Chi vive in siti contaminati si ammala e muore di più: studio conferma le ipotesi

La logica già portava in quella direzione da un pezzo; ma con il nuovo studio “Sentieri” è arrivata una ulteriore conferma. Chi abita in siti contaminati ha un rischio di morte più alto del 4-5% e un aumento di tumori maligni, con un eccesso di incidenza del 62% per i sarcomi dei tessuti molli e del 50% per i linfomi Non-Hodgkin.9846-10632

Chi vive nei siti contaminati da amianto, raffinerie o industrie chimiche e metallurgiche ha un rischio di morte più alto del 4-5% rispetto alla popolazione generale. E questo, in un periodo di 8 anni, si è tradotto in un eccesso di mortalità pari a 11.992 persone, di cui 5.285 per tumori e 3.632 per malattie dell’apparato cardiocircolatorio. E’ quanto emerge dai dati relativi a 45 siti di interesse per le bonifiche inclusi nella nuova edizione dello studio Sentieri, a cura dell’Istituto Superiore di Sanità (Iss). Non solo: vivere in siti contaminati comporta un aumento di tumori maligni del 9% tra 0 e 24 anni. In particolare “l’eccesso di incidenza” rispetto a coetanei che vivono in zone considerate ‘non a rischio’ è del 62% per i sarcomi dei tessuti molli, 66% per le leucemie mieloidi acute; 50% per i linfomi Non-Hodgkin. Il dato riguarda solo le zone d’Italia dove e’ attivo il registro tumori, 28 siti sui 45 oggetto dello studio Sentieri, ed e’ stato elaborato sui dati del periodo 2006-2013. A illustrare questi dati e’ stato Ivano Iavarone, primo ricercatore Iss e direttore del centro collaborativo OMS Ambiente e salute nei siti contaminati. “L’eccesso di incidenza di patologie oncologiche rispetto alle attese riguarda anche i giovani tra 20 e 29 anni residenti nei cosiddetti Siti di Interesse Nazionale, tra i quali si riscontra un eccesso del 50% di linfomi Non-Hodgkin e del 36% di tumori del testicolo”, ha spiegato all’ANSA Iavarone.
Per quanto riguarda, in generale, le ospedalizzazioni dei più piccoli, “l’eccesso è del 6-8% di bimbi e ragazzi ricoverati per qualsiasi tipo di malattia rispetto ai loro coetanei residenti in zone non contaminate”. La stessa situazione non risparmia i piccolissimi. “Per quanto riguarda il primo anno di vita – sottolinea l’esperto – vi è un eccesso di ricoverati del 3% per patologie di origine perinatale rispetto al resto dei coetanei. E un eccesso compreso tra l’8 e il 16% per le malattie respiratorie acute ed asma tra i bambini e i giovani”.

“Nonostante la maggiore vulnerabilità dei bambini agli inquinanti ambientali – ha aggiunto Iavarone – e l’aumento dell’incidenza dei tumori pediatrici nei paesi industrializzati, l’eziologia della maggior parte delle neoplasie nei bambini è per lo più ancora sconosciuta”. E’ necessario, conclude, “proseguire la sorveglianza epidemiologica nelle aree contaminate, basata su metodi e fonti informative accreditati, per monitorare cambiamenti nel profilo sanitario in relazione a sorgenti di esposizione/classi di inquinanti specifici e per verificare l’efficacia di azioni di risanamento”.

