Le associazioni denunciano l’impostazione automobile-centrica e dipendente dai combustibili fossili del governo Draghi, quanto mai inappropriata anche alla luce della crisi ucraina e chiedono di dare priorità alle alternative per il settore dei trasporti
Le 22 organizzazioni del Coordinamento Associazioni e Movimenti Cicloattivisti e Ambientalisti dicono no a quella che definiscono l’impostazione “automobile-centrica e dipendente dai combustibili fossili del governo Draghi” e chiedono che gli 8 miliardi per automotive siano destinati a transizione verso mobilità a zero emissioni. Il riferimento è all’approvazione da parte del Consiglio dei Ministri dello scorso 18 febbraio del decreto-legge c.d. “Caro-bollette”, all’interno del quale si prevede lo stanziamento di un miliardo di euro all’anno fino al 2030 a sostegno del settore automotive. L’impostazione del Governo è stata definita dai firmatari “quanto mai inappropriata anche alla luce della crisi ucraina”.
In risposta a quello che rischia di essere “l’ennesimo atto di greenwashing da parte del governo Draghi e dei ministri Giorgetti e Cingolani”, le associazioni ambientaliste e i movimenti per la mobilità attiva e sostenibile dichiarano quanto segue:
“Ancora una volta i ministri Giorgetti e Cingolani dimostrano di non avere ben chiaro quali dovrebbero essere le priorità dell’Italia in tema di trasporti e transizione ecologica. L’Italia, firmataria dell’accordo di Parigi e co-host dell’ultima conferenza sul clima, non sta facendo abbastanza per ridurre rapidamente le emissioni di gas effetto serra. I fondi del PNRR per la transizione ecologica sono pochi e male allocati. Il decreto caro-bollette risponde all’aumento dei prezzi del gas non riducendo, ma incrementando la dipendenza dell’Italia dalle fonti fossili, proprio nel momento in cui questa dipendenza ci rende geopoliticamente vulnerabili, come evidenziato dall’indisponibilità dell’Italia a sanzionare la Russia tagliando le importazioni di gas. La stessa logica sottende le misure relative al settore dei trasporti incluse nel decreto legge. Gli 8 miliardi di euro stanziati dal decreto caro-bollette equivalgono al totale dei fondi destinati nel PNRR al settore della mobilità sostenibile: secondo un’analisi di Kyoto Club e Transport & Environment, sarebbero state necessarie risorse cinque volte maggiori. Se ci fossero ulteriori risorse da investire sui trasporti dovrebbero essere prioritariamente destinate a una profonda e rapida decarbonizzazione del settore, promuovendo modalità di trasporto che ci allontanino progressivamente dalla centralità dell’automobile e del motore endotermico: ciclabilità, pedonalità, trasporto pubblico elettrico locale su gomma e rotaia, sharing mobility elettrica. Malgrado gli alti livelli di congestione, l’aria avvelenata delle nostre città e il budget di CO2 sforato da tempo, continuiamo a parlare di incentivi per le auto endotermiche. Il ministro Giorgetti ha dichiarato che il MISE vorrebbe far accedere agli eco-incentivi anche le auto fino a 135gCO2/km: questo vuol dire destinare i soldi dei contribuenti a tecnologie obsolete e inquinanti come le “mild hybrid” e le auto a diesel e a benzina. Se si vuole discutere seriamente di “riconversione e riqualificazione” del comparto automotive, e soprattutto di transizione ecologica, il governo italiano deve invece: – Aumentare in modo sostanziale gli investimenti in infrastrutture e politiche per la mobilità attiva (bici, piedi) e condivisa (TPL, sharing mobility), prima ancora di intervenire sul comparto automotive. – Fissare come obiettivo quello di abbattere in modo rapido il tasso di motorizzazione (almeno dimezzandolo nel medio termine), accompagnando l’industria italiana verso una mobilità adatta al 21° secolo e che risponda all’emergenza climatica e a quella dell’inquinamento dell’aria. – Destinare le risorse ora pensate per gli eco-incentivi a sostenere invece lo shift modale nelle città italiane: il governo potrebbe istituire un fondo presso il MITE o il MIMS al quale le amministrazioni comunali e regionali possano accedere per finanziare programmi di riduzione del tasso di motorizzazione. Ad esempio, incentivando chi, rottamando un’auto inquinante, la sostituisce con altro mezzo di trasporto sostenibile (cargo bike, e-bike) o accetta in cambio un pacchetto di abbonamenti pluriennali al trasporto pubblico e ai servizi di sharing per il proprio nucleo familiare.”
I firmatari del Coordinamento Associazioni e Movimenti Cicloattivisti e Ambientalisti sono (in ordine alfabetico): Bike4City Aps; Bikeitalia.it; Bike to school Asd; Ciclostile – ciclofficina popolare del Centro Sociale Bruno di Trento; Cittadini per l’aria onlus; Clean Cities Campaign; Consulta della Mobilità Ciclistica e Moderazione del Traffico di Torino; Consulta sicurezza stradale, mobilità dolce, sostenibilità di Roma Capitale; Ecoborgo Campidoglio Aps Torino; FIAB Federazione Italiana Ambiente e Bicicletta; Fondazione Michele Scarponi Onlus; Genitori AntiSmog; Greenpeace Italia; hub.MAT APS; Kyoto Club; Legambici APS, Milano; Legambiente; Massa Marmocchi – In bici a scuola Milano; Milano Bicycle Coalition ASD; Rete Vivinstrada; Salvaiciclisti-Bologna APS; Salvaiciclisti Roma – Sic Roma Aps ETS.
