 

In questo volume la Rete Sostenibilità e Salute propone spunti teorici e pratici per un cambiamento dell’attuale sistema, a partire da un modo diverso di leggere la malattia e la cura. Si tratta di un utile strumento per tutte le persone che si rifiutano di rassegnarsi a questa ingiusta ed evitabile “realtà”, e vogliono impegnarsi nel dare vita a un mondo che metta al centro la salute delle persone e quella del pianeta”.

Fonte: http://www.italiachecambia.org/2019/10/un-nuovo-mondo-per-fare-salute/?utm_source=newsletter&utm_campaign=general&utm_medium=email&utm_content=relazioni

Il 5G e la ricerca sul cancro

La direttrice dell’Istituto Ramazzini Fiorella Belpoggi fa il punto sulla situazione 5G. Un’occasione per parlare di ricerca indipendente, delle linee guida sugli studi e della necessità di valutare l’inquinamento diffuso e continuativo nella ricerca sul cancro.  In occasione dell’intervista alla ricercatrice e direttrice dell’Istituto Ramazzini, Fiorella Belpoggi, abbiamo chiesto un aggiornamento sulla situazione 5G. “È un momento di grande fermento – sottolinea la direttrice – e vengo invitata continuamente ad eventi sull’impatto delle radiofrequenze organizzati da cittadini e amministratori: c’è molta attenzione anche tra ricercatori, fondazioni e amministrazioni. Anche dall’estero ricevo continuamente richieste di intervista, ci sono pochissime informazioni ma soprattutto è un tema ancora poco studiato. L’Istituto Ramazzini è l’unico soggetto di ricerca indipendente dai finanziamenti delle industrie che abbia studiato l’impatto almeno sul 3G, sulla frequenza di 1.8 GHz, attualmente in uso. Invece il 5G utilizzerà una fascia di radiazioni elettro magnetica delle onde millimetriche su cui non esistono studi per la salute delle persone. Oltretutto l’utilizzo dei telefonini è sempre più massiccio e continuato anche nelle giovanissime generazioni quindi bisognerebbe impostare nuove metodologie di ricerca oltre che indipendenti.

Fiorella Belpoggi, direttrice dell’Istituto Ramazzini

Abbiamo studiato le basse frequenze cioè quelle indotte dal flusso della corrente elettrica, le radiofrequenze 1.8 GHz e abbiamo visto che tutte le onde possono indurre il cancro soprattutto alcuni tipi di cancro al cervello. Infatti abbiamo rilevato l’impatto negativo sulle cellule di Schwann che formano la mielina attorno ai filamenti dei neuroni. I tumori che abbiamo osservato noi e i colleghi negli Stati Uniti sono gli stessi che avevano indotto la IARC (Agenzia internazionale per la ricerca sul cancro) nel 2011 ad affermare che le radiofrequenze erano “possibilmente cancerogene” negli utilizzatori assidui del cellulare. Poiché questi device sono tenuti vicini o addosso al corpo tutto il giorno, l’energia che viene assorbita dall’organismo è maggiore rispetto alle stesse frequenze emesse dalle antenne: c’è una maggiore interferenza con il materiale biologico. Di fronte al fatto che esistono le due evidenze scientifiche di pericolosità, dei due diversi laboratori, abbiamo chiesto di inserire nelle prossime nuove valutazioni delle radiofrequenze una revisione più completa e aggiornata degli studi. Importante infatti è tenere conto delle eventuali amplificazioni del sistema della trasmissione di onde ancora maggiori cioè con maggiore capacità di trasmettere anche se meno penetranti. Non c’è una evidenza scientifica di emergenza come ci accadde quando studiammo gli effetti del benzene e della formaldeide. Ma prima di espandere queste tecnologie bisognerebbe studiarle perché coinvolgono miliardi di persone. Possiamo chiedere alle compagnie di costruire apparecchi meno pericolosi, con misure che espongano meno cioè maggiormente schermati o con incorporate applicazioni per renderlo funzionante solo quando è ad una certa distanza dal corpo oppure dotati di auricolari integrati; già a 5 cm di distanza dal corpo l’esposizione è 25 volte minore, ma sempre alta. Il wifi ha una frequenza intermedia ma sono sempre onde elettro magnetiche ed è meglio non tenerlo acceso di notte. Sarebbe importante ad esempio cambiare il modo di far vedere ai figli un film: bisognerebbe prima scaricarlo. La condizione più preoccupante consiste nel numero di apparecchi cellulari contemporaneamente accesi, ad esempio in un vagone di un treno possiamo avere 100 cellulari accesi, con 50 persone che parlano al telefono; l’esposizione aumenta moltissimo.

In particolare le onde millimetriche del 5G, quelle dei forni a microonde, sollecitano gli atomi di acqua, quindi i bambini, che hanno una percentuale maggiore di acqua, sono i più esposti. Queste onde hanno scarso potere di penetrazione, ma quanto è sottile la calotta cranica di un bambino? E per le gestanti quanto penetrano nel liquido amniotico? Anche se penetrassero solo l’epidermide bisognerebbe considerare che è un tessuto molto innervato e gli impulsi nervosi sono trasportati da cariche elettriche fino al Sistema Nervoso Centrale. Non c’è più alcun dubbio che irrorando di campi magnetici ci sia interazione, abbiamo visto svilupparsi cancri ai nervi facciali, mandibolari, acustici.  

