L’uso massiccio della chimica di sintesi e di premi alle tecniche intensive di produzione agricola e di allevamento hanno ottenuto non solo il risultato di inquinare l’ambiente, ma anche quello di spazzare via 4 milioni di aziende agricole in Europa.
L’approvazione definitiva della legge sul bio diventa ogni giorno più urgente. Perché ogni giorno arriva una conferma dei guasti prodotti da una lunga stagione di uso massiccio della chimica di sintesi e di premi alle tecniche intensive di produzione agricola e di allevamento. I danni prodotti da queste scelte sono stati profondi. Spaziano dall’impatto sulla biodiversità a quello sulle falde idriche, dalla salute del suolo a quella dei consumatori. Passando per il contributo importante all’aggravarsi della crisi climatica. Ma c’è un altro danno, economico, che ora viene evidenziato: la conseguenza di decenni di queste politiche è stata l’emorragia delle piccole aziende, spazzate via dall’industrializzazione del settore agricolo. Il problema emerge da un’inchiesta del Guardian: il numero di allevamenti di pollame e bestiame nell’Ue, esclusa la Croazia, è diminuito di 3,4 milioni tra il 2005 e il 2016, attestandosi a 5,6 milioni. Il numero totale di tutti i tipi di aziende agricole nell’Ue è sceso nello stesso periodo da 14,5 milioni a 10,3 milioni”.
Una moria di imprese determinata dal meccanismo della Pac, la politica agricola europea che ha finito per premiare l’intensificazione dei processi agricoli, cioè i sistemi a maggior impatto ambientale: l’80% dei finanziamenti continua ad andare al 20% delle aziende, le più grosse. In particolare l’impatto sulla biodiversità è stato impressionante. Come ricorda il Guardian, il numero di uccelli dei terreni agricoli nell’Ue si è dimezzato in tre decenni, secondo l’European Bird Census Council. Nel territorio dell’Unione europea solo un quarto delle specie gode di un buono stato di conservazione e l’80% degli habitat chiave è in modeste o cattive condizioni. Per questo l’Europa ha scelto di puntare con decisione sul biologico, cioè sulle tecniche di coltivazione che permettono di ridurre sensibilmente l’impatto ambientale della produzione, di tutelare il suolo e di proteggere la biodiversità. Il target europeo al 2030 è 25% di campi bio e 10% di aree destinate alla protezione della biodiversità all’interno dei terreni agricoli.
La crisi della filiera alimentare dovuta alla pandemia apre spazi di cambiamento interessanti. Cosa possiamo fare per favorire la nascita di una filiera più resiliente ed equa del cibo? E quali aspetti dell’agricoltura contadina attuale dobbiamo lasciar andare affinché possa cogliere l’occasione che la storia le pone di fronte? Ne parliamo con Nicola Savio, permacultore e vecchia conoscenza di Italia che Cambia, e con Davide Biolghini della Rete Italiana di Economia Solidale. Ne abbiamo sentite e continuiamo a sentirne tante, in questi giorni anomali. Chi è convinto che il virus cambierà il mondo, chi spera in un rapido ritorno alla normalità, chi, portando ottimi argomenti, mette in guardia che “la normalità era il problema”. Stiamo proiettando su questa situazione i nostri desideri più intimi tanto quanto le nostre più profonde paure. È vero, questa pandemia cambierà molte cose, ma la direzione di questi cambiamenti non le deciderà il virus. Le decideremo – più o meno consapevolmente – noi.
Uno dei tanti settori in cui si aprono interessanti finestre di cambiamento è quello della produzione, distribuzione e consumo di cibo. Abbiamo osservato con sgomento le code interminabili di fronte ai supermercati, preludio a scaffali spesso semivuoti – dal Regno unito sono arrivate voci di scenari ancor più catastrofici. Consegne in ritardo, shop online intasati e con attese lunghissime. E il peggio potrebbe essere ancora di là da venire: la fuga della manodopera a basso costo – perlopiù stranieri tornati in patria subito prima del lockdown – sta lasciando buona parte dei raccolti a marcire nei campi mettendo a rischio la sicurezza alimentare. La crisi sanitaria ha messo a nudo la totale inadeguatezza della filiera alimentare, costruita per massimizzare l’efficienza a discapito della resilienza. In questo contesto parlare di come produciamo e distribuiamo il nostro cibo diventa improvvisamente un argomento centrale per tutti. Per capire quali sono i problemi e le opportunità di questa situazione nuova mi sono fatto due chiacchierate, la prima con Nicola Savio, agricoltore esperto di permacultura e vecchia conoscenza di Italia che Cambia, la seconda con Davide Biolghini, membro del consiglio direttivo della Rete Italiana di Economia Solidale. Provo a mettere insieme i pezzi e riassumervi quello che ho capito.
Crisi o opportunità?
«In questo periodo – mi spiega Davide – la domanda di prodotti biologici e anche di sistemi di distribuzione locale come quelli dei Gruppi d’acquisto solidali (Gas) sta crescendo. Buon Mercato, ad esempio, l’esperienza di ‘supergas’ nel corsichese, ha visto aumentare del 30-40% gli ordini da parte di famiglie nuove che si sono avvicinate in questa circostanza». Come spesso accade, la crisi è stata occasione per mettere in atto soluzioni creative: «Da un lato c’è stata disponibilità da parte di alcuni piccoli e medi produttori di aumentare i punti di distribuzione: La Terra e il Cielo, ad esempio, ha iniziato a consegnare gli ordini in più punti diversi, evitando ai gasisti di doversi recare tutti assieme al punto di raccolta, che per alcuni era persino fuori dal proprio comune di residenza. Alcune persone, poi, si sono offerte di fare consegne a domicilio a famiglie o gruppi di famiglie che avevano particolari difficoltà. Anche alcuni produttori ora fanno la consegna a domicilio, cosa che prima non veniva fatta».
Davide Biolghini
Anche Nicola mi conferma una crescita notevole delle richieste nei confronti di molte aziende agricole medio-piccole. «Oltre a me – spiega – penso ai miei amici di Prati al Sole, che vista la situazione hanno provato a riorganizzarsi per fare consegna a domicilio: hanno finito tutta la produzione che avevano programmato per quella settimana in 24 ore. E in un raggio dall’azienda di due chilometri. E come loro molti altri: chi si è organizzato con gruppi Whatsapp, chi con gruppi Facebook. In momenti di crisi la creatività viene fuori, se si hanno gli occhi per vedere le opportunità».
