Banca Mondiale, Giano Bifronte

La Banca Mondiale gioca due ruoli: quello di banca (e come tutte le banche moderne tende sempre più a finanziarizzarsi, cioè a guadagnare denaro comprando e vendendo denaro) e quello di agenzia di sviluppo (sottraendo funzioni ad altre agenzie di sviluppo che si occupano degli stessi settori, la salute in questo caso). Quanto sono conciliabili questi due ruoli, senza che uno sia svolto a discapito dell’altro?9804-10590

Idee con i denti: questo è il termine colloquiale con cui si riferisce alla Banca Mondiale (BM) l’incipit del primo dei 5 articoli di una serie dedicata recentemente alla stessa dal British Medical Journal (BMJ), in collaborazione con alcuni ricercatori dell’Università di Edimburgo. Idee con i denti perché la BM combina prestigio intellettuale e potere finanziario, due elementi necessari per garantire che ciò che i suoi vertici decidono si traduca in realtà. In questo primo articolo, gli autori analizzano in dettaglio le politiche di credito al settore salute della BM, credito quasi sempre accompagnato da un sostegno “tecnico” su come usare il denaro e da alcune condizioni.

Condizioni che chi, come me, ha attraversato gli ultimi 4 decenni di politiche sanitarie internazionali conosce bene: piani di aggiustamento strutturale, tagli ai finanziamenti pubblici, pagamenti a prestazione, privatizzazione dei servizi sanitari. Il tutto imposto per circa 2 decenni dall’inizio degli anni ’80 del secolo scorso. Le chiamavano riforme, e credo che risalga a quell’epoca il cambiamento semantico che ha trasformato il termine “riforma” da positivo a negativo. Attualmente, quando sentiamo parlare di riforme, ci mettiamo a tremare, perché sappiamo ciò che ci aspetta.

La BM poteva imporre le sue riforme, perché controllava i cordoni della borsa. Per lungo tempo è stata il maggiore finanziatore di programmi e progetti sanitari a livello globale. E lo è ancora, anche se in proporzione un po’ meno dopo l’entrata di altri attori nel mercato dei fondi per la salute. All’inizio della sua storia, dalla sua fondazione nel 1944 con gli accordi di Bretton Woods fino al 1968, quando è stato nominato alla presidenza Robert McNamara, già ministro della difesa negli USA della guerra in Vietnam, la BM non spendeva in salute; tutti i fondi andavano in grandi progetti infrastrutturali (dighe, strade, industria, agricoltura). Fu McNamara il primo ad investire in salute, cominciando dalla pianificazione familiare e dal controllo dell’oncocerchiasi. Ma ancora nel quinquennio 1985-89 gli investimenti per la salute ammontavano a poco meno di 1.4 miliardi di dollari, l’1% del totale investito. Da allora però la crescita è stata impressionante, fino ad arrivare agli oltre 32 miliardi del quinquennio 2010-14, il 12% del totale investito. E se all’inizio la totalità dei fondi per la salute andava a programmi verticali, il sostegno ai bilanci nazionali per la salute è andato progressivamente aumentando, fino a raggiungere la percentuale del 32% dei fondi per la salute nel quinquennio 2010-14. La svolta si è verificata all’inizio di questo secolo, ma si è avuta un’accelerazione con la nomina a presidente, nel 2012, di Jim Yong Kim, un medico statunitense (ma nato a Seoul) impegnato in attività umanitarie e un attivista per il diritto alla salute. È con la sua presidenza che la BM rinnega definitivamente la politica dei pagamenti a prestazione e, al contrario, appoggia programmi e progetti che hanno per obiettivo l’accesso universale alle cure.

Come risulta chiaro da quanto scritto sopra, la BM può condizionare il bello e il cattivo tempo nel settore salute. Lo può fare perché tratta direttamente con i ministri delle finanze, in generale molto più potenti dei ministri della salute. Perché coopera strettamente con gli altri importanti attori nella salute internazionale: l’OMS, la Fondazione Bill e Melinda Gates (BMGF), il Fondo Globale per AIDS, Tubercolosi e Malaria (GFATM), il GAVI (l’alleanza per le vaccinazioni), che spesso sono solo dei gestori di fondi detenuti dalla BM. Perché ha ottimi rapporti con l’industria e il mercato della salute. E perché dai suoi uffici transitano i migliori tecnici della salute, che poi spesso vanno a ricoprire ruoli centrali nei ministeri e nelle istituzioni nazionali.

