Wild Farm Cürnigia, la storia di “restanza” di due ragazzi che recuperano terreni incolti

Wild Farm Cürnigia è un’azienda agricola 2.0 dove la produzione di ortaggi viene combinata al turismo esperienziale, sfruttando tutte le potenzialità delle Cinque Terre. Non solo coltivare, quindi, ma mettere visitatori e territorio al centro dell’esperienza. Siamo stati a Corniglia, dove abbiamo conosciuto Lorenzo e Gianpaolo, gli ideatori di questo progetto che lega agricoltura naturale e turismo responsabile.

La Spezia – Mani nella terra, sguardo deciso e tanta voglia di fare qualcosa di concreto per il proprio territorio. Questo e molto di più è Wild Farm Cürnigia, un’azienda agricola spezzina che vuole far indossare ai borghi verde-azzurri delle Cinque Terre una nuova veste, più autentica e sincera. Quella che vi raccontiamo oggi è la storia di due ragazzi, amici da sempre, nati e cresciuti tra Corniglia e Monterosso, che hanno fatto della loro determinazione e “cocciutaggine” il proprio cavallo di battaglia. Durante il primo lockdown Lorenzo e Gianpaolo hanno resettato tutti i programmi post-laurea e i progetti di lavoro all’estero, per scoprire che il loro desiderio più grande era proprio sotto il loro naso. Pulendo e recuperando i terreni della mamma di Lorenzo e ricostruendo i tanti muretti a secco crollati, i due amici si sono resi conto di cosa volevano davvero fare “da grandi”: togliere la polvere a quell’immagine “disneyficata” delle Cinque Terre, per destagionalizzarle e farle conoscere per la loro genuinità.

LA WILD FARM DI CORNIGLIA

«Ci abbiamo messo un anno a capire cosa volevamo fare qui», spiegano Lorenzo e Gianpaolo durante la nostra chiacchierata, che potete vedere e ascoltare nel video qui sotto. I due sottolineano anche che «quando andiamo a mettere le mani nella terra sentiamo tutta l’influenza delle nostre radici». Ed è proprio da qui è nata la voglia di attivarsi per riportare agli antichi splendori questi terreni abbandonati.

Così, a partire da ottobre 2020, dopo aver ottenuto in comodato gratuito alcuni terreni agricoli, i due ragazzi hanno iniziato a rimboccarsi le maniche. «Lo scorso anno, a giugno 2021, abbiamo avviato una campagna di crowdfunding attraverso la quale siamo riusciti ad aprire la nostra azienda agricola e ad avviare il lavoro».

Oggi nei vari appezzamenti vengono coltivati diversi ortaggi locali e sono stati ripristinati antichi uliveti dimenticati. Proprio questo slancio ha dato il nome al progetto: lawild farming, “l’agricoltura selvaggia”, è un’alternativa all’agricoltura industriale, di massa, e si occupa di ripristino di terreni incolti. In questo tipo di agricoltura vengono piantate colture autoctone in consociazione e di supporto all’ecosistema naturale, sostenendo allo stesso tempo le catene alimentari locali.

Quando andiamo a mettere le mani nella terra sentiamo tutta l’influenza delle nostre radici

«Solo due anni fa abbiamo iniziato a ripristinare questo territorio, che era completamente abbandonato, senza competenze, ma con tanta voglia di fare e di imparare». Lorenzo e Gianpaolo ci spiegano che, nonostante le resistenze iniziali degli abitanti, tutti gli appezzamenti di terra che ora fanno parte della Wild Farm sono stati offerti da anziani del paese che glieli hanno affidati gratuitamente. E al contempo sono stati anche ripristinati 300 metri quadri di muretti a secco, il tutto in circa 6/7 mesi di lavoro. Il bello della Wild Farm è che i ragazzi si sono mossi su tutte le Cinque Terre, creando anche quello che loro chiamano un “orto dispensa”, dove i prodotti in stagione vengono raccolti e trasformati per prendere nuove forme: dalla marmellata di peperoncini al mix per pasta aglio, olio e peperoncino. «Abbiamo anche deciso di prendere qualche animale per farci compagnia e per aiutarci nel mantenimento dei terreni: ora a tenere pulite le nostre piane ci sono galline, anatre e oche e due caprette».

Le caprette della Wild Farm

«La gente di qui è diventata consapevole del nostro lavoro. All’inizio chiedevamo i terreni e, in linea con la mentalità locale, venivamo guardati con sospetto: a distanza di sei mesi, vedendoci lavorare tutti i giorni e con qualunque condizione climatica, sono proprio le persone che ora ci fermano per strada per proporci i propri terreni incolti. La mentalità delle Cinque Terre è forte, ma col tempo siamo riusciti a farci conoscere e ad apprezzare da tutti».

IL TURISMO ESPERIENZIALE

«Abbiamo in testa molti progetti e ci siamo muovendo in tante direzioni, perché non vogliamo occuparci di un unico settore», racconta Lorenzo. In questo senso la Wild Farm è 2.0, perché vuole abbinare l’agricoltura all’esperienza diretta. «Le Cinque Terre registrano tre milioni di visitatori ogni anno, per questo abbiamo pensato a un’azienda agricola differente, che combinasse la produzione al turismo. Qui è tutto compartimentato: comprendere invece la potenzialità di questo territorio significa sviluppare la capacità di toccare più ambiti contemporaneamente».

Per creare diversi pacchetti di esperienze, Lorenzo e Gianpaolo hanno selezionato alcuni professionisti del territorio, come guide escursionistiche e insegnanti di yoga, con cui condividono la stessa visione, per instaurare delle collaborazioni. «Vogliamo dare vita a un turismo nuovo, che metta il visitatore e il territorio al centro dell’esperienza».

L’obiettivo a lungo termine dei ragazzi della Wild Farm però è diventare attori rilevanti all’interno del territorio, per poter collaborare anche con il Parco Nazionale della Cinque Terre e i vari Comuni. Le loro attività vogliono anche favorire lo sviluppo sociale, portando avanti progetti educativi all’interno dell’orto didattico che hanno realizzato, per insegnare ai più piccoli il valore della stagionalità e, allo stesso tempo, della pazienza. Una dote che va coltivata e che Lorenzo e Gianpaolo hanno da vendere. Fonte: https://www.italiachecambia.org/2022/03/wild-farm-curnigia-restanza/?utm_source=newsletter&utm_medium=email

LaCasaRotta: da cascina abbandonata ad ecovillaggio diffuso dove ritornare a essere comunità.

Una casa “rotta” che riprende vita e viene trasformata in un progetto di ecovillaggio, ma anche una casa che “rompe” gli schemi per sperimentare la bellezza del crescere insieme. Si chiama, per l’appunto, LaCasaRotta e a Cherasco, tra le campagne piemontesi, è divenuto un progetto di vita comunitario che si ispira ai concetti di crescita felice e sovranità alimentare, per trovare insieme nuove “rotte”. Parcheggio, dopo essermi inerpicato per una stradina non segnata dai navigatori e raggiungo un casale. Qui mi accolgono dei bambini che subito mi indicano la direzione da prendere. Vedo dei campi coltivati e un uomo che sta trafficando con un marchingegno che non so identificare: capisco immediatamente che l’uomo in questione è Stefano Vegetabile, uno dei fondatori dell’ecovillaggio LaCasaRotta, nonché il responsabile della parte agricola. Ci presentiamo e subito entriamo in sintonia. Sono già stato qui, qualche mese fa, in occasione di un raduno di Italia che Cambia con degli attivisti cuneesi per creare, tramite tavoli tematici, un documento condiviso che racchiudesse sogni e progetti a cui dare vita sul territorio. In quell’occasione, però, non mi trovavo proprio qui. Ero in quella collinetta che vedo sopra di me, dove si trovano altre case, quelle da cui tutto ha avuto inizio, quelle che erano in effetti rotte e che hanno poi dato il nome al progetto.

Ci troviamo in Piemonte nella zona delle Langhe e, per la precisione, nei pressi della Morra Cherasco, in provincia di Cuneo. Allora, come oggi, mi sento a casa e ho la sensazione che per comprendere al meglio questi luoghi e i sogni che li ispirano ci vorrebbero giorni, forse settimane. Il progetto nasce nel 2011/2012 quando Claudio, Michela e Arianna decidono di fondare un’associazione per promuovere pratiche sostenibili di vario tipo. Nel giro di pochi mesi acquistano una cascina per avviare un progetto sociale e in quest’occasione si uniscono il nostro Stefano, con la compagna Ivana e il figlio Elia, insieme a un gruppo di amici con i quali stavano mappando il territorio. Ed ecco che nasce LaCasaRotta. La partenza è mossa dalla passione più che dalla programmazione. Stefano, infatti, ci confida che al momento dell’avvio del progetto non si sono fatti troppe domande, non si sono chiesti chi avrebbe messo più soldi o chi avrebbe messo a disposizione le case, ma sono partiti, mossi da un sogno e dall’entusiasmo di fare. E così LaCasaRotta viene aggiustata, grazie a una buona parte di lavori realizzati in auto-costruzione. Dopo alcuni anni, nel 2015, Stefano e la sua famiglia trovano una nuova casa, proprio quella dove ci troviamo ora, con 10 ettari di terreno disponibili vicino al fiume. Ed ecco che un nuovo grande passo viene fatto: quello verso il progetto agricolo, sfociato poi un’azienda chiamata “Nuove Rotte”.

Nelle due case e nelle abitazioni situate nei dintorni vivono diversi volontari, alcuni stanziali e altri di passaggio, nonché soci del progetto. Per questo, Stefano ci spiega che il loro è un ecovillaggio diffuso. Come ben specificato nel video che racchiude la loro storia e che qui vi proponiamo, il nome al progetto lo diedero proprio i bambini. Gli adulti, allora, coniarono lo slogan “CasaRotta: rompere le forme verso nuove rotte”.

«Vivere con un gruppo di persone così tanto tempo è una grandissima risorsa, permette di confrontarti su tantissimi argomenti, di rivedere il tuo rapporto con tutto ciò che ti circonda, dai bambini, agli aspetti ideologici, a quelli pratici. Ti confronti con persone che hanno la stessa età e in questo modo si crea una sorta di amore fraterno, con tutti i pro e i contro. Così il rapporto diventa più intimo, proprio come all’interno di una grande famiglia, dove l’accettazione e la comprensione reciproca sono un aspetto fondamentale.

Crediamo molto nel mutuo soccorso e quando uno di noi ha bisogno di un confronto o di un consiglio lo chiede e, se non riesce a parlarne, siamo abbastanza scaltri da comprendere le sue esigenze. Anche perché nelle incomprensioni e nei momenti di difficoltà tutto il gruppo ne risente e per noi è molto importante evitare situazioni che possano creare fraintendimenti».

Per questo motivo tutti gli abitanti dell’ecovillaggio si radunano una volta a settimana, per dare vita a dei cerchi operativi che permettano di confrontarsi sulla visione generale del progetto e almeno una volta ogni due o tre mesi organizzano un cerchio sul “come sto”. Come ci racconta Stefano, «ogni volta che una persona viene accolta nel gruppo, bisogna ricreare gli equilibri ed è molto interessante osservare le nuove dinamiche che vengono a crearsi».

La gente “arriva” alla CasaRotta attraverso le “solite” piattaforme: Wwoof, Work Away, RIVE e chi vuole rimanere per più tempo si impegna a dare un piccolo contributo. Come ci spiega Stefano, «questi sono progetti basati sull’autocoscienza e sull’auto responsabilità, se non c’è questa presa di responsabilità il progetto non sta insieme. Ed è importante che le persone accettino ciò, soprattutto quelle che hanno l’illusione che nell’eco-villaggio funzioni tutto in modo paradisiaco. Dopo un po’ cambia il concetto di libertà e responsabilità che ognuno ha e questo dà la possibilità di potersi esprimere ed essere se stessi».

Il cibo è al centro delle numerose attività che svolgono, oltre che il cuore dell’azienda agricola, che è biologica e in parte biodinamica. Qui vengono coltivati cereali, frutta e verdura. C’è una piccola vigna e ci sono galline e pecore che “tagliano l’erba” e concimano il terreno. La logica che muove le coltivazioni non è la massimizzazione della produzione ma la costruzione di ecosistemi equilibrati e sempre più ricchi.