Gli allarmi precoci andrebbero ascoltati e con metodologie nuove. Considerando che siamo tutti immersi in questo surplus di onde risulta quasi impossibile selezionare una parte di popolazione “pulita” per evidenziare le differenze con il caso controllo. 

Gli studi sul cancro 

Gli studi di cancerogenesi durano 3/4 anni, c’è bisogno di tempo, ma bisogna studiare anche le modificazioni biomolecolari sulle cellule e se ci sono biomarkers tumorali come quelli che abbiamo trovato nel 3G. Nella ricerca sono necessari i modelli uomo equivalenti, eseguiti fin dall’ esposizione prenatale, invece le linee guida fanno iniziare gli studi ad una età equivalente di 15 anni, di fatto togliendo la parte più sensibile alle esposizioni. Ma questo vale per qualsiasi studio di cancerogenesi. Il cancro ha una latenza di circa 10 anni e veniamo in contatto con sostanze, ormai da decenni riconosciute cancerogene, in età sempre più precoce. Quindi se vediamo sempre più casi di cancro mammario a 30 anni o linfomi e leucemie nell’infanzia vuol dire che le esposizioni sono diventate molto precoci. Gli enti autorevoli di controllo come l’EFSA controllano gli studi commissionati dalle aziende, ma l’oggetto di ogni studio e le metodologie scelte sono l’anello più importante e dovrebbero essere affidate a laboratori indipendenti. Non basta segnalare la presenza o meno dei conflitti d’interesse. Risparmieremmo anche molti soldi se gli studi valutassero più parametri biologici e non il singolo danno neurologico o immunitario o la cancerogenesi. Bisogna prevedere studi che analizzino tutti questi effetti contemporaneamente.

In Italia ci sono grossi centri di ricerca ma sono sponsorizzati, sono laboratori che lavorano a contratto soprattutto per l’industria farmaceutica e devono produrre profitto. Le Università che fanno ricerca indipendente hanno piccoli laboratori non in grado di fare grandi studi, non hanno il know how, durano massimo un anno. 

Rischi cancerogeni diffusi 

Bisogna cambiare il sistema di valutazione, le regole che sono state fatte negli anni 70 quando la maggiore tossicità era nei luoghi di lavoro, ora l’inquinamento è molto più diffuso, costante e continuo dalla vita prenatale in poi e su tutta la popolazione umana. Il tema delle regole sono in pochissimi a conoscerle e chi le conosce lavora a contratto e/o segue l’applicazione delle linee guida senza la visione delle ricadute; è attento solo alla parte tecnica. Sono studi di nicchia e pochi ricercatori ne capiscono le reali conseguenze, io stessa l’ho capito solo dopo anni. Dobbiamo abbassare il potenziale cancerogeno ambientale totale ma se continuiamo a sintetizzare centinaia di nuovi composti chimici come cosmetici, farmaci, pesticidi e non ritiriamo dal commercio quelli obsoleti e più pericolosi, andiamo in accumulo.

La ricerca indipendente 

Noi abbiamo iniziato nel 2005 con un unico finanziamento ma gli altri fondi sono arrivati dai volontari dell’Istituto che oggi ha 50.000 soci perché siamo una cooperativa sociale e siamo finanziati da donazioni. Ci abbiamo messo più tempo ma siamo indipendenti e no-profit. Il nostro scopo è il pareggio di bilancio e il nostro guadagno da Statuto è diffondere informazioni per una cultura della prevenzione. Facciamo una ricerca che cerca di riprodurre le situazioni espositive umane con modello uomo equivalente. Con approccio simile al nostro c’è in America il National Toxicology Program, finanziato dall’FDA e per fare il nostro studio sul 3G hanno speso 30.000 euro iniziando a studiare dalla vita prenatale come noi, per rendere il modello più sensibile, ma non rilasciano interviste. Siamo gli unici che riescono a divulgare i risultati sulle radiofrequenze, un servizio a miliardi di persone. Nei diversi incontri a cui sono invitata, sempre più cittadini sentono che stiamo esagerando nell’uso incontrollato della tecnologia ma anche ricercatori universitari, fondazioni, amministratori sono d’accordo e spingono per comportamenti più cautelativi. Poi bisognerebbe investire molto di più nell’informazione sull’uso corretto degli apparecchi, non bastano le istruzioni per l’uso nelle confezioni che nessuno le legge. I device devono migliorare man mano che aumentano le conoscenze; per i produttori sono spese minime, è solo una questione di volontà. E’ una grossa sfida tecnologica: l’innovazione deve avere un miglioramento non solo sul comfort ma anche sulla salute. Bisogna imparare a gestire ciò che via via scopriamo di poter fare.” 

Per approfondire clicca qui

Fonte: http://www.italiachecambia.org/2019/07/5g-ricerca-cancro/

Duv’Art, dentro le botteghe degli artigiani di Bologna

Dieci botteghe bolognesi sono le protagoniste di “Duv’Art – Le strade dell’artigianato”, un documentario web dedicato alla produzione artigianale di Bologna, ancora viva tra le sue strade, dal centro alla periferia. Una vera e propria visita guidata virtuale tra giovani creativi aperti alla sperimentazione di nuove tecniche e antichi custodi del lavoro dei padri, che tramandano i segreti del saper fare. Sedetevi, rilassatevi e calmate la mente. State per entrare virtualmente dentro dieci botteghe che sembrano essersi fermate nel tempo. Qui si respira ancora il profumo del legno appena intagliato, si vedono mani che accarezzano delle materie prime per dar vita a creazioni uniche che richiamano arti tramandate attraverso le generazioni, ricordando un tempo dove il “saper fare” era, oltre a una necessità, uno stile di vita e dove i pensieri e la creatività si trasformavano in oggetti di uso quotidiano o per le occasioni speciali.