Il peso della BM nell’espansione dell’accesso alle cure (UHC, Universal Health Coverage) e nel rafforzamento dei sistemi sanitari è al centro del secondo articolo della serie. Come evidenziato in precedenza, il ruolo storico della BM in termini di UHC è stato sicuramente regressivo. E regressive sono state anche le sue politiche di Primary Health Care (PHC) selettiva imposte con la pubblicazione, nel 1993, del rapporto annuale dal titolo “Investing in Health”. Politiche che, assieme a quelle sul pagamento a prestazione, hanno diminuito l’accesso a cure integrate per i più poveri, contribuendo ad aumentare diseguaglianze ed iniquità. Tutto il contrario di quanto previsto dalla PHC comprensiva ed integrale della Dichiarazione di Alma Ata nel 1978. E tutto il contrario anche di quanto preconizzato negli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile (SDG), di cui l’UHC è uno dei targets. La BM avrebbe sicuramente i mezzi e il potere per invertire le politiche di molti paesi in direzione UHC. Ma lo farà? Le strategie che sta mettendo in atto a questo scopo, come per esempio la Global Financing Facility (GFF), non sembrano offrire garanzie. Si basano infatti, tra gli altri principi, su quello per cui bisogna “rafforzare le partnerships pubblico-privato”, stabilendo i “giusti meccanismi di pagamento”. L’impressione è che il mandato per la BM di creare nuovi mercati abbia sempre la prevalenza sul principio secondo il quale la salute è un diritto. Nonostante un presidente che si professa campione dell’aiuto umanitario.

Il terzo articolo della serie analizza le diverse modalità di finanziamento alla salute della BM e ne discute rischi e benefici. Negli ultimi anni, la BM ha modificato i suoi meccanismi di finanziamento. Se prima i principali canali erano le sue banche regionali per lo sviluppo, ora usa soprattutto i fondi fiduciari, nei quali accumula i contributi versati dai governi, cioè dai suoi azionisti, dagli organismi, come BMGF, GFATM e GAVI, che affidano alla gestione della BM i fondi destinati ai propri progetti, e da donatori privati tra cui, per esempio, alcune multinazionali farmaceutiche. I meccanismi per la gestione sul campo variano: dalla gestione diretta da parte della BM, a quella totalmente affidata ai governi o ad organismi non governativi (ONG), a forme ibride di vario tipo, compresa l’assegnazione a servizi sanitari privati profit e non-profit. Circa il 40% di questi fondi fiduciari è usato per programmi e progetti di salute; nel 2013, ciò corrispondeva a circa 5 miliardi di dollari. Una particolarità di questi fondi fiduciari è di essere molto flessibili, di permettere cioè di finanziare rapidamente nuovi programmi e progetti, ove necessario. Un’altra particolarità è di essere earmarked, cioè destinati ad attività scelte dal donatore. La BMGF, per esempio, preferisce spendere buona parte dei fondi gestiti dalla BM in innovazione tecnologica. Il rischio di questa particolarità è che i donatori possano influenzare le politiche e le priorità della BM, che tra l’altro non sempre corrispondono con i bisogni dei paesi più poveri e che sono stabilite dai maggiori azionisti (in pratica i governi dei paesi più ricchi, con potere di veto da parte del più grande di tutti, gli USA). Per completare il quadro, la gestione di questi fondi fiduciari da parte della BM è tutt’altro che trasparente.

