I Medici per l’Ambiente: “Basta allevamenti intensivi, senza biologico non c’è futuro”

È necessaria una rivoluzione del sistema di produzione alimentare che preveda l’abbandono dei modelli intensivi di allevamento e che ricorra al biologico non come tentativo di greenwashing ma come reale pratica per un’alimentazione sana e sostenibile. Sono queste le conclusioni a cui giunge un position paper pubblicato dall’ISDE – Associazione Medici per l’Ambiente. Gli allevamenti intensivi inquinano terra, acqua e aria e generano innumerevoli altri danni: deforestazione, promozione dello sviluppo di prodotti OGM in agricoltura, perdita di biodiversità, sviluppo di zoonosi, concorso all’antibiotico resistenza. Oggi una nuova consapevolezza globale pone alla coscienza del consumatore anche la “questione animale”, in merito al benessere di tutti esseri viventi e alla copertura dei fabbisogni alimentari nel mondo.

La nostra dieta deve cambiare per diventare più sana, per mettere fine alla fame nel mondo, per salvare il Pianeta e per dare dignità e benessere al mondo animale. In questo panorama, la scelta produttiva del biologico anche in zootecnia, è un grande progetto sostenuto e voluto dalla maggioranza dei cittadini europei, che vogliono un futuro sostenibile e più giusto.

ISDE – l’associazione dei medici per l’ambiente – ha voluto dare il suo contributo al dibattito sul Green Deal Europeo con una ricerca che, nel confrontare l’allevamento intensivo con quello biologico, interroga il mondo produttivo, quello dei consumatori e quello politico\istituzionale e chiede, documentandone l’urgenza, che il progetto europeo di trasformazione del modello di sviluppo agricolo sia effettivamente realizzato. Il biologico non deve essere greenwashing, ma deve diventare un cambio di paradigma affinché niente sia più come prima.

Foto di Essere Animali

Gli allevamenti intensivi

Il lavoro dell’ISDE si concentra sull’analisi delle conseguenze di un sistema alimentare fondato sugli allevamenti intensivi, che hanno rappresentato un radicale cambiamento anche in termini culturali. “L’allevamento intensivo – scrive l’associazione definendo il concetto – si caratterizza nel non essere più produzione agricola, perché non più legato alla terra. Questo significa che chi alleva animali, non necessariamente deve disporre della terra per alimentarli, con la conseguenza che meno è lo spazio utilizzato maggiore è la massimizzazione delle operazioni di nutrimento e cura con conseguente maggiore rendimento e profitto”.

In questo modo si pone l’accento a su diverse tipologie di effetti negativi generati: la perdita del legame con la terra, l’isolamento delle piccole economie di sussistenza, l’assenza quasi totale di tutela per il benessere animale, i danni all’ambiente e quelli all’organismo di chi consuma prodotti di origine animale. Nel tempo infatti gli allevamenti intensivi hanno visto affermarsi pratiche allevatoriali dannose non solo per il benessere animale, ma anche per la salute dell’uomo e per la tutela ambientale. L’ISDE riporta alcuni esempi: macinazione carne di pecore morte per scrapie (morbo analogo a quello della “mucca pazza”); allevamento di polli, tacchini, faraone, in capannoni industriali con concentrazioni a rotazione anche di mezzo milione di capi; costrizione delle scrofe in gabbia al fine di non avere mortalità tra i suinetti, costringendole a potersi solo alzare e coricare e senza mai poter camminare o girarsi; allontanamento dei vitelli dalle madri dal primo giorno per metterli in gabbia e mungere la madre sfruttandone tutta la duratura della montata lattea.

Queste sono solo alcune delle modalità messe in atto negli allevamenti intensivi italiani. Il report ne descrive molte altre, fornendo riferimenti documentali in merito e riportando i testi di legge che disciplinano il settore. Vengono riprese anche alcune dichiarazioni e prese di posizione ufficiali da parte di organi istituzionali anche di primaria importanza – come la FAO, la Corte dei Conti Europea e l’ISPRA – che si esprimono contro queste pratiche.

Foto di Animal Equality

I falsi miti

Nel suo position paper, l’ISDE smentisce anche il fabbisogno alimentare globale come giustificazione al sistema degli allevamenti intensivi e lo fa citando alcuni autorevoli fonti, come la stessa FAO: “Le diete sostenibili sono diete a basso impatto ambientale che contribuiscono alla sicurezza alimentare e nutrizionale nonché a una vita sana per le generazioni presenti e future. Le diete sostenibili concorrono alla protezione e al rispetto della biodiversità e degli ecosistemi, sono accettabili culturalmente, economicamente eque e accessibili, adeguate, sicure e sane sotto il profilo nutrizionale e, contemporaneamente, ottimizzano le risorse naturali e umane”.

Per rafforzare la testi, vengono citate anche ricerche compiute da National Center for Scientific Research e The Lancet Commission. Il primo studio conclude che nel 2050 il biologico potrebbe riuscire a sfamare tutta la popolazione europea, mentre il secondo sostiene che “l’attuale produzione di cibo rappresenta un rischio globale per le persone e il pianeta ed è la più grande pressione causata dagli esseri umani sulla Terra, minaccia gli ecosistemi e la stabilità del sistema terrestre. Le attuali diete, combinate alla crescita della popolazione (10 miliardi entro il 2050), esacerberanno rischi per le persone e il pianeta. Il peso globale delle malattie non trasmissibili peggiorerà e gli effetti della produzione di cibo sulle emissioni di gas serra, sull’inquinamento da azoto e fosforo, sulla perdita di biodiversità e sull’uso di acqua e terra ridurranno la stabilità del Pianeta. S’impone la riduzione di oltre il 50% del consumo di cibi come carne rossa e zucchero e, viceversa, l’aumento di oltre il 100% di consumo di cibi sani, come noci, frutta, verdura e legumi. Con diete sane sarebbero evitabili dai 10,8 agli 11,6 milioni di morti all’anno”.

I danni ad ambiente e organismo

Inevitabile sottolineare ancora una volta, punto per punto, i danni che i prodotti e i metodi produttivi degli allevamenti intensivi provocano all’ecosistema e alla salute di chi li consuma. Dall’aumento dei rischi di zoonosi – e la situazione sanitaria globale dovrebbe avercelo insegnato – alla perdita della biodiversità, dall’impatto sulle risorse alimentari alla deforestazione. La necessità dell’esistenza degli allevamenti intensivi è legata alla richiesta di proteine animali per il consumo umano, che però l’ISDE ritiene un fabbisogno indotto e non aderente agli apporti necessari a una sana alimentazione. Al contrario, vengono citati diversi di studi che hanno dimostrato la dannosità delle carni rosse e di quelle processate per l’essere umano, tanto che nel 2015 la IARC, dopo aver passato in rassegna 800 studi epidemiologici condotti in ogni continente, ha inserito le carni processate tra i cancerogeni certi e le carni rosse tra le sostanze probabilmente cancerogene per l’uomo.

Foto di IAPL Italia

Il biologico

In questo fosco scenario assume una vitale importanza la valorizzazione dei metodi biologici. L’ISDE ritiene però opportuno chiarire un equivoco ricorrente: “La confusione, creata dal proliferare di terminologie coniate per smarcarsi dall’identità dell’intensivo quali ‘biologico’, ‘etico’, ‘naturale’, ‘biodinamico’ e altre, denota che siamo in presenza, con l’allevamento intensivo, di una violazione non solo dei parametri ambientali, ma anche di quelli morali e non solo per la questione del benessere animale. Il fine è il conseguimento di un profitto di scala, al quale si vuole porre un limite in quanto ormai questo rappresenta un mondo svelato e conosciuto, tenuto all’oscuro per oltre 50 anni dai media”.