L’artigiana della bottega PG ceramiche dove potrete ammirare traforati, palloncini e bellissime maioliche in ceramica

Ancora oggi all’interno di queste botteghe le creazioni vengono disegnate e realizzate a mano, grazie alla passione di chi ha scelto di salvare e tramandare la qualità, la creatività e l’autenticità, caratteristiche che spesso non vengono considerate in una società che preferisce oggetti risultanti da una catena di montaggio, che costano il meno possibile e che verranno rimpiazzati da altri identici quando non servirà più. 

Duv’Art – le strade dell’artigianato è un progetto realizzato dall’Associazione Culturale Emiliodoc che attraverso un webdoc multimediale racconta le storie di dieci botteghe del territorio bolognese. Abbiamo incontrato Cecilia, giovanissima portavoce del progetto da cui traspare ancora tutta l’emozione e la meraviglia di aver potuto toccare con mano queste creazioni uniche. “È stato difficilissimo – racconta – fare una selezione degli artigiani presenti nel territorio bolognese”. Alcune botteghe si trovano in zone periferiche, altre godono di maggiore visibilità ma ognuna di loro ha una sua unicità ed è portavoce di mestieri e utensili che meritano di essere riportati alla luce.

Nella Bottega Prata si lavora il ferro battuto trasformandolo in lampadari, letti e tantissime altre creazioni originali

“Abbiamo scelto le botteghe che hanno creato una sinergia tra la tradizione e l’innovazione, generazioni attuali che tramandano le tradizioni imparate in famiglia”, continua Cecilia. “Sentire le loro storie, scoprire a cosa serve quell’utensile appartenuto al nonno e tenerlo in mano, è stata un’emozione indescrivibile”.

Il web doc racconta le storie di ognuna di loro, si “passeggia” lungo le strade che sono state disegnate rigorosamente a mano, ricostruendo fedelmente ogni dettaglio delle botteghe affacciate sulle strade. Ci si può soffermare in una alla volta, immergendosi nelle sue creazioni raccontate attraverso brevi video che indugiano in modo minuzioso su ogni dettaglio con il sottofondo del suono degli utensili e delle mani che creano. Ad ogni bottega sono dedicati brevi filmati in cui si mostrano le creazioni e dove vengono narrate le origini, dando voce agli artigiani che mostrano con estrema maestria i loro utensili e le loro tecniche, spesso tramandati dai nonni e che sono per loro insostituibili. Dopo la visita virtuale, vi invitiamo poi a visitare personalmente le botteghe perché le loro storie, i profumi, i suoni e le atmosfere meritano di essere assaporate dal vivo.

Dingi, nata come ferramenta, si è trasformata nel progetto Era, dove vengono recuperarti oggetti che non servono più donando loro nuova vita e trasformandoli in opere d’arte. L’artigianato è un’eccellenza tutta italiana che racconta tradizioni, società e cultura ed è oggi patrimonio dell’Unesco. Riportare alla luce antiche tradizioni e vedere mani che creano e voci che raccontano com’è nato quell’oggetto, quel caffè o quel bigliettino di auguri ha un valore inestimabile.

 Fonte: http://www.italiachecambia.org/2019/03/duvart-dentro-botteghe-artigiani-di-bologna/?utm_source=newsletter&utm_campaign=general&utm_medium=email&utm_content=relazioni

Rusko: riparare gli oggetti rotti può aggiustare il mondo

Promuovere l’economia circolare attraverso una serie di attività, con un focus specifico sulle riparazioni di oggetti guasti altrimenti destinati a divenire rifiuti. È questo l’obiettivo di Rusko, associazione nata a Bologna e ispirata all’esperienza internazionale dei Repair Cafè: un’iniziativa virtuosa e dall’alto valore sociale ed ecologico che sempre più sta prendendo piede anche in Italia.

“Eravamo quattro amici al bar, che volevano cambiare il mondo…”. Inizio ad ascoltare l’intervista raccolta dai miei colleghi e subito mi viene in mente la celebre strofa della canzone di Gino Paoli che, a pensarci bene, descrive perfettamente l’avvio di una miriade di progetti virtuosi, innovativi e vincenti nati per l’appunto da una chiacchierata informale tra persone affini, una buona intenzione ed un’idea semplice, ma efficace. Ed è proprio così che circa un anno e mezzo fa a Bologna ha preso vita l’associazione Rusko (Riparo Uso Scambio Comunitario), ispirata anche all’esperienza estera dei Repair Cafè: momenti di incontro in cui si riparano oggetti rotti che altrimenti verrebbero gettati via.

