Via Francigena: pellegrinaggio moderno e mobilità terapeutica nel cuore delle aree rurali

I viaggi a piedi lungo antiche rotte di pellegrinaggio hanno da tempo rivoluzionato il paradigma turistico tradizionale, portando alla ribalta la mobilità lenta e sostenibile. Leonardo Porcelloni, ricercatore della University of Nottingham, ci racconta la rinascita delle aree rurali e appenniniche lungo la Via Francigena, nuovo e antico crocevia di storie e viaggiatori. È forse il viaggio la metafora che parla di noi meglio di tutte. «Sembra esserci nell’uomo, come negli uccelli – scriveva Marguerite Yourcenar – un bisogno di migrazione, una vitale necessità di sentirsi altrove». Di qualunque altrove si tratti, lo cerchiamo da sempre: la nostra è una storia di instancabili camminatori. Riconosciuta dal ‘94 come Itinerario culturale del Consiglio d’Europa e candidata patrimonio UNESCO nel 2019, la Via Francigena è molto più di un’antica strada di pellegrinaggio riportata in vita da viaggiatori contemporanei. È una fitta rete di realtà culturali e socio-economiche che innerva le aree rurali interne del nostro paese, riportandole al centro del dibattito politico grazie per lo più a processi bottom-up spontanei e graduali, diffusi su tutto il territorio. A differenza del Cammino di Santiago di Compostela, via di pellegrinaggio e al contempo iconico viaggio iniziatico della cultura pop, la Via Francigena è stata riscoperta più tardi. Ne abbiamo parlato con il geografo Leonardo Porcelloni, dottorando della University of Nottingham, a seguito del suo recente studio pubblicato sulla rivista accademica “Turismo & Psicologia”.

Come nasce il tuo interesse personale e accademico per i cammini?

Mi avvicino ai cammini con un approccio storico-geografico (oltre a essere il mio modo di viaggiare). Da geografo cerco di ricostruire il paesaggio o comunque l’organizzazione umana sul territorio dal punto di vista della viabilità e non attraverso i confini. Mi interessano i collegamenti viari e come il territorio cambia e si trasforma rispetto a queste direttrici. Come nel Medioevo, ancora oggi le strade influenzano le dinamiche sociali ed economiche di un territorio. Si possono riscontrare molte affinità artistiche e culturali nei luoghi attraversati da una stessa direttrice e si riesce a ricostruire più facilmente il passato di un territorio. La strada è una prospettiva privilegiata nella ricerca geografica: come si può studiare organicamente un territorio senza tener conto della mobilità, degli spostamenti e delle connessioni tra i vari luoghi? In questo senso la Via Francigena può essere interpretata come un centro di eventi che permette di collegare fenomeni apparentemente sconnessi.

Studi da tempo la viabilità antica e moderna lungo la Via Francigena. Con quale metodologia e quali obiettivi?

Il mio ambito scientifico è la geografia storica. Mi occupo dello studio del territorio e della mappatura delle risorse materiali e immateriali che sono legate alla viabilità francigena, di come questi itinerari vengono fruiti, nonché delle strategie inclusive di valorizzazione del patrimonio. Per farlo mi servo di dati quantitativi e statistici, ma soprattutto di un approccio etnografico. Ciò che mi interessa infatti è l’impatto socio-culturale sulle piccole realtà rurali e sui borghi – fuori dai maggiori circuiti turistici – e le conseguenze a seguito della riscoperta viabilità francigena. Rispetto all’itinerario attuale, il mio obiettivo è di cogliere l’essenza alla base del pellegrinaggio moderno sulla Francigena e le modalità di fruizione e realizzare una sorta di identikit del viaggiatore attraverso questionari (dati quantitativi) e interviste (dati qualitativi). Una vera e propria etnografia di pellegrinaggio, camminando tra una tappa e l’altra, stando negli ostelli insieme a pellegrini e ospitalieri per cogliere al meglio le dinamiche che accomunano le diverse realtà del pellegrinaggio moderno, secolare e religioso che sia.

Dai primi anni del 2000 si è assistito alla riscoperta dei cammini. Come mai?

Non per tutti i cammini vale lo stesso discorso. Ad esempio il Cammino di Santiago era da tempo ampiamente percorso, già dichiarato patrimonio UNESCO dal 1993. In Italia, la Via Francigena ha una storia un po’ diversa. Dalla fine degli anni ’90 è stata pian piano riscoperta, non solo a seguito degli studi, ma anche grazie alla nascita delle prime associazioni che tutt’ora si occupano della valorizzazione del territorio e del patrimonio storico-culturale legato a questa antica rotta di pellegrinaggio. Poi vi è stata anche l’importante spinta del Giubileo del 2000. Direi che è in particolare tra gli anni ‘90 e i 2000 che si nota un particolare fermento sia negli studi, che approcciano in senso multidisciplinare alla Francigena, che tra le istituzioni e amministrazioni nel cogliere l’opportunità di valorizzare un modo di fare turismo di qualità e sostenibile.