Il World Economic Forum del 2021 sarà incentrato sul tema del “Great Reset”, un piano ambizioso di ristrutturazione dell’economia mondiale nell’era post-Covid-19 che potrebbe avere delle ripercussioni profonde sia a livello globale che per gli individui e le società. Cosa propone nel concreto il great reset e perché sta suscitando sospetti e timori? In questo lungo e approfondito articolo, Roberto Battista riflette sulla questione, analizzando opportunità e rischi potenziali che potrebbero derivare dall’applicazione di questo piano. Nel 2021 l’appuntamento del World Economic Forum, che di consueto apre l’anno a Davos, in Svizzera, verrà spostato a data da destinarsi, anche se dal 25 gennaio sarà aperto il forum digitale “Davos Dialogues” nel quale i principali leader mondiali condivideranno pubblicamente le loro opinioni sullo stato del mondo. Il tema di Davos sarà il “great Reset” (1) inteso a progettare un percorso di recupero condiviso e dare forma a radicali cambiamenti nell’era post-COVID-19. La definizione fu usata per la prima volta come titolo del libro “The Great Reset: How the Post-Crash Economy Will Change the Way We Live and Work” di Richard Florida (2), pubblicato nel 2010 in seguito alla crisi economica del 2008; il libro proponeva cambiamenti profondi che, partendo dall’economia, ristabilissero un equilibrio smantellato dal capitalismo neo-liberale che ha modellato il mondo negli ultimi decenni. Klaus Schwab, fondatore del World Economic Forum nel 1971, e Thierry Malleret partono dallo stesso concetto nel loro recente “COVID-19: The Great Reset” (3) che esamina i cambiamenti necessari ad uscire dalla crisi conseguente al covid e propone modelli di gestione della società alternativi a quelli esistenti e che proseguono idealmente il percorso indicato nel libro di Florida. Il testo di Schwab/Malleret intende fornire le basi e un filo conduttore per la discussione da tenersi a Davos e prospettare modi per fare della crisi un’opportunità di cambiamento positivo, necessario ad uscire dal vicolo cieco nel quale ci si trova attualmente. È importante considerare che l’analisi, molto dettagliata, di Florida si riferisce specificamente alla situazione degli Stati Uniti e risale a dieci anni fa, mentre quella di Schwab/Malleret adotta una prospettiva globale ed è di oggi.
I media, a seconda della loro posizione politico-ideologica, hanno presentato il great reset principalmente in due modi antitetici (4). Uno vi intravvede la possibilità di radicali cambiamenti che portino a una maggiore attenzione per l’ambiente, una migliore distribuzione delle risorse e del capitale, una società più equa, solidale, pacifica e sostenibile. L’altro ne trae la visione apocalittica di un mondo snaturato dominato dalla tecnologia, dove gli uomini saranno solo degli accessori alle macchine che li governeranno con una dittatura globale, in un’ottica transumanista (5).
Qui cercheremo dunque di fare un po’ di luce sia sulle grandi opportunità che sui potenziali rischi dell’applicazione di questo concetto complesso, esaminandone gli elementi fondamentali, le possibili realizzazioni, e le conseguenze di queste.
Il reset si riferisce al sistema socio-economico che, con la cieca fissazione per il profitto a tutti i costi e a breve scadenza, ha causato la malfunzione del sistema capitalista e una reazione a catena di conseguenze negative su tutti i fronti della nostra presenza sul pianeta. In particolare individua una delle cause fondamentali del fallimento del sistema in uno scollamento profondo tra la realtà della produzione e quella delle necessità umane e l’astrazione del capitale speculativo basato su azzardi e bolle artificiali, un sistema basato sul debito (di individui e intere nazioni), sulla produzione di artefatti non necessari, sulla speculazione edilizia e finanziaria, sullo sfruttamento indiscriminato delle risorse naturali e sulla ineguale ripartizione delle risorse. Da decenni economisti, sociologi, ambientalisti e scienziati di tutte le discipline, avvertono delle conseguenze nefaste di questo sistema e della interrelazione di elementi come il cambiamento climatico, la globalizzazione senza regole, il sistema finanziario selvaggio e il cattivo sfruttamento delle risorse. La politica, controllata dagli interessi delle multinazionali e dell’alta finanza, finora ha ignorato questi avvertimenti illudendosi di poter demandare alle prossime generazioni la soluzione dei problemi insorgenti. Le varie crisi economiche che si sono succedute con sempre maggior frequenza e intensità sono state affrontate con metodi adatti ad un passato che non esiste più. La tesi principale del libro di Florida è che, dopo la crisi del 2008, non era più possibile nascondere la testa sotto la sabbia e applicare nuovamente i metodi consueti per far riprendere l’economia, era ormai indispensabile riconsiderare il sistema nel suo insieme, prendere atto delle evidenze presentate dagli esperti e considerare un approccio radicalmente diverso. Come sappiamo questi avvertimenti non sono stati presi in considerazione, e la crisi causata dal covid ha messo in luce tutte le falle, ormai conosciute, di un sistema che non ha più ragione d’esistere.
Ogni crisi fa delle vittime, e il più delle volte queste sono principalmente tra gli individui più vulnerabili della società. Ogni crisi, storicamente, ha però anche dimostrato la capacità creativa degli esseri umani di reinventarsi, e mediamente nel passato questo cambiamento ha richiesto circa 30 anni. Secondo quella teoria oggi ci troveremmo a metà della transizione tra il sistema andato in crisi e quello che lo sostituirà.