Gli ultimi due articoli descrivono e analizzano i meccanismo di investimento della BM per due specifici programmi: la salute riproduttiva (madre, neonato, bambino e adolescente) e la nutrizione, e il miglioramento della preparazione necessaria per gestire le pandemie globali. Per il primo, la BM propone un GFF con il quale si impegna a moltiplicare fino a 5 volte ogni dollaro investito dai finanziatori; secondo la BM, questo è l’unico modo per colmare il gap nei fondi per salute riproduttiva e nutrizione e poter quindi raggiungere i targets per il 2030 previsti dagli SDG, stimato in circa 33 miliardi di dollari l’anno. Questo GFF è partito nel 2015 con attività in 7 paesi e con una dotazione iniziale di oltre un miliardo di dollari forniti da Norvegia (600 milioni), Canada (220), USA (200), Giappone (100) e BMGF (75); vi è anche un contributo di 10 milioni da parte della multinazionale Merck Sharp & Dohme. Le redini del GFF, tuttavia, restano nelle mani della BM e degli investitori; gestendo l’erogazione dei fondi, questi influenzano anche le decisioni strategiche dei governi coinvolti. I quali, inoltre, proprio perché hanno un grande carico di malattia legato a salute riproduttiva e nutrizione, hanno anche dei sistemi sanitari non sempre in grado di gestire le attività e mostrare risultati e, soprattutto, a rendere i programmi sostenibili nel tempo.

Per quanto riguarda le pandemie globali, l’interesse della BM è stato suscitato dall’epidemia di Ebola in alcuni paesi dell’Africa Occidentale nel 2014 e dalla dimostrata incapacità della comunità internazionale di farvi fronte in maniera tempestiva. In linea con il suo mandato – creare nuovi mercati – la BM propone un nuovo tipo di sistema assicurativo che, partendo da un investimento iniziale di un gruppo di donatori, attiri capitali privati. Nel maggio del 2016 la BM ha annunciato la creazione del PEFF (Pandemic Emergency Financing Facility), uno schema assicurativo destinato ai paesi più poveri e alle agenzie e organizzazioni internazionali che si occupano di interventi in caso di pandemia, con una copertura delle spese che inizialmente può arrivare a 500 milioni di dollari, sborsabili rapidamente a pandemia certificata. Ma il premio per questa assicurazione non è pagato dagli attori di cui sopra, bensì da investitori pubblici e privati. Questo meccanismo, secondo la BM, trarrebbe vantaggi sia per i beneficiari dell’assicurazione, motivati a stabilire dei sistemi di allarme e pronto intervento per poter godere della copertura assicurativa, sia agli investitori pubblici e privati, che perderebbero sì una parte dei loro investimenti in caso di scoppio di una pandemia, ma otterrebbero alti interessi sugli stessi se non scoppiasse nessuna pandemia entro 3 anni dal loro investimento iniziale. Gli investitori potrebbero trarre ulteriori benefici dall’eventuale mercato delle obbligazioni che sarebbero emesse per finanziare il PEFF. Da notare che l’idea e lo sviluppo di questo strumento finanziario provengono da BM e OMS, in collaborazione con 3 grosse compagnie di assicurazioni, con intrinseci conflitti d’interesse. Ovviamente non sappiamo se il PEFF funzionerà, dato che finora non c’è stata ancora occasione di metterlo alla prova.

Alcune considerazioni finali:

. Cercando di capire come funzionano i complessi meccanismi finanziari che la BM ha messo, mette e metterà in atto per finanziare la salute, mi sembrava di avere in mano Il Sole 24 Ore, non il BMJ. E confesso di non aver molta fiducia sul fatto che la finanza possa dare una mano a risolvere i problemi di salute globale, soprattutto quelli dei gruppi più poveri e impoveriti nei vari paesi. Difficile pensare ad un sistema finanziario che abbia come obiettivo l’equità.
. È evidente che la BM gioca due ruoli: quello di banca (e come tutte le banche moderne tende sempre più a finanziarizzarsi, cioè a guadagnare denaro comprando e vendendo denaro) e quello di agenzia di sviluppo (sottraendo funzioni ad altre agenzie di sviluppo che si occupano degli stessi settori, la salute in questo caso).

. Quanto sono conciliabili questi due ruoli, senza che uno sia svolto a discapito dell’altro? Molte persone, e sicuramente la maggioranza degli operatori sanitari, considerano la salute un diritto. Il mandato di una banca, e della BM in particolare, è creare nuove occasioni di mercato e ottenere un buon ritorno sugli investimenti. Queste due visioni mi sembrano del tutto inconciliabili (senza punto interrogativo).