Tuttavia non tutta l’agricoltura contadina sembra godere di vento favorevole. Molti produttori stanno soffrendo per la chiusura dei mercati all’aperto, compresi quelli contadini e rischiano di buttare parte del raccolto. Altri chiedono l’intervento dello Stato, con finanziamenti mirati a sostenere le aziende in difficoltà. Tuttavia la riapertura dei mercati e i finanziamenti sono soluzioni che possono tamponare l’emergenza, ma difficilmente possono migliorare la situazione a medio-lungo termine. «Ho l’impressione – continua Nicola – che stiamo provando a risolvere un problema non classico adottando soluzioni classiche. Non ci siamo mai trovati in una situazione del genere, è totalmente nuova, molte cose si sono stravolte. Il problema è cosa fare di questo stravolgimento. Se le uniche richieste dei piccoli agricoltori sono i finanziamenti pubblici e la riapertura dei mercati non abbiamo risolto niente. È come mettere un cerotto su un taglio che i parte dall’inguine e arriva fino al collo.»
Nicola Savio
È possibile prendere il meglio che questa occasione ci offre e cambiare la filiera alimentare? O la pandemia segnerà il tracollo dell’agricoltura contadina? «Secondo molti – chiosa Davide – ci sono tre scenari: o si cerca di tornare al prima, alla cosiddetta normalità, o ci sarà uno strapotere delle filiere lunghe dell’agroindustria, nonostante siano concausa dei cambiamenti climatici e in maniera indiretta anche della diffusione delle pandemie; o si coglie l’occasione di questo spazio per dare maggiore peso alle pratiche dell’economia sociale e solidale, dell’agricoltura contadina e dei sistemi di economia locale».
Cosa dobbiamo cambiare
Cosa possiamo fare per favorire la nascita di una filiera più resiliente ed equa del cibo? E quali aspetti dell’agricoltura contadina attuale dobbiamo lasciar andare affinché possa cogliere l’occasione che la storia le pone di fronte? «Un primo aspetto in cui è necessario un salto di qualità è la pianificazione. Noi agricoltori – mi spiega Nicola – non siamo abituati a pianificare. L’idea di base è sempre stata: io produco, poi se vendo bene, altrimenti mi arrabbio e chiedo gli aiuti allo stato. Aiuti che per i piccoli, fra l’altro, si sono fatti negli anni sempre più risicati e inarrivabili. Ma così viene meno l’obiettivo vero dell’agricoltura, che sarebbe quello di sfamare le persone. Per tornare a svolgere un ruolo centrale e utile la piccola agricoltura deve ritrovare la capacità di pianificare la produzione».
Matteo Mazzola dell’Azienda agricola Iside con uno degli attrezzi agricoli per una agricoltura a bassissimo impatto che Nicola Savio vende tramite Officina Walden.
Un secondo aspetto da lasciar andare, sempre secondo Nicola, sono le colture iperspecializzate. Se l’agroindustria produce cibo tutto uguale su larga scala per sfamare la massa, un ramo della piccola agricoltura ha ripiegato (ingolosita dai finanziamenti) sul produrre prodotti di alta qualità per piccole nicchie benestanti. Anche in questo caso vengono a galla tutti i limiti delle politiche agricole: «L’agricoltura dovrebbe essere l’apice della resilienza: diversificare, in modo che se non va bene una coltivazione ne va bene un’altra. E se proprio va malissimo mangio io e dopo vediamo. Invece i finanziamenti ti portano a fare scelte sbagliate. Fra l’altro vista dall’ottica di questi piccoli produttori adesso sarà dura: se hai piantato solo prodotti di nicchia che vendi a caro prezzo, chi te li compra adesso che siamo in piena crisi di liquidità?»
Quali modelli per il futuro?
Quali soluzioni abbiamo nel cappello, o per meglio dire nel paniere? «Più che soluzioni – continua Nicola – possiamo osservare i modelli che stanno funzionando e prenderne spunto. Penso alle CSA (Comunità che supporta l’agricoltura, un modello comunitario di gestione dei terreni e di pianificazione della produzione, ndr), o a soluzioni simili. In generale i modelli che stanno funzionando di più sono quelli che costruiscono una relazione diretta e continuativa con i clienti o soci, adattandosi alle loro esigenze. Spesso si vendono dei pacchetti annuali, che prevedono una fornitura settimanale.»
Anche i Gas si stanno muovendo in direzione simile, e da tempo è in corso un ripensamento del loro modello per trasformarli in qualcosa di più vicino a una Csa. Mi dice Davide: «Da tempo stiamo proponendo dei patti tra consumatori consapevoli e produttori responsabili, in cui cambia la relazione fra i due soggetti, che attualmente è ‘liquida’ e spesso sbilanciata a favore dei gasisti che hanno maggiore potere e scelgono di volta in volta quali prodotti acquistare, quando e come. Rispetto a questo sistema di relazioni il patto impegna ambedue le parti: il gas ad acquistare una certa quantità di prodotti, magari anche con anticipo di una quota, il produttore a rendere trasparente ed equa la formazione del prezzo».
La Terra e il Cielo
Attualmente Co-energia, l’associazione di Gas e Des che si occupa di patti e convenzioni nel campo della produzione del cibo e della energia (di cui Davide è presidente) gestisce due patti principali, uno storico con La Terra e il Cielo, e l’altro più recente con i piccoli agricoltori campani della La Buona Terra – in quest’ultimo caso il patto prevede anche l’anticipo del 40% rispetto agli ordini previsti per garantire i piccoli produttori nella semina e nella coltivazione dei prodotti. «La cosa che mi sembra molto importante sottolineare – continua Davide – è che i patti alimentano un fondo di solidarietà che permette di finanziare progetti di economia solidale.»
C’è poi l’ultimo sviluppo dei gruppi d’acquisto, i condomini solidali, nati da un’iniziativa della Rete di economia sociale e solidale di Roma. Sono condomini che si organizzano per farsi consegnare gli ordini a domicilio dai produttori. Per il produttore diventa più conveniente perché accorpa vari ordini in un’unica consegna, mentre per i condomini può diventare un modo per rafforzare le relazioni di vicinato. «Ne esistono già alcuni attivi a Roma e adesso abbiamo anche una mappa che geolocalizza tutti i punti di ordine/consegna/ritiro dei condomini.» L’idea del condominio sembra interessante anche per la possibilità di coinvolgere persone che normalmente non si iscriverebbero a un gas, ma che potrebbero essere ugualmente interessate a una fornitura di cibo locale e di qualità. Fonte: https://www.italiachecambia.org/2020/05/agricoltura-contadina-filiera-corta-possono-salvarci-riusciranno-salvare-se-stesse/?utm_source=newsletter&utm_medium=email
Ricreare la comunità partendo dalla terra e dai suoi prodotti. Questo l’obiettivo degli ideatori di Tularù, azienda agricola in provincia di Rieti basata sull’agricoltura organica rigenerativa, dove si coltivano grani antichi per la produzione di pane e farine da essi ricavati. “La parola Tularù era il richiamo che mia nonna usava nella fattoria di campagna. Quando eravamo insieme con i vicini di casa, mentre si facevano i lavori in campagna, giunta l’ora di pranzo la nonna ci chiamava dicendo a gran voce ‘Tularùùù!’. Un momento che mi è rimasto nel cuore, che dà il nome a questo progetto che si sviluppa proprio sullo stesso terreno dove i miei nonni lavoravano la terra e che mira a recuperare quello spirito che avvolge il richiamo della nonna: ricreare una socialità e una comunità intorno al concetto della condivisione”.