“Insieme ad alcuni amici, davanti ad una pizza e una birra, abbiamo iniziato a domandarci cosa avremmo potuto fare concretamente per contribuire al miglioramento di una società che non ci convinceva. Abbiamo buttato giù un’idea, la abbiamo studiata e abbiamo raccolto informazioni su altre esperienze avviate in altri Paesi, in particolare nel nord Europa”, ci racconta Raffaele Timpano, presidente di Rusko. “Abbiamo preso contatti con la Repair Foundation di Amsterdam, promotrice di un modello, quello dei Repair Cafè, che coniuga due valori per noi importanti: partecipazione sociale e rifiuto dello spreco. Tutto quello che serviva per iniziare era un gruppo di persone ben affiatate e luoghi dove svolgere le nostre attività: riparazioni, prima di tutto, ma anche una serie di altre iniziative volte a promuovere l’economia circolare e la sostenibilità”. 

Nasce così Rusko, che significa Riparo Uso Scambio Comunitario ma che in bolognese vuol dire anche spazzatura. “Abbiamo voluto giocare proprio su questa ambivalenza: una cosa considerata inutile può avere una nuova vita ed un valore sociale ed ecologico. Un nome che qui a Bologna ha riscosso subito molto successo”.

Raffaele Timpano ci spiega la filosofia che sta alla base della loro esperienza. “Ci siamo interrogati sui cicli di vita sempre più brevi dei prodotti industriali e sul legame che esiste tra le persone e gli oggetti, ovvero sulla totale dissociazione che si è venuta a creare con l’avvento del consumo di massa: oggi le persone non si chiedono più da dove vengono gli oggetti e come vengono realizzati. I prodotti vengono acquistati, usati e poi buttati nella spazzatura. Un sistema insostenibile, insomma, che noi vogliamo contribuire a superare”. Partendo, appunto, dalla promozione dei Repair Cafè, iniziativa nata qualche anno fa in Olanda e che ora si sta diffondendo anche in Italia. Si tratta di incontri tra persone che vogliono riparare oggetti malfunzionanti. “Alcune persone partecipano ai Repair cafè che organizziamo per curiosità, altre per passare del tempo in compagnia, altre ancora perché animate da uno spirito ecologista – ci spiega Raffaele – Inoltre nei quartieri più popolari abbiamo visto anche famiglie che ricorrono alle riparazioni per necessità. È molto diverso l’approccio tra centro e periferia, nelle zone periferiche spesso abbiamo conosciuto immigrati che si sorprendono per la nuova diffusione della pratica della riparazione nel nostro Paese e ci raccontano gli usi dei loro territori. Si creano così degli scambi molto interessanti”.

Rusko, che conta ora circa una trentina di volontari, al momento non ha una sede fisica. “Andiamo dove ci invitano – dice Raffaele – Un luogo fisico non è fondamentale ma è più funzionale per l’attrezzatura. Ecco perché il nostro prossimo obiettivo è trovare un posto dove stabilirci”.

Ma come funziona? “Qualche giorno prima dell’evento mandiamo una mail agli interessati indicando luogo e ora dell’appuntamento – continua Raffaele – Alcuni ci chiedono prima informazioni circa la possibilità di riparare un oggetto o meno. L’unica condizione che noi poniamo è la partecipazione attiva della persona alla riparazione. La persona si presenta quindi nel giorno stabilito con il prodotto malfunzionante e partecipa al tavolo della riparazione al quale solitamente siedono alcuni volontari particolarmente abili, a volte anche professionisti (di elettronica, sartoria, biciclette). Nel 2018 sono stati portati da noi soprattutto piccoli apparecchi elettrici come frullatori o asciugacapelli. Solitamente i guasti sono abbastanza banali e quindi risolvibili. A volte però vengono portati anche apparecchi più complessi la cui riparazione richiede più tempo. In base al tipo di prodotto la persona si siede accanto al ‘tutor’, si analizza il problema dell’apparecchio in questione e si prova a risolverlo insieme. Si crea così un’interazione normalmente assente nei rapporti di mercato che solitamente sono così strutturati: ‘Io ti pago per risolvermi un problema, quello che fai non mi interessa’.

Ovviamente il grado di partecipazione può essere maggiore o minore rispetto al grado di abilità di chi porta gli oggetti. Soprattutto in questa zona, che ha un tessuto industriale ancora vivo, ci sono anche tanti pensionati molto esperti. È così che abbiamo trovato molti volontari, ex lavoratori appassionati di riparazioni. Noi lavoriamo con la comunità e per la comunità e lo facciamo incondizionatamente. Non chiediamo niente a chi partecipa ai Repair Cafè ma chi vuole può lasciare un contributo per sostenere le attività della nostra associazione. Se le istituzioni vogliono collaborare o sostenerci sono ovviamente le benvenute”. 

Raffaele è infatti convinto che se le istituzioni riconoscessero il valore sociale di queste iniziative e le sostenessero si potrebbero fare moltissime cose: ad esempio corsi di formazione per la manutenzione, per l’alfabetizzazione informatica, per l’efficientamento energetico delle case, corsi di artigianato o per l’inserimento sociale di persone svantaggiate. “Le prospettive sono molto ampie”.

Raffaele ci parla anche di un aspetto che ci sembra molto interessante: il diritto alla riparabilità. “Negli anni ’60 se compravi un oggetto ricevevi anche un manuale per la riparazione. Oggi al contrario quando acquistiamo qualcosa leggiamo sulla confezione: ‘non smontare’, ‘non aprire’, ‘non sostituire la batteria’. Dobbiamo rivendicare il diritto alla riparabilità dei nostri oggetti. È necessario cambiare il modo in cui vengono progettati gli oggetti: bisogna progettare in modo modulare per far sì che i pezzi siano sostituibili e dovrebbe essere introdotto l’obbligo di rendere disponibili i pezzi per le sostituzioni. Serve, insomma, una progettazione pensata per avere un impatto zero”.  