Non è che prima non fosse mai stata percorsa a piedi. Durante le mie ricerche ho intervistato anche quelli che si potrebbero definire i pionieri della moderna Via Francigena, viaggiatori che la percorrevano ancora prima che si consolidassero sul territorio le infrastrutture ospitaliere e le indicazioni lungo il percorso. Semplicemente conoscevano la direzione da seguire e al momento del riposo stendevano il loro sacco a pelo sotto i portici delle chiese o in ripari di fortuna. Prima era molto diverso: gli abitanti di borghi e villaggi li guardavano con distanza e curiosità. Oggi quando si vede qualcuno che cammina con lo zaino in spalla, c’è senz’altro meno stupore.

Su un cammino si incontrano tipologie di viaggiatori molto diverse. Cosa differenzia un pellegrino da un turista?

Dal punto di vista accademico c’è un dibattito aperto almeno dagli anni ’80 su come definire il pellegrino rispetto al turista . Al di là di alcuni aspetti pratici, il turista o il cosiddetto turigrino (un viaggiatore a metà strada tra il turista e il pellegrino) ricerca un tipo di ospitalità conforme alle dinamiche turistiche. Magari cammina per brevi tappe, solo il week-end e di norma seleziona le parti più belle del cammino. Alla base di tutto credo ci siano le motivazioni personali di ciascun viaggiatore. Sono quelle a fare la differenza e che quindi determinano il modo di porsi in cammino. Il pellegrino è tendenzialmente mosso da motivazioni che vanno oltre i tradizionali schemi turistici: non vuole solo vedere dei bei posti, ma ha delle spinte interiori che si ricollegano al discorso della mobilità terapeutica. Cerca sulla strada una cura interiore, dell’anima, che abbia a che fare con aspetti religiosi e non. Magari ha bisogno di riflettere sulla propria vita, riconsiderare le proprie scelte: il cammino diventa così una sfida con sé stessi. C’è chi ha subito una perdita e quindi cerca una vera e propria guarigione sulla strada. Le motivazioni alla base del viaggio determinano un percorso sempre diverso. Ma in fondo il cammino è per tutti: ognuno ha le motivazioni più disparate per affrontarlo, così come nella vita.

Le infrastrutture sono sempre adeguate alle esigenze di tutti i viaggiatori?

Nonostante si incontrino eccezionali realtà ospitaliere lungo il cammino, all’eterogenea segmentazione del turismo lungo Via Francigena purtroppo non corrispondono sempre infrastrutture adeguate. Oltre che incentivare la domanda si dovrebbe predisporre anche un’offerta pronta e adeguata. Se si ha un turismo trasversale sulla Francigena però poi in certe comunità si incontrano solo hotel o solo ostelli, si crea un conflitto, visto che turisti e pellegrini hanno esigenze e aspettative molto diverse tra loro. Credo siano stati fatti importanti passi avanti negli ultimi anni, tuttavia c’è ancora molto da fare e decisivo è il ruolo delle amministrazioni locali, oltre all’iniziativa spontanea e dal basso degli abitanti.

Lo zaino è la metafora della semplicità: ci costringe a lasciare a casa tutto ciò di cui non avremo bisogno

Dal tuo studio emerge l’interesse non solo per chi vive il cammino da outsider, ovvero i viaggiatori, ma anche per gli insiders, cioè ospitalieri e abitanti del luogo. Sembrano due prospettive diverse e al contempo intercambiabili. Ce ne parli?

Finora l’interesse scientifico è stato più rivolto verso chi percorre il cammino rispetto a chi fa accoglienza (c’è molta meno letteratura in merito). Anch’io all’inizio della mia ricerca mi ero focalizzato sugli outsiders. Col tempo mi sono reso conto di quanto la prospettiva dell’insider fosse altrettanto interessante: permette una narrazione diversa dell’esperienza dei cammini, sia essa turistica o di pellegrinaggio. Di fatto, anche chi si occupa dell’accoglienza ha delle motivazioni che vanno oltre il paradigma economico e turistico. C’è chi apre piccole attività per ospitare i pellegrini, chi fa volontariato: spesso sono persone in pensione che si avvicinano alla Francigena non per motivi economici, ma perché vogliono far parte di questa realtà. Così anche per loro diventa un’esperienza culturale e terapeutica. Stando fermi in un posto e facendo accoglienza è come se fossero in viaggio con i pellegrini che attraversano i loro territori. Conoscono storie, persone, imparano lingue nuove. Vivono anche loro l’esperienza del viaggio, restando fermi.