La crisi del covid pare avere le caratteristiche per costringere chi detiene il potere a riconsiderare metodi e strutture sociali dalle radici. Questo non perché i potenti siano diventati più saggi e umani, ma semplicemente perché lo scossone questa volta è stato troppo grande per essere assorbito. I mercati finanziari hanno perso fino al 40% del loro valore, si stima che la perdita totale causata dal covid si aggiri intorno agli 8.5 triliardi (come non pensare ai fantastiliardi di Paperon de’ Paperoni?) e per quanto alcune aziende e individui abbiano beneficiato della crisi guadagnando alcune centinaia di miliardi, questi sono insignificanti nel quadro generale e nella prospettiva futura, non solo immediata ma a lungo termine. Nell’analisi di Florida questo è il terzo reset dell’era moderna. I tre hanno una serie ben chiara di punti in comune. Il primo fu quello che seguì la drammatica crisi del 1873 e il secondo quello della grande depressione del 1929. Entrambi furono il risultato di azzardate speculazioni finanziare e immobiliari, di una accumulazione del capitale nelle mani di pochi e dello scollamento tra valori reali e valori percepiti. Nei due casi la crisi perdurò per anni nei quali la stagnazione dell’economia portò alla perdita di milioni di posti di lavoro, il fallimento di grandi imprese, i tentativi insensati di ripristinare l’ordine preesistente tramite interventi di soccorso agli istituti finanziari. In entrambi i casi però il periodo vide lo svilupparsi di nuove tecnologie, infrastrutture, modi di vivere e lavorare che finirono per convergere nella creazione di nuovi meccanismi sociali ed esplosero poi nei decenni successivi con il conseguente profondo cambiamento dello stile di vita delle popolazioni. Le condizioni attuali sono in gran parte una ripetizione degli stessi meccanismi, e l’assunto è che un terzo reset sia inevitabile e auspicabile, porterà a dei profondi cambiamenti della società, passerà attraverso un periodo difficile nel quale i settori più deboli patiranno pesanti conseguenze, ma risulterà in un generale miglioramento della qualità della vita e in un totale cambiamento della realtà del pianeta. L’analisi di Schwab/Malleret parte da dove Florida aveva lasciato e sviluppa il concetto in modo sistematico e pragmatico alla luce delle conseguenze del covid, del cambiamento climatico, del cattivo sfruttamento delle risorse naturali, della distorsione dei mercati finanziari e della crescente disuguaglianza sociale. Prendendo atto di questi elementi e del loro significato per la sopravvivenza sul pianeta, Schwab e Malleret analizzano e mettono in relazione tra di loro gli elementi necessari ad un nuovo grande reset, facendo un quadro organico della sequenza di cambiamenti e della loro interdipendenza. Alcuni di questi avranno ripercussioni profonde sulla vita di tutti, e questo spaventa molti, i critici della teoria prevedono uno scenario apocalittico, di stampo Malthusiano e transumanista, che vedrà il mondo comandato da un’oligarchia tecnocratica e popolato da un’umanità controllata in un mondo Orwelliano.
Cosa propone dunque il great reset per affrontare la problematica e come?
Innanzitutto tre aree di intervento fondamentali. La prima è un ripensamento dei principi dei mercati finanziari, spostando l’attenzione dagli interessi degli shareholders (azionisti) a quelli degli stakeholders (tutti coloro interessati dalle conseguenze delle scelte macroeconomiche) in una prospettiva di green economy e sviluppo sostenibile (5). Questo richiede un intervento coordinato dei governi per imporre una tassazione più equa, accordi sul commercio internazionale e sulle regole che riguardano il rispetto dell’ambiente più stringenti, rimozione dei sussidi ad industrie inquinanti e alle istituzioni finanziarie, assoggettandole a regole intese per il bene comune piuttosto che per il puro profitto, regole su copyright e competitività che non favoriscano i monopoli, ribilanciamento dei compensi e contratti di lavoro tenendo presente che la pandemia ha rivelato inequivocabilmente come i lavoratori più essenziali sono anche i meno pagati.
La seconda prevede che i grandi investimenti dei governi siano soggetti ad uno scrutinio che ne garantisca la sostenibilità ambientale e sociale, in favore di benefici globali (geograficamente e socialmente) piuttosto che interessi nazionali e di classe, con l’intento di creare un nuovo sistema che sia più resiliente, equo e sostenibile nel futuro, privilegiando infrastrutture ecosostenibili ed esigendo dalle industrie una diretta responsabilizzazione per quanto riguarda l’ambiente, i lavoratori e i rapporti tra interessi pubblici e privati. La terza è di fare pieno uso della quarta rivoluzione industriale (6) mettendo le nuove tecnologie al servizio dell’interesse comune, migliorando la cooperazione tra università e centri di ricerca, condividendo scienza e tecnologia in modo da moltiplicarne i benefici con particolare attenzione a educazione, salute pubblica, ambiente ed equità sociale. Quello che il great reset propone da un punto di vista di prospettiva economica è una combinazione di ESG (environmental social and governance), stakeholder capitalism, la cancellazione del debito delle nazioni, l’abbandono della metrica basata sul PIL, una forma di reddito di cittadinanza universale e una forte incentivazione dell’economia circolare. Fin qui sembrerebbe tutto idillico.
Perché allora questo grande sospetto e timore diffuso riguardo al great reset?
I motivi ci sono, ed esaminando in dettaglio come si traducono i principi appena descritti è facile immaginare come la loro applicazione, tutt’altro che agevole, incontrerà prevedibili forti opposizioni e potrebbe essere in vari modi presa in ostaggio o manipolata. Settori come bioingegneria, fisica quantistica, naotecnologie, lo sterminato campo di applicazioni di Io T (the Internet of Things) e gli sviluppi dell’intelligenza artificiale stanno convergendo alimentandosi esponenzialmente con risultati sorprendenti, ma la potenza combinata di questi sviluppi dovrà essere messa al servizio dell’umanità e regolata con saggezza, se così non fosse le conseguenze potrebbero essere disastrose. L’incontro di Davos si propone di porre le basi per questo necessario esercizio di saggezza nello sfruttare le potenzialità di queste innovazioni che comunque cambieranno la nostra vita nel prossimo futuro, ma è un’utopia ingenua?
Le opposizioni da parte dei poteri in essere sono facilmente prevedibili, il great reset si basa su principi fondamentalmente “socialisti” anche se il WEF ha sempre fatto molta attenzione a non usare questo termine. I proponenti del piano però contano sul fatto che la combinazione degli effetti negativi sull’economia conseguenti al coronavirus e al cambiamento climatico rendano certi cambi di direzione indispensabili per la sopravvivenza stessa del sistema umano, cosa che nemmeno i più accaniti liberal-capitalisti potrebbero negare facilmente. Il diffuso e crescente malcontento, giustificato, delle popolazioni potrebbe tradursi in instabilità sociale, anche questa a detrimento degli interessi politici e finanziari. Sottointesa in questo piano però è una ben maggiore interferenza dei governi negli interessi privati, e una più grande cooperazione tra i governi, cosa che a molti fa pensare ad un futuro governo globale dai poteri illimitati e per di più probabilmente nelle mani di un’oligarchia tecnocratica. Questo preoccupa sia i capitalisti che vedrebbero ampiamente limitata la loro libertà di azione, che tutti coloro che sono istintivamente sospettosi verso qualsiasi governo centralizzato.