«Vogliamo invertire completamente il pensiero di una agricoltura classica dove decido di produrre in base al mercato e tutto il sistema si adegua a questa domanda. Qui facciamo esattamente il contrario. Cerchiamo di creare un ecosistema che sia sempre più ricco, sempre più biodiverso e pieno di relazioni. Gli aspetti economici vengono in seguito».

Stefano è un antropologo e ha cercato di portare in questo luogo anche concetti e pratiche di agricoltura indigena. Dalle pratiche sono nati anche dei corsi e una vera e propria scuola, la “Scuola di agricoltura indigena”. Questo però non è l’unico corso che si tiene qui (o via web quando le restrizioni non lo concedono). LaCasaRotta, infatti, ospita molti corsi ed eventi organizzati da diverse associazioni, nonché progetti di valorizzazione del Fiume Tanaro da un punto di vista storico, antropologico e culturale. Anche qui, la parola chiave è eco-sistema. Riparto. E mentre viaggio, da solo, ripenso alle emozioni della giornata. Sono certo che tornerò in questo luogo intenso e vivo e che ancora una volta, in strade spesso non segnate dal navigatore, cuori nobili pulsano e costruiscono un mondo complesso e funzionante, biodiverso e sistemico, eco-sistemico.

In attesa di andare a visitarlo… non vi resta che guardare il video!

Fonte: https://www.italiachecambia.org/2020/12/lacasarotta-cascina-ecovillaggio-ritornare-essere-comunita/?utm_source=newsletter&utm_medium=email

Le piante dimenticate tutelano la biodiversità: la storia dell’azienda agricola Il tubero

Il tubero è un’azienda agricola spezzina che tutela la biodiversità, adottando tecniche di agricoltura ecocompatibile, e riscopre piante insolite e varietà antiche, creando piccole colture di nicchia. L’obiettivo è creare un mercato consapevole in modo da aumentare l’offerta e la qualità dei prodotti agricoli. La biodiversità è la varietà di animali, piante, funghi e microorganismi che costituiscono il pianeta. Molteplici specie che, grazie alla loro stretta connessione, creano un equilibrio essenziale per la vita sulla Terra. Secondo Andrea Pedrini, fondatore dell’azienda agricola ll HYPERLINK “https://www.italiachecambia.org/mappa/liguria/tubero/” tubero, le coltivazioni rispettose dell’ambiente sono fondamentali per conservare la biodiversità. «Sono sempre stato affascinato dalla biodiversità e dalla sua conservazione, — spiega Andrea — così è nata la voglia di far scoprire alle persone che un pomodoro non è solo rosso, così come il mais non è solo giallo! Anzi, fino a metà del secolo scorso c’era una grande varietà di biodiversità che oggi è quasi andata persa».

Le uova che raccoglie Andrea sono tutte di colore diverso perché le galline appartengono a razze diverse. Mi racconta come il mais, storicamente coltivato nella pianura padana con oltre cinquecento specie diverse, venne ridotto, dopo la seconda guerra mondiale, a poche varietà di multinazionali straniere, bisognose di grandi quantità di fertilizzanti, pesticidi e irrigazioni continue. Queste specie, definite ad “alto rendimento”, nella seconda metà del secolo scorso soppiantarono l’importante patrimonio genetico che si coltivava fino a quel momento. Una grande perdita di biodiversità. La sua è un’agricoltura naturale, il più possibile “pulita”, priva di sostanze chimiche. Per mantenere e ristabilire l’equilibrio ambientale, Andrea applica ai suoi campi la rotazione delle coltivazioni, in modo da non impoverire il suolo, studia metodi d’irrigazione che ottimizzino l’acqua ed esegue solo concimazioni organiche. In più, incentiva tecniche di lotta biologica: utilizza macerati naturali come insetticidi e, in caso di parassiti come gli afidi, per esempio, inserisce delle coccinelle, innocue per le piante, di cui non si nutrono, ma letali per alcuni insetti.

Le bietole arcobaleno
Questo è il motivo per cui talvolta le sue produzioni possono essere quantitativamente limitate, ma è forse l’equo rovescio della medaglia per avere ortaggi dal sapore genuino che rallegrano la tavola e incuriosiscono i bambini. Aumentare sempre di più l’offerta e la qualità dei prodotti agricoli sul mercato è uno dei prossimi obiettivi dell’azienda agricola. «Bisogna sensibilizzare i consumatori sul concetto di biodiversità, educandoli verso un’alimentazione più sana e consapevole: prestare attenzione alla provenienza, alla stagionalità e alla territorialità dei prodotti sono le basi fondamentali per riscoprire tutte quelle varietà che sono state abbandonate negli anni».

Il mais arcobaleno, varietà antichissima coltivata sin dai tempi degli indiani d’America
«Siamo ciò mangiamo – conclude – e bisogna avere rispetto del nostro corpo. Penso che ci sia un modo diverso di fare agricoltura, rispetto alle grandi coltivazioni». Un modo più rispettoso di noi e dell’ambiente.
Fonte: https://www.italiachecambia.org/2020/07/piante-dimenticate-tutela-biodiversita-azienda-agricola-iltubero/?utm_source=newsletter

Il recupero di un antico mestiere per la rinascita di specie ittiche a rischio estinzione

Recuperare un impianto abbandonato del più antico mulino lungo il fiume Arno per avviare un progetto di itticoltura volto alla conservazione di specie ittiche locali a rischio estinzione, tutelando così la biodiversità e valorizzando il prezioso patrimonio culturale e naturale del territorio. Questo il sogno da cui nasce in Casentino il progetto Antica Acquacoltura Molin di Bucchio di cui ci ha parlato Andrea Gambassini. Un giorno di alcuni anni fa due giovani amici pescatori si sono imbattuti in alcuni pesci bellissimi e rari nelle acque incontaminate alle sorgenti del fiume Arno. Da questo incontro è nato il sogno di fare della conservazione di queste specie ittiche di acqua dolce il loro lavoro, riportando in vita un antico mestiere ed un vecchio impianto di itticoltura abbandonato da oltre cinquant’anni. Siamo in Casentino ed inizia così la storia del progetto Antica Acquacoltura Molin di Bucchio avviato da Andrea Gambassini e Alessandro Volpone nel 2015, anno in cui li abbiamo incontrati e intervistati per la prima volta. Cosa è successo da allora? Ce lo racconta Andrea, che abbiamo risentito proprio qualche giorno fa.

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Ricordaci come tutto è nato

Tutto è iniziato dal nostro proposito di ristrutturare un antico impianto di itticoltura lungo le sorgenti dell’Arno abbandonato ormai da cinquant’anni. L’impianto fa parte dello storico Molino di Bucchio, primo mulino dell’Arno costruito nel 1200. Per noi era inconcepibile che quell’impianto fosse fermo, considerando le acque ottime di questa zona, condizione ideale per allevare il pesce. Il nostro desiderio si è così concretizzato con la ristrutturazione dell’impianto. L’ultima volta che Italia che Cambia è venuta a trovarci stavamo lavorando letteralmente dentro le vasche: le abbiamo svuotate a mano dai sedimenti di decenni di abbandono e in seguito le abbiamo ristrutturate. In un momento in cui molti giovani abbandonano le aree interne, che oggi per questo rischiano lo spopolamento, il nostro sogno era quello di restare qui e avviare un’attività lavorativa fondata su alcuni valori oggi più che mai importanti e necessari: tutela della biodiversità, sostenibilità ambientale, valorizzazione e recupero del patrimonio esistente. Se non si vuole distruggere il pianeta bisogna trovare nuovi modi di vivere, lavorare e produrre. Ed è proprio quello che stiamo facendo. Se mi guardo intorno vedo che da qui scappano quasi tutti, noi siamo rimasti e ci siamo creati un’opportunità di lavoro.

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Tu e Alessandro avete inizialmente dato vita ad un’azienda agricola per far partire questo progetto. In seguito avete costituito una cooperativa che oggi gestisce vari servizi. Cosa puoi dirci di questo passaggio?
L’azienda agricola Molin di Bucchio oggi non esiste più. Al suo posto abbiamo creato la Cooperativa In Quiete di cui facciamo parte io, Alessandro e due nuovi soci. Dal punto di vista numerico siamo quindi raddoppiati. Per finanziare il nostro progetto di itticoltura e sempre nell’ottica di valorizzare le risorse della zona, abbiamo deciso come cooperativa di proporre delle attività di escursionismo ed educazione ambientale previste tutti i weekend nel Parco Nazionale delle foreste casentinesi. Tutti e quattro siamo guide ambientali e siamo diventati leader a livello escursionistico nel nostro territorio e oggi siamo un punto di riferimento sia per i visitatori che per le nuove guide. In quest’ambito si lavora molto e ciò ci ha permesso di finanziare in parte la ristrutturazione dell’impianto.

Avete anche vinto un bando europeo. Di cosa si è trattato?

Due anni fa abbiamo vinto il Bando europeo sulla pesca e abbiamo così ottenuto un contributo pari a 33mila euro per la ristrutturazione di questo antico impianto. Siamo cosi riusciti a concludere la ristrutturazione delle prime vasche (ne mancano ancora tre, le più antiche) e ad avviare il progetto di itticoltura, partito ufficialmente nel maggio 2018.

Qual è l’obiettivo del progetto?

L’obiettivo è la conservazione della biodiversità salvando le specie autoctone locali, che hanno un valore inestimabile, considerando che questo è un luogo di grande pregio naturalistico. Si parla di quattro specie: trota appenninica, Barbo tiberino, Ghiozzo di ruscello e Gambero d’acqua dolce. Sono queste le specie che oggi fanno parte di un progetto di conservazione e ripopolamento del parco delle foreste casentinesi. Un progetto che stiamo portando avanti insieme alla Regione Toscana e al Parco nazionale. Proprio in questi giorni è scaduto il contratto con questi enti e stiamo aspettando che la situazione venga ridefinita.

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Qual è la peculiarità dell’Antica Acquacoltura Molin di Bucchio?

La nostra peculiarità è quella di essere un ente privato che vuole fare conservazione, quando solitamente la conservazione è una cosa di cui si occupano gli enti pubblici. Le specie allevate da noi non hanno valore commerciale e quindi di norma non interessano ai privati. Questa, ahimè, è la logica del nostro sistema economico. Noi abbiamo voluto fare qualcosa di diverso: conservazione della biodiversità e ricerca. Alcune delle specie che alleviamo sono specie mai allevate da altri perché nessuno sapeva come fare, non essendoci stato finora su queste specie né un interesse economico né scientifico. Stiamo facendo tutto noi adesso, partendo da zero.

Qual è la destinazione del pesce che allevate?

Il pesce finora allevato è destinato principalmente ai torrenti del parco nazionale. Da circa tre mesi abbiamo avviato anche una linea produttiva per la tavola che riguarda la trota. Le finalità sono dunque di ripopolamento e alimentari.

Quali sono le caratteristiche del vostro allevamento?

Lo stress degli animali allevati da noi è pari a zero. Per metro cubo abbiamo solo un decimo del pesce consentito e questo fa sì che i nostri pesci crescano velocemente e forti senza bisogno di farmaci, non sentano lo stress e le malattie tipiche legate all’alta densità degli allevamenti. Inoltre le nostre condizioni ambientali sono uniche: a monte non abbiamo niente se non foreste quindi l’acqua è spettacolare (e senza plastica!).

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Che risultati avete raggiunto in questi anni?

Siamo riusciti, per primi in Italia e forse nel mondo, a riprodurre il ghiozzo e a portarlo ad una taglia (2 cm) che ne permette il ripopolamento. Abbiamo ripopolato con circa 300 ghiozzi adulti i torrenti del parco. Abbiamo ora quindi un manuale di allevamento di ghiozzi. Inoltre abbiamo dato vita alla prima popolazione di trota autoctona dell’Appennino centrale. Siamo ancora all’inizio ma siamo soddisfatti di questi primi traguardi, soprattutto se si considera che si tratta di specie che stavano sparendo e che sono state dichiarate pubblicamente a rischio estinzione.