Si ringrazia Salute Internazionale

Fonte: ilcambiamento.it

La Banca Mondiale lancia l’allarme: “La crisi idrica minaccia la crescita”

SAFRICA-WATER-DROUGHT

Secondo un rapporto pubblicato ieri dalla Banca Mondiale la crisi idrica che si sta verificando in molti Paesi e che si aggraverà nei prossimi anni a causa dei cambiamenti climatici rappresenta una minaccia per la crescita economica e per la stabilità del Pianeta. Secondo le valutazione della World Bank in alcune regioni la crisi idrica potrebbe portare a una decrescita del PIL di ben sei punti percentuali. L’effetto combinato di crescita demografica, espansione delle città e flussi migratori la domanda di acqua conoscerà un aumento sponenziale. Secondo la Convenzione delle Nazioni Unite sulla lotta contro la desertificazione (Uncdd) da oggi al 2025 1,8 miliardi di persone vivranno o saranno costretti a migrare da regioni nelle quali la penuria d’acqua sarà assoluta, mentre due terzi della popolazione mondiale potrebbero vivere in situazioni di stress idrico. Chi pensa che questi problemi non riguardino il mondo occidentale e i Paesi sviluppati leggano che cosa sta succedendo a Flint, negli Stati Uniti, e in Veneto. Sempre secondo il report della Banca Mondiale, i volumi d’acqua disponibili potrebbero diminuire di due terzi da oggi al 2050, a causa della diminuzione delle risorse e del sovrasfruttamento a scopi industriali e agricoli. Entro il 2050 la richiesta per scopi agricoli potrebbe crescere del 50%, quella per il settore energetico dell’85%, quella richiesta nelle metropoli del 70%. Le politiche idriche condizioneranno le economie delle singole nazioni: il Sahel potrebbe subire una decrescita fra lo 0,82% e l’11,7%, peggio ancora per il Medio Oriente dove il PIL potrebbe scendere fra il 6,02% e il 14%. Inutile aggiungere che le crisi idriche saranno la principale causa delle migrazioni e dei conflitti.

 

 Guarda la Galleria “Sudafrica: la peggiore siccità degli ultimi 30 anni”

19 Guarda la Galleria “Crisi idrica a Flint”

Fonte:  Le Monde

Acqua “privata” in Africa: la lotta della Nigeria contro la Banca Mondiale

Il nuovo colonialismo in Africa non sta solo derubando il continente delle terre, si sta anche impadronendo delle risorse primarie, tra cui l’acqua. I fondi della Banca Mondiale sono legati a doppio filo alle privatizzazioni e molti governi ormai, corrotti o con il cappio al collo, condannano le popolazioni a una nuova schiavitù.acqua_africa