Un altro elemento che preoccupa molti è l’aumentata dipendenza da sistemi informatici.
Si pensi alla digitalizzazione di gran parte dei servizi, al trasferimento su cloud di larga parte del patrimonio intellettuale umano, all’eliminazione del denaro in favore di transazioni digitali e il quasi totale accesso (quindi potenzialmente controllo) al privato degli individui conseguente a questa dipendenza dal digitale. Non trascurabile è il fatto che cambiamenti nel sistema produttivo significano anche la necessità di nuove conoscenze specializzate, che escluderanno dal mercato del lavoro intere sezioni della popolazione che sono totalmente impreparate per un’economia digitale fondata su tecnologie avanzate, quindi opposizione verrà anche da tutte quelle organizzazioni, come i sindacati, che vorrebbero proteggere il lavoro tradizionale, anche quando questo non ha più valore e significato. In questo senso il great reset pone anche molta attenzione sulla necessità di aggiornare i metodi educativi e allargare l’accesso all’istruzione avanzata anche a quei settori della società che finora ne sono stati generalmente esclusi; questo sarebbe da ottenere con un investimento dei governi nell’offrire educazione di qualità estesa a tutti i giovani, oltre a prevedere progammi di re-training e riqualificazione per aggiornare le conoscenze della forza lavoro esistente adeguandola alle nuove necessità.
La tutela dell’ambiente e la razionalizzazione dello sfruttamento delle risorse e della produzione alimentare sono altri punti chiave del great reset.
Questi sarebbero da ottenere ad un prezzo che molti sono stati finora restii ad accettare, anche in questo senso sarebbe necessario un ruolo più rilevante dei governi nel forzare da un lato le industrie a rinunciare ai profitti che derivano oggi da attività inquinanti e distruttive e dall’altro di convincere le stesse industrie ad investire in metodi e tecnologie alternative per raggiungere un punto di equilibrio sostenibile e proficuo nel futuro, mettendo in atto i principi del Green New Deal e dell’Agenda 2030 (7) delle Nazioni Unite. Il copyright industriale com’è concepito oggi paralizza vari settori produttivi e, nel caso specifico delle industrie farmaceutiche, impedisce a intere aree del mondo di svilupparsi. Il reset rivedrebbe tutte le regole del copyright, con particolare attenzione a quelle scoperte che sono di utilità universale, riducendo da un lato i profitti delle industrie che ora li detengono ma consentendo al contempo uno sviluppo più omogeneo, rapido e diffuso della società a livello globale. Per compensare le industrie della loro perdita nell’immediato i governi le dovrebbero rendere partecipi dei profitti futuri condivisi e dimostrare il potenziale di sviluppo nel tempo. I movimenti migratori dei prossimi decenni saranno di proporzioni mai viste prima. Perché questo non si tramuti in conflitto e sovraccarico insostenibile per le parti del mondo verso le quali il flusso migratorio si dirigerà è essenziale preparare un piano articolato e sovranazionale, che investa alla periferia per offrrire opportunità dove ora non esistono, diminuendo il numero di persone costrette a migrare, e allo stesso tempo preparando infrastrutture in quei luoghi dove è prevedibile che si diriga il flusso, oltre ad intervenire drasticamente per contrastare il cambiamento climatico che si prevede sarà la causa principale di future migrazioni di massa. Accordi internazionali solidi sono necessari per evitare quelle che nel prossimo futuro potrebbero essere guerre per il controllo delle risorse, in particolare l’acqua, che sarebbero devastanti. Il controllo di queste risorse non può essere demandato alle singole nazioni né tantomeno a degli interessi privati (ormai famoso è il discorso del CEO della Nestlé sul diritto alla privatizzazione dell’acqua). Visti i limiti dimostrati dalle organizzazioni internazionali come le Nazioni Unite, che idealmente avrebbero dovuto svolgere simili funzioni, questo nuovamente implica una qualche forma di governo sovranazionale che imponga gli interessi globali su quelli locali, che ci riporta nuovamente al timore di un vasto potere nelle mani di pochi, un concetto comprensibilmente inquietante. Uno dei fattori cruciali per la realizzazione del great reset è la diffusione capillare del sistema 5G (o meglio il già avanzato 6G).
Questo è uno degli elementi che trova maggior resistenza tra i critici del piano. La sempre più diffusa presenza di robot nella vita quotidiana, la diffusione di trasporti pubblici e privati senza guidatore, l’uso di droni, i sistemi di regolamento e distribuzione di energia, il controllo di edifici ad alta efficienza, la telemedicina e la chirurgia a distanza sono solo alcuni degli ambiti per i quali il 5G è essenziale; il dibattito sulla sicurezza e sugli usi del sistema deve dunque essere risolto affinché il great reset si possa realizzare e normative internazionali dovranno essere sviluppate rapidamente.
Future pandemie, e potenzialmente causate da virus molto più letali del covid, sono prevedibili e inevitabili, come risultato di deforestazione e sempre maggior invasione degli spazi naturali da parte degli uomini.
Questo significa che nell’era post-covid la salute pubblica, la prevenzione, la resilienza dei sistemi sanitari, l’accesso agli stessi per tutti i settori del pubblico (per evitare che le sezioni più vulnerabili siano le più colpite) saranno tutte priorità. Queste priorità implicano un più largo uso della tecnologia, e questo significa anche più monitoraggio e dunque più invasione della privacy. Sistemi solidi saranno quindi essenziali per evitare che questa invasione della privacy non diventi un’arma a doppio taglio, sfruttabile da alcuni come strumento politico e di profitto. Tutto ciò implica uno spostamento dell’attenzione dagli interessi di pochi al benessere di tutti, un grande e difficile passo da compiere. Un maggiore investimento nell’educazione, su misura per le nuove specialità emergenti, è un’altra parte fondamentale, che deve andare di pari passo con l’aumento delle retribuzioni per i lavori creativi nell’ambito di ricerca e innovazione così come in quello di arte e cultura, e una corrispondente riduzione delle retribuzioni nel campo della finanza che negli ultimi decenni ha sottratto dal mercato del lavoro, grazie ai compensi esorbitanti, una percentuale altissima dei giovani più specializzati e capaci. Sul piano teorico il great reset proposto dal WEF è ben articolato ed elaborato in un modo coerente che tiene presenti tutti i fattori necessari a risolvere dei grossi problemi urgenti e promette un miglioramento diffuso della società umana. Nella pratica la realizzazione di un tale progetto richiede la cooperazione di tutte le parti della società, al di là di classe, nazionalità, etnia, e una leadership illuminata ed estremamente competente. Se consideriamo l’esito di tutti gli accordi internazionali, come quelli sull’ambiente da Rio a Kyoto, da Copenhagen a Parigi, l’esperienza ci suggerisce che un piano di tale ambizione e universalità potrebbe realizzarsi solo se le condizioni di sopravvivenza fossero divenute così drammatiche da non lasciare alternativa.