Dopo una puntuale analisi dei dati del biologico in Italia e della legislazione, il report prende le distanze dalle etichette istituzionali, sottolineando che “il primo passaggio necessario sarebbe dunque quello di eliminare le terminologie di intensivo e biologico e legiferare in merito all’allevamento in senso lato, che dovrebbe rispondere a dei requisiti massimi e rigorosi, in base alle caratteristiche oggi definite per il biologico e legiferate dalla UE, escludendo tutti gli altri appellativi e realtà in essere. Solo in questo modo si elimineranno terminologie commerciali più o meno attrattive e si eviterebbe di legalizzare la sofferenza animale, il rischio ambientale e di salute, adducendo l’appartenenza
all’intensivo piuttosto che al biologico”.

Al termine dell’analisi appare dunque chiaro che il settore abbisogna di una profonda ristrutturazione, accompagnata da una rivoluzione verde senza precedenti che metta al centro il benessere degli animali e includa negli obiettivi del biologico non solo la tutela ambientale, ma anche la salute umana. “Senza questa rivoluzione dell’Europa – conclude il report – che elimini le sofferenze degli animali, che riduca la trasformazione cerealicola in proteine della carne, che produca ciò che è il vero fabbisogno proteico della Nazione o dell’Europa, che si faccia carico di eliminare gli sprechi alimentari e l’utilizzo di pesticidi, senza tutto questo, appare difficile intravedere un futuro”.

Clicca qui per leggere il documento completo.

Fonte: https://www.italiachecambia.org/2021/10/basta-allevamenti-intensivi/?utm_source=newsletter&utm_medium=email

Un ritorno degli OGM in Italia? Le associazioni denunciano “il colpo di mano”

Mentre l’attenzione pubblica è totalmente concentrata sulla pandemia, il Governo propone alcuni decreti legislativi che di fatto introdurrebbero la coltivazione in Italia degli organismi geneticamente modificati, dopo 20 anni di agricoltura libera dagli OGM. Intervengono le associazioni che denunciano “il colpo di mano” e chiedono con forza il ritiro dei testi in discussione. Il Governo è in procinto di emanare tre decreti legislativi che, di fatto, introducono la coltivazione degli OGM in Italia, dopo 20 anni fuori dall’agricoltura italiana. I decreti, inviati per l’approvazione dal Governo alle Commissioni parlamentari per l’agricoltura, permetterebbero l’ingresso in Italia dei nuovi OGM (nuove tecniche di selezione varietale o NBT) in ambito frutticolo, vitivinicolo e delle sementi orticole. I punti dei decreti, spiega Il Salvagente, sono molto tecnici e riguardano materiali di moltiplicazione della vite e sugli innesti di piante ortive e da frutto in cui si normano i modi per produrre e commercializzare le varietà ottenute con la tecnica di ricombinazione genetica (NBT) che la Corte di Giustizia Ue equipara ai tradizionali ogm.

Foto di Markus Spiske tratta da Unsplash

Varie realtà lanciano l’allarme. «Queste proposte di decreti legislativi, sui quali il Parlamento può solo esprimere un parere non vincolante, vengono presentati come degli adeguamenti necessari al recepimento di direttive europee – scrive l’Associazione Rurale Italiana – Niente di più lontano dal vero: la legislazione europea sulle sementi è solo all’inizio del suo processo di revisione, e appare del tutto ingiustificato procedere ad una riforma parziale e arraffazzonata delle leggi sementiere italiane, per di più per decreto, senza alcuna nuova base normativa europea e adducendo motivazioni poco chiare legate alla protezione fitosanitaria. Fino ad ora, inoltre, la legislazione italiana ha trattato gli OGM come un argomento ben distinto dalla normale regolamentazione agricola, con responsabilità e controlli operati in cooperazione con i ministeri dell’Ambiente e della Salute. Il Ministero dell’Agricoltura non può tentare di avocare di fatto a sé tutta questa materia. Riscrivere la legge sementiera interrompendo 20 anni di agricoltura libera da OGM, caratterizzata dalla crescita del biologico e dalla garanzia di “GMO free” per i suoi prodotti sul mercato mondiale, senza alcun dibattito e in palese contraddizione con le leggi italiane esistenti, appare ancor più grave se si pensa al momento in cui essa è stata proposta: il classico colpo di mano natalizio, che questa volta cerca di sfruttare la terribile crisi sanitaria e socio-economica provocata dalla pandemia per stravolgere l’agricoltura italiana senza che l’opinione pubblica ne sia al corrente».

Anche Isde, European Consumers, Navdanya International e Gruppo Unitario per le Foreste Italiane prendono posizione in merito ai decreti «di fatto, introducono la coltivazione degli OGM in Italia contro il volere della generalità dei cittadini, senza dibattito alcuno, senza confronti e approfondimenti con la collettività, ignorando sistematicamente le ragioni di chi con prove sperimentali e scientifiche ha dimostrato la pericolosità degli stessi OGM per la salute umana ed animale e per l’integrità e la salubrità dell’ambiente – affermano le associazioni – Si travolge, in concreto, con inopinate scelte, l’intero assetto agricolo italiano, introducendo, nel silenzio  generale, con un colpo di mano degno di miglior causa e con il metodo del fatto compiuto, una rivoluzione copernicana che per gravità ed effetti nocivi nel tempo supera di gran lunga la presente pandemia, considerando l’irreversibilità dell’inquinamento dei terreni che gli OGM producono, rendendo impossibile in futuro ogni coltivazione sia dei vegetali tradizionali che di quelli biologici».

Foto di Julian Hochgesang tratta da Unsplash

AIAB e Greenpeace chiedono con forza al Governo il ritiro dei testi in discussione, ai parlamentari in Commissione di bocciarli. «Temi del genere vanno discussi apertamente, nel rispetto della volontà dei cittadini e con trasparenza. Le proposte trattano in modo confuso temi complessi e delicati, tanto che si potrebbe pensare a una scarsa conoscenza della materia da parte dell’estensore. Si cerca infatti di regolamentare la commercializzazione in Italia di materiali geneticamente modificati (OGM) di cui è vietata la coltivazione, quindi la vendita. Peraltro in attesa di un quadro armonizzato in Europa alla luce della sentenza delle Corte di Giustizia Europea del 25/7/2018 e senza che sia ancora stato definito in maniera chiara il dispositivo normativo.  Ci sono molti delicati aspetti da chiarire non ultimo il divieto di coltivazione e l’obbligo di tracciabilità ed etichettatura dei prodotti derivanti. Per questo stupisce molto il silenzio assordante delle associazioni di categoria agricole di fronte alla frettolosa e approssimativa fuga in avanti».

«Totalmente dimenticate – continuano le associazioni – le sementi contadine evidentemente di scarso interesse commerciale ma di altissimo valore per tipicità, biodiversità e capacità di adattamento.  Così come non si tiene conto dei materiali evolutivi, meglio conosciuti come miscugli, che rientrano a pieno titolo nella normativa europea sul bio. Siccome è semplicemente offensivo pensare che al Mipaaf e nel Governo ci siano persone ingenue che ignorano, non solo il parere contrario, più volte espresso dai cittadini e dal mondo del biologico e dell’ambientalismo, ma leggi in vigore, sorge immediatamente il sospetto che ci sia in atto un nuovo tentativo fraudolento di sdoganamento di OGM travestiti da NBT. Altrimenti non si capisce perché si debba disciplinare la commercializzazione di sementi e materiali di propagazione che nel nostro paese non possono essere coltivati».

Sulla questione è intervenuta anche Interviene anche Cambia la Terra, coalizione che raccoglie FerderBio, Legambiente, Lipu, ISDE – Medici per l’Ambiente e WWF. «I decreti in discussione alla Commissioni Agricoltura – scrive la coalizione – con un colpo di mano, darebbero il via libera di fatto alla presenza di materiale geneticamente modificato in tutti i campi italiani».