Non bastavano il Mali, il Sud Africa (6 Corporation hanno contratti), il Ghana (dove dopo la privatizzazione il costo dell’acqua è aumentato del 95% e un terzo della popolazione non ha accesso ad acqua pulita), la Namibia. Ora la Banca Mondiale preme sulla Nigeria per permettere a una partnership pubblico-privata di mantenere e ampliare la gestione dell’erogazione dell’acqua aumentandone i costi. Ma la popolazione si sta opponendo con tutte le sue forze. La capitale Lagos, che conta 21 milioni di abitanti, è il “boccone” che le Corporations si sono servite in tavola e bramano il resto della preda. «Da decenni la Banca Mondiale sta facendo di tutto per impedire lo sviluppo di un sistema pubblico di gestione – spiega Akinbode Oluwafemi, responsabile per i diritti ambientali di Friends of the Earth Nigeria – tanto che oggi nove persone su dieci non hanno accesso ad acqua potabile. Sappiamo bene quali interessi si nascondono dietro la trasformazione dell’acqua in un bene di mercato. Nel mio villaggio ho realizzato una pompa che permette ai vicini di avere libero accesso a questa preziosa risorsa e per questo ho ricevuto minacce dalle società che invece l’acqua la vogliono vendere a peso d’oro, poiché stavo mettendo a rischio i loro profitti. Ma non farò retromarcia. La Banca Mondiale ora sta tentando di convincere le comunità anche al di fuori della capitale che la privatizzazione dell’acqua è la risposta ai problemi della gente, se ne infischia dei processi democratici. Abbiamo ospitato a Lagos in questi giorni attivisti ed esperti per il Lagos Water Summit, co-promosso insieme a Corporate Accountability International. Ma abbiamo bisogno di far sentire la nostra voce anche oltre confine, anche nel resto del mondo. Abbiamo bisogno dell’aiuto di tutti, per questo chiediamo ad ogni cittadini in ogni nazione di scrivere alla Banca Mondiale sollecitando lo stop al processo di privatizzazione (qui trovate la lettera da mandare e le istruzioni). Il nostro movimento vuole crescere nei prossimo mesi, ma abbiamo bisogno che il nostro problema diventi il problema di tutti». E Akinbode Oluwafemi sa bene come sia in corso non solo in Africa (con effetti assolutamente devastanti), ma anche negli altri paesi del mondo il processo di privatizzazione dell’acqua. In Italia la situazione non è affatto migliore. «C’è un preciso piano attraverso il quale il Governo intende rilanciare con forza il processo di privatizzazione e finanziarizzazione dei beni comuni ma ciò avviene in maniera molto più subdola degli anni passati – ha spiegato Paolo Carsetti, del Forum italiano dei Movimenti per l’acqua–  Tutti i provvedimenti elencati non esplicitano un attacco diretto all’acqua o ai servizi pubblici locali come fatto nel 2009 dal governo Berlusconi, l’attacco è strisciante, non si pronuncia la parola privatizzazione perchè è un tema su cui si è già registrato una sconfitta epocale ma la sostanza è la stessa. Il governo si muove dietro la propaganda che prova a descrivere uno scenario come quello della necessità di riduzione della spesa pubblica anche attraverso la razionalizzazione delle cosiddette partecipate o ex municipalizzate che sarebbero coacervo di sprechi, clientele e malapolitica. È la retorica che sta dietro a questa propaganda, con la quale si prova a raggiungere il medesimo obiettivo del governo Berlusconi: cedere al mercato la gestione dei servizi pubblici e dei beni connessi». «L’acqua è un bene comune e tale deve rimanere – aggiunge Shayda Naficy, direttore della Campagna Internazionale per l’Acqua di Corporate Accountability International (CAI) – quando se ne impadroniscono i privati, ecco che nascono fortissime disparità nell’accesso e nei costi».  Eppure, malgrado la Banca Mondiale continui a premere per la privatizzazione dell’acqua soprattutto nei paesi del Terzo Mondo, i dati rivelano che un’eleveta percentuale dei suoi progetto è in condizioni di stress. Il database dell’ente internazionale documenta un 34% di fallimenti. Nel 2013 il CAI ha inviato una lettera aperta alla Banca Mondiale per chiedere lo stop al sostegno dato ai progetti di privatizzazione, ma nulla è cambiato. Ma come si può dimenticare che l’accesso e il diritto all’acqua pulita sono la base della vita stessa?

Fonte: ilcambiamento.it

Multinazionali: tagliamo i tentacoli delle piovre

Immense piovre i cui tentacoli avvolgono, soffocano e stritolano. Le multinazionali hanno interessi ovunque nei settori strategici che condizionano le nostre vite e la nostra salute. Ma oggi più che mai si trovano di fronte ad un avversario forse inatteso: una crescente forza “globale” antagonista che chiede a gran voce che le multinazionali escano di scena laddove sono in gioco diritti umani, risorse primarie, salute e ambiente.multinazionali