“Noi crediamo molto nell’urgenza di un cambio del paradigma culturale e dei meccanismi del sistema. Una frase che rappresenta molto la nostra filosofia è quella pronunciata da Einstein: ‘Non possiamo pretendere che le cose cambino se continuiamo a fare le stesse cose’. Ecco perché dobbiamo ridurre il nostro livello di consumo, interrogarci sulla quantità di rifiuti che produciamo, cominciare a mettere noi stessi in discussione. Questo si può fare, magari, partendo proprio dalla riparazione, un punto che tocca alcuni tasti psicologici molto interessanti. Ultimamente sta prendendo forza l’idea che i rifiuti siano una ricchezza: io credo invece che dovremmo cercare in primis di ridurli, anche attraverso la riparazione che, peraltro, serve anche a prendere coscienza delle proprie capacità. La soddisfazione psicologica che deriva dal riuscire a riparare qualcosa è grande, è quasi terapeutica!”. 

Intervista: Francesco Bevilacqua e Paolo Cignini

Realizzazione video: Paolo Cignini

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L’amore per la Natura diventa un lavoro. La storia di Gianluca

Da piccolo amava esplorare la Natura del suo giardino di casa; dopo la scuola ha continuato studiarla all’università; oggi Gianluca Maini ha trasformato la sua passione in un lavoro. Ha lasciato la città, si è trasferito in Appennino e lavora come guida ambientale, facendo ciò che ama e avvicinando tante persone al mondo naturale.  Sin da piccolo Gianluca ha avuto la passione per la Natura e per gli esseri che la abitano, manifestando la volontà di esplorarla, conoscerla meglio, entrare in contatto profondo ed empatico con essa. Crescendo ha dato corpo a questa passione, che adesso è diventata anche il suo lavoro. Non solo! Vuole trasmettere il suo amore per l’ambiente anche alle giovani generazioni, facendo scoprire loro l’Appennino, che da qualche anno è diventato la sua casa.gianluca-1

Quand’è stato che hai sentito il “richiamo della Natura” e cosa ti ha spinto a trasferirti in montagna e dedicarti all’ambiente naturale?

Fin da piccolo ho avuto un contatto diretto con l’ambiente naturale e i suoi abitanti, sperimentando ogni giorno e ampliando via via le mie esplorazioni: dal giardino di casa all’Appennino tutto sommato il passo è breve se sei curioso! Da questa passione è scaturita la voglia di studiare per bene l’oggetto della mia curiosità: mi sono laureato a Bologna in Scienze Biologiche, specializzandomi con una laurea magistrale in Scienze Naturali. Pian piano ma inesorabilmente, testardamente e con un po’ di fortuna, è nato anche il mio lavoro, fatto di spostamenti e appostamenti, di bambini e adulti, di valli e crinali: il trasferimento in montagna è venuto di conseguenza, per comodità e innamoramento del luogo di lavoro.

Ci puoi parlare delle proposte delle settimane verdi, che proponi anche in collaborazione con Destinazione Umana?

Andiamo particolarmente orgogliosi delle nostre Settimane Verdi: nate dalla passione e dalla competenza di alcuni nostri soci, prima tra tutti Melania, permettono di far vivere ai ragazzi il contatto più autentico con l’ambiente. È un contatto talvolta severo, che avviene però in totale sicurezza; è un contatto autentico, che fa emozionare, divertire e rinsaldare i rapporti tra i partecipanti. Le attività sono tante e diverse, adatte a tutti, ma hanno un filo conduttore: la vita nell’ambiente naturale, per crescere camminando insieme. Autonomia e socializzazione a braccetto con divertimento e ambiente salutare: rafting, orienteering, campi tendati, avventure notturne…ce n’è per tutti i gusti!gianluca-3

Secondo te è importante avvicinare i ragazzi e i bambini al mondo naturale, magari anche in maniera leggera e giocosa?

Sicuramente: come dicevo l’ambiente naturale insegna tanto e in tempi come oggi, sovraccarichi di tecnologia, aiuta a ritrovare le cose autentiche, cui non siamo più abituati. Dalla curiosità per ciò che ci circonda alla volontà di socializzare, senza dimenticare la salubrità dei crinali: si gioca ma si cresce!

Se dovessi suggerire a un “cittadino” di trascorrere un po’ di tempo in montagna, cosa gli diresti per convincerlo?

Non sono sicuro sia la cosa migliore raccontare qualcosa. Spesso si ha in mente la montagna alpina: conosciuta, turistica e accogliente. Bisognerebbe portarlo su, appassionarlo, raccontargli in loco le storie degli anziani, fargli sentire e osservare gli animali, fargli assaggiare i prodotti del bosco: incredulo di avere un tesoro a pochi chilometri dalla città, sono convinto che tornerebbe!

Cosa ti ha dato l’Appennino, come ha cambiato la tua vita?

L’Appennino è autentico, difficile e selvaggio. A livello pratico mi ha fornito un lavoro – assurdo no? Tutti scendono in città per cercarlo! –, a livello emozionale mi ha dato tutto ciò che difficilmente si ritrova in città. Passo per idealista, ma avere l’occasione di vedere l’aquila volteggiare sopra la testa quando esci la mattina di casa non è cosa da poco per me.