“Sono numeri degni di nota e nel complesso tracciano un quadro coerente con quello emerso dalle precedenti rilevazioni. Questo significa che non vi è stato ancora un generale miglioramento della situazione della contaminazione ambientale a livello nazionale”, spiega Pietro Comba, responsabile scientifico del progetto Sentieri. In 360 pagine, il rapporto Sentieri esplora caratteristiche e problematiche di 45 Siti di Interesse Nazionale o Regionale (SIN/SIR) presenti in tutta Italia: dalle miniere del Sulcis alle acciaierie dell’Ilva, dalle raffinerie di Gela alla citta’ di Casale Monferrato ‘imbiancata’ dall’eternit, passando per il territorio del litorale flegreo con le sue discariche incontrollate di rifiuti pericolosi. Aree in cui vivono complessivamente 6 milioni di persone, residenti in 319 comuni, e i cui dati sono stati studiati nell’arco di tempo tra il 2006 e il 2013. Nove le tipologie di esposizione ambientale considerate: amianto, area portuale, industria chimica, discarica, centrale elettrica, inceneritore, miniera o cava, raffineria, industria siderurgica. Sono state esaminate le associazioni tra residenza e patologie, come tumori e malformazioni congenite. “Nella popolazione residente nei siti contaminati studiati è stato stimato un eccesso di mortalità per tutte le cause pari al 4% negli uomini e al 5% per le donne. Per tutti i tumori maligni la mortalità in eccesso è stata del 3% nei maschi e del 2% nelle femmine”, ha illustrato Amerigo Zona, primo ricercatore dell’Iss. In un periodo di 8 anni, dal 2006 al 2013, “è stato osservato – nella popolazione generale, prosegue – un eccesso di mortalità per tutte le cause di 5.267 casi negli uomini e 6.725 nelle donne. Per tutti i tumori maligni è stata di 3.375 negli uomini e 1.910 per le donne”. “Il significato di questi dati va ora approfondito in ognuno dei territori considerati, anche con la collaborazione delle istituzioni, con gli amministratori locali e la società civile”, spiega Comba. “I dati da noi prodotti – conclude Comba – servono sostanzialmente a capire quali sono gli interventi di risanamento ambientale più utili e urgenti a fini di tutela della salute”.

 

Fonte: ilcambiamento.it

 

«Le nanoparticelle ci fanno ammalare»

Da oltre 15 anni sono impegnati, insieme, nella ricerca sulle nanopatologie; da oltre 40 operano nel campo della ricerca biomedica. Sono stati dapprima ignorati, poi osteggiati, boicottati, criminalizzati. «Sosteniamo una tesi assai scomoda – spiegano Stefano Montanari e Antonietta Gatti – e cioè che molte patologie sono causate proprio dal nanoparticolato in cui siamo immersi, frutto di emissioni inquinanti ma anche dell’utilizzo di armi micidiali; queste nanoparticelle penetrano nel nostro organismo e si incistano nei nostri organi e tessuti. Ma troppi interessi ci sono in gioco…».microscopio_ricerca

Lui, laureato in farmacia con una tesi in microchimica e da anni studioso di nanoparticelle, e lei, fisico e bioingegnere, per anni docente universitaria e oggi consulente di importanti enti internazionali di ricerca. Stefano Montanari e Antonietta Gatti sono una coppia (nella vita e nel lavoro) discussa della ricerca italiana (almeno di quel poco che ne rimane), sicuramente scomoda, che va a cercare cose che qualcuno preferirebbe non venissero cercate, che parla di cose che scompaginano il copione ben confezionato del business ad ogni costo e ad ogni prezzo. Oggi sono anche una coppia che è stata messa alla prova da uno di quegli eventi che ti segnano; Stefano Montanari, qualche settimana fa, è stato colpito da un’emorragia cerebrale dalla quale sta uscendo con un recupero che ha del miracoloso e con il sostegno della moglie.

Li abbiamo incontrati e abbiamo chiesto loro di fare il punto sul lavoro che stanno continuando a portare avanti.