«Fuori le multinazionali dalle trattative sul clima» era lo slogan di centinaia di migliaia di persone pochi giorni fa durante le manifestazioni in occasione del vertice che avrebbe dovuto trovare accordi e intese per uscire dall’emergenza clima. Ed è stato lanciato un appello, che tutti possiamo sottoscrivere, per chiedere alle Nazioni Unite di escludere le grandi società soprattutto dell’energia dagli incontri e dalle trattative e di sottrarsi alla loro pesante influenza. Come non prendere atto, infatti, di come e quanto Big Energy stia premendo per fare in modo che non cambi assolutamente nulla dello status quo attuale che continua a far conto sui combustibili fossili alimentando business multimiliardari a spese della salute collettiva e dell’ambiente! Ma in ballo c’è, ad esempio, anche l’acqua. In Italia una grande battaglia è stata condotta dal Forum Italiano dei Movimenti per l’Acqua, ma il governo ha calpestato i risultati del referendum pur di non sottrarre l’oro blu alle multinazionali che hanno trasformato una risorsa primaria diritto di tutti in un bene privatizzato su cui speculare. E le multiutility stanno agendo ovunque, dagli Stati Uniti all’Africa. La crisi globale dell’acqua è già in atto: una persona su quattro nel mondo non ha sufficiente acqua potabile. La Banca Mondiale è una forza potente a sostegno della privatizzazione, contribuisce da decenni a progetti in questo senso e alcuni li ha finanziati direttamente, come denuncia l’associazione americana Corporate Accountability International. Sta accadendo nell’Africa sub sahariana, nelle Filippine, in Indonesia, in India e in molte altre nazioni. Oggi la Banca Mondiale sta cercando di privatizzare l’acqua in una delle più grandi città africane, Lagos, in Nigeria (21 milioni di abitanti), e spera che nessuno se ne accorga; non ha infatti voluto divulgare i dettagli del piano. Chiediamo tutti che scopra le carte, firmiamo l’appello che trovate qui. Poi il tabacco, le sigarette. I leader mondiali si ritroveranno a Mosca dal 13 al 18 ottobre alla Sesta Conferenza delle Parti sulla Convenzione Quadro dell’Oms per il controllo del tabacco. Forse non sono in tanti a saperlo. «E noi saremo là – spiegano da Corporate Accountability International – per impedire che i rappresentanti delle industrie, ancora una volta, si infiltrino nelle trattative e negli incontri, manipolando i presenti e contrastando le politiche anti-fumo». E, ancora, l’alimentazione. Big Food è un concentrato di potenze dell’industria che apre e stende i suoi tentacoli ovunque. Nei libri di Tecnologia alle scuole medie troviamo la pagina sponsorizzata da McDonald che parla di tecnologia alimentare; oppure ancora, il tavolino con i palloncini e i buoni per comprare l’Happy Meal alla scuola materna; per non parlare dell’alleanza con la De Agostini per la pubblicazione di libricini con i quali “insegnare” l’inglese stile junk food. Ma d’altra parte è lo stesso Ministero dell’Istruzione a delegare all’industria alimentare l’educazione in questo campo, come se ormai l’unico modello diffondibile fosse quello, appunto, industriale. Basti pensare al programma Il gusto fa scuola promosso da Federalimentare con l’avallo del Miur, Ministero di Istruzione, università e ricerca, tramite un protocollo d’intesa firmato dall’allora ministro Francesco Profumo e dal presidente della Federazione italiana dell’industria alimentare Filippo Ferrua Magliani. In tutto sono state coinvolti 77mila scuole, per 1,6 milioni di alunni. Prendiamo dunque spunto dall’associazione americana CAIe scriviamo anche noi alla McDonald e a Federalimentare per ammonirli a restare fuori dalle scuole dei nostri figli. La lista dei settori dove le multinazionali la fanno da padrone sarebbe lunghissimo. Sta anche in noi dire basta, trovare altre strade, fare scelte sostenibili quando acquistiamo, consumiamo, viviamo. Giorno dopo giorno, passo dopo passo, possiamo arrivare a cambiare strade, percorsi, situazioni. Dobbiamo solo diventare consapevoli della grande forza che possiamo avere per cambiare il mondo con le nostre scelte.