Dalle parole di Miguel Acebes Tosti, ideatore insieme alla moglie Alessandra Maculan del progetto Tularù, partiamo alla scoperta di questa nuova storia settimanale che ci porta in provincia di Rieti, precisamente a Ponzano di Cittaducale.
Tularù è un’azienda agricola basata sull’agricoltura organica rigenerativa, dove si coltivano grani antichi per la produzione di pane e farine da essi ricavati. L’azienda sorge nel luogo che era la fattoria dei nonni di Miguel, poi abbandonata dopo la loro scomparsa e recuperata ora dalla coppia. Per rendere sostenibile e coerente il progetto con l’idea di partenza, Tularù ha chiuso la filiera con un pastificio e un panificio di Rieti (rispettivamente il pastificio “Chitarra Antica” e il panificio “La Mattera”), a cui vende la propria farina, oltre a produrre internamente il pane per il Gruppo di Acquisto Solidale di Rieti. Trovandosi in terreni grandi ben quarantacinque ettari, adatti al pascolo sostenibile, all’interno di Tularù troviamo anche una mandria di undici vacche e pollame con pollai mobili che contribuiscono anch’essi alla rigenerazione del terreno. Oltre ai prodotti dell’orto e alle conserve ricavate dal selvatico dei boschi circostanti. Il valore aggiunto del progetto non si manifesta solo in ciò che fa, ma per come lo vuole fare: tramite l’agricoltura “abbiamo preso la decisione di prenderci cura di questo posto” spiega Miguel “cercando di utilizzarlo per ri-creare e unire la comunità che vive questi territori, che è quello che ci interessa davvero di questo progetto, senza per questo intaccare la sostenibilità del progetto”.
Ricreare la comunità per un’economia di qualità
Il grano è un elemento importante nella storia di Tularù, non solo per l’affascinante nostalgia romantica dei tempi passati ma per la funzione sociale e culturale che il cibo ha, di cui il grano rappresenta un collante importante. “Li dove eravamo noi si coltivava grano perché fondamentale per l’alimentazione e l’economia delle persone del luogo. Poi l’avvento dell’industrializzazione ha spopolato questi terreni, che non rendevano a livello di quantità. Tutti i processi di produzione di cibo hanno un forte valore sociale e culturale, e le comunità distrutte da questo fenomeno ne hanno pagato il conto. Abbiamo deciso di mettere il grano, specificamente alcune varietà di grani antichi, non per finalità sentimentali o romantiche, ma in realtà ci siamo resi conto che ripartire dal grano significava andare alla riscoperta di questi valori comunitari che sono il fulcro del nostro progetto. Noi comunque vogliamo anche vivere di ciò che facciamo, dunque era obbligatorio unire le forze con altre realtà del territorio della pianura di Rieti per chiudere la filiera con un pastificio e un panificio cittadino, con il quale ci siamo messi d’accordo sul prezzo della farina finale e ciò ci rende possibile rendere sostenibile economicamente questo progetto. I grani antichi non sono una moda, sono la testimonianza che la qualità permette di chiudere la filiera con altre persone, questo crea un altro tipo di fare economia: circolare, locale, rispettosa del territorio. Questo vuol dire prendersi cura del territorio, Rieti in questo ha un territorio vergine che aiuta la costruzione di queste filiere. Siamo felici di essere partiti senza un mutuo, i lavori li stiamo facendo sotto forma di laboratorio che permette di finanziare parte delle spese, stiamo ingranando sempre di più con la farina e il GAS”.
Per sottolineare l’importanza culturale e sociale del cibo, ogni estate Tularù organizza una Festa della Mietitura: si tratta di una festa di tre giorni dove le persone anziane del luogo incontrano giovani o meno e insieme si impara e si mette in pratica la mietitura, per poi passare a dibattiti e incontri legati al concetto di sostenibilità. “In generale abbiamo sempre cercato di far incontrare gli anziani del luogo esperti di mietitura a mano, che ce l’hanno insegnato, con più giovani possibili – racconta Manuel – per lavorare tutti insieme ai campi e poi la sera festeggiare insieme, come nella famiglia dei miei nonni raccontata all’inizio. Questo è il collante ed è collegato a quello che ti dicevo prima: occasione di socialità costruite intorno all’agricoltura, che ri-creano comunità. La terra e i suoi prodotti uniscono tutti gli esseri viventi”.
L’associazione Social Valley e la struttura interna
Nell’ottica di ricreazione della comunità del luogo e di esaltazione del valore sociale del territorio reatino, Tularù è uno dei motori della creazione dell’Associazione Social Valley che conta come soci alcuni dei maggiori rappresentanti delle associazioni del luogo. È grazie a questa associazione e alla sinergia scatenatasi al suo interno che Miguel e Alessandra hanno trovato alcune delle risorse importanti per lo sviluppo di Tularù: “All’interno di Social Valley c’è Matteo Mancini di Deafal, una ong che si occupa di diffondere l’agricoltura Organica Rigenerativa che noi mettiamo in pratica, che è il nostro agronomo. Fa parte dell’associazione anche Valeria Galluzzi, architetto specializzata in bioarchitettura insieme alla quale abbiamo ripensato un po’ tutta la struttura cercando di renderla sostenibile energeticamente: abbiamo realizzato la fognatura con vasca di fitodepurazione, con l’acqua depurata che viene usata per irrigare frutteto e orto. Abbiamo realizzato poi una stufa pirolitica per riscaldare la sala da pranzo, intonacando una parete in terra cruda che assorbe il calore della stufa. Abbiamo creato le compost toilet, fatto il thermocompost per la produzione di acqua calda. Tutto quello che è scarto qui diviene una risorsa, uno dei principi dell’Agricoltura Organica Rigenerativa che mettiamo in pratica”.