Come secondo te la pandemia ha cambiato o cambierà l’esperienza dei cammini e soprattutto le forme di ospitalità?

Durante questi ultimi due anni, se da un lato iI numero di viaggiatori sulla Francigena è chiaramente diminuito, dall’altro la pandemia ha rilanciato il turismo di prossimità e a passo lento. Molte realtà hanno chiuso a causa della crisi, altre sono nate, come a Costa Mezzana, dove una famiglia ha ristrutturato un casale per l’ospitalità dei pellegrini, dal momento che l’ostello comunale era stato chiuso. Al di là del fatto che il cammino resta la modalità più sicura di fare turismo – perché si cammina all’aperto, fuori dalla massa – l’ospitalità e la condivisione degli spazi comuni pongono diverse sfide. Se il cammino è l’elemento solitario e di sfida interiore del viaggio, al contrario l’ospitalità è il momento al termine della tappa in cui ci si concilia con gli abitanti e gli altri viaggiatori. Ci si incontra, si condivide l’esperienza, si fa socialità. Ciò che è emerso dalle mie ricerche è che solo pochi percepivano il rischio legato alla pandemia: la maggior parte dei viaggiatori non era disposta a sacrificare l’aspetto conviviale dell’ospitalità, perché considerato imprescindibile nell’esperienza del cammino.

Durante le tue ricerche hai raccolto diverse esperienze e testimonianze. Per te cos’è il viaggio?

Lo definirei con le parole dei viaggiatori che ho incontrato. Molti parlano del cammino come una sfida con sé stessi, un’opportunità per conoscersi, per riscoprirsi e avvicinarsi alla semplicità della vita. Questi gli elementi più ricorrenti. In viaggio si scopre di aver bisogno di poco. D’altronde lo zaino è la metafora della semplicità: ci costringe a lasciare a casa tutto ciò di cui non avremo bisogno e che sarebbe – letteralmente – un peso in più da portarsi dietro. Si impara a fare a meno di tante cose e lo stesso vale per la vita. Il viaggio ci spinge a un rapporto diverso con la quotidianità, più semplice e che rispecchia i bisogni primari: mangiare, bere, trovare un riparo per dormire e spostarsi da un luogo a un altro. E poi il viaggio è un’evasione dalla propria quotidianità. Il cammino permette di riappropriarsi del proprio tempo e di costruirlo. Il tempo si dilata mentre si attraversa il paesaggio camminando. Questo permette di avere un rapporto autentico con il paesaggio e con i luoghi attraversati. Quando ci si muove a piedi, il paesaggio non è una semplice cornice. È un’esperienza sensoriale in cui si è completamente immersi. Si scoprono dettagli e luoghi che andando ad altre velocità sfuggirebbero. Ho ancora impresse le descrizioni di alcuni viaggiatori, che magari partono quando è ancora buio e aspettano l’alba come una rivelazione.

Attraversare i luoghi della Via Francigena è come fare un viaggio nel tempo. Quali sono le relazioni tra la mobilità lenta e la rinascita delle aree interne?

La Via Francigena rappresenta un’importante opportunità per valorizzare il territorio e le comunità, da un punto di vista sia culturale che economico. Agli inizi, quando si stava definendo il tracciato principale, molti Comuni non erano interessati a farne parte perché non sapevano neanche cosa fosse o l’opportunità che rappresentasse. Adesso è il contrario: molte località cercano di motivare la loro importanza storica rispetto alla Francigena e di essere inserite come varianti al percorso principale. La presenza di diramazioni rispetto al tracciato principale della Francigena non è un fenomeno nuovo. La Via Francigena infatti non è mai stata un tracciato unico, ma era un’arteria con una direzione principale, seguita da varie diramazioni, che durante il corso del tempo ha subito sostanziali modifiche, sia su scala micro che macro-territoriale, per motivazioni politico-militari, ambientali e anche legate al corso delle stagioni . Accadeva nel Medioevo e succede oggi che la si sta ripercorrendo. La cosa più importante di tutte è che negli anni si è assistito, oltre alla riscoperta del valore storico e paesaggistico dei luoghi attraversati dalla Francigena, al consolidamento di un’identità territoriale forte degli abitanti delle aree interne, oggi più che mai veri e propri custodi dell’autenticità e del patrimonio del loro territorio. Fonte: https://www.italiachecambia.org/2022/01/francigena-mobilita-terapeutica/?utm_source=newsletter&utm_medium=email

