Consumo di suolo: l’Italia perde terra per l’agricoltura

La progressiva urbanizzazione del territorio italiano rischia di mettere in ginocchio la produttività agricola del nostro paese, con pesanti conseguenze anche sul rischio idrogeologico. Basterà una legge appena approvata dalla Camera a invertire la rotta?agricoltura

(Credits: Denkrahm/Flickr CC)

L’eccellenza italiana nel settore agroalimentare rischia di diventare presto un lontano ricordo. E il motivo è semplice: la percentuale di suolo fertile a disposizione degli agricoltori continua a diminuire. Secondo la Coldiretti, negli ultimi venticinque anni in Italia si è registrata una perdita del 28% della terra coltivata. Le conseguenze, in termini di quantità e qualità della produzione, sono ormai tangibili. In quindici anni sono scomparsi circa 140mila ettari di piante da frutto, tra cui mele, pere, pesche e albicocche, mentre il primato dell’enogastronomia Made in Italy è a forte rischio, tanto che la percentuale di carne, salumi, latte e formaggi importati dall’estero e immessi sul mercato italiano è ormai vicina al 40%. Secondo l‘ultimo rapporto dell’Ispra (Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale) sul consumo di suolo, ossia la progressiva copertura artificiale del territorio dovuta all’urbanizzazione, la percentuale di territorio italiano urbanizzato è passata dal 2,7% degli anni Cinquanta a circa il 7% nel 2014. In particolare, nel periodo compreso tra il 2008 e il 2013 il consumo di suolo ha inciso in prevalenza (60%) proprio sulle aree agricole coltivate.

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La politica recentemente ha provato a correre ai ripari, attraverso un disegno di legge sul contenimento del consumo di suolo approvato dalla Camera lo scorso 12 maggio (vedi a seguire). La legge si pone un obiettivo ambizioso: arrivare all’azzeramento della cementificazione entro il 2050. “La legge va nella giusta direzione – sottolinea ancora la Coldiretti nel commentare l’approvazione del provvedimento – ma non basta: l’Italia deve difendere il proprio patrimonio agricolo e la propria disponibilità di terra fertile con un adeguato riconoscimento sociale, culturale ed economico del ruolo dell’attività agricola”. Ma le conseguenze del consumo di suolo agricolo, oltre a intaccare pesantemente la produttività, ricadono inevitabilmente anche sul dissesto idrogeologico. Secondo un altro rapporto dell’Ispra pubblicato lo scorso marzo, più di sette milioni di persone in Italia vivono in territori potenzialmente a rischio per frane e alluvioni. Alessandro Trigila, geologo dell’Ispra e co-autore del rapporto, spiega in che modo il consumo di suolo incide sul rischio idrogeologico: “I fattori che contribuiscono a quantificare il rischio sono tre: la pericolosità, cioè la probabilità che si verifichi una frana o un’alluvione in un certo posto e in un dato intervallo di tempo, gli elementi esposti, cioè la presenza di abitazioni e infrastrutture, e la vulnerabilità, ossia la propensione degli elementi esposti a essere danneggiati in seguito a un fenomeno violento. Un aumento del consumo di suolo comporta automaticamente un aumento degli elementi esposti, e quindi una crescita del rischio. Se poi ciò che si costruisce non è realizzato a regola d’arte, come a volte accade, si ha un aumento anche della vulnerabilità e il rischio cresce ulteriormente”. Altra cosa è quantificare quanto sia aumentato realmente il dissesto idrogeologico a causa del consumo di suolo: “Non avendo a disposizione mappe dettagliate dell’urbanizzato nel passato, non è possibile sbilanciarsi. Solo oggi siamo in grado di produrre mappe con un sufficiente grado di risoluzione, che potranno essere utilizzate come riferimento in futuro”.

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Tra il 2008 e il 2013 si è registrata una lieve flessione della velocità di avanzamento del consumo di suolo, che resta però alta: tra i sei e i sette metri quadrati al secondo. È difficile prevedere se la legge appena approvata sarà davvero sufficiente a cambiare il trend, soprattutto a breve scadenza, ma i numeri in gioco impongono un’inversione di rotta immediata, sia per preservare la produttività agricola del nostro paese che per evitare un’esposizione ancora maggiore dei cittadini al rischio idrogeologico.