«Mentre il Parlamento non dà il via libera alla legge sul biologico, in esame approvata alla Camera a larghissima maggioranza da ben due anni perché non rientra nelle urgenze legate alla crisi sanitaria, si trova il tempo e la volontà di discutere di una decisione che contrasta con il quadro giuridico complessivo – afferma Maria Grazia Mammuccini, presidente di FederBio, a nome del progetto partenariato di Cambia la Terra. “Si tratta di un passaggio totalmente privo di trasparenza. Il Parlamento e il Governo vogliono discutere della possibilità o meno di far ricorso a tecniche di ricombinazione genetica? Lo facciano apertamente, mettendo le carte in tavola e lasciando alle forze politiche, alle Regioni e ai cittadini la possibilità di essere informati e di discuterne con modalità e tempi adeguati».

«È un colpo di mano quello che si sta tentando, un colpo di mano pericoloso per gran parte del sistema agricolo. Il made in Italy è fondato su presupposti di alta qualità, e oggi l’Europa tutta sta puntando su un modello che vede al primo posto la cura dell’ambiente – aggiunge Mammuccini – Ma in ogni caso, la cosa che appare più grave è la totale mancanza di trasparenza su una decisione di questo genere, strategica per il futuro del nostro settore agroalimentare. Chiediamo quindi di eliminare dagli atti in discussione tutti gli aspetti normativi relativi all’iscrizione di varietà geneticamente modificate nei Registri delle varietà». Fonte: https://www.italiachecambia.org/2020/12/ritorno-ogm-italia-associazioni-denunciano/?utm_source=newsletter&utm_medium=email

L’Unesco premia l’inquinamento e la chimica delle colline venete

Brindano i produttori di Prosecco del Veneto dopo il riconoscimento dell’Unesco a patrimonio dell’umanità per le colline di Valdobbiadene e Conegliano. Ma brindano e festeggiano molto meno la popolazione e l’ambiente, che subiscono ogni giorno l’inquinamento dato dall’uso massiccio dei pesticidi.

L’Unesco premia l’inquinamento e la chimica delle colline venete

L’Unesco ha assegnato il prestigioso riconoscimento di “patrimonio dell’umanità” a uno dei luoghi con la maggiore concentrazione di veleni usati in agricoltura come è la zona, famosa per il Prosecco, delle colline di Valdobbiadene e Conegliano. Il Veneto è un’altra di quelle regioni dove si fanno esperimenti sulle cavie umane che vengono riempite di veleni, poiché sono all’ordine del giorno gli inquinamenti di tutti i tipi e l’agricoltura convenzionale è uno dei maggiori responsabili. Però, vuoi mettere essere ricchi e produttivi che soddisfazione dà. Chi se ne frega di cancri, malattie a non finire; bisogna lavorare come pazzi, produrre, accumulare gli sghei e non si può e non ci si deve fermare di fronte a nulla.

Brindano i produttori di vini che con il premio dell’Unesco vedranno aumentare i loro già stratosferici profitti grazie a uno dei prodotti a più alto consumo di pesticidi e con un numero di trattamenti tra i più frequenti e invasivi. Un bombardamento di pesticidi che nelle zone premiate dall’Unesco è più del doppio rispetto alla media. Non bastano gli sbancamenti e la modifica del paesaggio, la distruzione di prati e siepi, non basta l’inaridimento dei suoli, la contaminazione di falde, acque e dei campi limitrofi, l’uccisione di insetti tra cui le api, l’inquinamento per adulti e bambini che si barricano in casa durante le frequenti irrorazioni che avvengono ovunque dato che ogni centimetro quadrato è stato colonizzato dalle vite. Niente ferma la stupidità umana, il tutto per coltivare una pianta che occupa enormi spazi e ne fa una delle monoculture più nocive dal punto di vista ambientale.  Vista la situazione a cui stiamo andando incontro, la monocultura si rivela un danno in più per una agricoltura già ora in grosse difficoltà. Con i cambiamenti climatici, con l’inaridimento e l’impoverimento dei suoli, si avranno produzioni agricole sempre minori soprattutto dei sistemi tradizionali. Sarà quindi inevitabile passare dalla monocultura alla pluricoltura, coltivando in grandissima parte piante e alberi che sfamano la gente. Chissà cosa ci faranno con tutti quei vigneti quando le crisi si faranno più gravi e le persone affamate non avranno abbastanza da mangiare. A quel punto i grandi capitalisti, che vengono ora glorificati per le loro magnifiche gesta che fanno risplendere il nome del vini veneti nel mondo, potranno arrotolare i loro soldi e provare a mangiarli per vedere se ce la fanno a sfamarsi, oppure potranno attingere alle loro produzioni di vini con i quali ubriacarsi a profusione e proporre anche alla popolazione di farlo, per distrarsi dalla fame. E come la principessa Maria Antonietta che disse “Se il popolo non ha pane, che mangi le brioche”, i nostri capi d’industria potranno dire al popolo: “Se non avete da mangiare, ubriacatevi che così vi passa tutto”.

Prima che sia troppo tardi, si riduca drasticamente la produzione vinicola, si converta tutto al biologico e al posto della vite si coltivino innumerevoli varietà agricole e frutteti in una combinazione di foresta commestibile così da ridare vita ad animali e persone, oltre che assorbire CO2. Non è più il tempo di ubriacarsi, è il tempo di prendere in mano la situazione e rendere il Veneto non l’odierna fabbrica  di veleni ma una terra fiorente e che preservi la vera ricchezza, quella della natura, non quella degli sghei.

Fonte:ilcambiamento.it

“I soldi pubblici sostengono chi inquina”

In agricoltura chi inquina viene pagato. La quasi totalità delle sovvenzioni europee e nazionali viene destinato infatti all’agricoltura che usa pesticidi e fertilizzanti sintetici. Al biologico, che copre quasi il 15% delle superfici agricole italiane, va meno del 3% dei finanziamenti europei e nazionali. È quanto emerge dal Rapporto “Cambia la Terra. Così l’agricoltura convenzionale inquina l’economia (oltre che il Pianeta)”. Nei nostri campi, chi inquina viene pagato. È all’agricoltura che utilizza pesticidi, diserbanti e fertilizzanti sintetici che va la quasi totalità delle sovvenzioni europee e nazionali: in sostanza, i soldi pubblici servono per sostenere l’utilizzo della chimica di sintesi.

La politica agricola comunitaria sovvenziona infatti per il 97,7% l’agricoltura convenzionale. E quando ai fondi Ue si aggiungono anche quelli italiani, il risultato non cambia: al biologico, che rappresenta il 14,5% della superficie agricola coltivata del nostro Paese, va il 2,9% delle risorse. Anche senza tirare in causa i costi consistenti che l’utilizzo della chimica di sintesi e quindi l’inquinamento provocano sulla nostra salute e su quella dell’ambiente, è evidente che si tratta di una palese inversione della regola “chi inquina paga”.agricoltura-pesticidi

È quanto emerge dal Rapporto “Cambia la Terra. Così l’agricoltura convenzionale inquina l’economia (oltre che il Pianeta)” presentato oggi alla Festa del BIO che si tiene a Bologna in occasione del SANA, la fiera del biologico italiano, da Maria Grazia Mammuccini, responsabile del progetto Cambia la Terra- FederBio; Susanna Cenni, Vicepresidente Commissione Agricoltura Camera; Giorgio Zampetti, Direttore Legambiente; Franco Ferroni, Responsabile Agricoltura WWF; Fulvio Mamone Capria, Presidente LIPU; Lorenzo Ciccarese, Ricercatore ISPRA; Patrizia Gentilini di ISDE International Society of Doctors for Environment – Associazione medici per l’ambiente. Per i dati elaborati dall’Ufficio studi della Camera dei deputati, su 41,5 miliardi di euro destinati all’Italia, all’agricoltura biologica vanno appena 963 milioni di euro. In altri termini, il bio – che rappresenta il 14,5% della superficie agricola utilizzabile – riceve il 2,3% delle risorse europee: anche solo in termini puramente aritmetici, senza calcolare il contributo del biologico alla difesa dell’ambiente e della salute, circa sei volte meno di quanto gli spetterebbe. Se ai dati dei fondi europei si aggiunge il cofinanziamento nazionale per l’agricoltura, pari a circa 21 miliardi, il risultato rimane praticamente invariato: su un totale di fondi europei e italiani di circa 62,5 miliardi, la parte che va al biologico è di 1,8 miliardi, il 2,9% delle risorse.barley-1117282_960_720