Fonte: ilcambiamento.it

Il Libro che le Multinazionali non ti Farebbero mai Leggere

Voto medio su 1 recensioni: Da non perdere

€ 6.9

No Logo - Libro
€ 11

Alla Banca Mondiale piacciono le grandi dighe

Le grandi dighe sono tra i progetti più impattanti e devastanti in diverse parti del mondo. La Banca Mondiale però le finanzia da anni e, stando ai recenti piani di investimenti, continuerà a farlo ancora più in grande stile. Calpestando ambiente e popolazioni.grandi_dighe

La realizzazione di dighe di grandi o grandissime dimensioni  comporta danni ambientali e costi economici ed umani che risultano, stando ai dati, assolutamente controproducenti.  Questo però non sembra preoccupare la Banca Mondiale, anzi essa è  da molto tempo in prima linea nel finanziamento di dighe e sbarramenti fluviali tra i più grandi del mondo. In Italia la storia ha dimostrato la pericolosità e i costi delle grandi dighe, che fortunatamente non hanno avuto una così larga diffusione come in altre nazioni.  La Banca Mondiale da molto tempo è impegnata con tutte le sue forze nel promuovere la costruzione di tali opere e si prepara a finanziare enormi progetti idraulici. In tempi di crisi economica mondiale, la BM imbocca la  via percorsa ormai anche da paesi come il Brasile e la Cina. I progetti riguardano in particolare ilCongo, l’Himalaya e il bacino dello Zambesi. Già dal luglio 2013 la Banca Mondiale ha adottato un nuovo programma energetico che prevede appunto di aumentare i prestiti ai grandi progetti idroelettrici e ai gasdotti. Ha finanziato più di 600 grandi dighe in 60 anni e supporta attualmente 150 progetti in corso nel settore idroelettrico. La metà di essi sono in Africa e nel Sudest Asiatico. Questi progetti sono tuttavia meno colossali rispetto alla prossima generazione di opera che si preannuncia. Un esempio è costituito dalle dighe Inga 1 e 2 costruite sul fiume Congo. Dopo che un gruppo di finanziatori ha speso miliardi in questi progetti, l’85% dell’elettricità della Repubblica Democratica del Congo è destinata a grandi industrie forti consumatrici di energia e… alla popolazione urbana!  Mentre meno del 10% della popolazione delle zone rurali ha accesso all’elettricità. La Banca ha scelto nel luglio 2013 di finanziare il progetto Inga 3 sempre sul fiume Congo per 12 miliardi di dollari, il più costoso mai proposto in Africa, oltre a due progetti di parecchi miliardi sullo Zambesi. Queste tre opere dovrebbero servire a produrre elettricità per le compagnie minerarie e i consumatori delle classi abbienti dell’Africa del Sud. Le ONG che lavorano sulla dipendenza energetica sono allarmate per questa scelta, fatta in uno dei paesi più poveri e più corrotti dell’Africa. I progetti Inga 1 e 2 non hanno portato alcuno sviluppo economico, ma hanno aumentato il peso del debito e in un periodo di fragilità idrogeologica le grandi dighe aumenteranno la vulnerabilità climatica dei paesi poveri. A chi paventa e prevede disastri ecologici e tragedie umane per le popolazioni private di terra e sostentamento e costrette a sfollare, la BM si difende. “Non si tratta più delle dighe dei vostri nonni” ha detto infatti Julia Bucknall, responsabile del settore idrogeologico dell’istituto internazionale. Cosa cambia rispetto alle dighe “dei nostri nonni”? Soltanto il fatto che vengono pubblicati miriadi di rapporti sull’impatto ambientale che, così come le dighe stesse, verranno addebitati ai paesi che ne “beneficiano”, il cui debito aumenterà e con esso la loro dipendenza dalle grandi industrie e istituzioni finanziare  occidentali. La diga Lom Pangar in Cameron è un esempio di medio progetto finanziato dalla Banca. Inonderà 30.000 ettari di foresta tropicale tra cui il parco nazionale Deng Deng, un rifugio per gorilla, scimpanzè e altre specie minacciate. Il progetto è destinato ad alimentare un’industria di alluminio, che consuma già la maggior parte di energia del Cameron.
E tutto quell’alluminio non serve di certo al Cameron. Magari servirà per le lattine delle nostre bibite. Soluzioni migliori esistono già. In questi ultimi dieci anni a livello mondiale i governi e gli investitori privati hanno prodotto più energia dall’eolico che dalle dighe. Anche il solare ha reso più degli investimenti idroelettrici. Queste due fonti di energia sono più efficaci delle dighe per rifornire l’Africa sub sahariana. L’agenzia Internazionale dell’Energia ha dimostrato che l’elettrificazione in rete ottenuta dai grandi progetti idroelettrici non è efficace per le zone rurali, che non sono densamente popolate. Sono efficaci invece le energie rinnovabili e decentrate. Queste presenterebbero il triplo beneficio di aumentare l’accesso all’energia, proteggere l’ambiente e non incentivare il cambiamento climatico. L’Agenzia raccomanda che più del 60% dei fondi siano investiti nelle energie rinnovabili. Ma la Banca Mondiale tra il 2007 e il 2012 ha accordato 5,4 miliardi di dollari per le dighe contro  2 miliardi complessivi per eolico e solare. Il programma si concentra sempre su progetti di grandi opere idrauliche. Ne sorgeranno anche in Nepal, nella fragile regione dell’Himalaya, con l’obiettivo di esportare l’energia in India. E in Italia? Il nostro territorio fortemente antropizzato non consente di realizzare progetti di grande portata ed è ormai finita l’era delle dighe che, complice lo sviluppo industriale ed economico, sono state realizzate in gran parte dagli anni 50’ alla fine degli anni 90’. Ma se nel nostro paese non ci sono più vallate e fiumi da sfruttare in maniera massiccia, le aziende del settore non stanno con le mani in mano. Infatti Enel collabora nella costruzione di grandi dighe nel mondo a discapito di popoli indigeni e di patrimoni naturalistici, come nel caso degli enormi impianti da realizzare in Cile e in Guatemala. Se l’acqua è un diritto per tutti i cittadini del mondo, ne consegue che nessuno dovrebbe avere il diritto  di sciuparla, deviarla, imbrigliarla nel nome del profitto monetario ed energetico; ma si sa, in questi tempi di globalizzazione i diritti degli alberi, dei popoli primitivi e dei fiumi sono sempre meno considerati, soprattutto da istituzioni il cui scopo è salvaguardare e incrementare ad ogni costo i profitti dei potenti, come la Banca Mondiale .