La collaborazione con Deafal: l’allevamento razionale Voisin
Tularù si trova in luoghi adibiti al pascolo, come illustrato in apertura ospita una mandria di undici vacche e del pollame. Anche su questo aspetto la fruttuosa collaborazione con Deafal ha portato alla sperimentazione di un tipo di allevamento sostenibile, il pascolo razionale Voisin. “È un tipo di pascolo che raggruppa gli animali in piccoli settori giornalieri, che vengono concimati e puliti per bene fino a che passano al settore successivo. In questo modo quel settore crescerà più vigorosamente, perché la materia organica di quel terreno sta ricrescendo molto di più che in un pascolo brado normale. Riusciamo così ad alimentare integralmente le vacche con erba d’estate e fieno in inverno. Dopo le vacche abbiamo polli e galline con un pollaio mobile, che aiutano ad aprire gli escrementi delle vacche e si nutrono delle larve qui insediate. Il pascolo cresce ancora più vigorosamente grazie all’apporto della pollina, che arricchisce il terreno”.
Alessandra e Miguel: cambiare vita per Tularù
Prima di arrivare a Tularù, Alessandra e Miguel hanno cambiato la propria vita, inserendosi in un contesto diverso rispetto a dove erano cresciuti ma che lgi ha dato la spinta per associare il cibo all’aspetto culturale e sociale. La coppia lavorava con diversi ambiti professionali nel nel mondo della progettazione culturale e nella gestione di eventi. Fu grazie ad un bando, il “ReStartApp” della Fondazione Garrone, e ad alcuni risparmi privati che nel 2014 Miguel e Alessandra poterono iniziare a sviluppare la loro idea e renderla praticabile.
“Abbiamo da subito restaurato e cambiato destinazione d’uso ad una delle vecchie stalle del casale, trasformandola in un laboratorio di trasformazione che è un po il cuore economico dell’azienda dove realizziamo numerosi prodotti. Il cambio è stato bello farlo insieme ai figli, per vederli crescere in aperta natura; questo mi riporta ai miei ricordi di bambino, siamo soprattutto felici di regalargli un’infanzia così ricca di stimoli. Anche a livello personale, nonostante l’oggettiva fatica e le problematiche da affrontare, la soddisfazione la sera è enorme e non è paragonabile allo stress vissuto in passato, siamo molto felici”.
Agrocepi chiede che il Governo mantenga le promesse: servono regole e incentivi certi al biometano per raggiungere i target europei
Agrocepi chiede che il Governo mantenga le promesse: servono incentivi certi al biometano per raggiungere i target europei. Le promesse del Governo sul decreto interministeriale sugli incentivi per il biometano prodotto dalle aziende agricole e zootecniche devono diventare realtà, prima possibile. Lo chiede Agrocepi, Federazione Nazionale Agroalimentare che fa capo a CEPI (Confederazione Europea Piccole Imprese). Gli obiettivi europei prevedono che, entro il 2020 (che è alle porte), il biometano rappresenti almeno il 10% del totale dei carburanti utilizzati nel nostro paese. Che, in pratica, vuol dire che l’Italia dovrà produrre almeno 1,1 miliardi di metri cubi di biometano da fonte agricola e zootecnica.
“Un settore fondamentale per le imprese agricole e zootecniche del nostro Paese – afferma l’associazione – è in attesa di una risposta non più procrastinabile. E’ fondamentale che le istituzioni preposte gliela diano al più presto possibile, Agrocepi insiste sull’urgenza di questo provvedimento“. Il Ministero dello Sviluppo economico aveva affermato, nel corso della manifestazione di settore Biogas Italy a febbraio 2017, che il decreto interministeriale sugli incentivi al biometano sarebbe arrivato probabilmente entro l’estate.
“L’estate si avvicina e non vi è ancora traccia del decreto interministeriale sul biometano. Ma le imprese agricole e zootecniche hanno bisogno di certezze“, ribadisce #Agrocepi. Oltre agli incentivi il decreto dovrebbe portare alla possibilità, per le aziende produttrici di biometano, di immettere il carburante direttamente nella rete nazionale del gas (previa depurazione).
Ciò vuol dire, per le imprese, fare investimenti per il futuro e, di conseguenza, servono certezze sul quadro economico e normativo da qui ai prossimi anni: “Viviamo una fase nella quale le imprese agro zootecniche hanno bisogno di maggiori certezze dal punto di vista normativo e delle incentivazioni – afferma il responsabile del Dipartimento agro energie di Agrocepi, Francesco Cicalese – perché stanno programmando i loro investimenti, anche quelli energetici, e sarebbe auspicabile una definitiva approvazione del decreto interministeriale sulle incentivazioni alla produzione di biometano, per consentire scelte aziendali libere e non frutto dell’incertezza“.
Secondo Agrocepi il potenziale di crescita del biometano italiano può arrivare in breve tempo anche oltre gli obiettivi europei, raggiungendo il 15% del fabbisogno nazionale di gas naturale. Gli investimenti sono già iniziati: 4 miliardi di euro sono stati spesi negli ultimi anni per creare 1.200 impianti di produzione del biogas, con una ricaduta occupazionale pari a circa 12 mila nuovi posti di lavoro. Con queste premesse, e col giusto decreto, l’Italia può produrre in casa a partire dagli scarti agricoli e zootecnici una bella fetta del metano che consuma. I consumi di metano, inoltre, nei prossimi anni cresceranno in Italia e in tutta Europa in conseguenza della maggior diffusione, prevista anche dall’Unione Petrolifera, dei veicoli alimentati a metano.
Vendita diretta di prodotti a chilometri zero, fattorie didattiche e reinserimento lavorativo di persone svantaggiate: questi alcuni dei progetti che saranno realizzati nelle prime 3 terre pubbliche dell’agro romano assegnate ai giovani con un bando dell’amministrazione capitolina. A dicembre un nuovo bando
Daniel Burrai, Mario Sonno e la cooperativa agricola CO.R.AG.GIO. faranno nascere tre nuove aziende agricole nella tenuta Redicicoli, a Tor de’ Cenci e al Borghetto San Carlo. Sono loro infatti i vincitori del primo bando di Roma Capitale per l’assegnazione di terre pubbliche e immobili rurali in disuso a giovani sotto i 40 anni, proclamati questa mattina dal sindaco di Roma Ignazio Marino, dal vicesindaco Luigi Nieri, dall’assessore all’ambiente Estella Marino e dal presidente del III Municipio, Paolo Marchionne. Tra le attività che verranno realizzate nei tre lotti, affidati per 15 annidall’Amministrazione Capitolina, la vendita diretta di prodotti a chilometri zero, fattorie didattiche e centri estivi per ragazzi, orti sociali, reinserimento lavorativo di persone svantaggiate, un agri-ristoro e un “parco avventura”.