Recentemente avete ricevuto un importante riconoscimento dalla Commissione europea

Sì, proprio in questi giorni ci sono qui due membri della Commissione europea che stanno documentando il nostro progetto perché siamo stati scelti tra le sei best practices europee nell’ambito dell’acquacoltura. Si tratta di un riconoscimento unico per un’azienda italiana. L’Europa ci ha premiato per la sostenibilità ambientale del nostro impianto, che ha un impatto praticamente pari a 0, per la conservazione della biodiversità, per la qualità ambientale e per le buone prassi di lavoro. Inoltre riconoscono di noi il fatto che non c’è stato nessun consumo di suolo ed è stata portato in vita un impianto abbandonato.

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Vi ritenete soddisfatti dal riscontro che sta avendo il vostro progetto?

Abbiamo ricevuto dei riconoscimenti assolutamente importanti, anche se a livello economico non stiamo avendo molto sostegno, ad esclusione della vincita di quel bando e del contributo avuto dal Parco e dalla Regione Toscana per il progetto di conservazione. Questo frena in parte il nostro progetto e rappresenta il motivo per cui abbiamo pensato anche di lanciare una campagna di crowdfunding che deve ancora ufficialmente partire. Ci spiace constatare che spesso, in particolare in Italia, le iniziative portate avanti da persone giovani vengono considerate con una certa superficialità mentre riteniamo che per il suo valore e le ricadute positive sul territorio questo nostro progetto, come altri virtuosi, dovrebbe ricevere maggiore attenzione e supporto.

Foto tratte dalla pagina Facebook del progetto Antica Acquacoltura Molin di Bucchio

Fonte: https://www.italiachecambia.org/2019/12/recupero-antico-mestiere-rinascita-specie-ittiche-rischio-estinzione/?utm_source=newsletter&utm_medium=email

Allevamenti bioetici: prove di sostenibilità

Parlare di allevamenti etici sembra una contraddizione in termini. Come può, infatti, lo sfruttamento di animali “da carne”, essere etico? Abbiamo provato a scoprirlo andando a vedere di persona l’azienda agricola Boccea di Anna Federici, che si trova alle porte di Roma e si estende per 240 ettari tra pascoli, boschi e uliveti.

allevamentoetico

Se si fa appello, come si legge nei libri dedicati all’argomento*, al rispetto delle loro esigenze o alla loro capacità di instaurare legami profondi, le domande si pongono con ancora più forza: qual è la primissima esigenza dell’animale se non quella di vivere? L’affermazione di considerare gli animali come capaci di creare legami profondi, stride violentemente con la convinzione di essere nel diritto di allevarli per mangiarli. La profonda consapevolezza e il desiderio di conoscere la psicologia e la fisiologia dell’animale per rispettarlo e per stimolare in lui una risposta di fiducia nei confronti dell’uomo che lo alleva, non ci assolve affatto ma anzi, e proprio per questo, basa l’allevamento etico sul tradimento di quello stesso rapporto di fiducia. Gli animali sono considerati come merce, lo sappiamo, e per quanto un allevamento etico cerchi di occuparsi al massimo del loro benessere, non è sempre facile distinguere quanto viene fatto per autentico interesse dell’animale e quanto per tornaconto economico. L’animale che muore nella sofferenza e nella paura produce scariche di adrenalina che, in fondo, finiscono per rovinarne la carne, producendo, di conseguenza, un danno a noi. Quindi, per quale motivo si rende un animale meno stressato e lo si fa vivere in condizioni migliori? Che cosa significa esattamente la parola “etico”? Etico per l’animale o etico per noi e per il nostro consumo?

Sarebbe troppo facile, tuttavia, giudicare negativamente gli allevamenti di questo tipo. Si tratta di luoghi in cui gli animali vivono in condizioni eccellenti, hanno a disposizione spazi sconfinati, relazioni con i simili, buon cibo naturale e sano. Se ci facciamo guidare da due principi essenziali: la necessità o meno di mangiare carne e la qualità di vita degli animali che alleviamo, l’allevamento etico risponde e soddisfa pienamente il secondo principio. Rimane il problema etico, certo, che non si risolve affatto ma, al contrario, pone questioni sempre più stringenti. I primi a doversi porre queste questioni, però, non sono certo gli allevatori. La prima e sola responsabilità è dei consumatori che continuano a chiedere carne (anche quella tenera dei cuccioli), latte o formaggi in quantità esagerate e senza minimamente porsi (se non in parte) il problema della necessità o delle condizioni di vita degli animali. Questo non fa che alimentare il mercato e rendere indispensabile l’esistenza degli allevamenti stessi. Se si è consapevoli che il mondo non cambierà direzione domani mattina ma che ci vorranno anni di lavoro di informazione e sensibilizzazione al problema, allora le realtà di questo tipo possono rappresentare una proposta concreta e un primo passo valido e serio verso una maggiore consapevolezza su quella strada. L’allevamento etico e azienda agricola Boccea di Anna Federici si trova alle porte di Roma e si estende per 240 ettari tra pascoli, boschi e uliveti. Al momento sono presenti 230 animali in tutto, di cui 95 fattrici. Visitando il centro si passa per i pascoli a perdita d’occhio che ospitano animali allevati in libertà con enormi spazi a disposizione. Si vedono in lontananza gruppi di madri con i loro piccoli negli spazi d’ombra sotto il sole di luglio. Gli animali sono molto sereni, anche quelli che ho avuto la possibilità di vedere nella fase di finissaggio, con spazi all’aperto ben esposti, con sole e ombra a disposizione, liberi, tranquilli, sani. Si può vedere lo spazio in cui vengono sistemate le mucche in attesa di partorire, sempre in modo naturale. Nel suo allevamento non vengono usati metodi coercitivi di alcun tipo per indurre l’animale a spostarsi, ad essere pesato o condotto in altri pascoli. Anna ci guida nella sua azienda e ci racconta come è nato il suo allevamento.

Che cos’è un allevamento etico?

Un allevamento in cui il benessere dell’animale è fondamentale. Ci sono dei criteri specifici che devono essere osservati in questo senso: se possibile il 100% (noi oggi produciamo il 100% dei foraggi e il 50 per cento delle granaglie) dell’alimentazione deve essere prodotto in azienda e da agricoltura biologica; le cure e i farmaci devono essere più possibile naturali, gli spazi e le strutture adeguati. Deve essere inoltre assicurato il rispetto dei comportamenti specie-specifici degli animali, un’alimentazione corretta e un allevamento a ciclo chiuso in cui l’animale possa trascorrere tutta la sua vita, il trasporto deve essere effettuato in condizioni idonee e il macello a km zero. Fare in modo che si instauri una relazione di fiducia tra uomo e animale è fondamentale. Un allevamento etico significa attenzione al benessere degli animali, sostenibilità ambientale e qualità del prodotto.

Come ha iniziato e quando?

Dal 2011 l’allevamento è così come lo si vede adesso. L’azienda appartiene alla mia famiglia e l’ho presa in mano nel 2002. Da quel momento ho fatto molti tentativi per arrivare a questo risultato. Prima me ne occupavo ma in maniera minore.

Quali sono state le difficoltà maggiori?

La difficoltà iniziale per me, quando ho preso in mano l’azienda, è stata proprio trovare le persone che mi aiutassero. Gli agronomi e i veterinari hanno, di solito, un’impostazione scientifica e universitaria ed era molto difficile far loro capire che cosa volevo fare: un allevamento in cui venissero rispettate le esigenze degli animali. I bovini sono erbivori ed hanno bisogno di erba fresca e grandi spazi all’aperto a disposizione. Gli animali che vengono alimentati soltanto con i cereali non sono animali sani. Diventano grassi ma questo è innaturale e dannoso. Ho avuto la fortuna di incontrare la dottoressa Francesca Pisseri, veterinario, che mi fece vedere, all’epoca, un allevamento in Toscana basato sugli stessi principi. Avevo già chiesto all’agronomo che mi aiutava di organizzare un sistema di rotazione di pascoli e di recinzioni collegate in maniera tale da poter far passare agevolmente gli animali da un pascolo all’altro ma non sapevamo, per esempio, come gestire le mandrie. La collaborazione con Francesca Pisseri mi ha permesso di realizzare quello che avevo in mente.

Come curate gli animali che si ammalano?

Non usiamo, ad esempio, avernectine. Si tratta di una serie di sostanze nocive per l’animale e per l’ambiente e che servono ad eliminare i parassiti che si annidano nello stomaco dei bovini. Con una corretta gestione del problema (monitoraggio) gli animali pian piano si desensibilizzano e formano una sorta di resistenza. Può capitare, quindi, che c’è l’annata in cui il parassita è più aggressivo ma noi, invece di usare le avernectine che sono sostanze dannose anche per il terreno e distruggono tutti i microrganismi presenti, usiamo i semi di zucca. Utilizziamo, inoltre, l’omeopatia per i problemi digestivi. Nei casi in cui non è possibile farne a meno facciamo uso di antibiotici ma solo eccezionalmente e non perché si segua un protocollo. Agli animali che vivono negli allevamenti intensivi vengono somministrati, infatti, antibiotici per protocollo perché si ammalano. Per tenerli in salute viene fatta questa scelta ma questo significa che quelle sostanze passeranno, attraverso la carne, agli umani. Questo, tra l’altro, crea una serie di problemi anche a livello di resistenza dell’uomo agli antibiotici.

Come si è sviluppata dentro di lei questa sensibilità?

Mi sono trovata ad occuparmi delle aziende di famiglia che erano gestite in maniera convenzionale e con risultati economici poco interessanti ma, soprattutto, con conseguenze devastanti per l’ambiente e con poco rispetto nei confronti dell’animale. La cosa non mi piaceva ed ho iniziato ad avvicinarmi alla biodinamica e al mondo del biologico. Purtroppo non viene insegnato come vengono fatte le cose. Sono entrata in contatto con il mondo della biodinamica, vi ho trovato l’ approccio olistico che cercavo e un metodo concreto e pratico di lavoro. E’ un sistema che insegna come trattare i terreni, quali macchinari e attrezzatura usare per le lavorazioni e quali no, come usare il letame compostato come concime, come usare i preparati biodinamici. E funziona. Il nostro terreno, da quando pratichiamo la biodinamica, è cambiato notevolmente.

Dove acquistate il cibo per gli animali?

Lo autoproduciamo quasi totalmente in azienda, appunto, biodinamica. Il resto lo acquistiamo biologico. Non arriviamo ancora ad essere autosufficienti con le granaglie perché ci mancano le strutture per conservare adeguatamente cereali e altri semi. Stiamo lavorando alla costruzione di alcuni silos proprio per questo. L’idea iniziale era di alimentare tutte le mandrie delle fattrici al pascolo e di continuare a farlo anche con i vitelli fino all’età di circa 14/16 mesi. Dopo, li teniamo normalmente in recinti appositi nella fase di finissaggio che può durare tre o quattro mesi. Abbiamo fatto però delle prove di finissaggio all’erba. C’è un problema di alternanza stagionale: c’è tanta erba molto nutriente in primavera, niente in estate e poi di nuovo erba buona in autunno. Dovrebbe cambiare la mentalità delle persone che comprano la nostra carne. Se lasciassi tutti gli animali sempre al pascolo, anche con aggiunte di fieni e cereali nei mesi in cui manca l’erba non potrei macellarli prima dei 24 mesi. Adesso, invece, gli animali escono a circa 20 mesi. In questo momento tutti vogliono la carne biologica ma si è poco disposti a pagarla di più. C’è differenza tra biologico e biologico. Sono, però, abbastanza soddisfatta dei risultati.

Che cosa significa per lei “biologico”?

Biologico non è solo il cibo che gli animali mangiano ma tutto il nostro allevamento che si basa sul principio che l’animale deve essere rispettato in toto: le sue esigenze di spazio e di aria, di relazione tra madre e piccolo, l’accoppiamento e la gravidanza che avvengono in modo naturale e non artificiale, le cure e le attenzioni per la psicologia dell’animale stesso. Conoscere profondamente i nostri animali significa capire le loro paure, evitare comportamenti che possano spaventarli. Cerchiamo di dar loro un ambiente in cui vivere che tenga conto della loro natura. Con questo tipo di allevamento si riduce moltissimo l’impatto ambientale anche riguardo alle emissioni di anidride carbonica.