Fonte: http://www.italiachecambia.org/2018/06/amore-natura-diventa-lavoro-storia-gianluca/?utm_source=newsletter&utm_campaign=general&utm_medium=email&utm_content=relazioni

 

Instabile Portazza, il luogo abbandonato auto-ristrutturato dai cittadini

A Bologna c’è Instabile Portazza, uno spazio sociale nato grazie alla riqualificazione da parte dei cittadini di un vecchio palazzo pubblico abbandonato e degradato. In maniera condivisa e partecipata, gli abitanti della zona si sono auto-organizzati e hanno aperto un dialogo con le istituzioni, rimboccandosi le maniche e provvedendo loro stessi alla ristrutturazione e all’organizzazione di attività per la comunità. Dalla periferia di Bologna arriva una bellissima storia di riappropriazione di spazi abbandonati, di auto-organizzazione, di cittadini che di fronte al degrado e alla mancanza di spazi sociali non rimangono con le mani in mani aspettando un intervento dall’alto, ma si rimboccano le maniche e agiscono. È la storia di Instabile Portazza, che fino a pochi anni fa era un inquietante palazzone abbandonato dalla cattiva gestione pubblica, maltrattato dal tempo e dagli atti vandalici, avvolto in un fitto strato di vegetazione spontanea, desolatamente vuoto e inutile.

Proprio lì incontriamo Jacopo e Luca, due ragazzi che fanno parte del gruppo di cittadini che hanno deciso di ridare vita a questo ammasso di cemento e farlo diventare un bene a disposizione della comunità, bisognosa di spazi e luoghi di socialità.

«Nel 2014, grazie alla social street di zona – racconta Jacopo –, abbiamo iniziato a chiederci cosa fare. Abbiamo fatto delle ricerche scoprendo la sua storia e abbiamo capito che l’interesse di tutti era entrarci e trasformarlo in uno spazio per la comunità».

Sin da subito il progetto è partecipato e condiviso. I primi incontri con i residenti hanno lo scopo di capire quali sono le loro esigenze e cosa vorrebbero per la zona in cui vivono. Ciò che manca in questo “quartiere dormitorio” sono gli spazi sociali dove ritrovarsi, le attività da condividere, i servizi e le occasioni per coltivare le relazioni umane.instabile-portazza-1

«Abbiamo raccolto le idee ed elaborato un progetto parlando con gli interlocutori – ACER e Comune di Bologna – e siamo partiti». La prima mossa era ristrutturarlo, renderlo di nuovo vivibile. Ma come fare senza soldi e senza attrezzature? Semplice: con la condivisione!

«Ci siamo chiesti: “Quali sono le nostre competenze? Cosa siamo disposti a imparare?”. Quindi ci siamo affidati alla condivisione dei saperi: due domeniche al mese ci siamo ritrovati all’in-cantiere e ciascuno trasmetteva agli altri le proprie competenze, spiegava cosa fare e come farlo e imparava ciò che non sapeva».

Tutti insieme, i cittadini della zona si sono messi in gioco, hanno dedicato tempo e sudore al progetto e hanno creato un contenitore. Dopodiché è partita la seconda fase: riempirlo! Questo è stato possibile grazie al nutrito gruppo di associazioni che partecipano all’iniziativa, come Promuovo, Architetti di strada, Leila, Camelot, Metropolis. «Da soli – ammette Jacopo – non andremmo da nessuna parte».instabile-portazza-4

Dopo quasi quattro anni la trasformazione non è ancora completa, ma questo non-luogo è tornato a vivere. È davvero entusiasmante vedere che là dove prima c’erano polvere, rifiuti e calcinacci oggi si svolgono concerti, corsi di auto-costruzione, cineforum, repair cafè, lezioni di musica e tante altre attività. Giovani e anziani si ritrovano e stanno insieme, riappropriandosi degli spazi comuni. Centinaia di cittadini e decine di associazioni hanno dimostrato che far rinascere e riqualificare il territorio è possibile: dal basso, in maniera condivisa e partecipata, senza tanti soldi, ma con consapevolezza e voglia di fare!

 

Intervista: Francesco Bevilacqua e Daniela Bartolini
Riprese: Daniela Bartolini
Montaggio: Paolo Cignini

Fonte: http://www.italiachecambia.org/2018/04/io-faccio-cosi-208-instabile-portazza-abbandonato-auto-ristrutturato-dai-cittadini/?utm_source=newsletter&utm_campaign=general&utm_medium=email&utm_content=relazioni

 

FICO Eataly World: un grande affare per chi?

A metà novembre si è inaugurato FICO Eataly World, la Fabbrica Italiana Contadina, ovvero il grande affare. Grande affare per chi? Sicuramente per Farinetti e colleghi, non per Bologna che ospita FICO nell’area del mercato ortofrutticolo; e nemmeno per l’Italia.9704-10478

Come spiega anche Il Sole 24 Ore, «il Comune di Bologna ha fatto la sua parte, cedendo i diritti d’uso dell’area (la proprietà resta pubblica, una cinquantina di milioni di valore), del resto si è fatto carico Prelios Sgr che attraverso il Fondo Pai ha raccolto risorse da 26 partner istituzionali (in prima fila il Caab, gli enti di previdenza professionali e il sistema cooperativo) per realizzare un progetto aperto, che ora prevede anche la costruzione di un albergo con 200 camere e porterà il valore complessivo dell’investimento a 165 milioni di euro. Ma il plafond complessivo è di 400 milioni, ci sono margini per ulteriori iniziative. La gestione è affidata a Fico Eataly World, società controllata dal gruppo internazionale di Farinetti assieme a Coop Alleanza 3.0 e al sistema cooperativo emiliano».