“È una splendida giornata per celebrare una promessa fatta in campagna elettorale”, ha commentato il sindaco di Roma Ignazio Marino che ha simbolicamente donato ai vincitori tre sacchetti di semi biologici di grano tenero. “Invece di mettere nuovi blocchi di cemento nel nostro verde, abbiamo deciso di avviare un percorso che valorizzi l’Agro romano e il lavoro dei giovani. È un’occasione importantissima e queste prime terre assegnate disegneranno il percorso che il Comune vuole prendere”. Sono stati 104 i progetti presentati, l’80% dei quali proposti da giovani alle prese per la prima volta con un’idea imprenditoriale. Il 34% è costituito da donne. Per l’assessore Estella Marino “l’assegnazione di queste terre per costituire nuove imprenditoria giovanile è una scelta vincente, che va nella direzione del recupero del territorio degradato”. Il bando, pubblicato a maggio scorso, ha assegnato i primi 3 lotti per un totale di 83 ettari di terreno agricolo inseriti in aree di pregio dell’Agro Romano, comprensivi di un casale o di strutture rurali da recuperare. “Entro dicembre presenteremo il prossimo bando con altre quattro aree, complessivamente per altri 95 ettari”, ha poi annunciato il sindaco Marino, mentre il vicesindaco Luigi Nieri ha spiegato che “la prima, di 25 ettari, si trova nel Municipio XI, due aree sono nel Municipio III, rispettivamente di 10 e 40 ettari e la quarta area, di 20 ettari, è nel Municipio IV”. Ecco nel dettaglio le prime 3 terre assegnate e i relativi vincitori, con cui è prevista nei prossimi giorni la stipula di un contratto d’affitto quindicennale e di un atto d’obbligo per definire controlli e modalità di attuazione dei progetti agricoli, mentre un sostegno al recupero degli edifici è già previsto nel Bilancio 2014 di Roma Capitale.
La Tenuta Redicicoli, inserita nella Riserva naturale della Marcigliana, è stata assegnata a un giovane di 21 anni, Daniel Burrai, sostenuto da un partenariato composto da aziende agricole e cooperative sociali già operanti nel Municipio III. Il progetto vincitore per l’area di Tor de Cenci, facente parte della Riserva naturale di Decima, è stato proposto dal trentatreenne Mario Sonno, espressione di un partenariato co-promotore che ha i suoi punti di forza nella cooperazione sociale per il reinserimento, con il lavoro agricolo, di soggetti svantaggiati. Si è aggiudicato il lotto di Borghetto San Carlo, area di grande pregio all’interno del Parco di Veio, la cooperativa agricola CO.R.AG.GIO., costituita da 15 giovani agricoltori. La cooperativa insieme alle coltivazioni orticole e al frutteto biologico, si è impegnata a far nascere una bio-agriturismo lungo il percorso della via Francigena e un parco avventura per i più piccoli, con innovative modalità di fruizione della campagna.
Presentato al campidoglio il progetto “Mense a km0”. Nelle scuole romane saranno distribuiti cibi genuini provenienti dalle aziende agricole prossime agli istituti e tutti gli alunni potranno imparare qualcosa di più sulla natura grazie alle gite mensili organizzate nelle fattorie
Roma è il comune con la più vasta area agricola d’Europa, addirittura 50mila ettari all’interno dei quali sono presenti decine di aziende. Alcune di queste, grazie alla continua espansione della città, sono ormai quasi inserite nel tessuto urbano e possono quindi consegnare i loro prodotti praticamente a km0. Nasce per questo il primo progetto di mensa scolastica a km0. Le aziende suddette consegneranno i proprio prodotti genuini alle scuole limitrofe riducendo drasticamente l’utilizzo di cibo conservato e praticamente azzerando l’inquinamento da trasporto.
A fare da aprifila il III Municipio di Roma dove la scuola Scuola Elementare Cinquina (Istituto Comprensivo Uruguay)parteciperà al progetto pilota. A presentare l’idea in Campidoglio gli assessori capitolini Paolo Masini (Sviluppo delle Periferie, Infrastrutture e Manutenzione Urbana), Alessandra Cattoi (Scuola, Infanzia, Giovani e Pari Opportunità) e il presidente del III Municipio, Paolo Marchionne, con la partnership Cooperativa Sociale Parsec Soc. Coop. e Cascina Global Service Srl. Il progetto non si fermerà alla sola fornitura di cibi freschi e stagionali essendo previsti anche percorsi educativi per consentire agli alunni di seguire le coltivazioni e la produzione grazie a gite mensili organizzate nelle stesse fattorie. Il progetto, che verrà presto esteso anche ad altre scuole periferiche, prevede anche l’installazione di macchinari per il compostaggio dei rifiuti organici presso le aziende agricole coinvolte.
Il Farmers’ Market di domenica nelle vie della moda di Milano, 100mila i visitatori secondo le stime di Coldiretti. Nell’iniziativa sono state coinvolte oltre cento aziende agricole da tutta la Lombardia
Oltre centomila persone. E’ questa la stima di Coldiretti sui visitatori che domenica 18 maggio, dalle 9 alle 19 hanno visitato il più grande farmers’ market all’aperto di Milano, nelle vie del quadrilatero della moda, da piazza San Babila a via Senato, lungo Corso Venezia, incrociando via della Spiga. Nell’iniziativa sono state coinvolte oltre cento aziende agricole da tutta la Lombardia. Miele, frutta, verdura, formaggi, vini, marmellate, fiori, biscotti, creme naturali, alcuni dei prodotti offerti ai consumatori. Oltre ai punti di ristoro con piatti freddi e caldi, gli atleti di una una task force dei “Mastini del grana” si sono sfidati per le Olimpiadi del cibo. Il tutto nell’ambito della quarta tappa del Lombardia Expo Tour, organizzato dalla Coldiretti Lombardia in collaborazione con la Regione.
“Abbiamo offerto a Milano l’occasione di trovare i prodotti del territorio prendendoli direttamente dalle mani degli agricoltori – ha spiegato Ettore Prandini, Presidente della Coldiretti Lombardia – perché è recuperando il rapporto diretto fra produttori e consumatori che si comprende appieno l’importanza dell’indicazione d’origine e di una chiara identificazione della provenienza della materie prime per garantire ai cittadini piena consapevolezza di quello che acquistano e quindi una vera libertà di scelta.”