La crisi del covid potrebbe forse essere l’evento giusto?
Ma anche se questo accadesse, se un accordo fosse raggiunto e poi rispettato dalla maggioranza degli aderenti, chi potrebbe garantire che la gestione successiva non si concentrasse nelle mani di pochi al di sopra di ogni controllo? Il beneficio in termini di benessere sociale, equa divisione delle risorse, ripristino dell’equilibrio ambientale verrebbero poi pagati con un appiattimento della società, una perdita di diversità e iniziativa personale? Ci si potrebbe davvero trovare in un comodo e sicuro pensionato per umani omologati?
A Davos voci che in passato erano marginali e largamente ignorate, come quelle di scienziati, ambientalisti ed ecologisti, riceveranno questa volta molta più attenzione da parte di leader di politica, industria e finanza, che si sono visti mancare il terreno sotto i piedi e che stanno affannosamente cercando vie d’uscita. Queste voci, combinate con il crescente malcontento delle popolazioni, un congelamento delle finanze, la rottura di catene produttive commerciali e l’innegabile fallimento di un sistema, potrebbero far si che l’inevitabile reset si tramuti in un’irripetibile opportunità di cambiamento positivo.
Immaginare un futuro diverso da ciò che si conosce è sempre difficile. Al momento della prima rivoluzione industriale i milioni di individui che lasciarono le campagne per trasferirsi a lavorare nelle industrie in città non avevano idea di che vita avrebbero condotto. Lo stesso si può dire per i drastici cambiamenti in stile di vita che si concretizzarono dopo la crisi degli anni ’30 del ventesimo secolo o dopo il secondo conflitto mondiale. Siamo oggi al crocevia di un nuovo cambiamento epocale che investirà tutti i settori e tutti i paesi. Il cambiamento avverrà comunque, è necessario e inevitabile. Sta a tutti noi far si che sia un cambiamento in positivo, e mai come oggi abbiamo i mezzi e le conoscenze per rendere questo possibile.
The Great Reset: How the Post-Crash Economy Will Change the Way We Live and Work – Richard Florida – Harper Business – 2010
COVID-19: The Great Reset – Klaus Schwab and Thierry Malleret – ISBN Agentur Schweiz – 2020
Sul web si trovano dozzine di articoli anche in italiano pubblicati recentemente sul soggetto, in massima parte esprimono un giudizio negativo e si allineano su un’ipotesi di complotto elitario per una dittatura globale.
Tanto per citarne alcune, le critiche più accese al great reset portano titoli come “Pericolosi leaders marxisti spingono per un great reset per distruggere il capitalismo” (Sky News Australia) o “complotto contro Trump e il cristianesimo per restaurare il socialismo” (lifesitenews) ma, considerato che nel novero dei proponenti del great reset troviamo personaggi come il Principe Carlo d’Inghilterra e vari CEOs di colossi Hi-Tech, pare difficile immaginarli come pericolosi marxisti. Allo stesso tempo altri parlano di “l’agenda fascista dietro al Great Reset” e “Schwab e il suo grande reset fascista” (Winter Oak e bitcoin.com). Nella surreale lettera di Mons. Viganò a Trump il prelato si spinge fino a definire il great reset come il piano architettato dalle forze del male per la dominazione del mondo, con la complicità del “traditore” papa Francesco. Quindi ce n’è per tutti i gusti. Molte delle critiche però sembrano concordare sul fatto che il cambiamento climatico è una invenzione usata da questi (fascisti o comunisti) per prendere controllo del mondo con l’aiuto delle organizzazioni non governative e i movimenti (“fasulli e sponsorizzati”) come Fridays for Future.
https://greatreset.com prodotto da Purpose Disruptors, un network di professionisti nell’ambito di pubblicità e marketing che si definiscono uniti nell’intento di rimodellare il mondo della comunicazione per affrontare il cambiamento climatico.
Note: Esistono altri libri intitolati “The Great Reset” da non essere confusi col soggetto di questo articolo. Si tratta di due racconti di fantascienza di Jason Glunk “The Great Reset: A Human Livestock Dystopia” e “The Great Reset: A Scorched Earth Dystopia” e un libro di finanza di Yadunath S “The Great Reset: The Unfolding Bear Market and the Opportunity of a Lifetime”. Sul sito Strategic Intelligence del World Economic Forum si trova una documentazione ampia e dettagliata su tutti gli argomenti che fanno parte del great reset, incluse utili mappe interattive che consentono di esplorare l’interrelazione tra le sue varie componenti e la loro complessità con un criterio sistemico.
Per più di un giovane italiano su tre (38%) l’ambiente rappresenta l’emergenza principale subito dopo il lavoro, tanto che nell’ultimo anno ha modificato profondamente i propri comportamenti: i risultati dell’indagine sulla svolta green delle giovani generazioni.