Ma perché le istituzioni locali si mettono al servizio di un centro commerciale privato? Non mi addentrerò nell’analisi della commistione di potere e interesse tra Hera (inceneritore a meno di 2 km), il Comune di giunta PD e le Coop emiliane.
Racconterò la mia esperienza e mi farò domande. Il tour a pagamento (15 euro a testa) consiste in una camminata lungo le attrazioni, in cui vengono passate in rassegna le aziende presenti negli enormi spazi da terminal americano (pur non avendone visti, me ne posso immaginare facilmente uno: il più alto e il più lungo, a garanzia dei bisogni di sicurezza del popolo d’oltreoceano). Nel discorso di apertura si parla dell’importanza che FICO dà al chilometro zero, ovvero alla produzione in loco delle materie prime che, ci dicono, rappresenta il 90 % del cibo che viene venduto qui, sotto forma di mortadella, di panino, di focaccia, di bottiglia di vino, di birra…Dopo essere passati davanti alla prosciutteria, la gentile signorina o, pardon, l’Ambasciatore della biodiversità come si definisce, ci accompagna fuori per vedere gli animali, ovvero la materia prima che tutti fotografano quasi fossero gli ultimi esemplari sulla Terra. Per la precisione, risultano gli unici esemplari di animali vivi a FICO.  Ma come fanno a rifornire il 90% della carne che viene servita nel grande supermercato? “Non è possibile”, mi dice la signorina e la mia domanda risulta paradossalmente senza senso nonostante la sua premessa sul cibo locale. Non mi sembra di essermi sbagliata. A questo punto, parlando di FICO come fornitore, si intende il gruppo Coop-Eataly. Quindi il cibo arriva dalla grande distribuzione, e come ormai tutti possiamo immaginare, non è sinonimo di eccellenza, né di cibo locale. Ma d’altronde l’etica sembra essere una parola vetusta e all’entrata, il settimo punto riassuntivo dei valori di FICO, lo enuncia chiaramente: qui vendiamo l’identità italiana con profitto (a me suona male …). E ho anche capito perché all’entrata, campeggino, attaccati alle colonne, i cartelli con il comandamento “Non rubare”. È un vessillo odierno, della nostra epoca ma non solo, compensare ciò che ci appartiene come mancanza o errore, con un’accusa o una censura rivolta ad altri. Nel 2015, il ministro delle Politiche Agricole, Alimentari e Forestali Maurizio Martina, dichiarava: “FICO racchiuderà in un logo unico la produzione del cibo italiano, dal campo fino alla forchetta.“

Questo risultato non mi sembra sia stato raggiunto. Si vede forse nella lista dei GAS (gruppi di acquisto collettivo) una delle 40 aziende qui presenti? Magari Alce Nero, che ho visto su uno scaffale, ma forse non primeggia tra le 40. Ma perché mai avrebbero dovuto inserire grosse aziende tra i produttori a cui le persone si affidano chiedendo trasparenza, fiducia, cibo sano, biologico e locale? La ricerca di qualità è una bufala con i grandi numeri, si rischia sempre di perderla per strada con un’eccessiva industrializzazione della filiera.  Se la qualità a FICO sono i marchi Amadori e Balocchi (solo per citarne alcuni), sicuramente anche questo obiettivo non è stato raggiunto.  Amadori, lo si ricorda qui, è balzato agli onori della cronaca non positivamente con la puntata della trasmissione televisiva Report del 29 maggio 2016

Trasmissione alla quale comunque Amadori ha replicato. Un altro esempio: i due consorzi Grana Padano e Parmigiano Reggiano come possono parlare di eccellenza quando le condizioni delle mucche da latte di alcuni allevamenti che li riforniscono sono stati oggetto di pesanti critiche?

FICO non è un progetto innovativo, non apre strade nuove verso un mondo che se tardasse ancora ad essere realizzato, non lascerebbe speranze. Dove è l’innovazione? Il più grande tetto fotovoltaico? Lo abbiamo già visto. Gli animali nei recinti? Ci sono già le fattorie didattiche sparse per le campagne bolognesi. I metodi di coltivazione? Il biologico e il biodinamico sono citati a lettere cubitali in un’area di FICO in cui si trova una, e dico una sola, azienda che coltiva realmente in modo biodinamico (l’unica che può essere autorizzata ad usare la parola etica). Ve la lascio cercare come caccia al tesoro. Anzi, magari suggerisco questa attrazione a Farinetti. Il biologico è quello di alcune marche note e si trova in pochi scaffali. Nessun piccolo produttore. Per essere innovativi, non solo si sarebbe dovuto vendere praticamente solo biologico (non parole ma fatti) ma cercare esperienze di nuove soluzioni per coltivare e produrre in sintonia con la vita e i cicli naturali. Vorrei dire a Farinetti che il biologico non è il futuro, perché ampliando la visione è probabilmente già il passato. Certo poi se campeggia il mega trattore della New Holland Agricolture, di cosa stiamo parlando?
Ma quale didattica? Quali insegnamenti? Bisogna essere onesti, parlare di un nuovo centro commerciale dove la gente può vedere al di qua di ampie vetrine alcune lavorazione industriali o semi industriali. La gente che vorrà un panino da McDonald andrà in via Indipendenza, quelli che lo vorranno pagare di più (per una qualità migliore sicuramente) si ritroveranno sotto il cartello Prosciutteria di FICO. I bolognesi e gli italiani sarebbero andati fieri di un progetto capace di sviluppare reti per creare una maglia di micro economie sul territorio che fortificasse a più livelli gli abitanti, i piccoli imprenditori e i piccoli venditori, in un’ottica di vera etica e amore per il mestiere. Volete un esempio?
A Bologna il progetto Camilla è rivoluzionario. FICO, a confronto, è la grande illusione perpetuata. Bologna può scegliere tra i due e capire dove tira il vento del cambiamento. Certo per chi guarda i numeri, li troverà solo da una parte.
Se comunque andate a FICO, aiuterete Farinetti &Co. a raggiungere il numero previsto di 6 milioni di visitatori all’anno.