Ha mai pensato che l’allevamento degli animali da carne sia qualcosa di non etico? Ha mai avuto dubbi in questo senso?

Ho pensato molto se allevare o no prima di dedicarmi completamente a questa attività. C’è stato un periodo in cui sono stata vegetariana e non ero sicura se fosse la strada giusta. Personalmente ho deciso a un certo punto di allevare: avevo molta terra a disposizione, boschi e pascoli che per i bovini sono una grande risorsa. Ho smesso di essere vegetariana perché mi sembrava una contraddizione. Ho deciso di prendere questa strada e di allevare le mie mandrie rispettando l’etologia e le necessità fisiche dei bovini

Come ha risolto, all’epoca, il problema etico?

L’ho risolto pensando che questi animali vivono, vengono allevati ed esistono perché c’è una sorta di simbiosi con l’uomo. Non esisterebbero mucche se nessuno le mangiasse. Fa parte di un ciclo. L’animale ti dà latte, carne e proteine. Cioè l’animale trasforma l’erba in qualcosa che l’uomo può mangiare. Nel passato tutto era vissuto in modo più semplice: il bue faceva il lavoro che fanno le macchine oggi, c’era il latte e poi c’era il vitello, le pelli venivano utilizzate per quello che serviva. Era tutto più equilibrato e non c’era questo pensiero folle di dover mangiare la carne ogni giorno. La carne non deve essere mangiata tutti i giorni. Mi definisco una reducetariana.

Come avviene in un allevamento etico la macellazione degli animali?

Cerchiamo di fare tutto il possibile per ridyrre al minimo lo stress per l’animale. Lo portiamo in un macello che soddisfa criteri precisi e per il trasporto mi affido a un trasportatore di fiducia. Quando l’animale deve essere mandato al macello lo si fa facendo massima attenzione: si mandano capi che sono abituati a stare insieme, si fa in modo che guardino meno possibile facendoli passare in corridoi stretti. Gli animali si fidano. Cerchiamo di controllare che l’animale non abbia paura. Appena l’animale arriva dopo un viaggio più breve possibile, non aspetta ore interminabili ma viene macellato subito. L’attenzione principale è nella calma dell’operatore. Gli animali vengono prima rilassati con delle docce apposite e poi gli viene sparato un colpo alla testa. La morte è immediata. Se l’animale non morisse subito si scaricherebbe una tale carica di adrenalina che tutta la carne ne risulterebbe rovinata.

L’animale soffre?

Non c’è agonia ma non mi sento di dire che l’animale non soffra anche perché sente il sangue, per quanto si faccia estrema attenzione a mantenere l’ambiente pulito. L’uccisione di un animale fa impressione. Essere a contatto con la morte è duro. Ancor più perché così organizzata e razionalizzata. Dovremmo investigare molto sul ruolo dell’uomo sulla Terra. Quando si è allevatori si è spesso a contatto con la morte di un animale (incidenti, malattie, macellazione) ma anche con la vita (accoppiamenti, nascite, i vitelli che crescono ecc.) Non ho una risposta su questo argomento. Amo il mio lavoro e la mia linea guida è il rispetto per la vita ricordando sempre di essere radicata in una realtà specifica.

Ci parla meglio di questo rapporto di fiducia che si crea tra uomo e animale?

Dal momento in cui vengono svezzati, intorno ai 7-8 mesi, imparano a fidarsi di noi. Li lasciamo completamente liberi ma sempre a contatto con l’uomo. Gli animali imparano a riconoscerci, ci vengono incontro quando diamo loro del cibo aggiuntivo come farebbe un cane. Questo permette all’uomo di evitare situazioni pericolose e all’animale di stare meglio perché non è stressato.

Le è mai capitato di affezionarsi a un animale?

Ci sono animali che per qualche motivo non riescono a nutrirsi da soli o perché hanno perso la madre per una malattia o per altre ragioni. Seguiamo una regola: se sono femmine comunque le alleviamo. Se sono maschi non possiamo farlo ma se sono femmine sì. Ce lo siamo imposto come regola. Vengono messe nel gruppo delle fattrici. Ad alcuni di questi animali diamo un nome, loro si ricordano di noi e ci riconoscono. All’inizio mi è capitato di affezionarmi molto ma adesso ci stiamo tutti un po’ più attenti.

Quanto vive una fattrice?

Non lo sappiamo di preciso. Penso che una mucca potrebbe vivere anche 25 anni ma in realtà nel momento in cui la fattrice smette di fare vitelli, non possiamo più tenerla quindi viene mandata al macello o, se si ammala, viene soppressa.

Che cosa significa per lei la parola “etica”?

Etica per me non significa solo non uccidere. Significa piuttosto difendere la vita. Etica è difendere la vita delle persone producendo un cibo sano. Se io decidessi di chiudere l’azienda per non uccidere gli animali, dovrei venderla. Ma sarebbe tutto molto falso perché gli animali finirebbero, forse, in mano ad allevatori senza scrupoli e morirebbero comunque.

Producete latte?

No. Produciamo solo carne. Un allevamento etico che producesse latte dovrebbe comunque togliere il piccolo alla madre al massimo dopo un mese. Dopo il vitello dovrebbe essere tenuto insieme agli altri in modo che il piccolo non si senta separato e solo. E’ chiaro che questa è una violenza, in un certo senso ma, d’altra parte, se noi vogliamo bere latte e mangiare formaggio, questa è la realtà.

Producete solo carne bovina?

Al momento sì ma stiamo pensando di mettere le galline ovaiole. L’allevamento sarà tutto all’aperto e le galline saranno completamente ruspanti. Se andrà bene faremo anche un allevamento di polli.

Quali attenzioni usate verso l’animale?

A parte lo spazio necessario a disposizione e tutte le regole relative al benessere dell’animale, nelle stalle usiamo una lettiera permanente in paglia. Sul cemento gli animali si fanno male, scivolano, cadono. E’ anche un modo per tenere molto pulite le mucche: il letame mescolato alla paglia si autosanifica perché fermenta e si crea una sorta di equilibrio naturale nei microrganismi. Usiamo una macchina per pesare gli animali che li avvolge come in un abbraccio, facciamo attenzione a non lasciare fazzoletti che sventolano dove gli animali pascolano, non li obblighiamo in alcun modo a camminare su zone scure in cui l’animale vede il baratro e si spaventa. Non facciamo rumori inutili, non agitiamo braccia o oggetti in loro presenza. Nel mio allevamento non esistono fruste o oggetti per percuotere gli animali per spingerli a muoversi verso una direzione. Al contrario usiamo dei richiami. I nostri animali sono sereni e rispettati.

Riguardo alla carne di vitella, qual è la vostra posizione?

Ho avuto molte richieste in questo senso. C’è molta domanda perché la carne del vitello è tenerissima ma non ci sembra etico macellare un cucciolo. In genere gli animali vengono macellati intorno ai 20 mesi. Pensiamo che un animale debba essere consentito di poter avere un ciclo vitale adeguato.” E, inoltre, è una cosa del tutto inutile perché una carne tenerissima non ci è necessaria. Una volta si macellava il vitello soprattutto negli allevamenti da latte. In un allevamento da carne la cosa non avrebbe molto senso.

Come ingravidate le mucche?

Solo in modo naturale. Negli altri allevamenti, quelli intensivi da latte, lo fanno in modo artificiale con costi molto alti e trattando l’animale come una macchina. La mucca viene ingravidata a 24 mesi la prima volta, dopo tre o quattro volte l’animale si ammala e viene scartato. E’ naturale che si ammali: deve produrre 40 litri di latte al giorno per tutta la sua breve vita con conseguenti problemi, mastiti e malattie correlate. Nel nostro allevamento le mucche sono completamente libere e partoriscono in modo naturale.

Quante persone la aiutano?

I miei collaboratori sono 6. Una persona è responsabile della mandria, un’altra dell’orto e un’altra delle semine. Poi ci sono degli aiutanti.

Come ha formato i suoi collaboratori?

Mi ha aiutato molto Francesca Pisseri per quanto riguarda l’allevamento e Carlo Noro che ci è stato molto vicino per quanto riguarda l’orto e le coltivazioni. Carlo Noro ha organizzato corsi qui in azienda perché volevo che i miei operai fossero educati alla biodinamica.

Dal punto di vista economico, un allevamento etico costa di più?

E’ molto costoso all’inizio perché richiede preparazione e formazione. Ma sul lungo termine si abbattono molti costi. Non devo più comprare concimi e diserbi, per esempio. Utilizziamo le risorse dell’azienda. Questo aspetto ci pone dei limiti riguardo alla crescita del numero dei bovini che possiamo allevare. Il nostro allevamento avrà sempre una dimensione legata al luogo. Un allevamento etico non può avere i numeri degli allevamenti intensivi industriali. La rendita dell’orto è molto interessante. L’allevamento non è molto più costoso di un allevamento intensivo.

Quanto costa la vostra carne in media?

16 euro al chilo. Poi dipende dai tagli ma in media questo è il prezzo. Il costo, quindi, non è molto più alto rispetto alla carne da allevamento intensivo.

Qual è il futuro dell’allevamento di animali?

Il futuro è questo. L’allevamento è legato anche alla coltivazione del terreno che viene reso fertile anche dalla presenza degli animali. I pascoli gestiti lasciano un terreno ricco di humus. Il letame compostato è una magnifica risorsa per l’orto. Credo che tutti dovremmo mangiare meno carne, in questo modo ci sarebbe meno richiesta e si potrebbero dismettere nel tempo gli allevamenti intensivi. I consumatori dovrebbero cominciare a cambiare le loro abitudini alimentari. Purtroppo richiedono sempre gli stessi tagli mentre dell’animale si potrebbe mangiare tutto. L’altro grande problema mondiale è l’enorme produzione di scarti alimentari che ammontano a circa il 40% della produzione mondiale di cibo. Questo avviene lungo tutto il processo che va dall’agricoltore al consumatore (che è parte assai attiva nello sprecare il cibo). Dovremmo arrivare a produrre meno e a ridurre o riutilizzare gli scarti. In questo modo si ridurrebbe questo drammatico spreco.

*Con-vivere. L’allevamento del futuro di Carla De Benedictis, Francesca Pisseri, Pietro Venezia (Arianna Editrice)

 

Fonte: ilcambiamento.it

 

Riconvertire un’azienda agricola? Si può. Ecco che nasce la fattoria sostenibile

Coltivazioni biologiche, spaccio interno, ortaggi tipici, progetti sociali e autocostruzione in paglia: un’intera fattoria sostenibile per la tutela della biodiversità e il rispetto dell’ambiente nelle campagne vicentine. È il progetto di Paolo Marostegan che ha riconvertito la storica azienda del padre con un’ottica ecologista di salvaguardia della Terra. Eccovi l’esperienza direttamente dalla voce del protagonista.alconfin1