Rigenerare i borghi europei: una visione per tornare nelle aree rurali nel post pandemia

Una panoramica sullo stato dei borghi europei e soprattutto sulle opportunità che questo momento storico di grande trasformazione offre rispetto al loro recupero, da portare avanti in equilibrio fra preservazione delle tradizioni e innovazione tecnologica. Approfondiamo il tema presentando il lavoro del team di Arup – gruppo che si occupa di pianificazione strategica e urbana, disegno urbano e resilienza – curato da Riccardo Erata, Edoardo Venturi, dal project manager Salvatore Settecasi e dal project director Stefano Recalcati. La ricerca, elaborata nei mesi scorsi dal team Integrated City Planning di Arup, costituisce una prima risposta all’esigenza di investigare un tema – il ruolo dei borghi e delle aree interne – legato alle sfide imposte dalla pandemia. Il lavoro si articola in quattro fasi. Nella prima, il contesto europeo viene studiato secondo un approccio analitico, basato sul confronto dei dati e offrendo una panoramica dei programmi e delle risorse messe a disposizione dall’Unione Europea. In un secondo momento, sono stati raccolti e analizzati diversi casi di studio europei, utili all’identificazione dei key drivers alla base dei progetti di rigenerazione. Come terzo passaggio, sono state condotte delle interviste con alcune figure rilevanti per l’ambito della ricerca. In questa fase è stato possibile comprendere direttamente i temi e i processi adottati in esperienze di successo, sia pubbliche che private. Infine, sono stati organizzate alcune sessioni di workshop con diversi specialisti di Arup che hanno fornito utili approfondimenti e delineato prospettive per la rigenerazione dei borghi europei. Tutti questi contenuti hanno costituito la base di una vera e propria visione, con possibili azioni per la sua implementazione.

I temi emersi in questa ricerca confermano che la tendenza a riabitare i piccoli borghi e i territori rurali in Europa ha subito un forte impulso dalla pandemia di Covid-19 e sembrerebbe destinata a crescere nei prossimi anni. In effetti, da questa prima fase dello studio, emerge che esiste già una visione europea per i suoi borghi e territori rurali. L’UE ha infatti già predisposto una serie di strumenti e risorse per valorizzare queste realtà che oggi sono considerate dei veri e propri “asset” su cui investire. Dallo studio degli esempi più virtuosi e dalle interviste a una serie di stakeholder, è stato possibile comprendere le difficoltà incontrate e i driver di successo delle iniziative. Creatività, innovazione, imprenditorialità smart, visione, sono solo alcuni dei fattori comuni ai vari casi studio. Come si è visto, la rigenerazione dei borghi rurali ha una serie di innegabili benefici a breve e lungo termine. La cura del patrimonio forestale e agricolo evita l’impoverimento dei territori favorendo la biodiversità e la resilienza del sistema idrogeologico, oltre a contrastare il cambiamento climatico; il recupero del patrimonio costruito esistente, nell’offrire nuove opportunità abitative e occupazionali, riduce lo spopolamento e gli effetti negativi dovuti all’assenza di manutenzione; i borghi possono diventare meta di un turismo esperienziale attento e rispettoso, capace di contribuire all’economia virtuosa dei luoghi.

Tuttavia, sono emerse anche possibili criticità. Esse vanno certamente tenute in considerazione nella definizione di una visione: il rischio che alcuni borghi diventino così attraenti da essere poi sovrappopolati; il rischio di snaturare l’anima dei luoghi attraverso l’introduzione di stili di vita inappropriati; la competizione con le città nell’attrarre giovani talenti; possibili effetti “devianti” come la speculazione edilizia e la gentrificazione.

I contenuti emersi dalle diverse discussioni con gli stakeholder e gli esperti di Arup sono stati utilizzati per plasmare i pilastri alla base della visione. Questa è stata concepita con una possibile roadmap per l’implementazione, aperta e flessibile, con gli elementi chiave per la rigenerazione a livello europeo: strategia territoriale, sostenibilità, capitale umano, innovazione, rispetto delle identità locali. Per tradurre in realtà le ambizioni della visione, sarebbe necessario attuare tutte le azioni necessarie per fornire ai territori un’adeguata offerta di servizi (educazione, salute, mobilità) che incidono direttamente sulla qualità della vita delle comunità. In conclusione, la ricerca evidenzia il fatto che le aree rurali e i grandi centri debbano essere entità non contrapposte ma complementari, soprattutto in termini di condivisione dei servizi, compresi quelli ecosistemici. Una maggiore governance e una condivisione multilivello sono quindi necessarie per raggiungere gli obiettivi di coesione territoriale.