Per più di un giovane italiano su tre (38%) l’ambiente rappresenta l’emergenza principale subito dopo il lavoro, tanto che nell’ultimo anno ha modificato profondamente i propri comportamenti iniziando ad acquistare abiti o accessori usati, utilizzando il carsharing per i piccoli spostamenti, condividendo spazi di lavoro con altre persone o l’auto per i lunghi tragitti. E’ quanto emerge dalla prima indagine Coldiretti-Ixe’ su “La svolta green delle nuove generazioni” presentata in occasione della consegna degli Oscar Green, il premio all’innovazione per le imprese che creano sviluppo e lavoro con i giovani veri protagonisti italiani del Green Deal. Tra i comportamenti che gli under 35 sono pronti ad adottare pur di tutelare l’ecosistema c’è in testa il mangiare cibi a km zero, indicato dal 77% secondo Coldiretti-Ixe’, seguito dall’andare a piedi invece che in macchina o in moto (64%), dalla rinuncia all’utilizzo dei condizionatori (56%), dallo spendere di più per acquistare solo prodotti alimentari biologici (56%), fino addirittura a rinunciare a vacanze che prevedono viaggi aerei (33%). Non è un caso che le tematiche ambientali siano spesso o addirittura spessissimo al centro delle conversazioni del 64% dei giovani sotto i 25 anni, contro una media generale del 48%. Una così elevata attenzione per la sostenibilità porta quasi 1 giovane su 2 (48%) a chiedere le manette per i responsabili di danni ambientali come sversamento di petrolio in mare o inquinamento dei terreni, mentre un 52% vorrebbe una grossa multa e il ripristino a sue spese e solo un 2% eviterebbe di punire gli autori del misfatto con la scusa che ciò metterebbe a rischio posti di lavoro. Al contrario, secondo Coldiretti-Ixe’, per quasi sei giovani su 10 (59%) proprio il rispetto della natura e della sostenibilità crea nuova occupazione. Nella classifica green dei settori che inquinano di meno – continua Coldiretti – i giovani mettono in testa l’agricoltura, che precede l’edilizia, il comparto energetico e i trasporti, con l’industria fanalino di coda. Proprio la campagna viene indicata inoltre dall’80% degli under 35 come una risorsa per l’ambiente, poiché contrasta i cambiamenti climatici e il consumo di suolo e protegge le risorse naturali.
“La nuova attenzione dei giovani per le tematiche ambientali rappresenta una base importante da cui partire per modernizzare e trasformare l’economia italiana ed europea – sottolinea il presidente della Coldiretti Ettore Prandini – orientandola verso una direzione più sostenibile in grado di combinare sviluppo economico, inclusione sociale e ambiente”.
Ecco i risultati di alcuni dei quesiti posti
COSA SARESTI DISPOSTO A FARE PER TUTELARE L’AMBIENTE?
mangiare solo prodotti a km zero e di stagione 77%
rinunciare o ridurre drasticamente spostamenti in auto, scooter, motocicletta 64%
rinunciare all’aria condizionata 56%
spendere di piu’ per acquistare solo prodotti alimentari biologici 56%
rinunciare a vacanze che prevedono viaggi aerei 33%
Migliaia di morti in India per temperature di 50 gradi e quarto anno di siccità in California, la peggiore da 1.200 anni a questa parte. Poi laghi e fiumi in grosse difficoltà in molte zone del mondo, falde acquifere sempre più sfruttate. Eppure nessuno si sveglia. Cosa faremo quando sarà troppo tardi?
Migliaia di morti in India per temperature di 50 gradi e quarto anno di siccità in California, la peggiore da 1.200 anni a questa parte secondo Daniel Griffin and Kevin Anchukaitis, due climatologi dell’università del Minnesota e del Woods Hole Oceanographic Institution (leggi QUI lo studio integrale che hanno pubblicato). Poi laghi e fiumi in grosse difficoltà in molte zone del mondo, falde acquifere sempre più sfruttate. Ogni anno diventa il più caldo rispetto all’anno precedente. In Italia abbiamo temperature che raggiungono i 40 gradi e proseguono da giorni senza tregua, caldo asfissiante in tutta la penisola, fiumi in secca, agricoltura allo stremo ma si continua come se nulla fosse, come se si potesse tranquillamente pensare di sopravvivere senza acqua e senza cibo. Si spera che tanto una soluzione si trovi, un modo ci sarà, i politici, la tecnologia ci penseranno e intanto però la situazione si aggrava sempre di più. Il pianeta si avvia ad attraversare siccità senza precedenti verso la metà del secolo, come hanno chiaramente annunciato i ricercatori già nell’aprile scorso, chiedendo a gran voce (e invano) urgenti provvedimenti per preservare le riserve di acqua. La parte occidentale degli Stati Uniti potrebbe superare la soglia storica di siccità nel 2017 e l’area del Mediterraneo nel 2027 se le emissioni inquinanti continueranno a questi ritmi, stando al rapporto dell’International Institute for Applied Systems Analysis (IIASA). La siccità raggiungerà livelli estremi nel 2050 per 13 delle 26 regioni del mondo secondo le previsione delle Nazioni Unite. Abbiamo superato le 400 parti per milione di CO2 in atmosfera e ormai il clima è fuori controllo. Si calcola che per evitare cambiamenti irreversibili si dovrebbero ridurre le emissioni di CO2 a livello globale dell’80% da domani mattina. E di fronte a tutto ciò c’è ancora chi (di solito perché pagato dalle multinazionali del petrolio) si ostina a dire che i cambiamenti climatici non esistono. Si prendono provvedimenti drastici per scongiurare la catastrofe? Si pensa di fare qualcosa in ambito istituzionale? Si agisce come privati cittadini? Al massimo si comprano ventilatori e condizionatori sperando che“passi ‘a nuttata” e così, oltre che aumentare ancora di più la temperatura in città, si arriva a picchi di consumo energetico elettrico più alti in estate che in inverno. A livello istituzionale siamo in mano a persone che non fanno nulla per la sopravvivenza reale e il futuro della popolazione. Si parla prevalentemente di soldi, poi tutt’al più si parla del PD che potrebbe dividersi in trenta partiti oppure del famoso calciatore che ha sposato la velina e assurde idiozie di questo tipo. Quando la situazione si aggraverà sempre di più e si dovrà capire dove trovare acqua potabile, cosa e se mangiare, chissà se saremo ancora interessati al principe di Monaco, alle veline, a Renzi e alle sue miserie. Senza cibo si può durare anche due o tre settimane (non che questo comunque dia il tempo di trovare una soluzione), senza acqua no. Di fronte a temperature e siccità sahariane un qualsiasi governo, Comune, istituzione dovrebbe immediatamente istituire una informazione e formazione capillare per i cittadini su come ridurre il consumo idrico, risparmiare un bene fondamentale e prezioso per la nostra esistenza come l’acqua. Fitodepurazione con recupero delle acque, recupero delle acque piovane, limitatori di flusso, elettrodomestici a basso consumo idrico, compost toilet(bagni a secco dove non serve acqua) ed ogni altro intervento possibile e immaginabile per scongiurare il peggio. Una volta infatti che l’acqua finisce o scarseggia, non è che la si può ricreare in un giorno o fare piovere premendo con un click da qualche parte, eppure si pensa che forse succederà così. La Convenzione contro la desertificazione delle Nazioni Unite terrà la sua dodicesima sessione ad Ankara, in Turchia, dal 12 al 23 ottobre prossimi. Ciò significa che da 12 anni si ripetono vertici di questo tipo (peraltro costosissimi ed energivori) per nulla. Finora che hanno fatto?