“In altre parole – ha detto Maria Grazia Mammuccini di FederBio – gli italiani e gli europei in generale pagano per sostenere pratiche agricole che alla fine si ritorcono contro l’ambiente e contro la loro salute, a partire da quella degli agricoltori stessi. Inoltre, non è il modello agricolo ad alto impatto ambientale a farsi carico della tutela degli ecosistemi con cui interagisce, ma sono gli operatori del biologico a sopportare i costi prodotti dall’inquinamento causato dalla chimica di sintesi: il costo della certificazione; il costo della burocrazia (ancora più alto che per gli agricoltori convenzionali); il costo della maggiore quantità di lavoro necessaria a produrre in maniera efficace e a proteggere il raccolto dai parassiti , senza ricorso a concimi di sintesi e diserbanti; il costo della fascia di rispetto tra campi convenzionali e campi biologici”.

Fonte: http://www.italiachecambia.org/2018/09/agricoltura-soldi-pubblici-sostengono-chi-inquina/?utm_source=newsletter&utm_campaign=general&utm_medium=email&utm_content=relazioni

 

Nelle Marche il primo passo verso un ecovillaggio sostenibile e autosufficiente

Un ecovillaggio completamente autosufficiente dal punto di vista energetico ed economico situato nello splendido contesto delle colline marchigiane, tra mare e montagna. Nasce dall’impresa sociale Montefauno, azienda agricola di prodotti biologici, il progetto dell’ecovillaggio “La Magione”, un esempio concreto di un nuovo modo di abitare e vivere su questo pianeta. L’impresa sociale Monte Fauno è un’azienda agricola marchigiana che produce prodotti biologici certificati, “con l’intento di racchiudere in un vasetto” – si legge sul sito – tutti gli odori e i sapori della migliore cucina italiana”. Nata su iniziativa di Luigi Quarato, la Montefauno è il primo passo per un progetto molto più ampio che sta poco a poco prendendo vita, quello di costruire l’ecovillaggio “La Magione”  nel Maceratese, presso il comune di Montefano.la-magione2

“Per arrivare alla fase esecutiva di un ecovillaggio in linea con la nostra filosofia abbiamo seguito un percorso diverso dal solito”, spiega Luigi, “e prima di trovare il gruppo con cui condividere questa esperienza abbiamo voluto verificare la fattibilità del progetto”. “La Magione” sarà un ecovillaggio completamente autosufficiente economicamente, vi si stabiliranno 40 famiglie e in ciascuna di esse uno dei membri potrà lavorare a una delle diverse attività che nasceranno.la-magione

L’azienda agricola Montefauno farà parte dell’ecovillaggio e oltre alla consueta produzione di ortaggi (prevalentemente), è prevista la costruzione di un piccolo capannone per la trasformazione dei prodotti. Sorgeranno poi un’azienda per la lavorazione di piante officinali per l’estrazione di oli essenziali e pigmenti naturali, una struttura turistica dotata di sette camere e una cooperativa sociale per le attività di assistenza e formazione professionale (bioedilizia, agricoltura, gestione dei fondi comunitari ecc…). Le unità abitative, circa 40, saranno tutte autocostruite in paglia e terra cruda e verrà garantita una qualità eccellente, anche grazie alla convenzione instaurata con l’Università Politecnica delle Marche di Ancona, per cui ogni abitazione sarà ecocompatibile, ecosostenibile e autosufficiente. L’ecovillaggio che verrà (l’inizio dei lavori è previsto per la primavera 2018 e avranno durata di circa un anno), vuole rivedere nel complesso il modo di vivere odierno fornendo un’alternativa concreta e diventando esempio di sostenibilità dal punto di vista abitativo e alimentare, per la creazione di posti di lavoro etici e integrati nel contesto socio-economico locale, per le attività socio-culturali e – infine – per un nuovo modo di abitare e costruire.

Fonte: http://www.italiachecambia.org/2017/05/marche-ecovillaggio-sostenibile-autosufficiente/?utm_source=newsletter&utm_campaign=general&utm_medium=email&utm_content=relazioni

 

Orto bioattivo: oltre il biologico. Il cambiamento che passa dal cibo che mangiamo

L’agricoltura bioattiva non è una semplice alternativa all’agricoltura tradizionale ma un vero e proprio impulso alla consapevolezza a 360 gradi sul nostro cibo: dalla sua produzione alle sue qualità organolettiche e nutrizionali.9541-10298

Si tratta di una visione che parte dalla centralità del rispetto alla terra, ai suoi tempi e cicli naturali, garantendo nel tempo la sua rigenerazione. I sistemi di lavorazione intensivi, infatti, impoveriscono gradualmente il suolo che deve essere continuamente arricchito con sostanze chimiche di sintesi per essere in grado di produrre in continuazione ed assicurare profitto. L’agricoltura bioattiva si propone come un nuovo metodo agronomico fondato su basi scientifiche e misurabili che trae il fondamento da leggi microbiologiche e naturali. L’approccio è una combinazione delle scienze e delle tecniche moderne (microbiologia rigenerativa e nutraceutica dei cibi) ma è fondato sul rispetto delle leggi naturali dalle quali dipendono tutti gli esseri viventi del pianeta. Il metodo può essere applicato a strutture di orti rialzati, orti urbani, piccoli orti come in campo aperto.

Ne parliamo con Andrea Battiata, ideatore del metodo, agronomo e Consigliere della Società Toscana Orticultura.

Può presentarsi?

Sono un Osservatore della Natura e neovegetariano flessibile. Riassumendo molto brevemente, da agronomo, ho avuto esperienza nell’allevamento di vacche da latte in Maremma per poi dedicarmi al vivaismo e alle piante ornamentali. Da quando sono diventato principalmente vegetariano ho studiato un metodo per produrmi cibo veramente nutriente per non dipendere da quello che trovavo in commercio che non mi soddisfaceva.

Che cos’è un orto bioattivo?

L’ortobiottivo è un esempio di come sia possibile produrre cibo ad alto contenuto nutrizionale (nutraceutico – bioattivo) prendendosi cura della fertilità naturale del terreno. Racchiude i meccanismi microbiologici osservati nel biotopo più fertile in natura: la foresta pluviale.

Come funziona esattamente?

Non è necessario lavorare la terra, non ci sono arature né zappature. Il suolo è naturalmente ricco ma in seguito alle lavorazioni viene alterato. Rigirando il terreno si interrompe, infatti, l’azione combinata degli essudati radicali, dei residui organici e dei batteri generando uno squilibrio. L’agricoltura tradizionale interviene utilizzando sostanze chimiche e fertilizzanti di sintesi. L’effetto però è temporaneo, il suolo si impoverisce dando la possibilità dello sviluppo di patologie. L’agricoltura tradizionale inquina, inoltre, le falde acquifere. Il suolo non viene mai compattato per far sì che ci sia la giusta areazione e non si usano concimi. Cerchiamo di ricreare ciò che accade normalmente in natura: una piantagione densa di piante a differenti stadi di crescita con diverse caratteristiche. Le radici non vengono estirpate e le erbe spontanee fanno parte di questo sistema. Si copre il terreno con una pacciamatura attiva: rami di bosco frammentati. Si tratta del sistema che in Francia si chiama BRF (Bois e Rameaux Fregmentés) che permette di risparmiare acqua. Le ramaglie sminuzzate arricchiscono il suolo e trattengono l’acqua consentendone un notevole risparmio. Il terreno normalmente migliora in breve tempo. C’è inoltre l’associazione delle piante in modo mirato. Le associazioni benefiche aiutano a controllare i parassiti.