WWOOF Italia mette in relazione i coltivatori con i viaggiatori intenzionati a condividere in convivialità le progettualità e gli stili di vita delle aziende agricole biologiche e biodinamiche
Condivisione, convivialità, apprendimento: fare un’esperienza di woofing significa impegnarsi e credere in un progetto culturale ricco, sia da parte delle fattorie ospitanti che dei viaggiatori. Spesso descritta come la possibilità di fare una vacanza a zero spese in fattoria, godendo di vitto e alloggio in cambio di qualche oretta di aiuto nelle attività dell’azienda agricola, il wwoofing è molto di più. Chi si propone come viaggiatore (WWOOFer) dev’essere motivato dalla volontà di fare un’esperienza formativa forte, di vivere il lavoro agricolo a 360 gradi, di condividere tutti i momenti della vita in fattoria, desco compreso: si tratta di entrare nel mondo dell’agricoltura naturale dalla porta principale, con l’intento di godere di un’esperienza di forte arricchimento umano e culturale, oppure in vista di mettersi alla prova in prima persona come agricoltore in una propria fattoria. D’altro canto le aziende agricole che si propongono come ospitanti (hosts) sono spinte dal desiderio di divulgare sia le migliori pratiche dell’agricoltura naturale, sia stili di vita decrescenti, di semplicità volontaria, di rispetto della natura nei suoi ritmi e nei suoi tempi, valori che i viaggiatori possono fare propri e riproporre, adattandoli, in contesti di vita urbani – si pensi solo al bagaglio di tecniche di autoproduzione che è possibile apprendere in una fattoria.
WWOOfing: come si fa? Ma come si fa a fare wwoofing? Come si mette in contatto domanda e offerta? «WWOOF è una rete internazionale di associazioni che intendono sostenere lo sviluppo della cultura e della pratica dell’agricoltura naturale – ci spiega Claudio Pozzi presidente dell’Associazione WWOOF Italia. La nostra associazione è nata come movimento informale all’inizio degli anni Novanta e si è costituita come associazione nel 2000. Attualmente WWOOF Italia è un’associazione di promozione sociale che mette in relazione i coltivatori con i viaggiatori intenzionati a condividere in convivialità le progettualità e gli stili di vita delle aziende che vanno a visitare. Chi s’iscrive contatta direttamente le aziende che più lo stimolano e stabilisce con loro un periodo di convivenza e le modalità dello scambio a seconda delle attitudini e degli interessi. I soci viaggiatori hanno, attraverso Caes, una copertura assicurativa per infortuni e RC. La lista italiana WWOOF include aziende agricole di piccole e medie dimensioni, biologiche e biodinamiche: alcuni soci vivono delle loro coltivazioni e vendono i loro prodotti, mentre altri vogliono solamente essere autosufficienti, o semplicemente coltivare i propri ortaggi biologici. I soci host non si aspettano dal WWOOFer conoscenza dei lavori agricoli al momento dell’arrivo in azienda: le aziende che conducono sono dei centri educativi! Ciò che si aspettano è la voglia d’imparare, di collaborare alle attività, la capacità e la curiosità di adattarsi al loro stile di vita».
Perché scegliere il WWOOfing Con 600 aziende associate e circa 4500 viaggiatori nel 2012, l’esperienza del WWOOFing sembra suscitare sempre più interesse, anche se la maggior parte dei WOOFers è di provenienza estera: sempre nel 2012 l’Associazione WWOOF Italia ha registrato circa 1800 viaggiatori provenienti dall’Italia, e i restanti 2700 circa dal resto del mondo, con una preponderanza dagli Usa. «WWOOFing – continua Claudio Pozzi – non è una vacanza economica. È un’organizzazione volontaria per diffondere la cultura e la pratica dell’agricoltura naturale, per sostenere i produttori nel loro impegno. Se state cercando solamente un modo per viaggiare e vedere l’Italia in modo facile WWOOF non fa per voi. WWOOFing è un’esperienza che rende possibile uno scambio umano e culturale fra persone di diversa provenienza: la pratica concreta dei ritmi della vita agricola permette di vivere in prima persona gli sforzi che i piccoli agricoltori fanno per ricostruire un buon equilibrio fra l’uomo e la natura garantendo la disponibilità di cibo sano. La più importante qualità di un WWOOFer è quello di potersi inserire e adeguare a tutte le diverse attività che si svolgono in ogni fattoria. Gli hosts si aspettano un’interesse generale per quello che fanno, e per il modo in cui vivono, che partecipiate volentieri a sostegno del loro progetto, dando anche una mano con i compiti di casa (lavare i piatti o cucinare) per non creare più lavoro per il vostro host. Tutti gli host sono molto impegnati e molti vivono con poche risorse. È importante accettare e rispettare questo fatto. L’host deve garantirvi vitto e alloggio (potrebbe esserci una stanza per i viaggiatori in fattoria, ma potrebbe essere anche solo una tenda, oppure la tenda dovreste portarla voi), dovrebbe stare con voi più spesso possibile insegnandovi qualcosa sulla produzione, sulla vita dell’agricoltore naturale e sulle tecniche da lui adottate. È molto probabile che vi troverete a fare da soli alcune cose, a volte un po’ noiose, l’agricoltura è anche pratica Zen!».
Informazioni:wwoof.it – il sito dell’associazione WWOOF Italia, wwoof.org – il sito della rete internazionale WWOOF
“Abbiamo abbandonato il nostro concetto di qualità per sostituirlo con dei parametri che vanno bene per le macchine e non per l’essere umano. È stato come vendere la nostra evoluzione per un piatto di lenticchie”.
“Il cibo non è una merce. Il cibo non è un insieme di nutrienti chimici. Esso è una rete di rapporti tra un gran numero di esseri viventi, umani e non umani, tutti dipendenti gli uni dagli altri e tutti radicati nel terreno e nutriti dalla luce del sole (Pollan). Ma questo – come sostiene “Terra e LiberAzione” – è possibile solo ad un’azienda agro-energetica che appartenga ad un territorio che abbia la sovranità alimentare e l’indipendenza”. La terra e l’uomo che la coltiva sopravvivono, ormai da tempo, a laceranti crisi che lasciano segni profondi non solo nella nostra economia ma anche nelle nostre coscienze. Gli squarci provocati dagli uomini che hanno avuto in mano le sorti politiche dell’arte di coltivare il suolo e l’illusione contadina di abbandonare la passione per la terra ed avvicinarsi al profitto praticando la strada larga della chimica e dell’inquinamento, hanno provocato la diaspora nelle campagne e la disgrazia nella popolazione rurale. La ruralità spiccata della nostra Isola digerì il primo impatto con tutto ciò che arrivò da Oriente per consegnarlo ad un Continente altrimenti affamato, divenendo pilastro del Mediterraneo. Tempo perso. Secoli di storia e di esperienza svenduti, ai giorni nostri, per poche palline colorate da banditori idioti su mercati che non controllano più o che non possono più controllare. È la Morte. Ma la morte è una lunga attesa; essa dà all’uomo sempre l’occasione di convertirsi, di ritrovarsi, di ribellarsi all’inganno prima di passare oltre la linea di demarcazione. Allo stato attuale sembra incombere il Pericolo di perdere le nostre aziende agricole, di perdere la nostra Terra, per sempre. E questo è il Pericolo.