Un’intera fattoria storica basata sulla produzione di latte vaccino con il metodo convenzionale viene riconvertita in azienda agricola biologica nel passaggio di gestione dal padre al figlio. Nel 2008 viene ufficialmente chiusa la ditta paterna dopo essere stata completamente assorbita nei terreni e nelle strutture dalla giovane azienda agricola biologica. A livello di garanzie viene assicurato un biologico al 100% in cui tutti i prodotti sono certificati da un ente riconosciuto dal ministero, sono etichettati e distinti tra la produzione propria e quella acquistata al mercato ortofrutticolo di Padova, dove esiste una cooperativa di agricoltori biologici socia dell’azienda. Oltre alla salvaguardia della salute delle persone data dalla promozione di un’alimentazione naturale, c’è anche un impegno verso la tutela dell’ambiente. Infatti in risposta al cambiamento climatico che è in corso, decisamente visibile nei campi, si stanno adottando dei metodi produttivi meno intensivi e più integrati, attraverso la messa a dimora di numerosi alberi, la policoltura e il poliallevamento. In fattoria è stato necessario aggiornarsi e aggiornare le produzioni per adattarsi al drastico cambio di rotta con cui tutti i contadini avranno a che fare nei prossimi decenni. Per adesso la produzione si basa su 103 varietà stagionali di ortaggi (con ortaggi tipici quali: “broccolo fiolaro” e “radicio da campo”), 7 varietà di cereali e, a livello di frutta, kiwi e fragole. Inoltre vengono allevati polli, capponi, faraone, tacchini, galline ovaiole, maiali e asini tenuti allo stato semibrado. L’azienda confeziona anche prodotti trasformati nel proprio laboratorio, come conserve, verdure pronte, marmellate, crauti, insaccati vari di maiale e macellazione di avicoli, mentre altri vengono trasformati presso terzi, ma con materie prime aziendali, per esempio con farine di frumento di una varietà vecchia e in disuso. «Il 96% del fatturato – inizia Paolo, titolare dell’azienda – deriva dalla vendita diretta al consumatore finale tramite lo spaccio aziendale, aperto nel 2003, (70%) o tramite l’e-commerce con le consegne a domicilio (30%). Poi riforniamo anche qualche piccola mensa scolastica e qualche Gas. La vendita è integrata da prodotti di produttori terzi locali e non, con cui siamo in rete (mele dalla Val di Non, miele locale, succhi di frutta locali, vino locale). Altri prodotti, ad esempio le banane, sono del commercio equo-solidale e comunque bio».  Oggi, però, si pone un problema nuovo: dato che attualmente i grossi produttori/distributori si sono messi a speculare sul biologico, è necessario capire da che cosa è data realmente la qualità del prodotto, ovvero quali sono le caratteristiche che contraddistinguono un vero produttore bio, che permettono all’utente di avere garanzie certe. «Dopo il servizio delle Iene – afferma Paolo – ho notato ancora una volta che c’è una gran confusione su che cos’è il biologico. Io dico sempre come premessa: l’alimento biologico non è un prodotto naturale e incontaminato. La legge europea del biologico definisce un “disciplinare di produzione” in cui sono previste sostanze che si possono usare e sostanze proibite nella coltivazione. Tuttavia il prodotto agricolo è ottenuto nel pianeta Terra con l’aria e l’acqua che normalmente ci sono. Il regolamento non prevede di piantare l’insalata a una distanza minima dalla statale o da un industria. Si danno solamente indicazioni precise su quali interventi e trattamenti sono ammessi o meno su quell’insalata. Pertanto tutto ciò che non avviene per mano diretta dell’agricoltore non è legiferato e, se non si adottano le opportune precauzioni, sono sempre possibili piccole contaminazioni. Ed è proprio a questo punto che entra in gioco l’etica. Il produttore che è arrivato all’agricoltura biologica tramite un percorso interiore ha compiuto delle scelte negli anni che lo proiettano verso un mondo e uno stile di vita molto più ampio. Pertanto, ad esempio, non andrà a piantare gli ortaggi nelle vicinanze di strade trafficate perché in prima persona non lo ritiene coerente. Di solito questi produttori aprono le loro aziende ai consumatori, ed essi possono toccare con mano come avviene la produzione. Nelle grandi imprese, in cui appunto il percorso interiore non è avvenuto, magari si limitano a seguire le indicazioni del disciplinare. Quindi ritengo che a fare la differenza tra un “alto biologico” e un “basso biologico” sia proprio la mente. Si badi bene che a questo punto è proprio il consumatore che sceglie come sia prodotta la sua insalata e che gestisce la sua “insicurezza alimentare”, scegliendo chi la produce. Sono quindi convinto che il consumatore che può guardare direttamente negli occhi il produttore abbia l’arma più forte che ci sia».  Attualmente l’azienda (http://www.alconfin.it/) occupa, oltre a Paolo e i suoi instancabili genitori, altri tre dipendenti a cui si affiancano per diversi mesi all’anno, stagisti e i ragazzi provenienti dai progetti della fattoria sociale. Quelli attualmente in corso sono rivolti ai giovani che nell’ambito agricolo stanno trovando un modo per crescere. Purtroppo sono molto limitati per il fatto che i servizi sociali non hanno più fondi.
«Abbiamo in corso per queste persone un inserimento lavorativo che dura da 6 anni – spiega Paolo – e possiamo proprio dire che l’affiancamento alle attività agricole permette a questi ragazzi di proseguire il loro percorso evolutivo con una certa serenità. Ci interessa anche avvicinare le persone alla terra perché la carenza di questo legame innato e silenziato crea secondo me numerosi problemi. A questo sono rivolti anche i progetti della fattoria didattica, che si intrecciano con l’aspetto sociale. I centri estivi e invernali, i sabati didattici e gli incontri informativi che ospitiamo, vengono incontro ai bisogni delle famiglie e cercano di supplire in parte alle carenze del servizio pubblico».
Infatti il punto fondamentale, sostiene Paolo, è «coinvolgere il più possibile le persone e le famiglie perché quello che è stato un po’ lasciato andare, a mio parere, è la coscienza alimentare. Oggi le persone mangiano fuori casa per uno o più pasti al giorno e di conseguenza la coscienza alimentare difficilmente può essere coltivata, ma noi ci ricarichiamo con quello che mangiamo e ogni forchettata è intrisa di: salute o malattia, storia e tradizione o multinazionali, reddito o speculazioni, petrolio per la produzione-lavorazione-distribuzione, biodiversità o omologazione, piccoli produttori di aree marginali o aziende agroindustriali, rispetto dell’ambiente o rispetto del bilancio aziendale ecc.».
Pertanto l’azienda organizza due volte all’anno l’iniziativa “Fattoria aperta” in cui le persone fanno una passeggiata guidata tra i campi. Poi si cerca di tenere vivo l’interesse con serate a tema, eventi organizzati in fattoria come il solstizio d’inverno, “brusa la vecia” (evento della tradizione contadina durante la quale diamo fuoco a delle ramaglie) agli inizi dell’anno o lunghe passeggiate invernali a passo d’asino. Sono anche in programma dei corsi per hobbisti su l’orticoltura familiare domestica e l’allevamento familiare domestico tenuti da Paolo. Tuttavia ormai ci siamo allontanati dalla dimensione di vita nella natura, la scelta di un ritorno spaventa ed è un’incognita per le persone cresciute in un ambiente artificiale. Nonostante questo, a livello di reazioni indicative – spiega Paolo – «i bambini sono coloro che meno dimostrano un impatto significativo nel rapportarsi con l’ambiente naturale della fattoria. Per loro è infatti un approccio spontaneo dettato dalla curiosità, dalla voglia e necessità di sperimentare e conoscere ciò che li circonda, nonché dal voler essere protagonisti attivi della loro quotidianità». Infatti gli stimoli educativi e didattici in una struttura quale la fattoria, risultano essere numerosi e dinamici in quanto in costante evoluzione e connessione con tutti i fattori che nella fattoria stessa interagiscono. Questo ha permesso di creare percorsi educativi e di divertimento in costante evoluzione incontrando l’interesse dei bambini e degli adulti. «Attualmente – spiega Paolo – sono in corso i “sabati didattici”: i bimbi che sono a casa da scuola il sabato mattina vengono in fattoria e svolgono i compiti per casa in uno-due ore e poi si divertono in laboratori di falegnameria, panificazione, eco addobbi natalizi ecc. Tali attività sono poi riproposte ai genitori in formato diverso. In programma ora abbiamo una serie di quattro serate in cui ogni serata vengono a parlare esperti di diverse metodologie pedagogiche: la scuola steineriana, la scuola del metodo Reggio Children, la scuola delle abilità umane di Podresca e la scuola Montessoriana. Capita però di parlare del ritorno alla terra e mi spavento molto quando vedo che maestre e insegnanti si preoccupano davanti a questo problema che invece per me è una ghiotta opportunità per riprendere in mano la propria vita, sfuggendo dagli standard e dalle impersonalità. Infatti da studente delle scuole medie e superiori ho sempre avuto un piccolo angolino di terra su cui mi cimentavo con la semina e la coltivazione di varie piante o provavo l’allevamento di qualche animale rurale; ho sempre preferito la campagna alla televisione!».
Inoltre cosa c’è di meglio che costruirsi la casa per prendere in mano la propria vita? Infatti il nuovo obiettivo della fattoria è realizzare una costruzione in paglia, legno, calce e argilla. «La mia esigenza iniziale – afferma Paolo – era che la casa doveva essere una costruzione che viene dalla terra e sulla terra ritorna. Quindi credo che una casa debba essere, se necessario, smontabile e che tutti i materiali debbono poter essere usati per costruirne una nuova o reinseriti nella filiera agricola. Ovviamente questo non è ancora interamente possibile, ad esempio negli impianti, ma possiamo avvicinarci molto. Aumentando l’efficienza dell’involucro si abbassa la quantità d’impianto necessaria».
La scelta della paglia è motivata dal fatto che si abbina facilmente a materiali completamente naturali ed è un sistema costruttivo economico e di rapida esecuzione.  «La struttura portante in legno, il tamponamento in paglia, l’intonaco di calce o terra cruda – spiega Paolo – creano un ambiente sano e piacevole da abitare, senza emissioni dannose per la salute, con una piacevole autoregolazione dell’umidità, una grande inerzia termica che significa bassi consumi energetici e quindi poche spese di gestione. La tecnica costruttiva è semplice, adatta anche all’autocostruzione e quindi l’intera famiglia, anche allargata, può adoperarsi per la costruzione della casa, che può figurativamente rappresentare la vita, la famiglia! Crediamo pure che agli occhi dei nostri figli vedere mamma e papà che si costruiscono la casa sia una radice piantata profondamente nella storia della loro vita, un legame che servirà loro anche quando avranno quarant’anni».
L’edificio in paglia ha elevate prestazione termiche e acustiche, raggiungibili nell’edilizia normale con innumerevoli accorgimenti e strati. Offre pure un comfort abitativo elevato. Rischia pure di essere più economica di una casa convenzionale di pari prestazioni. «Tutto questo – continua – lo abbiamo già visto nella parte completata che è la sala per le attività didattiche e sociali dell’azienda. Siamo molto soddisfatti del risultato, l’edificio risulta in classe A+, la sensazione di benessere che si prova entrando è notevole, gli utenti sono soddisfatti come noi e questo ci dà forza per proseguire. La casa vera e propria verrà costruita a partire da gennaio 2015 e sarà interamente realizzata senza cemento, anche nelle fondazioni. La struttura portante sarà di legno massiccio e quindi senza le colle. I tamponamenti in paglia saranno intonacati a calce e con la terra cruda. I serramenti saranno in legno, ogni materiale è stato scelto con criteri di ecologia e km 0, con un occhio ai costi e alla semplicità di realizzazione. Una vera sfida per noi!».

Fonte: ilcambiamento.it

La terra chiama. Ecco come avviare un’azienda agricola

Sempre più giovani decidono di tornare alla terra. La crisi che pesa, le prospettive sempre meno legate a carriere improbabili, la riscoperta di valori e tempi che non siano più “usa e getta”: tutto questo sta portando ad una nuova generazione di gente “con i piedi per terra”. Allora, ecco qualche consiglio per chi volesse raccogliere la sfida.come_avviare_un_azienda_agricola

Ad accompagnarci in questo viaggio è Maria Letizia Gardoni, delegata nazionale Coldiretti Giovani Impresa. E’ a lei che abbiamo chiesto di fornire suggerimenti e consigli per chi voglia oggi pensare il proprio futuro legato alla terra.

Quali i presupposti e quali i primi passi?