Quali sono i vantaggi?

Avere la possibilità di far crescere il nostro cibo con il massimo di vitamine, sali minerali, enzimi, antiossidanti in modo da riappropriarci della nostra salute, recuperare il rapporto con la natura acquisendo consapevolezza delle stagioni e dei cicli naturali, fare più esercizio fisico e aiutare il nostro pianeta. Si diventa custodi della Terra: si contribuisce alla conservazione della biodiversità, si recuperano tecniche tradizionali ormai sostituite da tecniche industriali.

Chi ha avuto l’idea, quanti siete e come siete partiti?

Più che di un’unica idea parlerei di un’ “esigenza” condivisa. Siamo in molti a sentire la necessità di alimentarci in modo sano ma spesso non sappiamo come farlo né come trovare un cibo prodotto da qualcuno di cui ci si possa fidare. A dire il vero chi è stato a darmi lo stimolo o, possiamo dire a provocarmi, è stata mia moglie! Ero insoddisfatto del cibo che trovavo e mi ha provocato dicendomi di coltivarmi da solo il cibo che volevo. Così, con l’aiuto di colleghi agronomi, agricoltori, università e appassionati, ho messo insieme i pezzi di un puzzle già esistente dandogli organicità e concretezza.

Qual è il vostro progetto?

Mettere in atto azioni tangibili per riprendere il controllo di quello che mangiamo. Proporre un metodo che superi il concetto di biologico e che sia in grado di garantire la qualità del cibo prodotto e non soltanto la certificazione della filiera. I progetti aperti in questa visione sono molti, con università (ricerca scientifica e sostenibilità), con le scuole primarie e secondarie, con l’Orto botanico di Firenze, con aziende agricole del territorio, etc…

Quali sono le differenze con un orto sinergico e con quello biodinamico? Puoi farci qualche esempio pratico anche relativamente al suolo, alla semina, alla pacciamatura e altre pratiche?

Abbiamo preso dalle esperienze del passato inclusa quella della Hazelip e di Steiner. Abbiamo semplicemente attualizzato i loro principi e integrato con quello che abbiamo imparato recentemente dall’osservazione della natura aiutati dalle ricerche scientifiche di laboratorio.

Qual è il vostro obiettivo?

Elenco di seguito gli obiettivi che è possibile raggiungere con l’ortobioattivo

ª  realizzazione di un terreno ad alta fertilità naturale

ª  produzione ortaggi di alta qualità (bioattivi – nutraceutici) e biologici

ª  rendere il sistema di facile gestione

ª  non usare alcun mezzo meccanico: il terreno non viene mai zappato, rivoltato, compattato

ª  risparmio idrico con la copertura permanente del terreno

ª  assenza di inquinamento delle falde acquifere

ª  ottenere insalate con bassi contenuti di nitriti

ª  utilizzo materie prime locali (sabbie vulcaniche locali vs torba di importazione)

ª  attivare meccanismi di fertilità autorigenerante

Rispetto a un orto tradizionale com’è la produzione?

Qualitativamente gli ortaggi sono ricchi in sostanze nutraceutiche – bioattive. Quantitativamente la resa è dalle 5 alle 10 volte superiore.

Tutti possono fare un orto bioattivo?

Certamente! Una volta avviato è semplicissimo da gestire. Basta garantire che una volta raccolto (senza estirpare le radici) si ripiantino subito altri ortaggi e che venga mantenuta la pacciamatura.

E’ immaginabile un’agricoltura bioattiva su larga scala e quindi non solo per l’orto di casa?

Certamente. E’ la sfida in corso quest’anno. Abbiamo già esteso il metodo ad un appezzamento di terreno in grado di soddisfare il fabbisogno di molte famiglie per tutto l’anno.

Quanto è grande il vostro orto?

Ne esistono molti e il metodo di Ortobioattivo può essere applicato anche su sodo e non necessariamente solo su letti rialzati. Comunque, il più grande realizzato su letti rialzati ha una superficie di circa 500mq ed è in espansione!

Quanti orti bioattivi esistono in Italia o all’estero, se ce ne sono?

In italia sono circa 30. All’estero ci sono progetti per le isole canarie ma ancora è troppo presto per svelare i prossimi passi!

Chi volesse saperne di più:

www.ortobioattivo.com    ortobioattivo@gmail.com   https://www.facebook.com/ortobioattivo/

Fonte: ilcambiamento.it

Orto bioattivo: oltre il biologico. Il cambiamento che passa dal cibo che mangiamo

L’agricoltura bioattiva non è una semplice alternativa all’agricoltura tradizionale ma un vero e proprio impulso alla consapevolezza a 360 gradi sul nostro cibo: dalla sua produzione alle sue qualità organolettiche e nutrizionali.orti

Si tratta di una visione che parte dalla centralità del rispetto alla terra, ai suoi tempi e cicli naturali, garantendo nel tempo la sua rigenerazione. I sistemi di lavorazione intensivi, infatti, impoveriscono gradualmente il suolo che deve essere continuamente arricchito con sostanze chimiche di sintesi per essere in grado di produrre in continuazione ed assicurare profitto. L’agricoltura bioattiva si propone come un nuovo metodo agronomico fondato su basi scientifiche e misurabili che trae il fondamento da leggi microbiologiche e naturali. L’approccio è una combinazione delle scienze e delle tecniche moderne (microbiologia rigenerativa e nutraceutica dei cibi) ma è fondato sul rispetto delle leggi naturali dalle quali dipendono tutti gli esseri viventi del pianeta. Il metodo può essere applicato a strutture di orti rialzati, orti urbani, piccoli orti come in campo aperto.

Ne parliamo con Andrea Battiata, ideatore del metodo, agronomo e Consigliere della Società Toscana Orticultura.

Può presentarsi?

Sono un Osservatore della Natura e neovegetariano flessibile. Riassumendo molto brevemente, da agronomo, ho avuto esperienza nell’allevamento di vacche da latte in Maremma per poi dedicarmi al vivaismo e alle piante ornamentali. Da quando sono diventato principalmente vegetariano ho studiato un metodo per produrmi cibo veramente nutriente per non dipendere da quello che trovavo in commercio che non mi soddisfaceva.

Che cos’è un orto bioattivo?

L’ortobiottivo è un esempio di come sia possibile produrre cibo ad alto contenuto nutrizionale (nutraceutico – bioattivo) prendendosi cura della fertilità naturale del terreno. Racchiude i meccanismi microbiologici osservati nel biotopo più fertile in natura: la foresta pluviale.

Come funziona esattamente?

Non è necessario lavorare la terra, non ci sono arature né zappature. Il suolo è naturalmente ricco ma in seguito alle lavorazioni viene alterato. Rigirando il terreno si interrompe, infatti, l’azione combinata degli essudati radicali, dei residui organici e dei batteri generando uno squilibrio. L’agricoltura tradizionale interviene utilizzando sostanze chimiche e fertilizzanti di sintesi. L’effetto però è temporaneo, il suolo si impoverisce dando la possibilità dello sviluppo di patologie. L’agricoltura tradizionale inquina, inoltre, le falde acquifere. Il suolo non viene mai compattato per far sì che ci sia la giusta areazione e non si usano concimi. Cerchiamo di ricreare ciò che accade normalmente in natura: una piantagione densa di piante a differenti stadi di crescita con diverse caratteristiche. Le radici non vengono estirpate e le erbe spontanee fanno parte di questo sistema. Si copre il terreno con una pacciamatura attiva: rami di bosco frammentati. Si tratta del sistema che in Francia si chiama BRF (Bois e Rameaux Fregmentés) che permette di risparmiare acqua. Le ramaglie sminuzzate arricchiscono il suolo e trattengono l’acqua consentendone un notevole risparmio. Il terreno normalmente migliora in breve tempo. C’è inoltre l’associazione delle piante in modo mirato. Le associazioni benefiche aiutano a controllare i parassiti.