Ma cosa vuoi che ci importi a noi dell’ambiente, del clima, dei morti, dei profughi ambientali, della mancanza d’acqua, dell’agricoltura, chiusi dentro alle nostre case e automobili condizionate. Poi un brutto giorno ci si accorgerà che i condizionatori, la civiltà, i soldi, non possono nulla contro la stupidità e quando verranno a mancare acqua e cibo chissà cosa faranno gli uomini civili che non si preoccupano nemmeno di salvaguardare le basi della loro esistenza, chissà….
Il vertici europei riuniti a Bruxelles per il Consiglio su clima ed energia hanno trovato un’intesa su quelli che dovrebbero essere i nuovi obiettivi climatici dell’UE al 2030: gas serra tagliati del 40% rispetto al 1990, rinnovabili ed efficienza incrementati del 27% (gli ultimi due target non sarebbero vincolanti per i singoli stati membri). Ora la palla passa alla nuova Commissione, che dovrà tradurre la proposta in strumenti legislativi. Ma le associazioni ambientaliste non ci stanno
Ridurre le emissioni di gas serra del 40% rispetto ai livelli del 1990, innalzare la quota di energia rinnovabile fino al 27% del consumo totale europeo, incrementare l’efficienza energetica di almeno il 27% (rispetto sempre al 1990). Sono questi i nuovi obiettivi climatici al 2030 su cui si sono accordati, dopo un’intensa trattativa, i 28 paesi UE riuniti a Bruxelles in occasione del Consiglio europeo su energia e clima. Gli ultimi due obiettivi, in particolare, «saranno raggiunti nel pieno rispetto della libertà degli stati membri di decidere il loro mix energetico – si legge nel comunicato diffuso dopo aver raggiunto l’intesa – Non saranno tradotti in obiettivi vincolanti a livello nazionale (quello sulle rinnovabili è vincolante solo a livello comunitario, ndr)». Una scelta, quella di rendere i nuovi target su rinnovabili ed efficienza non vincolanti a livello nazionale, voluta fortemente dal governo polacco e caldeggiata anche da Londra. Ora la parola passa alla nuova Commissione europea, che, tenendo conto anche del parere del Parlamento, dovrà tradurre l’intesa uscita dal vertice in proposte di strumenti legislativi veri e propri. Una clausola nel testo sottoscritto a Bruxelles, comunque, prevede la possibilità di rivedere tutti gli impegni qualora al vertice sul clima di Parigi in programma nel 2015 gli stati non UE non dovessero mostrare l’intenzione di assumere a loro volta target simili al 2030. Leggi le conclusioni del Consiglio UE sui nuovi obiettivi climatici al 2030 (inglese)
Secondo il presidente del Consiglio europeo Herman Van Rompuy si tratta di una «buona notizia per il clima, i cittadini, la salute, e i negoziati internazionali sull’ambiente a Parigi nel 2015». Positivo anche il commento del presidente della Commissione europea, Jose Manuel Barroso, per il quale «questo pacchetto è una buona notizia per la nostra lotta contro il cambiamento climatico, nessun giocatore al mondo è ambiziosa come l’UE», ma è facile prevedere un’alzata di scudi da parte delle principali associazioni ambientaliste e di altri soggetti interessati. Alla vigilia del vertice, ad esempio, il WWF aveva chiesto al premier Renzi, impegnato in quanto presidente di turno dell’UE, obiettivi ben più ambiziosi: un taglio del 55% dei gas serra, la produzione di energia da fonti rinnovabili almeno del 45%, e un incremento di almeno il 40% per l’efficienza energetica. L’associazione, inoltre, sottolineava l’importanza di rendere tutti e tre gli impegni giuridicamente vincolanti per i paesi membri. Delusione per i contenuti dell’accordo è già stata espressa da Legambiente, che critica il comportamento della presidenza italiana in occasione del Consiglio. Secondo il presidente dell’associazione, Vittorio Cogliati Dezza, si tratta di «una grande occasione sprecata, con l’Italia che si è limitata a svolgere un ruolo semplicemente notarile di presidente di turno dell’Unione europea cedendo alla minacce di veto britanniche e polacche. Il nostro governo ha mostrato la sua scarsa capacità di leadership e volontà politica di investire nello sviluppo di un’economia europea a basse emissioni di carbonio cedendo alla lobby del fossile».