«Per far nascere una impresa è prima di tutto prioritario avere un’idea intorno alla quale sviluppare un progetto senza fermarsi alla semplice visione bucolica. E senza accontentarsi delle ipotesi più tradizionali, ma considerando l’ampio spettro di opportunità offerte dal settore che, grazie allo strumento della multifunzionalità, ha esteso le sue competenze dalla produzione alla trasformazione e vendita di prodotti alimentari, dalla manifattura agricola fino all’offerta di servizi alle scuole come le fattorie didattiche, ma anche alle pubbliche amministrazioni per la cura del verde. E’ consigliabile, inoltre, confrontarsi con chi ha già fatto esperienze simili, visitando direttamente le aziende in Italia e in Europa; questo contribuisce a focalizzare l’idea e ad individuare le migliori soluzioni. Dopo aver verificato la tenuta dell’idea e averla trasferita in un progetto concreto con la collaborazione di esperti, vanno individuate le opportunità concrete che ci sono sul mercato in termini di località, aziende e professionalità. Non è raro trovare occasioni di acquisto soprattutto nelle aree interne o di montagna dove l’attività di coltivazione e di allevamento è più difficile, ma si possono cogliere opportunità per il turismo rurale. Inoltre occorre verificare le alternative dell’acquisto, dell’affitto o della semplice gestione aziendale considerato che sono molti gli agricoltori anziani che non hanno intenzione di cedere la propria azienda, ma sarebbero disponibili a collaborazioni. Verificare le eventuali ipotesi di dismissioni di terreni pubblici da parte delle autorità pubbliche. Successivamente, una volta individuato il fabbisogno finanziario complessivo, soprattutto per i giovani sotto i 40 anni di età, occorre appurare l’esistenza di agevolazioni per lo specifico progetto considerato. Le agevolazioni per la maggioranza sono di natura comunitaria e vengono erogate attraverso le regioni con la consulenza dei centri Caa avviati anche dalla Coldiretti. Per l’acquisto della terra alcune banche offrono condizioni specifiche anche grazie ad accordi con il Consorzio fidi Creditagri Italia, promosso dalla Coldiretti per la ricerca delle migliori condizioni di accesso al credito e che ha già garantito circa 300 milioni di euro di investimenti proprio a favore dei giovani agricoltori.  Dal punto di vista burocratico sono tre i passaggi fondamentali: apertura di una Partita Iva presso l’Agenzia delle Entrate, iscrizione al Registro delle imprese, sezione speciale Agricoltura, presso la competente Camera di Commercio e iscrizione e dichiarazione presso l’Inps. Una formazione di base in campo agricolo è importante, ma non decisiva anche perché sono numerosi i corsi di formazione professionale organizzati a livello regionale per acquisire competenze e avere la qualifica di imprenditore agricolo dal punto di vista fiscale».

Quali sono, indicativamente, i costi da affrontare?

«Tutto dipende dal progetto imprenditoriale che si vuole sviluppare. Lo strumento produttivo principale è la terra ed oggi il suo costo è elevato, soprattutto per i giovani che si affacciano all’impresa agricola come prima esperienza lavorativa, per chi non ha garanzie familiari sufficienti e per chi è uno startupper. Questo è dovuto ad una scarsità di terreno disponibile sul territorio nazionale per via della cementificazione selvaggia, per gli utilizzi impropri per colture no-food, per impianti fotovoltaici o di biogas da rifiuti industriali. Inoltre il costo della terra varia da zona a zona in virtù delle specificità produttive territoriali e della morfologia. Questo però non è un ostacolo insormontabile, sia perché esistono strumenti finanziari che agevolano l’investimento sia perché è erroneo pensare che la sostenibilità economica di un’attività agricola sia direttamente proporzionale alla superficie aziendale. Quello che conta è saper generare il maggior valore aggiunto per ettaro e questo si ottiene puntando sulla diversificazione della produzione, sulla multifunzionalità, sulla vendita diretta, sulle produzioni di eccellenza. Esistono tante realtà positive di giovani imprenditori agricoli che hanno fondato e conducono aziende di tutto rispetto su appena 6mila metri quadri di terra».

Esiste un percorso specifico per chi vuole dedicarsi al biologico?

«Per il settore biologico, tra i regolamenti dell’UE che permettono agli operatori nel campo dell’agricoltura biologica di avere aiuti finanziari c’è il Reg.2328/91 ed è accessibile a tutte le aziende agricole per il miglioramento delle strutture. Esistono anche interventi specifici per aziende in zone svantaggiate e per l’istituzione di associazioni agricole. L’applicazione di tali regolamenti è rimandata alla legislazione dei singoli Paesi e, per quanto riguarda l’Italia, sono le Regioni a stabilirne le modalità. In generale, comunque, gli ultimi orientamenti della PAC sono stati guidati da una maggiore consapevolezza circa la necessità di una sostenibilità ambientale che ha contribuito ad assegnare all’agricoltura biologica un ruolo di primo piano nelle strategie di sviluppo. Ci tengo a ricordare che l’Italia è al primo posto nella classifica europea per numero di operatori biologici nel comparto agricolo: questo è un buon dato che testimonia la nostra continua attenzione per la sicurezza alimentare e per la tutela della biodiversità. Con questo però non voglio screditare l’agricoltura convenzionale che in Italia segue i disciplinari più rigidi e restrittivi a livello mondiale, seguendo delle norme ferree volte a regolare l’utilizzo dei prodotti di sintesi».

Ci sono sostegni europei?

«I sostegni europei rappresentano di certo importanti incentivi per la conduzione quotidiana dell’attività, soprattutto perché vengono vissuti ed interpretati come un’integrazione al reddito; quel reddito agricolo che in alcune situazioni oggi è ancora troppo basso e inappropriato rispetto alla grande valenza economica e sociale che risiede nella figura dell’agricoltore. Detto questo, credo che sia scorretto impostare la propria attività imprenditoriale solo in funzione degli aiuti comunitari, che probabilmente un giorno potranno subire una diminuzione in termini di valore. Così come in altri settori, la capacità imprenditoriale e l’idea progettuale sono le variabili fondamentali per garantire la sostenibilità economica dell’impresa».

Si può far conto su canali alternativi alla grande distribuzione per la vendita dei prodotti?

«I canali di vendita alternativi alla grande distribuzione rappresentano una grande opportunità per recuperare da una parte il valore del prodotto che rimane in mano all’agricoltore e che altrimenti andrebbe smarrito nei lunghi passaggi di mano delle filiere lunghe, dall’altro per garantire qualità e sicurezza al consumatore finale. Un esempio lampante di questo cambio di approccio alla vendita è rappresentato dai mercati di Campagna Amica che presente in quasi 2 mila comuni italiani ha generato 10 mila posti di lavoro coinvolgendo circa 8 mila imprese agricole. Solo nell’ultimo anno, hanno accolto più di 15 milioni di cittadini che sono sempre più consapevoli del ritorno economico e di salute che si guadagna consumando prodotti locali, rigorosamente Made in Italy e che provengono direttamente dai campi coltivati del proprio territorio. E’ per questo che i nuovi canali di vendita rappresentano una fonte di sviluppo per l’economia locale, per l’occupazione, e per una nuova socialità».

 

Fonte: ilcambiamento.it

Per una nuova agricoltura: al Krameterhof con Devis Bonanni

In occasione dell’ultima visita guidata per italiani organizzata al Krameterhof, uno dei principali esempi europei di permacultura applicata in climi temperati, abbiamo incontrato ed intervistato Devis Bonanni, fondatore del Progetto Pecoranera.krameterhof

Il Krameterhof, l’azienda agricola “cresciuta” da Sepp Holzer, il contadino ribelle Austriaco, ed ora gestita dal figlio Josef è considerata uno dei più importanti esempi Europei di permacultura applicata in climi temperati. Già dai primi passi, appena varcato l’ingresso, si viene avvolti da una vegetazione lussureggiante, una sorta di giardino dell’Eden che, in una delle regioni più fredde dell’Austria, contrappone una straordinaria biodiversità alla sterilità delle monocolture di abeti che la circondano. Durante l’ultima visita guidata per Italiani organizzata al Krameterhof abbiamo avuto tra i partecipanti Devis Bonanni, fondatore del Progetto Pecoranera. Nell’intervista che segue gli abbiamo chiesto cosa ha trovato al Krameterhof e cosa si è portato in Italia.

Come hai conosciuto il Krameterhof?

Ho conosciuto tardi l’esperienza di Holzer. La scorsa primavera ho partecipato ad alcuni incontri sulla permacultura per iniziativa di un’associazione locale. In quell’occasione è stato proiettato il documentario sul Krameterhof. Abito in Carnia, al confine con l’Austria, a soli centottanta chilometri da Sepp Holzer: le nostre condizioni sono molto simili a quelle del Lungau per territorio e clima, come non provare interesse?

Che aspettative avevi dalla visita al Krameterhof e cosa hai trovato là?

Da aspirante permacultore più che aspettative nutrivo dei timori. Il filmato mi aveva impressionato. Andando in Austria volevo mettermi di fronte allo stato dell’arte della permacultura nei climi temperati freddi e stimare il cammino che ancora mi attende. Temevo che il passo in termini di conoscenze, investimenti, tempo e filosofia fosse troppo grande. Con sorpresa mi sono trovato invece di fronte ad una permacultura possibile, avvicinabile, comprensibile anche da me che faccio il contadino solo da pochi anni. I principi enunciati durante la visita risuonavano dentro di me con familiarità, nelle parole di Josef Holzer ho ritrovato i pezzi del puzzle che sto mettendo assieme: lui ha completato l’opera ma disporre dei pezzi è già un’ottima cosa.krameterhof5

Per chi ha letto i libri di Sepp Holzer e conosciuto attraverso di essi il Krameterhof, questo è indubbiamente un luogo di grande fascino. Una sorta di giardino dell’eden in cui sono stati tradotti in pratica con successo i principi della permacultura ancora prima che venissero teorizzati. Dopo la fascinazione iniziale però la reazione di molte persone si trasforma in una presa di distanze con frasi del tipo: “eh va be’ ma lui sta in montagna!”, “ma qui c’è un clima diverso!” , forse per la delusione di non aver trovato una ricetta pronta da copiare tale e quale a casa propria.

Pensi che la tua visita in Austria influenzerà l’evoluzione del Progetto Pecoranera? Se sì, in che modo?

Chi avanza questi dubbi evidentemente non ha alzato lo sguardo verso il versante opposto della valle. Di là una grande monocoltura di abeti, di qua stagni, orti, alberi da frutto, animali al pascolo. Io abito in montagna e so cosa significa lavorare in pendenza, aspettarsi gelate in maggio, vedere la neve in ottobre, disporre di terreni profondi solo dieci o venti centimetri. Il mio pensiero è stato diametralmente opposto: ha realizzato tutto ciò nonostante le condizioni sfavorevoli! In pianura ci sono terreni più profondi, l’erosione è limitata, l’insolazione è potente, la stagione è lunga: cosa avrebbe fatto Holzer in pianura Padana, in Maremma, nel viterbese o nel Cilento? Sono rientrato a casa con un unico pensiero, lavorare ancora più sodo su questa strada. Sto proponendo al mio comune un lavoro di recupero dei meli antichi per ripiantumare intere porzioni della nostra terra con gli alberi giusti. Vorrei impratichirmi con le coltivazioni di cereali su sodo e stabilire nuove interazioni tra i campi e le mie galline. Insomma: il lavoro non manca!josef_holzer

Durante la prima visita guidata che ho fatto al Krameterhof, Josef Holzer, mostrandoci alcune delle coltivazioni di frutta e ortaggi ha insistito su quanto per lui sia importante coltivare ciò che mangia. Per molti suoi colleghi non è così: spesso anche chi fa coltivazioni di eccellenza nel campo del biologico sostiene di non avere il tempo per curare un orto. Penso che anche per te questo sia un aspetto fondamentale e che si possa dire che l’aspirazione all’autosufficienza sia stata una delle pietre fondanti del progetto Pecoranera. Pensi che si possano coniugare questo desiderio di autosufficienza, generalmente associato a piccolissime produzioni ed a stili di vita improntati ad una sobrietà volontaria, con l’aspirazione ad un’agricoltura su scala più grande, in grado di produrre reddito, impiegare persone?