L’occasione di cambiamento e salvezza dove sta? Innanzitutto, dobbiamo essere coscienti che uscire dalla crisi non è solo un fattore economico, ma è principalmente un fattore umano. L’uomo senza la conoscenza non è un attore, ma un servo, uno schiavo. Noi, senza nemmeno accorgercene siamo divenuti schiavi di quelle transnazionali alle quali interessa solo il Profitto, schiavi dei Poteri Forti che hanno provocato fame e sradicamento nel mondo distruggendo intere Civiltà e creato in noi la paura del diverso, di tutto quello che proviene dal mare, dal grano canadese, dall’ortofrutta africana ecc. La paura è giustificata perché questi prodotti hanno distrutto i nostri mercati, hanno inquinato le nostre mense, lasciano invenduti i nostri prodotti. Ma il potere a questi prodotti – non sempre e necessariamente cattivi – lo abbiamo dato noi, perché abbiamo sostituito la nostra ricca biodiversità con lo standard delle multinazionali. Abbiamo abbandonato il nostro concetto di qualità per sostituirlo con dei parametri che vanno bene per le macchine e non per l’essere umano. È stato come vendere la nostra evoluzione per un piatto di lenticchie. Qualcuno propone una Riforma Agraria, noi proporremmo piuttosto una Riforma Agronomica e Agroenergetica. Ne riparleremo. Il problema non nasce in questi ultimi anni, ma, in tempi recenti, si profilò già alla fine della II Guerra Mondiale, quando le fabbriche di munizioni rimasero con i magazzini pieni di Nitrato d’Ammonio che era stato utilizzato per fabbricare gli esplosivi. Dopo una breve ricerca i fabbricanti di armi scoprirono che il solito amico Fritz, Haber di cognome, un tedesco di origine ebraica, aveva capito, nel 1906, come dare il Nitrato d’Ammonio ai vegetali. Costui aveva anche inventato i gas mortali sparsi nelle trincee durante la I Guerra Mondiale e lo Zyklon B usato per gasare gli ebrei nei campi di sterminio. Testati, poi, durante la guerra del Vietnam e usati come Defolianti per scovare i terribili Vietcong, che difendevano le loro risaie, nascondendosi nella vegetazione delle loro foreste. Da qui vennero fuori i gloriosi diserbanti che nelle pubblicità vengono definiti come “protettori delle colture dai loro nemici naturali”.
Se poniamo attenzione vediamo, quindi, che per fare agricoltura stiamo utilizzando due “sistemi di distruzione di massa”. La natura ringrazia insieme al consumatore per la strage “diferita” che stiamo provocando. Differita perché non si muore subito ma dopo avere consumato una buona dose di prodotti farmaceutici per curare la salute rimpinguando anche le casse dell’industria farmaceutica che qualche mese fa voleva inoculare nel sangue della popolazione mondiale qualche schifezza a pagamento, con tanto di promozione ministeriale. Forse potremmo abbassare pure l’IRAP se mangiassimo sano. Ciò non bastò, perché l’industria non si accontentò di vendere i suoi “elisir”, ma rivolse l’attenzione anche alla cosa più importante per il contadino: il seme, “a simenza”. A questo punto nasce l’altro inganno. Con il pretesto di risolvere la fame nel mondo gli “scienziati” attivano una serie di mutagenesi indotte per modificare il mais, il grano tenero poi e per ultimo il grano duro. Così il lavoro svolto dai contadini negli ultimi 10.000 – 15.000 anni, che selezionarono, “con la loro ignoranza”, centinaia di popolazioni di frumento, rispettandone la natura e adeguandole alla moltitudine di microclimi, consegnando alle generazioni future un tesoro di biodiversità vegetale, venne messo al bando per promuovere il risultato ottenuto “dalla scienza” in una notte del 1974 con l’ausilio di un cannone ai Raggi Gamma del Cobalto inventandosi le Varietà di grano nanizzato – iperproduttivo che necessita di nitrato d’ammonio, di diserbanti e di antifungini, la cui caratteristica, oltre a quella dell’iperglutine è quella di avere perduto la diversità ed acquisito l’omogeneità. “Ovviamente le nuove varietà sono meno capaci di rispondere adattativamente ai futuri cambiamenti climatici o alla comparsa di parassiti” – disse il Prof. Luigi Monti, durante la sua Laudatio Academica all’Università degli Studi di Napoli Federico II Facoltà di Scienze Biotecnologiche, in occasione del Conferimento della Laurea honoris causa a Gian Tommaso Scarascia Mugnozza, l’artefice della mutagenesi indotta applicata sui cereali nel suo progetto Campo Gamma, – ed infine aggiunse: “Esiste, quindi, una contraddizione tra il miglioramento genetico e la conservazione della biodiversità, nel senso che le nuove varietà riducono la diversità genetica presente nell’ecosistema”. Fu sincero però.
Lo stesso lavoro lo si sta facendo sull’umanità a discapito dell’identità e della diversità dei popoli. Le nostre aziende non hanno più la sovranità sul seme, quindi, non abbiamo neppure quella alimentare. E se il rapporto tra lo schiavo ed il padrone si risolve nella dazione o meno del cibo possiamo dire che oggi siamo schiavi. Credo, poi, che gli agricoltori non si rendano conto di cosa abbiano studiato a nostro danno. L’agricoltore vende il grano a 15 – 16 euro a quintale, ossia a 10 euro in meno di quanto gli costa produrlo. Eppure i raccolti continuano di anno in anno. Perché? Di fronte al prezzo basso, il contadino, per pagare le fatture, l’Inps, onorare i debiti e mantenere i figli ha una sola possibilità: produrre di più. Per aumentare le rese di qualche quintale per ettaro si impoverisce la terra, si usano anche terreni marginali e si abusa di concimi chimici. Ma più aumenta l’offerta di grano, più cala il prezzo. Spirale di follia. L’agricoltore continua a misurare il suo lavoro in base ai quintali/ettaro, facendo magari a gara con il circondario, mentre va verso il fallimento. Per il mercato, anche se fallisce un agricoltore, non è un problema, la terra continua a produrre. Inoltre, i contributi che vanno nelle tasche degli agricoltori, in realtà aiutano i compratori di grano a prezzi stracciati. Saranno sempre i governi a guidare l’agricoltura. Oggi, le nostre aziende agricole sono dei Centri di Trasformazione di Combustibili Fossili in Cibo. Un inganno, un bluff pare ci sia alla base di questa crisi. Consolidatosi nell’arco di pochi lustri, divenuto verità difesa con convinzione a tutti i livelli. Il cibo non è una merce.