Quali sono i vantaggi?

Avere la possibilità di far crescere il nostro cibo con il massimo di vitamine, sali minerali, enzimi, antiossidanti in modo da riappropriarci della nostra salute, recuperare il rapporto con la natura acquisendo consapevolezza delle stagioni e dei cicli naturali, fare più esercizio fisico e aiutare il nostro pianeta. Si diventa custodi della Terra: si contribuisce alla conservazione della biodiversità, si recuperano tecniche tradizionali ormai sostituite da tecniche industriali.

Chi ha avuto l’idea, quanti siete e come siete partiti?

Più che di un’unica idea parlerei di un’ “esigenza” condivisa. Siamo in molti a sentire la necessità di alimentarci in modo sano ma spesso non sappiamo come farlo né come trovare un cibo prodotto da qualcuno di cui ci si possa fidare. A dire il vero chi è stato a darmi lo stimolo o, possiamo dire a provocarmi, è stata mia moglie! Ero insoddisfatto del cibo che trovavo e mi ha provocato dicendomi di coltivarmi da solo il cibo che volevo. Così, con l’aiuto di colleghi agronomi, agricoltori, università e appassionati, ho messo insieme i pezzi di un puzzle già esistente dandogli organicità e concretezza.

Qual è il vostro progetto?

Mettere in atto azioni tangibili per riprendere il controllo di quello che mangiamo. Proporre un metodo che superi il concetto di biologico e che sia in grado di garantire la qualità del cibo prodotto e non soltanto la certificazione della filiera. I progetti aperti in questa visione sono molti, con università (ricerca scientifica e sostenibilità), con le scuole primarie e secondarie, con l’Orto botanico di Firenze, con aziende agricole del territorio, etc…

Quali sono le differenze con un orto sinergico e con quello biodinamico? Puoi farci qualche esempio pratico anche relativamente al suolo, alla semina, alla pacciamatura e altre pratiche?

Abbiamo preso dalle esperienze del passato inclusa quella della Hazelip e di Steiner. Abbiamo semplicemente attualizzato i loro principi e integrato con quello che abbiamo imparato recentemente dall’osservazione della natura aiutati dalle ricerche scientifiche di laboratorio.

Qual è il vostro obiettivo?

Elenco di seguito gli obiettivi che è possibile raggiungere con l’ortobioattivo

ª  realizzazione di un terreno ad alta fertilità naturale

ª  produzione ortaggi di alta qualità (bioattivi – nutraceutici) e biologici

ª  rendere il sistema di facile gestione

ª  non usare alcun mezzo meccanico: il terreno non viene mai zappato, rivoltato, compattato

ª  risparmio idrico con la copertura permanente del terreno

ª  assenza di inquinamento delle falde acquifere

ª  ottenere insalate con bassi contenuti di nitriti

ª  utilizzo materie prime locali (sabbie vulcaniche locali vs torba di importazione)

ª  attivare meccanismi di fertilità autorigenerante

Rispetto a un orto tradizionale com’è la produzione?

Qualitativamente gli ortaggi sono ricchi in sostanze nutraceutiche – bioattive. Quantitativamente la resa è dalle 5 alle 10 volte superiore.

Tutti possono fare un orto bioattivo?

Certamente! Una volta avviato è semplicissimo da gestire. Basta garantire che una volta raccolto (senza estirpare le radici) si ripiantino subito altri ortaggi e che venga mantenuta la pacciamatura.

E’ immaginabile un’agricoltura bioattiva su larga scala e quindi non solo per l’orto di casa?

Certamente. E’ la sfida in corso quest’anno. Abbiamo già esteso il metodo ad un appezzamento di terreno in grado di soddisfare il fabbisogno di molte famiglie per tutto l’anno.

Quanto è grande il vostro orto?

Ne esistono molti e il metodo di Ortobioattivo può essere applicato anche su sodo e non necessariamente solo su letti rialzati. Comunque, il più grande realizzato su letti rialzati ha una superficie di circa 500mq ed è in espansione!

Quanti orti bioattivi esistono in Italia o all’estero, se ce ne sono?

In italia sono circa 30. All’estero ci sono progetti per le isole canarie ma ancora è troppo presto per svelare i prossimi passi!

Chi volesse saperne di più:

www.ortobioattivo.com    ortobioattivo@gmail.com   https://www.facebook.com/ortobioattivo/

fonte: ilcambiamento.it

 

 

«Autoproduzione, così vinco la crisi»

Negli ultimi anni si sta registrando un aumento di persone sempre più consapevoli riguardo a quello che mangiano, che utilizzano per pulire o che mettono sulla pelle. Si osserva una maggiore ricerca del prodotto biologico e sostenibile, ma anche in questo campo ci sono non poche perplessità. Saranno davvero prodotti naturali? Quali sono la loro provenienza e il loro reale impatto sull’ambiente? Sarà giustificato questo prezzo più alto?autoproduzione_

Ed ecco che arriva il momento in cui si decide di coniugare risparmio, salute e ambiente cimentandosi nell’autoproduzione, cioè producendo da soli ciò di cui si ha bisogno a partire dalle materie prime. E c’è anche chi ha fatto dell’autoproduzione la sua pratica quotidiana, e non solo per i motivi elencati prima, ma per una vera ed innata passione. Questa è la storia di Maria Flavia Orlando, 48 anni, mamma, blogger, autrice del libro “Il sapone liquido fatto da me”, autoproduttrice a tutto tondo.

Flavia, quando hai iniziato a dedicarti al fai-da-te?

“Questa passione affonda le sue radici già dalla tenera età: eravamo 5 figli di genitori artigiani e quindi nel nostro sangue ardeva il fuoco dell’autoproduzione. Dal momento che non potevamo permetterci una vita lussuosa, costruivamo da soli i nostri giocattoli a cominciare dal monopattino, sino al prototipo di un motorino a scoppio. Crescendo ho sentito sempre più la necessità di creare ed iniziai ad appassionarmi contemporaneamente di pittura, cucito, bricolage, cucina, ricamo, giardinaggio e cosmetica. La mia mamma mi assecondava mettendomi a disposizione materiale di riciclo, per esempio le stoffe con cui, a soli 8 anni, cucivo tutti i vestitini delle mie bambole di pezza; inoltre dipingevo quadri su assi di legno recuperando le vernici che rimanevano sul fondo dell’impastatrice utilizzata da mio padre per produrre pitture nel suo colorificio artigianale; poi mi dilettavo anche con la cucina, il ricamo e la coltivazione di piantine; per finire, mi dedicavo a creare dei piccoli cosmetici, come per esempio burri di cacao fatti con cioccolata e cera d’api. Per le mie creazioni prendevo spunto da una famosissima enciclopedia che era molto in voga negli anni ’70, di cui ho riletto così tanto le pagine fino quasi a consumarle. Quando mia mamma vide che ottenevo dei buoni risultati, iniziò ad acquistare testi a buon mercato per far sì che io potessi studiare a casa”.

Grazie a studio, passione e dedizione, oggi Flavia è in grado di preparare cosmetici e detergenti naturali ed ecologici e le stesse materie prime, ottenendo prodotti quasi a costo zero. 

“Vivendo immersa in un fantastico bosco di ginepri del Chianti posso coltivare il mio piccolo orto, ricco di piante officinali, e avere la possibilità di cogliere frutti ed erbe che la natura mi dona. Poiché le mie finanze non sono mai state floride, ho sempre dovuto ingegnarmi a fare il più possibile da sola per riuscire a mantenere la mia famiglia composta da me, mio figlio Matteo e il nostro gatto. Quindi non mi sono mai fatta prendere la mano dagli acquisti compulsivi di materie prime di cui posso fare benissimo a meno, in quanto, grazie proprio alla natura, riesco a riprodurre i cosiddetti “attivi”. La mia filosofia di vita è sempre stata “chi fa da sé fa per tre”. La mia innata curiosità e creatività mi hanno portato ad aguzzare l’ingegno e ad inventare un sistema casalingo per ottenere idrolati e oli essenziali da erbe e fiori, semplicemente facendo una modifica alla pentola a pressione e trasformandola in un alambicco per la distillazione in corrente di vapore. Nel mio blog ci sono tutte le indicazioni per praticare questa trasformazione a casa!”.