La nuova legge sul contenimento del consumo di suolo

Con 256 voti favorevoli, 140 contrari e 4 astenuti, lo scorso 12 maggio la Camera ha approvato in prima lettura il disegno di legge sul contenimento del consumo del suolo. Si tratta di una legge in qualche modo storica: è infatti la prima volta che nel nostro ordinamento viene introdotto il concetto di consumo di suolo. Per l’approvazione definitiva, si attende ora il via libera del Senato. Il provvedimento ha avuto un iter molto lungo: presentato per la prima volta nel novembre 2012 dall’allora ministro delle Politiche Agricole Mario Catania, è rimasto a lungo in naftalina prima di subire l’accelerata decisiva negli ultimi mesi. L’obiettivo del disegno di legge è arrivare all’azzeramento del consumo di suolo entro il 2050, come richiesto dall’Unione Europea. Il punto di partenza per raggiungere questo traguardo è semplice: il consumo di suolo sarà consentito solo quando non esistono alternative al riutilizzo di aree già edificate e dismesse. E si parte da subito: tra le norme transitorie della legge c’è una moratoria di tre anni per tutte le costruzioni che comportino nuovo consumo di suolo, a meno che non siano già inserite in piani urbanistici. I comuni avranno poi un ruolo importante: dovranno predisporre censimenti di edifici e aree dismesse, per verificare se eventuali nuove costruzioni possano essere realizzate attraverso la riqualificazione di queste stesse aree degradate. Per fare questo, riceveranno finanziamenti statali e agevolazioni fiscali, mentre le procedure burocratiche saranno semplificate. Il ddl prevede infine che i fondi comunitari destinati a terreni agricoli non possano essere destinati a usi diversi per cinque anni.

Articolo Realizzato in collaborazione con il Master Sgp

Fonte: galileonet.it

In Africa elefanti e uomini salvati dalle api

L’Ong Silent Heroes Foundation ha lanciato con successo un ingegnoso sistema per evitare i conflitti fra elefanti e uomini nelle aree coltivate dell’Africaapi-8

Su Ecoblog vi abbiamo spesso raccontato di quanto le api siano importanti nell’equilibrio degli ecosistemi e di quali disastri ecologici siano connessi alla loro scomparsa, ma dell’impiego del più operoso degli insetti nella salvaguardia degli elefanti non avevamo ancora parlato. In diversi Paesi africani, infatti, le api vengono utilizzate per ridurre i conflitti fra gli elefanti e gli esseri umani. In Africa la popolazione continua ad aumentare e gli elefanti si trovano sempre di più a contatto con l’attività umana: il loro transito rischia di distruggere le coltivazioni necessarie al sostentamento delle popolazioni che popolano le aree agricole. Per evitare questi passaggi distruttivi gli animali vengono spaventati con colpi di pistola, petardi, lancio di pietre e fruste. Spesso gli animali reagiscono in maniera aggressiva e vi sono vittime da entrambe le parti. In Tanzania un progetto pilota della Ong Silent Heroes Foundation è stato lanciato nella zona del cratere di Ngorongoro, a sud est del Parco Nazionale del Serengeti. Alcuni alveari, collegati fra loro da un filo, sono stati installati su pali e alberi situati nei pressi dei campi coltivati. Se gli elefanti transitano in questi passaggi, lo scotimento del filo è inevitabile e le api arrabbiate pizzicano gli elefanti. Gli esemplari punti dalle api conservano il ricordo della morsicatura e tendono a non voler più transitare da quella via. “Questo approccio olistico, che permette alle comunità di vivere in armonia con gli elefanti e di non stigmatizzarli, può portare alla conservazione della specie, anche se resta ancora da risolvere la crisi per il bracconaggio dell’avorio”,

dice Hayley Adams, veterinaria americana e co-fondatrice della Silent Heroes Foundation. Gli alveari non solo limitano la conflittualità uomo-elefante, ma sono anche una fonte di reddito grazie al miele che viene depositato dalle api. Questa tecnica, sviluppata nel 2008 dalla scienziata britannica Lucy King, viene già utilizzata in paesi africani come Kenya, Botswana, Uganda e Mozambico. La ricerca – vincitrice del premio Unep del 2011 – aveva dimostrato che il 90% degli elefanti fugge quando sente il ronzio delle api.