L’uso intelligente delle nuove tecnologie – specialmente quelle digitali – può sicuramente aiutare a stabilire un’alleanza più forte tra territori, città e borghi. Le tecnologie informatiche permettono già alle persone di lavorare a distanza e di essere virtualmente connesse con il resto del pianeta. Facendolo da un villaggio, è possibile apprezzare le peculiarità della vita nei piccoli centri, avendo anche la possibilità di svolgere molte altre attività, come immergersi nella natura, praticare l’agricoltura, formarsi, dare sfogo alla creatività e così via. La rigenerazione dei borghi dell’UE, oltre a elaborare progetti a livello locale, dovrebbe considerare strategie di pianificazione a scala territoriale, con il coinvolgimento dei vari stakeholder fin dall’inizio del processo. Si dovrebbero inoltre individuare principi e regole per la valorizzazione dei territori, puntando a ridurre al minimo il consumo di risorse non rinnovabili – come, per esempio, il suolo – e a promuovere comportamenti circolari per rispondere efficacemente alle sfide ambientali, ponendo le basi per un futuro realmente sostenibile.

Fonte: https://www.italiachecambia.org/2021/11/rigenerare-borghi-europei/?utm_source=newsletter&utm_medium=email

“Adotta” un agricoltore per sostenere gli antichi borghi e i territori italiani

I Borghi più belli d’Italia e Coltivatori di Emozioni lanciano una campagna per sostenere i piccoli agricoltori che valorizzano i territori italiani. Uno degli obiettivi, grazie anche alla collaborazione con lo chef Simone Rugiati, è anche quello di proporre uno stile alimentare sano, locale e biologico. Valorizzare i borghi della nostra Penisola sostenendo i piccoli produttori e le loro tradizioni agroalimentari: è questo l’obiettivo della partnership siglata dall’associazione I Borghi più belli d’Italia e Coltivatori di Emozioni, la piattaforma di Social Farming creata per sostenere e supportare fattivamente i piccoli produttori dell’agro-alimentare. Grazie a questa collaborazione nasce una nuova iniziativa che punta a valorizzare ulteriormente I Borghi più belli d’Italia attraverso uno degli elementi comuni alle due realtà: l’agricoltura. L’Italia custodisce un patrimonio prezioso, fatto di tradizioni ed eccellenze enogastronomiche senza eguali. Ogni territorio che circonda i piccoli borghi conserva una porzione di questo tesoro inestimabile, il più delle volte tramandato di padre in figlio. Da oggi sarà possibile “sostenere” una di queste piccole realtà produttive, contribuendo così a preservare il territorio, il paesaggio culturale e dare un sostegno all’economia dei Comuni aderenti alla rete dei Borghi più belli d’Italia.

L’iniziativa è stata lanciata nel periodo natalizio – segnato dalla preoccupazione e dall’incertezza – con l’intento di dare un segnale di speranza e tenere alta l’attenzione sulla bellezza e la ricchezza del nostro Paese. Per tutto il 2021 sarà, infatti, possibile sostenere “a distanza” uno dei piccoli agricoltori e produttori dei Borghi più belli d’Italia e diventare così un Azionista della Bellezza e del Gusto!

Inoltre, per raggiungere l’ambizioso obiettivo di dare voce ai piccoli produttori italiani e promuovere quei borghi, Coltivatori di Emozioni e i Borghi più belli d’Italia hanno deciso di affidarsi a un rappresentante eccezionale della cucina di qualità, lo chef Simone Rugiati. Un’iniziativa che lo chef ha sposato fin da subito, grazie alla condivisione di valori e intenti: portare in tavola prodotti naturali, provenienti da un’agricoltura sostenibile e/o biologica, che rispetti la biodiversità e il benessere del consumatore

Cliccando qui è possibile selezionare il produttore e il borgo che si vuole sostenere e ricevere in cambio prodotti tipici direttamente dal territorio. Dalla fagiolina del Trasimeno di Castiglione dal lago al farro di Abbateggio passando per il Giglietto Prenestino di Castel San Pietro ai vini di Sambuca di Sicilia. Ma non solo: ogni adozione genererà un buono lavoro da un’ora interamente destinato al produttore adottato, che potrà usarlo per le varie attività lavorative (semina, vendemmia, raccolta, lavorazione ecc.), dando un’occupazione ai giovani che risiedono nel borgo e inserendoli così nel tessuto produttivo del territorio, contribuendo a conservare la tradizione di quel luogo. Un Certificato di adozione suggellerà il legame fra il sostenitore e il territorio e/o produttore “adottato”.