«Da oltre quarant’anni portiamo avanti questo tipo di studi e questo sia nell’ambito della ricerca applicata sia in quello della ricerca pura. Ed è proprio sulla ricerca pura che lavoriamo insieme da oltre 15 anni. La nostra scoperta riguarda la capacità delle polveri sottili ed ultrasottili, la cui esistenza era già ben conosciuta, di entrare nell’organismo per non uscirne più; qualcosa che, forse stranamente, non era mai stato osservato o, forse meglio, che probabilmente era passato sotto gli occhi di chissà quanti ricercatori senza che questi ne capissero l’importanza. E l’importanza sta nel fatto che queste polveri piccolissime, una volta insinuatesi nei tessuti biologici, innescano reazioni infiammatorie che possono provocare una lunga serie di malattie, dal cancro alle patologie vascolari come ictus, infarto e tromboembolia polmonare. Ma possono essere origine anche di malattie forse poco sospettabili, come una forma di diabete, stanchezza cronica, insonnia e perdita di memoria a breve termine. Ancora allo stato di sospetto ci sono, almeno come concausa, il morbo di Parkinson, l’ Alzheimer e forse l’autismo. La certezza, invece, è la capacità delle particelle di dimensione intorno al micron o sotto quella misura di entrare nel nucleo delle cellule interferendo con il DNA e di passare da madre a feto provocando aborti, malformazioni o forme tumorali nel bambino già nel grembo materno».

Da dove provengono le nanoparticelle?

«La natura è una produttrice di particelle, principalmente con le eruzioni vulcaniche, l’erosione delle rocce e gli incendi boschivi ma, salvo rare eccezioni, quelle polveri sono relativamente grossolane e per questo molto meno aggressive di quanto non siano quelle antropiche, cioè quelle che vengono prodotte da attività umane. Qualunque combustione, non importano né la dimensione del fenomeno né ciò che si brucia, comporta la formazione di polveri e queste sono tanto più fini, e quindi tanto più penetranti, quanto più alta è la temperatura di formazione. Motori a scoppio, inceneritori di rifiuti, cementifici, fonderie, riscaldamento domestico sono i produttori principali e, stante la loro diffusione, sono le fonti d’esposizione più abituali. Le particelle sono leggerissime, a volte milioni di volte più leggere dei pollini, e il loro comportamento assomiglia molto a quello dei gas. Così, come i gas, s’insinuano nell’albero respiratorio fino agli alveoli polmonari da dove, nel giro di poche decine di secondi, arrivano al sangue. In poche decine di minuti, poi, dal sangue raggiungono qualunque organo, cervello compreso, dove vengono catturate senza che esistano meccanismi biologici d’eliminazione. Fenomeno analogo accade quando le polveri vengono ingerite insieme con gli alimenti, frutta, verdura e cereali, su cui ricadono. Dall’apparato digerente le polveri passano al sangue condividendo la sorte con quelle respirate».

Esiste una distanza di sicurezza tra la fonte delle particelle e l’individuo che possa evitare il danno?

«No, non esiste, vista la mobilità estrema delle polveri e la loro capacità di percorrere trasportate in atmosfera anche migliaia di chilometri. Per rendersene conto basta dare un’occhiata alle fotografie da satellite delle polveri sahariane, milioni di volte più pesanti delle nostre particelle, che dall’Africa arrivano senza difficoltà in Europa e in America. Se dovessimo indicare qualche luogo “sicuro”, ci troveremmo davvero in imbarazzo».

A quando risalgono le vostre prime osservazioni?

«Le nostre primissime osservazioni, di fatto senza averci capito granché, risalgono ai primi Anni Novanta. Poi, a cavallo tra il 1997 e il 1998, c’imbattemmo assolutamente per caso nel nostro primo caso clinico: un soggetto che in nove anni si era mangiato parte di una protesi dentaria malfatta che gli si consumava in bocca e i cui piccolissimi frammenti erano finiti nel suo fegato e nei suoi reni provocandogli una serie di pesanti problemi di salute. Dopo esserci resi conto del problema, bastò sostituirgli la protesi con una fatta come si doveva e trattare le forme infiammatorie da corpo estraneo che le particelle avevano provocato nel fegato e nei reni per evitare al soggetto il ricorso all’emodialisi. Di fatto un successo clinico, visto che quella persona vagava da ospedale a ospedale da oltre otto anni senza ottenere il minimo beneficio dalle cure che gli venivano praticate senza che la causa dei problemi fosse compresa. Da allora abbiamo studiato quasi 2.000 casi».

Avete sperimentato la resistenza e l’ostilità del mondo accademico italiano. E a livello internazionale?