A proposito del tuo seguitissimo blog “Magica Natura”, com’è nata questa idea?

“Nonostante il lavoro, la famiglia, la casa, ecc., non ho mai smesso di coltivare le mie passioni e realizzare cose nuove. Tutto ciò veniva fatto lontano dal web in quanto non ho mai amato la tecnologia, sino al giorno in cui, nel 2011, una mia amica e collega di lavoro decise di aprirmi un blog perché aveva notato il mio piacere nel condividere ogni mia produzione ed invenzione. Insomma, una volta approdata in questo mondo tecnologico, ho iniziato a conoscere tantissime persone con i miei stessi interessi e questo mi ha spinto a proseguire con ancora più soddisfazione il lavoro che avevo cominciato in età infantile. Sul mio blog si possono trovare informazioni sulle piante medicamentose e sugli oli essenziali, ricette di cucina, ricette di saponi liquidi e solidi e di detersivi, rimedi naturali per la casa e per la persona, gli oleoliti, le materie prime fatte in casa e tanto altro! Anche il libro “Il sapone liquido fatto da me” nasce dalla voglia di condividere i miei studi e la mia esperienza: si tratta infatti di una vera guida alla realizzazione del sapone liquido, grazie alla quale potremo produrre tra le mura domestiche shampoo, bagnoschiuma, sapone da barba, gel doccia e detersivi per la casa”.

Secondo la tua opinione, autoprodurre fa davvero risparmiare?

“Indubbiamente sì, ma solo qualora vengano utilizzate materie prime derivate da un riciclo sensato o facilmente reperibili e a basso costo se non addirittura a costo zero. Capita, però, che all’inizio di un’attività creativo/manuale la spesa iniziale sembri troppo esosa, tanto da indurci a riflettere se non sarebbe il caso di acquistare direttamente un prodotto finito anzichè avvicendarci nel riprodurlo in casa. Ma è davvero necessario acquistare tante materie prime? Secondo il mio punto di vista no! Prendiamo ad esempio il sapone: per farlo in casa sono necessari solo 3 ingredienti di base, cioè olio (generalmente un olio di oliva o di sansa), acqua e soda caustica o idrossido di potassio. A conti fatti il nostro lotto di sapone, da cui ricaviamo almeno 13-14 panetti da circa 100g l’uno, ci viene a costare totalmente circa 4 euro, quindi ogni panetto ammonterebbe a meno di 40 centesimi. Passiamo ora ad esaminare il più semplice dei cosmetici, ovvero una crema base. Se non abbiamo la pretesa di voler imitare una comune crema commerciale, anche questa possiamo realizzarla con semplicissimi ingredienti economici, di facile reperibilità e, soprattutto, senza avere alle spalle studi e studi di cosmetologia e farmacia. Gli ingredienti necessari per realizzare una Cold Cream sono: acqua, olio (anche un extravergine di oliva va bene) e cera d’api. Con questi semplici ingredienti noi saremo in grado di realizzare una crema base multifunzionale da 100g ad un costo totale di circa 1,00€. A seconda della nostra disponibilità economica, possiamo arricchire la crema di oli essenziali e/o sostanze funzionali che soddisfino le nostre esigenze”.

Oltre al risparmio, quali sono i vantaggi dell’autoproduzione nel campo di sapone e cosmetica?

“Saper fare da soli è molto gratificante perché ci rende autonomi e autosufficienti. È una gran bella soddisfazione quella di andare al supermercato evitando lo scaffale dei detergenti senza dover perder tempo a leggere lunghissime etichette di ingredienti sconosciuti e dal nome complicato! Inoltre, sai sempre quello che metti in un prodotto e quindi quello che andrà a contatto con la tua pelle, se qualche componente ti dà dei problemi puoi in ogni momento modificare la composizione andando a creare un prodotto su misura per te. Ancora: possiamo scegliere ingredienti naturali e biodegradabili che rispettano la nostra Madre Terra sdebitandoci per tutti i doni che essa quotidianamente ci offre, senza contare la notevole diminuzione del consumo di flaconi e contenitori di plastica, altamente impattanti sull’ambiente! Infine ho sempre pensato che l’autoproduzione riesca a tenere lontano quella terribile malattia che è la depressione.Nella mia vita ho avuto tantissimi momenti terribili che mi hanno fatto sfiorare questa malattia, quindi per me usare le mani in modo creativo ha sempre significato curare il mio spirito; l’autoproduzione mi permette ogni giorno di scoprire cose nuove che mi riempiono di gioia e mi stimolano a svegliarmi presto ogni mattina, per scoprirne delle altre”.

Un’ultima domanda: hai dei progetti per il futuro legati al settore dell’autoproduzione?

“Il mio vero sogno nel cassetto, sin dall’infanzia, è quello di possedere una fattoria e di creare una piccola comunità autosufficiente. Sognavo gli ecovillaggi quando ancora questi non esistevano!! O meglio, esistevano in una certa misura nei piccoli borghi dove l’artigianato locale era molto apprezzato e dove in realtà sussisteva ancora uno strascico di baratto. Infatti ricordo che, per esempio, le mie zie mi chiamavano per preparare le torte di compleanno dei miei cuginetti ed in cambio io ricevevo delle stoffe con cui potevo cucirmi i vestitini; oppure ricamavo un asciugamano per una delle mie maestre e questa mi regalava un libro; o la mia vicina di casa parrucchiera, in cambio dei miei burrocacao al cioccolato, mi tagliava i capelli gratis. Insomma era uno scambio di beni e servizi che faceva comodo un po’ a tutti e mi piacerebbe fosse il modo di vivere del futuro!”

QUI il blog di Flavia

e la sua pagina Facebook

https://www.facebook.com/Magica-Natura-305885399440448/

fonte: ilcambiamento.it

L’Unione Europea all’attacco del cibo biologico

agricoltura-biologica

Al Parlamento Europeo, nella Bruxelles ferita dagli attacchi terroristici, si discute delle normative che regolamentano agricoltura e allevamento biologico. Negli scorsi giorni sono emersi i dettagli delle revisioni dell’Europarlamento al testo della Commissione Europea; ora il testo rivisto passerà alla fase di concertazione fra Commissione, Parlamento e Stati. La tendenza che emerge è quella di un preoccupante allineamento del biologico al convenzionale. Innanzitutto il testo prevede che solamente gli erbivori possano mantenere il diritto di pascolare all’aria aperta e fra le proposte si trovano anche il taglio della coda, delle corna e la castrazione, soluzioni simili a quelle degli allevamenti industriali. Un altro nodo della questione riguarda i prodotti trasformati: finora la percentuale consentita di ingredienti non bio era del 5%, mentre la Commissione Europea aveva addirittura deciso di proibire in toto gli elementi convenzionali. Il Parlamento Europeo, al contrario, spinge affinché sia possibile utilizzare ingredienti convenzionali in mancanza di quelli bio. In questo caso gli ingredienti non bio possono essere eccezionalmente autorizzati. Uno degli aspetti più paradossali è l’intenzione di introdurre una norma secondo la quale i prodotti provenienti da Paesi extra Ue che, a causa di “condizioni climatiche e locali specifiche”, non rientrano nei parametri europei possano comunque avvalersi del marchio bio. Infine c’è il tema controverso della possibilità di coltivare nella stessa azienda prodotti convenzionali e prodotti biologici. La Commissione Ue aveva suggerito che si potesse fare solamente in una iniziale fase di riconversione dell’azienda agricola, ma il Parlamento ambisce a una deregolamentazione in tal senso. In Italia il biologico è cresciuto del 17% nel 2015 rispetto all’anno precedente, ma minarne i principi di fiducia sui quali si fonda la disponibilità dei clienti a pagare di più per mangiare più sano appare come una scelta difficile da comprendere e da digerire.