Attraverso aggiornamenti stagionali i sostenitori avranno anche modo di conoscere “a distanza” borghi meravigliosi e tradizioni agroalimentari poco conosciute che meritano di essere riscoperte. Per viverle, poi, da vicino non appena si potrà tornare a viaggiare. Le tipologie di adesione all’iniziativa sono tre: più alta sarà la donazione e più saranno le ricompense in prodotto che si potranno ricevere e le ore-lavoro donate ai produttori. Inoltre uno dei pacchetti sarà impreziosito dalla nuovissima guida dei Borghi più belli d’Italia 2020/2021 composta da 792 pagine, circa 2.500 foto e la realtà aumentata con 100 filmati che accompagneranno il sostenitore alla scoperta dei gioielli dell’Italia nascosta. Per il Presidente dei Borghi più belli d’Italia, Fiorello Primi, «l’accordo fra I Borghi più belli d’Italia e Coltivatori di Emozioni permette alle persone di entrare a far parte di una rete di appassionati, agricoltori e aziende che vogliono dar vita a un nuovo ciclo di produzione responsabile, che recupera le buone tradizioni, sostiene le microeconomie locali e crea opportunità di lavoro nei piccoli borghi italiani, contribuendo a combattere il loro spopolamento».

«La protezione dei nostri patrimoni e la riscoperta delle coltivazioni tradizionali delle aree rurali italiane costituiscono l’energia che anima il nostro progetto. Tutti noi abbiamo il dovere di salvaguardare le tradizioni e le tipicità italiane», spiega Paolo Galloso, founder di Coltivatori di Emozioni. «Crediamo che attraverso la collaborazione con I Borghi più belli d’Italia possiamo coinvolgere tutti quei piccoli produttori italiani che con coraggio hanno deciso di portare avanti produzioni in territori unici ma difficili». Fonte: https://www.italiachecambia.org/2021/01/adotta-un-agricoltore-sostenere-antichi-borghi-territori/?utm_source=newsletter&utm_medium=email

Dal grano al pane, nasce Panacea Social Farm

Panacea social farm è un’impresa sociale cooperativa che sta muovendo i primi passi, “costola” del progetto Panacea, primo forno a lievitazione naturale di Torino, avviato e portato avanti negli ultimi due anni da Articolo 4, Società Cooperativa Sociale di tipo B, impegnata nella promozione del diritto al lavoro e della sostenibilità alimentare.9440-10178

«La sfida che sta alla base di Panacea social farm è quella di ridurre il gap tra città e campagna fornendo una visione inedita della città di Torino e ricostruendo, sulle macerie dell’era industriale, una nuova visione culturale che concili e rinsaldi il legame tra area urbana e aree rurali» spiega Chiara Vesce, che fa parte del gruppo promotore.

«Attraverso la promozione di nuove fertili relazioni tra insediamento umano e ambiente, Panacea social farm promuove la cultura agricola e alimentare, elementi fondanti intorno ai quali ricostruire un rapporto di scambio solidale fra città e campagna. Crediamo, infatti che il settore agricolo non produca solo merci per il mercato ma utilità collettiva, fruibilità del territorio e che, se trasformato e innovato in senso ecologico, preservi le risorse paesaggistiche per le future generazioni».

Il Sistema di relazioni e la filiere del grano di Stupinigi

«La social farm nasce nel virtuoso contesto relazionale della già esistente Filiera del grano di Stupinigi, l’idea che muove la costituzione di un nuovo soggetto giuridico è quella di estendere l’attività di Panacea oltre la semplice trasformazione, verso la coltivazione diretta di grani antichi e di cereali a basso tenore glutinico o privi di glutine. Nata nel 2014, la Filiera del grano vede la collaborazione di sei aziende agricole del Parco Naturale di Stupinigi, l’Ente Parco, Coldiretti Torino, il Mulino Roccati, il Consorzio Agrario di Piobesi e il forno a lievitazione naturale Panacea. La social farm rappresenta, dunque, un ulteriore anello di sviluppo del progetto di filiera volto a garantire la produzione di valore sociale diffuso, oltre che la generazione d’impatto positivo per il territorio».