«Per chi non fosse conscio dei retroscena, spiegare l’ostilità del mondo accademico italiano che si scatenò nei nostri confronti all’inizio sarebbe difficile. Si arrivò addirittura a prese di posizione grottesche: le particelle che avete fotografato al microscopio elettronico nei tessuti del paziente non esistono perché la letteratura medica non fa menzione del fenomeno. A nulla valse ribattere l’ovvietà: se si tratta di una scoperta, non se ne può trovare menzione in documenti precedenti. Né valse mostrare il vistoso miglioramento del nostro paziente. Ma a livello internazionale le cose andarono diversamente».

Nel 2002 la Commissione Europea mise Antonietta Gatti a capo di un progetto di ricerca europeo (Nanopathology) e dopo qualche anno di un secondo progetto (DIPNA, 2005), ambedue con risultati di enorme interesse. Un terzo progetto di nanoecotossicologia fu invece finanziato nel 2009 dall’Istituto Italiano di Tecnologia.

«Per non parlare dei due inviti alla Camera dei Lords a Londra(2005 e 2007) per un’audizione sulle evidenze scientifiche sui militari andati in missione di guerra e ammalatisi dopo il loro rientro. Il motivo delle contestazioni quasi tutte di origine italiana non fanno molto onore alla nostra accademia e non ne parliamo volentieri. Basti accennare agli enormi interessi di denaro che stanno alle spalle dell’incenerimento dei rifiuti, una pratica priva di qualunque supporto scientifico ma quanto mai redditizia. In sostanza, come di regola accade, è molto meglio tenere il pubblico nell’ignoranza e continuare a farsi gli affari propri, come se chi si fa gli affari propri non vivesse su questo pianeta e il denaro fosse una specie di armatura che protegge dai guai di salute. Comunque, è inevitabile: i fatti si possono tenere nascosti per un po’, poi balzano fuori. Può in un certo modo essere divertente osservare come già nel 2007 L’Ente Europeo per l’Ambiente (EEA) abbia scritto che non esistono concentrazioni di polveri che l’organismo possa tollerare e questo a dispetto del valore di 40 microgrammi di PM10, un valore a dir poco arbitrario che le leggi europee consentono di toccare. Ma un risultato importante è stato ottenuto nell’ottobre 2013 quando lo IARC, l’istituto dell’Organizzazione Mondiale della Sanità che si occupa di tumori, ha inserito le polveri di dimensione pari o inferiore ai 2,5 micron nell’elenco dei cancerogeni certi. Questo anche se si continua a far finta di niente e ad affiancare fonti di polveri ad altre fonti di polveri. Così come si finge d’ignorare che moltissimi alimenti sono inquinati e pure i farmaci sono tutt’altro che esenti dal problema. Spesso ci viene chiesto come si rimedi a questo stato di cose. Purtroppo il rimedio non c’è se il grande pubblico continua a restare nella mancata consapevolezza di quanto ci circonda e la corruzione può continuare imperterrita a permettere che si allestiscano impianti che inquinano e che si mettano sul mercato prodotti velenosi. Insomma, è solo l’informazione corretta che può metterci una pezza».

La più grande soddisfazione?

«La soddisfazione più grande rimane comunque quella di avere aiutato e continuare ad aiutare chi si è ammalato a causa delle polveri e vuole capire. In alcuni casi la semplice eliminazione dell’esposizione migliora la sintomatologia. Per i nostri soldati abbiamo dato una mano a dimostrare che la patologia era in correlazione con l’esposizione lavorativa. Questo è valso loro in molti casi una pensione che li aiuta a sopravvivere pur essendo ammalati.