Fonte:  La Stampa

Figli di un Bio minore

Quando ci si trova, con amici o conoscenti a parlare di biologico, le argomentazioni più frequenti sono spesso le seguenti: i prezzi sono proibitivi, è roba per ricchi, non tutti se lo possono permettere, va di moda, è qualcosa di esclusivo per gente che vuole mostrare, non credo che ci sia davvero tanta differenza con la produzione convenzionale, è tutta una buffonata, i pesticidi si usano lo stesso, solo in misura ridotta. Ma è veramente così?

cibi_bio

Soprattutto, però, c’è la questione dei prezzi. Ma come mai il biologico costa di più? Per chi vive in città ed ha a disposizione solo i punti vendita specializzati effettivamente non c’è questione: i prezzi sono molto alti sia per il fresco che per il confezionato. Coltivare biologico è impegnativo, ci vogliono tecniche aggiornate che richiedono molto lavoro. La terra e gli animali allevati non vengono sfruttati come nella produzione tradizionale e daranno quindi una resa inferiore. Biologico significa quanto più possibile naturale. E naturale significa una produzione con tempi e modi diversi, sicuramente più lenti di quelli dell’agricoltura convenzionale che risponde ai bisogni di consumatori che vogliono tutto, sempre, subito, in grandi quantità e a basso costo. La logica è basata sulla velocità e sulla riduzione dei costi, a prezzo della qualità e di conseguenza della salute. Ma i costi sono davvero ridotti? Apparentemente sì, per noi che compriamo al dettaglio ma se facciamo un conto da un diverso punto di vista, vediamo che non è esattamente come sembra.

Ci sono persone che si trovano in reali condizioni di difficoltà e le loro urgenze immediate non permettono di acquistare cibo biologico. Lo trovo giusto e responsabile se si è effettivamente in condizioni limite e con la responsabilità di una famiglia sulle spalle. Tuttavia molte persone continuano a spendere molti soldi per carrelli strapieni di cibo spazzatura, inutile quando non dannoso da un punto di vista nutrizionale e deleterio per il nostro portafoglio, di cibo già pronto, già lavato, già cotto, già porzionato quando sono cose che potremmo fare da noi in poco tempo. Si spendono centinaia di euro per un parrucchiere, per una vacanza dall’altra parte del globo, per vestiti nuovi quando sappiamo che i nostri armadi strabordano di abiti mai messi di cui neanche ci ricordiamo. Accumuliamo cellulari uno sull’altro quando ancora funzionerebbero perfettamente solo per avere l’ultimo modello con più funzioni che non useremo mai, siamo disposti ad avere un tablet a persona in casa, una tv ad alta definizione per camera, un nuovo arredamento del tutto inutile a rate. Bruciamo letteralmente, e senza pensarci troppo, quasi 2000 euro in un anno per fumare un pacchetto di sigarette al giorno che ci costerà, a lungo termine, altro denaro per curare le malattie che avrà causato. Siamo attratti da quel pacchetto così conveniente per andare in palestra 24 ore su 24 che non useremo mai,  frequentiamo in tutta tranquillità ristoranti e bar che ci danno un po’ di relax a prezzi esorbitanti, siamo felici di acquistare auto nuove che pagheremo per i prossimi dieci anni e che non ci piaceranno più l’anno prossimo lasciandoci a maledire il giorno che ci siamo fatti abbindolare da quella tale pubblicità.  Siamo abituati, però, a dire che il biologico costa troppo e non possiamo permettercelo. Non abbiamo, spesso, la consapevolezza di tutto questo perché le pubblicità fanno bene il loro compito, la televisione lavora essenzialmente per questo e noi siamo troppo distratti tra lavoro e incombenze quotidiane per fermarci un momento. Se ci sono punti vendita del biologico sicuramente non alla portata di tutti, ci sono anche circuiti meno frequentati e conosciuti che propongono spesso le stesse cose a un prezzo nettamente inferiore. Oltre ai GAS, ci sono mercati biologici settimanali o mensili in molte città. I prezzi sono onesti e accettabili, spesso uguali o di poco superiori a quelli dei grandi supermercati che propongono cibo non bio. Adesso anche molti discount offrono prodotti biologici certificati, ultimamente anche nel fresco e i prezzi sono molto convenienti. Per fare qualche esempio, si trovano uova a 25 centesimo l’uno, latte a un euro al litro, pasta a un 1,80 al chilo, frutta o verdura a meno di due euro. Non siamo sicuramente ancora ai livelli di altri paesi europei come la Germania, dove esistono veri e propri discount del biologico in cui si trovano prodotti a prezzi ancora più accessibili: il miele a 7 euro, lo yogurt a meno di 3, le mele a poco più di 2,  il formaggio a 3 euro. E, ancora, il pane a 1,50 o l’olio di oliva extravergine a poco più di 4 euro. Sempre per chilo di prodotto. Tuttavia, i discount italiani con una linea biologica sono sempre di più. Esistono, inoltre, contadini appena fuori città fuori dal circuito dei mercati che non assicurano un vero e proprio biologico ma di certo i loro prodotti sono più sani di quelli prodotti dall’agricoltura intensiva e sono a km zero. Vi sono, poi, altre possibilità: coltivare un orto presso le associazioni di orti condivisi o allestirne uno sul nostro balcone. Questo non soddisferà tutto il nostro fabbisogno familiare ma sicuramente inizieremo a portare sulla nostra tavola del biologico fatto da noi, perfettamente alla nostra portata. Veniamo invece ai costi del cibo prodotto dall’agricoltura intensiva e convenzionale. Non si tratta di soldi che spendiamo direttamente quando acquistiamo il prodotto ma di costi differiti e indiretti che però prima o poi siamo tutti costretti a pagare. La produzione biologica è basata sul rispetto e la salvaguardia delle risorse e dei cicli naturali, sulla convinzione dell’importanza della biodiversità e del benessere negli allevamenti, sull’esclusione di prodotti chimici di sintesi per concimare o combattere le malattie di piante e animali. La produzione intensiva, invece, è basata su principi completamente diversi: produrre in quantità, avere la massima resa possibile, sfruttare la terra, usare pesticidi e fertilizzanti chimici. Con conseguenze serissime sull’inquinamento dell’aria e dell’acqua e sull’impoverimento del suolo.

Sul lungo termine che ripercussioni ha questo tipo di produzione sulla nostra salute? Quanto è compatibile con noi e col nostro ambiente? Sappiamo ormai che molte malattie sono strettamente legate al nostro stile di vita e al nostro modo di alimentarci: diabete, ipertensione, obesità, in molti casi il cancro. E queste patologie, a loro volta, una volta presenti, sono la causa, a catena, di altre malattie con cui dovremo avere a che fare per il resto della nostra vita con enormi ripercussioni sulla nostra qualità di vita, sulla nostra famiglia e, ancora una volta, sul nostro portafoglio. Quanto spendiamo in farmaci e terapie una volta ammalati? In quanto possiamo monetizzare i danni sul nostro vivere quotidiano e di conseguenza sulle nostre relazioni e sul nostro lavoro? Quanto ci costa, come comunità, dover provvedere a risolvere con bonifiche costosissime l’alterazione dell’ambiente naturale a ogni livello? Forse sono costi che non avevamo considerato ma che prima o poi ognuno di noi sarà chiamato a pagare. Possiamo dare il nostro contributo a cambiare le cose informandoci nelle nostre città su modi alternativi di acquistare e consumare biologico per poter cambiare la rotta a cominciare dalle nostre piccole e piccolissime scelte quotidiane.

Fonte: ilcambiamento.it