Fonte dei dati   “L’ecologiste”.

Tratto: il cambiamento

Acqua e Comunità
€ 13

Grandi Opere
€ 12.9

NICHOLAS STERN: GLOBAL WARMING, MI SONO SBAGLIATO

……. è molto, molto peggio

Nicholas-Stern-586x496

 

Nel 2006 Sir Nicholas Stern, economista ambientale alla London School of Economics, presentò un ormai celebre rapporto sui cambiamenti climatici commissionato dal governo britannico. La conclusione del rapporto non lasciava adito a dubbi: i benefici di un’azione energica e immediata per limitare e mitigare il global warming superano di gran lunga il costo economico del non agire. Le raccomandazioni di Stern non furono prese in considerazione dall’allora governo Blair-Brown e men che meno oggi dal governo “ultrafossile” di Cameron. In margine ai lavori del Word Economic Forum di Davos, Stern ritorna sull’argomento con polemica e rammarico. Riconosce di avere sottostimato i rischi posti dal global warming e di non essere stato abbastanza netto nel delineare la minaccia posta dal clima: oceani ed ecosistemi assorbono meno carbonio del previsto e le emissioni aumentano, per cui stiamo viaggiando abbastanza spediti verso i 4-5 °C di aumento a fine secolo. Vogliamo giocare alla roulette russa con uno o due proiettili? Si chiede Stern. Alcuni stati, tra cui la Cina, hanno iniziato a comprendere la serietà dei rischi, ma i governi devono agire con forza per spostare le economie verso tecnologie a minore intensità energetica e più sostenibili per l’ambiente. Gli ha fatto eco il neo-presidente della Banca Mondiale Jim Yong Kim affermando che combattere i cambiamenti climatici sarà una priorità del suo mandato, visto che in un mondo con quattro gradi in più ci saranno terribili conflitti per l’uso delle risorse naturali. Occorre creare eliminare i sussidi all’industria fossile e rendere “verdi” le 100 mega-città del pianeta, che sono responsabili del 60-70% delle emissioni. Secondo Kim “occorre trovare strade amichevoli per il clima (climate-friendly) per incoraggiare la crescita economica. La buona notizia è che queste strade esistono”.

Cambierà qualcosa nel mondo degli affari e degli economisti?

Fonte: ecoblog