CHI SONO

Stefano Montanari

Bolognese di nascita (1949), modenese di adozione, laureato in Farmacia nel 1972 con una tesi in Microchimica, ha cominciato fin dai tempi dell’università ad occuparsi di ricerca applicata al campo della medicina. Autore di diversi brevetti nel campo della cardiochirurgia, della chirurgia vascolare, della pneumologia e progettista di sistemi ed apparecchiature per l’elettrofisiologia, ha eseguito consulenze scientifiche per varie aziende, dirigendo, tra l’altro, un progetto per la realizzazione di una valvola cardiaca biologica. Dal 1979 collabora con la moglie Antonietta Gatti in numerose ricerche sui biomateriali. Dal 2004 ha la direzione scientifica del laboratorio Nanodiagnostics di Modena in cui si svolgono ricerche e si offrono consulenze di altissimo livello sulle nanopatologie. Docente in diversi master nazionali ed internazionali, è autore di numerose pubblicazioni scientifiche. Da anni svolge un’intensa opera di divulgazione scientifica nel campo delle nanopatologie, soprattutto per quanto riguarda le fonti inquinanti da polveri ultrafini.

Antonietta Gatti

Fisico e bioingegnere, ha deciso molti anni fa di fare ricerca direttamente dentro la Facoltà di Medicina della sua città (Modena). Ne è poi uscita. Da più di 10 anni si occupo esclusivamente di nanopatologie (acronimo da lei inventato per un progetto europeo “Nanopathology” che diresse dal 2002 al 2005) e di malattie misteriose. Ha sviluppato una nuova tecnica diagnostica con cui verifica se nei campioni biologici patologici ci sono corpi estranei micro e nano dimensionati (polveri esogene) che testimoniano l’ esposizione che il paziente ha avuto. Con questa tecnica analizza anche pazienti con malattie misteriose e soldati al ritorno da missioni di pace.  Sta collaborando col Dipartimento di Stato a Washington, con la Commissione Uranio Impoverito, col Ministero della Difesa per le malattie dei nostri soldati in missioni di

Fonte: ilcambiamento.it

Ecco come l’agricoltura industriale sta facendo ammalare noi e la terra

I terreni trattati con prodotti chimici, sfiancati dallo sfruttamento intensivo e dall’agricoltura industriale causano un impoverimento del cibo che quindi non fornisce agli esseri umani i nutrienti di cui ha bisogno. E’ la conclusione cui sono giunti numerosi studi di cui si parla anche nel libro appena uscito di Courtney White, “Grass, soil, hope”. Ma la soluzione c’è.agricoltura_intensiva

E’ ancora vero che una mela al giorno toglie il medico di torno? Non più, stando a quanto sostengono gli esperti, a meno che quella mela non arrivi da terreni organici e da alberi coltivati con metodi biologici. Secondo l’esperta australiana Christine Jones, intervistata nel libro appena uscito di Courtney White, Grass, Soil, Hope, le mele hanno perduto l’80% del loro contenuto di vitamina C. E le arance che si mangiavano per tenere lontano il raffreddore? E’ possibile che di vitamina C non contengano più nemmeno le tracce. Uno studio http://www.scientificamerican.com/article/soil-depletion-and-nutrition-loss/ che ha analizzato il contenuto dei vegetali dal 1930 al 1980 ha scoperto che i livelli di ferro sono diminuiti del 22% e il calcio del 19%. In Inghilterra tra il 1940 e il 1990 il contenuto di rame nei vegetali è calato del 76% e il calcio del 46%. Il contenuto di minerali nella carne è, anch’esso, significativamente diminuito. Gli alimenti vanno a costituire i mattoni del nostro corpo e sostengono la nostra salute, ma terreni impoveriti forniscono alimenti impoveriti e alimenti di scarsa qualità nutritiva portano a un decadimento della salute. Anche la nostra salute mentale è legata ai terreni ed è garantita se i terreni sono ricchi di microbi. Cosa è accaduto al terreno? Ha subìto gli attacchi della moderna agricoltura industriale con le sue monocolture, i fertilizzanti, i pesticidi e gli insetticidi.