«Il nuovo progetto agricolo si basa sull’esperienza maturata in questi anni – prosegue Chiara – e s’inserisce nel processo di filiera assorbendo il segmento di produzione e commercializzazione di pane a lievitazione naturale, allargando allo stesso tempo il bacino della produzione cerealicola della filiera attraverso la semina e la riproduzione di varietà antiche di frumento tenero. Negli ultimi due anni Panacea ha studiato e sperimentato un metodo di produzione ispirato ai disciplinari del primo Novecento che non contempla l’uso di prodotti chimici e rispetta il ciclo naturale della lievitazione con pasta madre viva. L’esperienza acquisita in questi anni ci ha spinto in direzioni sempre più sperimentali a testare la lievitazione naturale con diverse farine e misture, in particolare nel tentativo di verificare la capacità di lievitazione con metodi naturali delle farine a basso tenore glutinico. Questa attenzione ci ha condotti infine alla convinzione che le varietà antiche di frumento tenero oltre ad avere proprietà nutritive decisamente più alte delle farine ottenute dalla macinazione dei grani moderni, permettono di ottenere un prodotto di qualità superiore e meno impattante dal punto di vista ambientale, capace allo stesso tempo di soddisfare il gusto di tutti. Grazie all’approccio collaborativo tra i diversi attori della Filiera siamo riusciti quest’anno a fare un passo oltre la semplice sperimentazione e a seminare 5 ettari di antichi grani. In questo processo Panacea si è posta come promotore di una diversa modalità di coltivazione mettendosi in gioco con la social farm anche sul piano agricolo dimostrando di voler correre il rischio, insieme agli altri agricoltori, di promuovere un approccio innovativo all’agricoltura, consapevole e rispettoso dell’ambiente e del territorio. L’interesse della cooperativa agricola è d’instaurare con gli altri produttori partnership strategiche in un ottica di condivisione di know-how ed expertise che portino a tutti gli attori e al territorio un ritorno positivo. Il processo di filiera, infatti, comporta per gli attori che ne fanno parte vantaggi a più livelli: oltre a garantire la correttezza di ogni passaggio, agevola le attività attraverso azioni di marketing specifiche, azioni di coinvolgimento diretto dei clienti e delle comunità territoriali e partnership che permettono di valorizzare a tutto tondo il territorio e i suoi prodotti».

La rete di Partner di Panacea social farm comprende:

-6 aziende agricole del Parco Naturale di Stupinigi

-Il Mulino Roccati

-Il Consorzio Agrario di Piobesi

-L’Associazione di categoria Coldiretti Torino

-L’Associazione territoriale Stupinigi è

-AIAB in Piemonte

-L’Università degli Studi di Scienze Gastronomiche

-Il Collettivo LieviTO

-Ortja piattaforma per il crowdfunding nel settore agrifood

Lo scopo sociale e gli obiettivi di breve termine

«Quando abbiamo iniziato a pensare Panacea – aggiunge Chiara – l’obiettivo che ci siamo posti era quello di portare sulle tavole torinesi un pane di alta qualità, a km 0, dal prezzo accessibile e con un valore sociale aggiunto: quello di creare occupazione per soggetti in condizioni di fragilità sociale. Oggi in buona parte quest’obiettivo è stato raggiunto. In due anni di attività Panacea è arrivata a produrre circa 200 kg di pane al giorno. Il nostro pane viene distribuito in due punti vendita “Panacea”, in numerosi esercizi commerciali convenzionati oltre che nei mercati della provincia di Torino, dove la distribuzione non ci permette di portare quotidianamente i nostri prodotti. In due anni siamo riusciti ad assumere 7 lavoratori, alcuni di loro sono giovani immigrati di prima generazione a cui offriamo l’opportunità di imparare un mestiere migliorando il loro livello d’integrazione, altri sono over 50 reintegrati nel mondo del lavoro dopo un periodo di disoccupazione, altri sono persone in condizione di svantaggio fisico o sociale con difficoltà d’inserimento. Panacea si muove nello sforzo continuo di migliorare i propri prodotti e le condizioni di vita dei lavoratori».

«Il miglioramento continuo è proprio ciò che ci ha spinti ad andare oltre questi risultati e a trasformare Panacea in Panacea social farm. Gli scopi che perseguiamo attraverso il progetto agricolo sono:

-Promuovere l’agricoltura di prossimità come strategia sostenibile per nutrire la città generando nuova occupazione

-Promuovere la resilienza agricola attraverso metodi innovativi e partecipativi quali i sistemi open data

-Diffondere la cultura dell’alimentazione sana e sostenibile valorizzando il patrimonio agricolo e il paesaggio rurale.

Per rendere possibile tutto ciò abbiamo lanciato una campagna di crowdfunding  sulla piattaforma Ortja, un progetto anch’esso in fase di start up che promuove l’innovazione tecnologica in agricoltura».