Fonte:  Le Monde

Foto | Mazzocco

Aree agricole, nel mondo l’84% è a rischio

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“Circa 2 miliardi di ettari delle terre emerse sono interessati a diversi livelli da processi di degrado, compromettendo l’84% delle aree agricole a livello mondiale e coinvolgendo circa un quarto della popolazione del globo”. Lo rende noto Maria Luigia Giannossi, ricercatrice dell’Istituto di metodologie per l’analisi ambientale del Cnr, basandosi su nuovi studi che saranno illustrati a Pisa dal 16 al 18 settembre durante la manifestazione Geoitalia 2013 organizzata dalla Federazione italiana di scienze della terra. In Italia il fenomeno della cosiddetta ‘land degradation’ colpisce in maniera significativa le regioni meridionali e insulari: Basilicata, Puglia, Calabria, Sardegna e Sicilia. Qui, oltre allo stress di natura climatica, “la pressione spesso non sostenibile delle attività umane sull’ambiente sta determinando una riduzione della produttività biologica ed agricola ed una progressiva perdita di biodiversità degli ecosistemi naturali”. Spiega sempre Giannossi in una nota. ”Anche le regioni del centro nord, in particolare Toscana, Emilia Romagna e la Pianura Padana in generale – aggiunge Giannossi – manifestano un peggioramento della situazione idrometeorologica e sono sempre più vulnerabili all’irregolarità delle precipitazioni, alla siccità ed all’inaridimento”. “Nell’ambito di vari studi promossi dall’IMAA CNR sono stati realizzati 3 progetti di cui uno in corso – ha dichiarato Giannossi – tutti indirizzati a studi integrati per il monitoraggio del fenomeno della land degradation nelle regioni meridionali in particolar modo in Basilicata e per il sostegno alle metodiche di salvaguardia delle risorse naturali (suoli e acque). Dai risultati osservabili risulta che la Basilicata è particolarmente interessata dal rischio land degradation. I rapporti disponibili sono consultabili sul sito mildmap-media.basilicatanet.it Tra i processi di degrado a cui è soggetta la Basilicata, sono stati studiati in dettaglio il fenomeno dell’erosione del suolo con sviluppo delle tipiche forme morfologiche: i calanchi; nonché il fenomeno di degrado di origine chimica: la salinizzazione (oggetto del progetto PRO_Land “Studio dei processi di land degradation a supporto delle attività di prevenzione e gestione degli impatti indotti sull’ambiente”, finanziato dal Programma Operativo FESR Basilicata 2007-2013, tuttora in atto). Questi fenomeni sono stati studiati con tecniche integrate in situ e di remote sensing al suolo e da satellite per quantificare la gravità e l’impatto dei fenomeni di land degradation. I punti di innovazione del progetto sono da ricercarsi nella valutazione di tutte le geomatrici ambientali colpite dal fenomeno, nell’utilizzo di tecniche integrate e nella valorizzazione delle competenze degli stakeholder locali per la mappatura del degrado del territorio e per la valutazione de corretta gestione sostenibile del territorio”. La necessità di fermare o prevenire i processi di degrado ha sollecitato la comunità scientifica internazionale a fornire strumenti interpretativi dei fenomeni di degrado, per comprenderne meglio i fattori predisponenti e le loro mutue interazioni e supportare, infine, i decisori nella scelta delle più adeguate soluzioni di mitigazione e/o recupero”. “L’elaborazione di mappe, oltre ad essere uno strumento di collaborazione scientifica tra i paesi affetti nelle regioni del nord mediterraneo – ha concluso Giannossi – è dunque diventato parte integrante delle politiche ambientali adottate dai diversi paesi. Il degrado delle terre e dei suoli agricoli dipende da fattori climatici e di origine antropica – soprattutto per quanto riguarda i paesi industrializzati – come una gestione impropria del territorio, e ha implicazioni dirette e indirette perché mette a rischio la sicurezza alimentare e il cambiamento climatico ma anche, conclude Giannossi, ”le guerre legate allo sfruttamento delle risorse naturali e la conseguente presenza di ecorifugiati”. Si tratta quindi di una tra le maggiori emergenze sociali e ambientali del nostro tempo, per questo ora anche la comunità scientifica sta riconoscendo questa emergenza, munendosi di strumenti per il monitoraggio del degrado e consumo di suolo agricolo.

Fonti: IMAA Cnr