Fonte: ilcambiamento.it

 

Anna e la sua libreria che regala i libri

Non si vendono né si comprano: in questa libreria chi lo desidera può prendere un libro, senza lasciarne necessariamente un altro in cambio. È questa la filosofia di Libri Liberi, un’esperienza avviata qualche anno fa a Bologna e replicata in altre parti d’Italia. Nel centro di Bologna c’è una libreria nella quale i libri non si comprano né si vendono. Vista la premessa, la mente potrebbe correre al cosiddetto “bookcrossing”.  Anche chi non conosce il termine avrà probabilmente notato che, durante gli ultimi anni, in locali, stazioni sale d’attesa, è sempre più comune trovare scaffali pieni di libri, che si possono prendere, leggere e poi riporre nuovamente in qualche altro luogo simile. Ecco, la libreria di cui vi racconterò è un’esperienza diversa, anche se un po’ simile.IMG_11541

Anna Hilbe e la sua libreria (Foto di Giulio Cioffi)

Libri Liberi, nata nel 2012 per opera di Anna Hilbe, raccoglie e seleziona i libri di quelli che, per un motivo o per l’altro, decidono di liberarsene, e li dona a chiunque voglia leggerli. Se il bookcrossing prevede “un libro per un libro”, in questo luogo non ci sono limitazioni: si può decidere di tenere il volume scelto, di riportarlo, di portarne un altro, o tanti altri, o nessuno in cambio. All’inizio le persone, abituate a un tipo di scambio do ut des, sono in imbarazzo. Alcuni dicono “se non ho un libro da lasciare, io non prendo niente”, nonostante l’invito a portare a casa il volume desiderato. Anna racconta che recentemente, una ragazza che non era mai venuta, continuava a chiedere incredula: “ma davvero posso prendere questo libro?”. Pur in assenza di regole, l’equilibrio fra doni fatti e ricevuti, necessario per la sostenibilità della libreria, viene mantenuto grazie ad un meccanismo che Marshall Shalins avrebbe definito di “reciprocità generalizzata”. Si tratta della stessa modalità di scambio tipica delle famiglie, in cui sono frequenti doni e favori di vario tipo senza che la quantità, la qualità o la tempistica siano necessariamente corrispondenti. Anna, oltre ad aver avuto l’iniziativa per costruire questo luogo, è anche colei che paga affitto e bollette favorendo, attraverso la sua generosità, nuovi circoli virtuosi.11140257_846152572130612_5177357042434078974_n

Lo spazio è piccolo, a volte troppo piccolo per contenere tutti i libri che arrivano, così che una parte dei volumi viene collocata all’interno del garage di fronte, il cui proprietario ha concesso un pezzettino di parete a Libri Liberi. Alcune enciclopedie, per cui non c’era spazio, sono state regalate a Làbas, oggi purtroppo sgomberato, mentre molti dizionari e atlanti vengono consegnati ad associazioni e cooperative impegnate nell’insegnamento dell’italiano per i migranti.

Libri Liberi è aperta cinque giorni a settimana e ad Anna si affiancano dei volontari, che “hanno grandi scambi in chiacchiere con quelli che vengono a prendere i libri”. È un posto dove Anna dice di imparare molto: “Vengono segnalati autori e autrici che non conosco, quindi per me è interessante. Poi, quando vedo qualcuno indeciso, gli chiedo che cosa gli piacerebbe leggere, cosa ha letto, per capire un po’ quello che potrebbero volere”.

Si tratta di un luogo vivo, in perenne cambiamento, nel quale non si sa mai con certezza quali e quanti volumi ci siano, dove a volte i “clienti” spezzano quel lieve imbarazzo, tipico di chi condivide uno spazio ristretto con degli sconosciuti, dando il via a piccole discussioni riguardanti la letteratura e la politica. Talvolta passano professori universitari, attuali o in pensione. Uno in particolare recentemente ha portato in dono l’anteprima di una raccolta di poesie francesi. Su ispirazione di Libri Liberi, sono nate fino ad ora altre due librerie simili in Italia, una a Nicotera, l’altra a Trieste, e a novembre è prevista la visita di una donna da Cracovia che vorrebbe raccogliere informazioni per costruire qualcosa di simile in Polonia.

Fonte: http://www.italiachecambia.org/2017/10/anna-libreria-regala-i-libri/?utm_source=newsletter&utm_campaign=general&utm_medium=email&utm_content=relazioni