Oggi abbiamo molti agricoltori e pochi contadini. Se fossi finito per coltivare ettari e ettari di tre o quattro prodotti avrei preferito rimanere in ufficio. L’autoproduzione alimentare è il fondamento per una certa libertà di manovra. Fino a quando dipenderemo in toto dal denaro anche noi contadini non saremo liberi. Dobbiamo rompere queste catene e consociare l’agricoltura ad altre grandi tematiche: vegetarianesimo, mobilità sostenibile, energie alternative su piccola scala etc. Dirò di più, dobbiamo rompere gli schemi a tutti i livelli e iniziare a fare cose nuove con nuovi strumenti. Il biologico è spesso un’imitazione dell’agricoltura industriale con metodi organici. Forse perché facciamo ancora riferimento alla civiltà contadina senza guardare un passo indietro: cosa hanno da insegnarci i popoli nativi? Paradossalmente il Krameterhof è più vicino a rigenerare il giardino dell’Eden ante invenzione dell’agricoltura piuttosto che a fare agricoltura organica.

Il Krameterhof è una realtà di eccellenza, considerata da molti il più importante esempio Europeo di permacultura applicata in climi temperati. Qui ed in altre realtà che mettono in pratica tecniche di permacultura in Italia e all’estero parte del sostentamento proviene anche da attività di formazione, corsi, visite guidate. Questo porta molte persone a pensare che questo modo di praticare l’agricoltura non sia in grado di sostenersi economicamente senza questi ‘altri’ introiti. Tu cosa ne pensi?

Parliamoci chiaro: la permacultura non potrà mai pareggiare i risultati ottenuti dall’agricoltura chimica. È troppo grande l’input energetico dato dai fertilizzanti per competere in termini di rese/superficie/lavoro. Ciò che non mi è piaciuto nelle parole di Holzer è stata l’eccessiva enfasi sui prodotti di nicchia. Ci ha parlato di marmellata di pigne e grappa di genziana. Prodotti molto costosi per austriaci danarosi. La permacultura deve fornire risposte soprattutto sul cibo di tutti i giorni. Non potremmo offrire mele permacoltivate a ottanta centesimi al chilo in supermercato ma cercare di avvicinarci al mercato con prezzi accessibili a chi voglia investire sulla propria salute piuttosto che su uno smartphone. Per fare ciò bisogna lavorare sulla filiera, sul senso dell’alimentazione, sulla riduzione dei costi per le aziende e, nelle zone rurali, sull’agricoltura diffusa come integrazione al reddito per carpire le energie lavorative sopite ed inutilizzate dalla società. Anche il mio progetto non è ancora un’azienda agricola e mi avvalgo piuttosto di fonti di reddito da altri lavori ma la strada non è impossibile. E poi mi preme sottolineare un dato. Holzer produce cibo la dove non cresceva neppure mezza patata. Operando col suo metodo si potrebbe coinvolgere nei cicli produttivi quei territori considerati da sempre non coltivabili.krameterhof6

Hai chiamato il tuo progetto Pecoranera, l’autobiografia di Sepp Holzer si intitola The rebel Farmer. C’è un’idea di ribellione molto forte in queste definizioni, proprio anche di un certo modo di intendere l’agricoltura. Non un semplice rifiuto ma una pratica di cambiamento che parte da sé, ma che mira ben oltre, senza aspettare un via libera dall’alto. Mi viene in mente ciò che scrive Fukuoka nella “Rivoluzione del filo di paglia” (anche in questo titolo il lessico è significativo): “l’agricoltura non consiste nel far crescere un raccolto ma nella coltivazione e nel perfezionamento dell’essere umano”

Come hai scelto la via dell’agricoltura?

In questi anni è cambiato il tuo modo di intenderla?

Ho scelto l’agricoltura perché senza sovranità alimentare non si è davvero liberi. È la genesi di tutte le cose, assieme alla ricerca di un riparo adeguato e di buona acqua per dissetarsi. All’inizio il mio riferimento era lo stereotipo contadino. Ma la vecchia società agricola rappresenta comunque l’espressione della lotta contro la Natura, il dominio e la violenza. In questi anni molto è cambiato nella mia percezione. Oggi penso che non si possa essere contadini nuovi senza essere uomini nuovi. Questo percorso può diventare quasi una via francescana alla riconciliazione con il Creato. L’agricoltura è stata per troppo tempo alfiere dell’antropocentrismo, è ora di fare un passo indietro e coltivare il nostro Giardino dell’Eden.

Note

1. PermaculTour organizza corsi e visite guidate presso realtà che operano nel campo della permacultura in Italia e all’estero. In programma c’è un altra visita guidata al Krameterhof rivolta ad Italiani il 29 settembre 2013. Per informazioni: emiliano.zanichelli@gmail.com

2. Pecoranera è la concretizzazione di un ideale di libertà per noi, Devis e Monica, che oggi portiamo avanti il progetto. La libertà che proviamo quando fatichiamo nei campi, l’ideale di vivere più in armonia con l’ambiente che ci circonda, coltivando il cibo di cui ci nutriamo, procurandoci la legna per riscaldare la casa, salendo in sella ad una bicicletta piuttosto che accomodarci in auto…

Fonte: il cambiamento

Permacultura. Intervista ad Elena Parmiggiani

Il concetto di permcultura viene spesso associato a quello di agricoltura sostenibile. La permacultura, in realtà, è molto di più. Ne abbiamo parlato con Elena Parmiggiani esperta di Permacultura, Agricoltura Sinergica e Città in Transizione, che ci ha raccontato anche la sua esperienza al Krameterhof, azienda agricola di Sepp Holzer.permacultura_krameterhof

“Siamo nell’epoca del tempo senza attesa”

G. Zavalloni, “La pedagogia della lumaca”

A chi verrebbe in mente oggi, di piantare una ghianda sapendo che saranno i suoi pronipoti ad ammirare un maestoso albero secolare? Purtroppo abbiamo perso la capacità di aspettare: vogliamo tutto e lo vogliamo subito, in tempo reale, a qualunque costo, disposti a saccheggiare qualunque risorsa come se non ci fosse un domani. Nulla tra ciò che ci circonda è progettato per durare a lungo, dagli apparecchi tecnologici ai governi. In un contesto come questo, cosa c’è di più rivoluzionario di cercare di progettare ecosistemi sostenibili e permanenti? Cosa c’è di più affascinante e necessario della permacultura? Ne abbiamo parlato con Elena Parmiggiani esperta di Permacultura, Agricoltura Sinergica e Città in Transizione, collaboratrice della Rivista ViviConsapevole e della Fattoria dell’Autosufficienza, approfittandone anche per farci raccontare la sua esperienza al Krameterhof, l’azienda agricola di Sepp Holzer presso la quale organizzeremo un corso per italiani in giugno. Ora che anche in Italia il termine permacultura comincia a diventare lentamente più familiare si genera spesso confusione sul suo significato, spesso associandolo riduttivamente al concetto di agricoltura sostenibile. In realtà la permacultura è molto di più. Cosa rappresenta per te?

La mia esperienza con la permacultura risale al 2009 quando ho frequentato il corso di progettazione in permacultura con John Button. Subito dopo ho iniziato a cercare di fare chiarezza su cosa fosse davvero questo termine affascinante e a come applicarlo: cultura permanente. Col tempo mi sono resa conto che la Permacultura è tante cose, tanti strati differenti, si va dal “metodo di progettazione”, alla filosofia di vita, all’autoproduzione, all’indipendenza energetica, all’orto nelle scuole, alle Città Transizione (nate dall’idea di un permacultore), al modo nuovo di concepire la vita sociale, a nuovi modelli di fare impresa, al riduco riuso riciclo, alla lotta per salvare i semi dalle multinazionali e agli ogm, al come allevare i bambini, al come arrivare alla fine della propria vita, all’agricoltura rigenerativa, al recuperare saperi perduti e all’integrazione di nuove tecnologie, tra le quali la biomimetica basata sui modelli naturali. Insomma, tutto quello che attiene all’essere umano nelle sue varie esperienze di vita che si possono ricondurre ad una cultura permanente.permacultura_1_

Per me, per la mia esperienza, la Permacultura rappresenta prima di tutto un metodo di progettazione di ecosistemi: potente, intelligente e lungimirante. Questo metodo ci aiuta a creare ambienti umani sostenibili ed ecosistemi integrati, grazie al recupero di saperi tradizionali, a basi di conoscenza ecologiche e grazie alla scienza. D’altro canto è uno strumento, una filosofia di vita, tramite il quale le persone possono imparare a vedere il mondo con occhi nuovi e acquisire delle abilità e competenze che vanno dall’autoproduzione di cibo alla ristrutturazione di casa, solo per fare due esempi molto semplici. Non a caso il binomio permacultura e coltivazione è molto conosciuto, diffuso ed apprezzato, visto che un terzo delle risorse del mondo circa vanno nella produzione di cibo, cominciare a coltivare qualcosa, anche solo le erbe aromatiche, è un gesto rivoluzionario, che ci aiuta nel raggiungimento di un primo livello di indipendenza e che non trovo affatto riduttivo. Inoltre la Permacultura è anche un movimento di attivisti, di persone che vogliono cambiare il mondo e sono in cerca di un nuovo paradigma, e a quanto pare abbiamo almeno un Permacultore anche in Parlamento nel momento in cui scrivo. Con la permacultura ci si prende la propria responsabilità, si aderisce alle etiche e si applicano i principi in un ciclo di progettazione (osservare, riflettere, progettare, fare), sia che si facciano i germogli o il sapone in un appartamento di città, sia che si progetti un’azienda agricola di 4.000 ettari (un esempio dal Messico).

Quali sono ad oggi le esperienze più interessanti in Italia?

Le esperienze più interessanti per me sono quelle di Permacultura Sociale e delle Città in Transizione, presenti un po’ in ogni regione, un esempio famoso è TT Monteveglio, ma anche esempi di Permacultura Urbana a Venezia con Spiazzi, a Catania col Gruppo permacultura Sicilia ed in altre parti d’Italia c’è molto di quello che io chiamo fermento. Sono rimasta molto colpita dalle mie recenti visite in Sardegna e Sicilia dove c’è un grande movimento che include creazione di orti, mutuo aiuto, incontri, sviluppo di monete locali, bellissime esperienze con i bambini e tanto altro. Poi ci sono alcune storiche esperienze come l’ecovillaggio di Torri Superiore in Liguria e Basilico in Toscana e tanti altri esempi più recenti come Tertulia sempre in Toscana o Consolida in Emilia Romagna, che con grande impegno stanno portando avanti sogni che danno speranza a tutti noi. Non posso non citare i piccoli e grandi esperimenti di orti urbani a Roma e la miriade di orti sinergici che stanno punteggiando l’Italia, rendendo possibile anche lo stare in città e il non doversi trasferire in campagna. E come dimenticare la grande e bellissima esperienza che si sta diffondendo sempre più che sono gli orti nelle scuole. Come dice un grande permacultore, la Permacultura è rivoluzione cammuffata da giardinaggio bio! (Graham Bell, Permaculture – A Beginner’s Guide)

Ci sono aziende agricole che operano utilizzando i principi della permacultura?

Sì, anche se in alcuni casi le aziende agricole sono veramente giovani, con solo due o tre anni di attività alle spalle. Il tempo necessario per avere risultati “visibili” in un ecosistema a volte supera i 10 anni (affinché le piante crescano e prosperino) e in alcuni casi l’Azienda stessa si è focalizzata su zone o settori come la costruzione degli edifici, il risparmio energetico, la sostenibilità della produzione, l’apertura al pubblico per diffondere la permacultura, rendendo difficile a volte identificare chiaramente nella realtà idee che magari ci siamo fatti vedendo un documentario, leggendo un libro o solo sentendone parlare.permacultura_9

Aziende nel territorio italiano che sono nate grazie ad un progetto permaculturale sono tantissime, una tra le più famose è l’Azienda Agricola Terra ed Acqua nota come Cascina Santa Brera, che ha rotazioni con mucche, maiali, polli e un grande orto comunitario proprio alla periferia di Milano e che fa scuola di pratiche sostenibili.

Altri esempi molto interessanti sono:

– l’Azienda Agricola di Alessandro Caddeo in Sardegna, che impiega una rotazione di asini, pecore e galline;

– Ragas di Giovanni Zanni, azienda agricola sita nelle colline bolognesi è specializzata in piccoli frutti

e ancora la Roverella in Molise specializzata in coltivazione di foraggere.

Un esempio che non è esplicitamente permaculturale ma che rappresenta per me un vero modello è Remedia, azienda erboristica delle colline romagnole, che non solo è molto affascinante ma ci sono spunti concreti ed interessanti per imparare e da applicare nel proprio progetto.