Negli ultimi 30 anni è radicalmente cambiato il modo di produrre l’olio extravergine di oliva, uno dei prodotti più rappresentativi dell’agricoltura italiana. Soltanto un olio extravergine di oliva biologico o biodinamico può essere considerato commestibile e assolutamente privo di tracce di insetticidi e altri veleni.
Insieme al vino e al frumento l’Olio extravergine di oliva è il prodotto più importante e più rappresentativo dell’agricoltura italiana. Poche sono le aziende agricole che non lo producono e moltissime sono le famiglie contadine che ne traggono un reddito indispensabile. Il modo di produrre Olio dalle olive è radicalmente cambiato negli ultimi 30 anni, con l’inserimento ormai generalizzato della macinatura meccanica, in sostituzione delle vecchie macine a pietra che avevano il difetto di ossidare eccessivamente il prodotto della spremitura naturale delle olive. Partiamo come al solito dal campo. Troviamo oliveti in pianura, sul mare, sui laghi, in collina, in alta collina e persino in montagna fino a 800 metri sul livello del mare. Il mantenimento della fertilità del suolo da osservare, per definire un prodotto genuino è delegato oltre che all’uso di letame maturo, anche al sovescio di leguminose o di opportuni miscugli di piante adatte ad essere incorporate nel terreno per apportare con l’aiuto di microrganismi ed insetti utili i 30 elementi chimici che compongono ogni singola oliva. Le concimazioni chimiche che mettono a disposizione delle piante solo azoto, fosforo e potassio servono invece a squilibrare e a rendere suscettibili alle più disparate malattie queste piante così longeve, favorendo solo l’uso di rimedi “curativi” altamente tossici per le varie patologie che di conseguenza si manifestano. Molto importanti risultano infine le consociazioni e le naturalizzazioni degli uliveti, si è visto infatti che all’interno di un contesto ricco di biodiversità naturale gli antagonisti delle avversità viventi sono molteplici e ben equilibrati, mentre nelle monocolture intensive e molto estese sono praticamente assenti. Di solito l’altitudine influisce notevolmente sugli attacchi del parassita più temuto: la mosca olearia che, deponendo un semplice uovo nella piccola oliva acerba, permette alla larva che ne fuoriesce di cibarsene (in simbiosi con un batterio) deturparla e sporcarla causando notevoli danni al prodotto finale.
Salto a piè pari tutto lo scibile scontato dei danni provocati dagli oli di semi estratti con solventi chimici e dalle margarine proposte dagli anni 60 alle nostre massaie e ancora presenti come grassi deidrogenati in molteplici prodotti industriali, causa principale di obesità e disparate disfunzioni. Solo un Olio extravergine di oliva biologico o biodinamico risulta davvero commestibile e assolutamente privo di tracce e cocktail di insetticidi e anticrittogamici, mentre non è escluso che negli olii extravergini, anche IGP e DOP senza distinzione, possano ritrovarsi veleni, normalmente in tracce ammesse, ma comunque consistenti. Oggi sistemi collaudati basati sull’esperienza dell’agricoltore, la raccolta precoce, l’uso di trappole e prodotti che creano confusione sessuale consentono a questo prodotto di essere coltivato senza uso di veleni anche in pianura, rendendo l’olivicoltura convenzionale ormai obsoleta ed inutile. Per avere un prodotto perfetto servono comunque ancora tante attenzioni. Esistono aziende che portano in frangitura le olive il giorno stesso della raccolta. Esistono frantoi che non superano i 28 gradi di temperatura nelle operazioni di spremitura e non vanno oltre i 90 minuti nelle operazioni di separazione dell’olio dalla pasta ottenuta. Queste cure seguite: dall’evitare assolutamente il contatto con la plastica così detta “alimentare” spesso usata a bidoni e puntualmente corrosa e diluita da alcuni dei molteplici acidi presenti soprattutto nei primi giorni di olio nuovo, dal mantenimento dell’olio in bottiglie scure, dall’evitare il più possibile il contatto con l’aria, permettono di ottenere dei prodotti davvero speciali. Esistono infine olii monocultivar con sapori ben chiari e diversificati: favolosa Olivastra seggianese, olii saporiti di solo Olivo Frantoiano, olii indefinibili di Leccino o Moraiolo, Ogliarola barese o Cima di Bitonto, tutti adatti a restituire al nostro palato la capacità di sentire, degustare, osservatore con tutti i sensi quel condimento che previene le malattie, cura da sempre i più svariati squilibri e dona alle pietanze della nostra dieta un sapore che lo rendono insostituibile. Che non senso miscelarlo col falso, rettificarlo, contaminarlo chimicamente, squilibrarlo con fertilizzanti costosi ed inutili! Un prodotto così importante non può essere valutato in base al costo o alla semplice acidità che ne determina l’attuale classificazione in rancido, lampante (buono solo per le lampade ad olio) rettificato (manipolazione chimica e fisica), olio di sansa di oliva, olio d’oliva (un rettificato con 1% di vergine) , vergine (max 2% acidità libera) ed extravergine (max 0,8% acidità libera). Un buon olio si definisce in base agli aromi, ai profumi, alla presenza indispensabile di acidi grassi insaturi, di antiossidanti naturali, di clorofilla e di vitamina E, di enzimi e di vitamine B e C. Così come non ha senso valutarlo in base al costo unitario, molto più sensato calcolarne invece il costo giornaliero pro capite per rendersi conto che bastano pochi centesimi ben spesi per vigilare sulla salute di tutta la famiglia o sulla reale qualità della propria ristorazione. A voi questa volta il compito di riscoprirlo direttamente tra le aziende agricole bio più vicine, nelle molteplici individualità che lo producono, lo accarezzano, lo confezionano per non farlo mai mancare sulle tavole imbandite, dalle minestre dei bambini alle zuppe dei più anziani, dalle ricette dei grandi chef alle pietanze delle più anonime massaie, dai consigli dei nutrizionisti fino ai rimedi dei monaci camaldolesi, che da sempre in tutto il Mediterraneo non c’è miglior aiuto per far partire dalla cucina la salute di ognuno.