«Il primo obiettivo è di raccogliere 2.500 euro per sostenere le spese della prima semina di Panacea social farm. I fondi raccolti copriranno le spese di affitto e lavorazione dei terreni; se dovessimo, come speriamo, superare quest’obiettivo useremo l’esubero per allargare la produzione del prossimo anno. Verna, Gentil rosso, Gamba di ferro, Autonomia, Terminillo, Mentana, Apulia, sono le sette varietà di antichi grani che abbiamo scelto di seminare. Dei cinque ettari complessivamente seminati dalla Filiera del grano di Stupinigi, Panacea social farm raccoglierà 1, 5 ettari (3 giornate piemontesi). Oggi i grani antichi rappresentano il 20 % delle coltivazioni della Filiera, l’obiettivo è d’incrementare questa percentuale sostituendo progressivamente alle varietà moderne della rivoluzione verde, più produttive ma che allo stesso tempo richiedono un intervento maggiore, un’agricoltura meno invasiva senza fertilizzanti, erbicidi o antiparassitari capace di restituire un prodotto più sano e più ricco sotto il profilo nutrizionale. Oltre a seminare in purezza, seguendo gli studi genetici condotti da Salvatore Ceccarelli, stiamo portando avanti la sperimentazione su alcuni miscugli di grani con l’obiettivo di creare popolazioni di frumento in grado di adattarsi al nostro terreno e al nostro clima. I miscugli, infatti, sono dotati di intrinseca biodiversità che facilita l’adattamento, incrementa la resistenza ai patogeni e, nel rispetto dei tempi naturali, aumenta la resa senza forzare il terreno. Seminiamo antichi grani, coltiviamo biodiversità. Produciamo lavoro e preserviamo il territorio.; attraverso la lievitazione naturale trasformiamo i grani in pane e se il nostro pane è buono è perché buon grano fa buon pane».

Fonte: ilcambiamento.it

 

Rewilding Europe – la natura rigenerata in cinque aree europee

Cinque aree rurali europee abbandonate o marginali sono oggetto rinaturalizzazione, con l’introduzione di specie viventi che un tempo di dimoravano: Un progetto simile al parco del Pleistocene nella lontana Siberia, dove si vuole ricreare l’ambiente naturale che esisteva prima della caccia umana, anche se naturalmente non abbiamo più i Mammut.1-Delta-Danubio-panorama-586x401

Rewilding Europe è un’associazione che si propone di restituire alla natura e quindi alle specie non umane aree agricole degradate o abbandonate. E’ un progetto diverso e più attivo rispetto alla creazione di parchi e aree protette, perchè intende reintrodurre negli habitat specie estinte da più o meno lungo tempo. Su una ventina di candidati, sono state scelte cinque aree (vedi mappa all’inizio della gallery), di cui quattro in Europa Orientale. Si tratta di zone scarsamente popolate e a volte contigue a riserve naturali. Nella Spagna occidentale sono stati identificati 13000 km² in cui sono stati reintrodotti cavalli selvatici ed è uno dei luoghi del progetto TaurOs, cioè il tentativo di ricostituire nel modo più fedele possibile la specie estinta degli Uri, cioè il Bos Taurus primigenius. Nei Carpazi orientali si cerca un accordo tra Polonia, Slovacchia e Ucraina per la libera migrazione  dei grandi erbivori (Bisonte Europeo) e carnivori (lupi). Nel delta del Danubio, tra Romania e Ucraina (foto in alto),verranno reintrodotti daini, castori e forse anche il bisonte. E’ fondamentale la cooperazione con le organizzazioni e le popolazioni locali per evitare problemi di “convivenza” come per gli orsi in svizzera o gli elefanti in Cina. Un’esperienza simile, il parco del Pleistocene,  è in corso agli estremi confini del mondo, nel nord est della Siberia, dove si cerca di ricostituire l’ambiente esistente prima che la caccia decimasse le specie erbivore e carnivore. Sono stati portati cavalli, renne e bisonti per ricreare il pascolo (senza erbivori la foresta ricresce ovunque), e si sogna anche di reintrodurre la tigre siberiana, per poterne controllare le popolazioni. In condizione di wilderness gli animali sono lasciati a se stessi e di conseguenza la mortalità è elevata per i predatori, gli inverni rigidi o le piante velenose, ma d’altra parte è esattamente così che funziona l’ambiente naturale. L’idea più interessante del rewilding, è proprio l’approccio attivo: non limitarsi a conservare l’esistente, ma rinaturalizzare e introdurre nuove specie viventi, anche al prezzo, come commenta Elizabeth  Kolbert su l’Internazionale di questa settimana, di iniziare a “considerare la natura selvatica come una creazione umana”.aree-scelte-da-rewilding-europe

Le aree naturali più selvatiche d’Europa

Fonte: ecoblog