Altre realtà, create dai pionieri della permacultura in Italia:

– Zebrafarm di Saviana Parodi con olivi ed altre colture;

– la Boa di Stefano Soldati con casa in paglia, orti e food forest;

– l’allevamento di maiali Cinta Senese di Fabio Pinzi;

– la Tana del Bianconiglio di Franz Quondam.

Io stessa lavoro presso un’Azienda Agricola nell’appennino romagnolo, la Fattoria dell’Autosufficienza.

Nel tuo percorso hai avuto esperienze formative e lavorative in questi ambiti in Italia e all’estero, pensi che la situazione sia molto diversa?

La cosa che si nota di più quando si va all’estero è l’anzianità di certi progetti. È abbastanza evidente che un progetto che ha 40 anni (sono 40 anni che la permacultura è arrivata in Europa) ed è magari di un solo proprietario ha un effetto dirompente su chi ha possibilità di conoscere il progetto e visitarlo. Penso sicuramente ai posti che ho visitato in Inghilterra, Austria, Germania, Spagna, Irlanda. Da noi tutto è cominciato con i primi pionieri nel 1994, soprattutto grazie ad un movimento di persone che volevano riavvicinarsi alla natura, creando comunità ed ecovillaggi, da informazioni che ho molti progetti sono decaduti quando le persone che li animavano si sono trasferiti, perdendo l’esperienza. È un peccato, avere perso tanti esempi di permacultura in Italia, ma forse questo ha portato ad un desiderio ancora più forte e straordinario di realizzare una cultura permanente su tutto il territorio nazionale._permacultura7

Questa estate organizzeremo un corso per italiani al Krameterhof, l’azienda di Sepp Holzer sulle Alpi austriache. Tu ci sei stata due anni fa, cosa ne pensi della sua esperienza?

Andare al Krameterhof è stato illuminante. Ho finalmente toccato con mano cosa significa un progetto dove tutto funziona da anni come un organismo, come un ecosistema e dove tutto è abbondanza (intesa come ricchezza a cui possiamo attingere e da cui possono trarre beneficio anche piante ed animali). Una ricchezza di acqua, di piante, di animali e pesci mai viste se non a Plitvice (che però è una riserva naturale croata). Il tocco di Sepp Holzer è ovunque e i risultati sono talmente concreti da lasciare una traccia profonda in chiunque ci vada. Il messaggio del Krameterhof è: sì tutto quel che si dice nei principi di permacultura si può fare concretamente e su vasta scala, permettendo anche agli agricoltori in posti svantaggiati di prosperare (il Lungau, la regione in cui si trova il Krameterhof, era una regione arretrata dell’UE fino a poco tempo fa). L’esperienza al Krameterhof è molto educativa e possiamo anche noi riprendere ed adattare le soluzioni proposte da Holzer alla nostra specifica esperienza italiana. Una cosa da ricordare è che ci vogliono a volte mesi, altre volte anni per ottenere risultati permanenti, soprattutto nel ristabilire l’equilibrio idrogeologico e ricaricare la falda acquifera, quindi non è lungimirante avere fretta.

Ci racconti qualcosa della tua esperienza al Krameterhof? C’è qualche cosa che non ti ha convinto?

Il Krameterhof è un’azienda agricola funzionante e produttiva di 45 ettari con circa 70 bacini d’acqua e un dislivello di circa 400 metri, progettata da Sepp Holzer e realizzata da lui e dalla sua famiglia. Sono partiti da scarsità d’acqua e una piantagione di abeti che stava impoverendo irrimediabilmente il terreno e con paziente osservazione hanno ottenuto risultati molto importanti. I quattro giorni passati al Krameterhof sono stati molto belli, ricchi di sorprese. Il clima era piovoso, eravamo in luglio e si stava decisamente bene con il maglione, ma appena si affacciava il sole vai di maniche corte e crema abbronzante! Ci hanno accolti molto bene, e subito siamo partiti per visitare il luogo. In quattro giorni abbiamo fatto su e giù per la montagna e abbiamo visto cantine, essiccatoi, casette di legno, le sorgenti, i laghi, l’allevamento di galline, pecore, mucche, maiali allo stato brado. Campi appena seminati, orti ricchi di verdure, luppolo chilometrico, tante tantissime trote, mi sono fatta una scorpacciata di lamponi e abbiamo fatto tantissime foto. Ho avuto l’onore di conoscere i figli di Holzer, persone veramente gentili e squisite che ci hanno accolto ottimamente! La cosa che mi ha colpito di più è stata l’abbondanza di lamponi, che da me a Reggio Emilia vengono ma ci sono voluti tre anni senza irrigazione per ottenere un raccolto decente. L’altra cosa bellissima, per me amante dei fiori e delle erbe spontanee, è stata la vitalità e la biodiversità del luogo, che ricordiamoci era una piantagione di abeti con un suolo orribile e poco profondo. Quarant’anni fanno una bella differenza, ma anche le tecniche adottate sono di aiuto per velocizzare le cose, infatti Holzer cambia periodicamente e sperimenta, soprattutto esplorando nuove nicchie di mercato.permacultura__6

Dove c’è acqua c’è vita e Sepp Holzer lo sa bene. Holzer però non si è limitato a creare dei laghetti, ogni singolo sasso nei suoi terreni svolge funzioni specifiche, le piante e gli animali altrettanto, così come ogni terrazzamento e rialzo nel terreno. Per avere trote e gamberi di acqua dolce, così come patate di colori e sapori diversi, ortaggi, cereali, prodotti animali e miele, Holzer fa largo uso di trappole solari, masse termiche, fitodepurazione, sfruttando anche ogni vantaggio nella creazione di microclimi (con orti a cumulo, orti a monticello Hugelbed) e raccolta di acqua piovana direttamente nel suolo vicino alle piante. Dal punto di vista economico, l’azienda di Holzer si basa su entrate di vario tipo, che cambiano spesso e sono il risultato di studi che fa Holzer stesso sulle nicchie di mercato. C’è molto da imparare a tutti i livelli, al Krameterhof, non solo sulla gestione ambientale, ma anche turistica, di produzione, di diffusione, di trasmissione d’impresa (entrambi i figli lavorano, anche se in ambiti differenti, nell’azienda paterna). Quello di Holzer è un approccio olistico che prende in esame moltissimi aspetti relativi ad un’azienda agricola e della famiglia che se ne occupa, garantendo un futuro sostenibile nella Alpi austriache, con precipitazioni annue di 700mm e una temperatura media di 5 gradi annui. Aggiungo che la settimana scorsa sono andata a visitare un altro progetto famoso di Holzer, Tamera in Portogallo. Ci sono andata perchè volevo vedere altre tecniche di Holzer e per verificare se in altri climi il suo approccio avrebbe continuato a funzionare. Lì ho percepito di nuovo il tocco di Holzer, perchè il terreno è con poco dislivello, aperto e poco ondulato e quindi l’impatto del cambiamento è visibile e forte. A Tamera ci sono frutteti lungo tutti i bacini artificiali, serre, policolture di ortaggi ed erbe medicinali ovunque. Il lago più grande creato da Holzer a Tamera è di circa 5 ettari e contribuirà a ristabilire l’equilibrio idrologico di questo ecovillaggio che comprende 130 ettari di terreni. Una cosa che non mi aveva convinto durante la mia visita al Krameterhof è stata la tecnica con cui vengono costruiti i bacini idrici, dubbio che però ho chiarito meglio dopo, dubbio dovuto più ad un mio convincimento che ad altro. Invece il dubbio sull’esistenza dei limoni ce l’ho ancora, perchè nel nostro visitare l’azienda sono sfuggiti alla nostra attenzione, quindi quando sarete là fateveli mostrare e fate tante foto!

Molte persone sinceramente interessate alla permacultura pensano che possa fornire spunti interessanti per l’orto di casa, o comunque solo per produzioni su scala molto ridotta. Cosa ne pensi? I principi sono applicabili anche su larga scala? È possibile per un’azienda agricola intraprendere questa direzione?

Oltre che possibile è auspicabile che le aziende agricole prendano in considerazione la Permacultura ed i suoi principi. Soprattutto perchè i principi si basano su una pianificazione energetica efficiente e quindi portano al risparmio di denaro, di risorse, di tempo e soprattutto creano un futuro in settori, come quello agricolo, in forte crisi e dipendenti da contributi e fondi europei che con la crisi economica attuale non sono proprio garantiti. Ci sono moltissime aziende all’estero che fanno permacultura con successo, in Italia non mancano esempi, forse l’unica cosa che manca è l’informazione, ovvero una mappa aggiornata delle realtà italiane.

Che passi consiglieresti a chi volesse intraprendere questa direzione?

È molto importante visitare realtà come il Krameterhof che sono attive da moltissimi anni e funzionano in modo coerente rispetto al progetto in Permacultura, che è stato pensato per quel luogo dal progettista. Io stessa consiglio a chiunque di andare a visitare (se possibile) l’azienda di Sepp Holzer, chiarisce moltissimi dubbi e indecisioni e fornisce una base solida e concreta se si sta già studiando permacultura. Molte cose realizzate lì sono esempi reali di quel che si legge nei libri o si vede su Internet e quindi si può toccare con mano il risultato. Molti agricoltori ed imprenditori agricoli possono trarre insegnamento, esempio ed ispirazione da una realtà economica in attivo, senza togliere nulla all’ambiente ma anzi favorendolo. In secondo luogo consiglio di visitare le aziende agricole e i luoghi che applicano la permacultura o che hanno iniziato la progettazione in Italia. Favorendo all’inizio quei progetti che siano nella propria regione, nel proprio clima, facili da visitare e con interessi simili ai propri. Parteciperei poi agli incontri semestrali dell’Accademia di Permacultura, per cominciare a fare rete e conoscere i vari permacultori sulla scena italiana.

Per chi volesse confrontarsi, imparare e conoscere meglio la permacultura, ma non avesse la possibilità di farlo con Sepp Holzer, ci sono le giornate di introduzione ed i corsi di progettazione che si svolgono in varie parti d’Italia.

Fonte: il cambiamento

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Grazie alla collaborazione tra AIAB e Legambiente nasce un protocollo per divulgare strutture per il turismo sostenibile attraverso l’istituzione di marchi di qualità quali Agriturismi Bio-Ecologici AIAB, garanzia AIAB Italia e Legambiente Turismo. L’idea è di fornire un catalogo completo che va dai viaggi a impatto zero fino a strutture ricettive amiche dell’ambiente che offrono ristorazione con prodotti provenienti dalla filiera a Km zero e biologica, ma anche soluzioni per il risparmio idrico o energetico, il tutto garantito e certificato da Aiab e Legambiente. Spiega Alessandro Triantafyllidis, presidente AIAB:
Difendere la biodiversità dell’ambiente rurale, promuovere la multifunzionalità dell’azienda agricola e garantire cibi con ingredienti totalmente biologici è la miglior sintesi tra ambiente naturale e società. Al turista attento e consapevole vogliamo garantire strutture che hanno scelto di operare, per se stesse e per i propri ospiti, nel rispetto dell’ambiente, convertendo le proprie produzioni al metodo dell’agricoltura biologica e, quindi, eliminando qualsiasi impiego di prodotti chimici di sintesi nella difesa delle colture o nelle fertilizzazioni. E che intendono garantire un’alta qualità ambientale dei servizi offerti riducendo l’impatto sul clima e sul consumo di energia. E al momento le strutture che hanno aderito al protocollo AIAB -LEGAMBIENTE ottenendo il riconoscimento del doppio marchio sono:

BioAgriturismo Il Gumo – Varese Ligure (SP)
BioAgriturismo Fiorano – Cossignano (AP)
BioAgriturismo Preggio
BioAgriturismo Le Mole sul Farfa – Mompeo (RI)
BioAgriturismo Fattoria Sant’Anna
Relais del Colle – Ripatransone (AP)
Agriturismo Il Duchesco – Alberese (GR)
Agriturismo Cascina Clarabella – Iseo (BS)
Azienda Agricola Terra di Vento – Montecorvino Pugliano (SA)

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