«Il termine biodiversità evoca una ricca varietà di piante in equilibrio con tante varietà di animali, insetti e vita selvatica, tutti che coesistono in un ambiente in equilibrio – spiegano Hannah Bewsey e Katherine Paul dell’Organic Consumers Association – Ma c’è anche un intero mondo di biodiversità che vive al di sotto della superficie terrestre ed è essenziale per far crescere alimenti ricchi di nutrienti. Il suolo terrestre è una miscela dinamica di particelle rocciose, acqua, gas e microrganismi. Una tazza di terra contiene più microrganismi di quante persone ci siano sul pianeta. Questi microbi vanno a costituire il “tessuto alimentare del suolo”, una catena complessa che inizia con I residui organici di piante e animali e che coinvolge batteri, funghi, nematodi e vermi; decompongono la materia organica, stabilizzano il suolo e aiutano la conversione dei nutrienti da una forma chimica ad un’altra. La ricchezza nella diversità dei microbi in un terreno ha effetti su molte proprietà, come l’umidità, la struttura, la densità e la composizione nutritiva. Quando i microbi vanno perduti, si riducono anche le proprietà del suolo che permettono di stabilizzare le piante, di convertire le sostanze nutritive e di svolgere tutte le altre funzioni vitali.  Il contenuto di microbi del suolo, cioè la sua biodiversità, è praticamente sinonimo di salute e fertilità. Come scrive Daphne Millier, medico, scrittrice e docente, “i terreni che contano su un’ampia biodiversità sono più predisposti a produrre cibi ad alta densità nutritiva”. Purtroppo l’azione umana ha avuto un impatto assai negativo sulla salute dei suoli; siamo infatti responsabili della degradazione di oltre il 40% dei terreni agricoli nel mondo. Abbiamo destabilizzato l’ecosistema dei terreni attraverso un utilizzo diffuso di sostanze chimiche che distruggono praticamente tutto ad eccezione delle piante stesse (molte di queste sono state addirittura modificate geneticamente per resistere a erbicidi e pesticidi). Siamo arrivati ad avere grano, soia, alfa-alfa e altri cereali in apparenza salubri ma in verità carenti di sostanze nutritive a causa della pessima qualità del suolo su cui vengono coltivati. E usiamo sostanze chimiche di routine anche se si sa che appena lo 0,1% dei pesticidi in realtà interagisce con il target cui è destinato, tutto il resto contamina soltanto piante e suolo».

«L’azoto è uno dei tre nutrienti essenziali per il suolo – proseguono Bewsey e Paul – gli altri due sono potassio e fosforo. Ma perché l’azoto possa nutrire le piante, deve essere convertito da ammonio a nitrato. I microbi del terreno, sensibili al ciclo dell’azoto, fanno questa conversione alimentandosi di materia vegetale decomposta, digerendo l’azoto che vi è contenuto ed eliminando ioni di azoto. Cosa accade quando nel suolo non ci sono questi microbi? Gli agricoltori spesso ricorrono a fertilizzanti contenenti azoto, ma l’uso eccessivo porta ad averne una quantità eccessiva che va oltre la capacità di conversione dei microbi stessi, quindi troppo azoto uccide le piante. Stando ai dati della Union of Concerned Scientists, gli allevamenti con centinaia di animali stipati in piccoli spazi e alimentati con cereali anzichè foraggio è ubo dei fanni più grossi che l’uomo abbia inflitto al suolo poiché porta alle monocolture intensive su larga scala che richiedono moltissime sostanze chimiche. La perdita di biodiversità del suolo è anche correlata all’aumento di asma e allergie nelle società occidentali. Il sistema immunitario umano si sviluppa grazie agli stimoli ambientali cui è esposto; quando carne e vegetali mancano di determinati batteri e microbi, i bambini non riescono a formulare risposte immunitarie precoci e quindi possono sviluppare allergie. La soluzione sta nel convertire allevamenti e aziende agricole industriali in allevamenti con sistemi naturali e fattorie biologiche. Secondo uno studio danese è possibile raddoppiare la biodiversità del suolo sostituendo l’agricoltura biologica ai metodi agricoli convenzionali».

Ma perchè accontentarsi di contenere il danno? Esiste quella che viene chiamata agricoltura rigenerativa, strumento essenziale per far regredire i danni causati dalle pratiche industriali. E non c’è tempo da perdere. Bisogna andare i quella direzione prima che sia veramente troppo tardi.

Fonte: ilcambiamento.it