Legambiente sottolinea che l’intesa raggiunta dai leader europei peggiora addirittura peggiorato la proposta avanzata dalla Commissione UE nei mesi scorsi, giudicata già poco ambiziosa dagli ambientalisti. Secondo l’associazione, il nuovo Pacchetto clima al 2030 non permetterà di raggiungere l’obiettivo di riduzione delle emissioni di almeno il 95% al 2050, una condizione ritenuta indispensabile dai climatologi per riuscire a contenere il riscaldamento del pianeta almeno sotto la soglia critica dei 2°C. Il Cigno ritiene poco ambizioso anche l’obiettivo comunitario proposto per le rinnovabili, di appena il 3% al di sopra dell’attuale trend al 2030. Stesso giudizio sul anche sul target del 27% per l’efficienza energetica, destinato tra l’altro a rimanere non vincolante dal punto di vista giuridico. Ma le istanze degli ambientalisti non si fermano davanti all’esito del Consiglio UE. «Siamo solo all’inizio della partita , nei prossimi mesi la nuova Commissione Juncker dovrà predisporre il pacchetto di proposte legislative su cui Consiglio e Parlamento dovranno poi raggiungere un accordo – aggiunge Cogliati Dezza – Legambiente, insieme ai principali network ed associazioni europei, si impegnerà con forza affinché il Parlamento costringa il Consiglio ad approvare un ambizioso pacchetto legislativo, che includa un obiettivo di riduzione delle emissioni di gas-serra che vada ben oltre il 40% (noi proponiamo il 55%), includa un obiettivo vincolante per l’efficienza energetica che vada ben oltre il 27% (noi proponiamo il 40%) e aumenti l’ambizione dell’obiettivo per le rinnovabili (noi proponiamo il 45%)». Aspre anche le critiche giunte da Climate Action Network Europe, che secondo quanto riporta il Guardian ha accusato i leader europei di non essere venuti a Bruxelles per concordare nuovi obiettivi climatici storici, ma per discutere «se finanziare le centrali elettriche più inquinanti d’Europa». Tornando in Italia, invece, mediocre il giudizio di assoRinnovabili, che ritiene che i Capi di Governo dell’Unione Europea siano rimasti sordi agli inviti di maggior coraggio che fino all’ultimo sono arrivati dal settore della green economy. «Pur apprezzando in parte il lavoro svolto, ritengo si potesse e dovesse fare di più – commenta Agostino Re Rebaudengo, presidente dell’associazione – assoRinnovabili aveva chiesto in più occasioni che l’obiettivo per le rinnovabili non fosse inferiore al 30%, considerando i tanti vantaggi che la produzione di energia verde ha saputo offrire e offrirà al nostro Paese in termini di emissioni evitate di CO2, minori danni alla salute dei cittadini, incremento di PIL e occupazione. La stessa Commissione ha stimato che con un obiettivo per le rinnovabili al 30% si potrebbero avere al 2030 fino a 1.300.000 posti di lavoro in più in Europa, mentre con un obiettivo limitato al 27% se ne avrebbero solo 700.000: perché rinunciare a 600.000 occupati? Senza trascurare inoltre l’aspetto strategico che le rinnovabili possono rivestire in termini di security of supply per l’Unione Europea, fattore particolarmente rilevante in seguito ai recenti sviluppi geopolitici, sia a Est che a Sud dell’Unione Europea».
Un enorme canale cementizio attraverserà la parte ovest di Milano per portare acqua dal canale Villoresi al sito espositivo di Expo 2015. Opera dai costi esorbitanti criticata dagli ambientalisti, dai cittadini e dalle associazioni della società civile. Ma prevale la logica del business per pochi.
Fervono i lavori per Expo 2015 a Milano e in capo a una persona si sono concentrati i poteri dati dalla funzione di commissario straordinario del Governo. E procede anche il progetto dell’opera tanto contestata, quella cosiddetta“Via d’acqua” che, sotto forma di canale di cemento, procederà da nord a sud nella parte ovest di Milano per portare acqua dal canale Villoresi al sito espositivo per poi uscirne e raggiungere il Naviglio Grande a San Cristoforo. Per giustificarne la realizzabilità malgrado le critiche durissime arrivate da più parti la si è definita “strategica”, «ma in realtà serve a ben poco, fa tanto male e costa molto: queste opere avranno un impatto devastante su territori protetti e tutelati come il Parco delle cave, il Parco di Trenno ed il Boscoincittà» hanno spiegato i responsabili di Fiab Milano. Associazioni e comitati di cittadini hanno invano proposto un’alternativa di tracciato attraverso l’utilizzo di rogge e fontanili già esistenti; su questo è stata portata avanti una grande battaglia da Italia Nostra, proprio per contenere l’impatto ambientale. Poi molti altri hanno chiesto la rinuncia tout-court alla realizzazione dell’opera. «Abbiamo messo a disposizione di tutti la sequenza di resoconti e documenti che evidenziano perplessità , dissensi, suggerimenti espressi anche in sedi istituzionali, come il Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici e la Sopraintendenza ai Beni Architettonici e Ambientali ed una Proposta di Variante che riprendendone indicazioni paesaggistiche al limita i danni dell’opera – spiega Italia Nostra – La proposta di variante curata dalla Sezione con il Centro Forestazione Urbana è stata confermata nella fattibilità idraulica dai docenti di costruzioni idrauliche del Politecnico di Milano. Italia Nostra, fin dal concretizzarsi del progetto della Via d’Acqua, quando si era delineata la non volontà di utilizzare o valorizzare il reticolo idraulico naturale e artificiale esistente sul territorio a favore di una soluzione con tracciato nuovo invasivo e prepotente nel progettato taglio dei Parchi, aveva espresso il suo parere negativo sull’opera così proposta. Il tracciato della Via d’Acqua (canale piste ciclabili e terrapieni avranno larghezza tra gli 8 e i 15 metri) rappresenta una barriera, una ferita, un ingombro».
E quaranta milioni di euro se ne andranno così…
L’Abap, l’Associazione Biologi Ambientalisti Pugliesi, dal 1995 è un’associazione scientifico-culturale sorta a Bari per iniziativa di un gruppo di Biologi. Da luglio l’Abap è anche associazione di promozione sociale ed Ente di formazione accreditato dalla Regione Puglia: è tra i primi 10 enti certificati in Italia (norma UNI ISO 29990:2011, certificazione per la formazione non formale)
L’Abap, l’Associazione Biologi Ambientalisti Pugliesi, dal 1995 è un’associazione scientifico-culturale sorta a Bari per iniziativa di un gruppo di Biologi, liberi professionisti e ricercatori, con il sostegno e la collaborazione dell’Ordine Nazionale dei Biologi. Dal luglio 2013 l’Abap è anche associazione di promozione sociale ed Ente di formazione accreditato dalla Regione Puglia. L’Abap, infatti ha ottenuto da CSQA la certificazione a fronte della norma UNI ISO 29990, specifica per i fornitori di servizi per l’apprendimento nell’istruzione e nella formazione non formale. Tra i primi dieci organismi certificati in Italia, tra i primissimi in tutto il Sud, l’A.B.A.P. svolge un’intensa attività di Alta Formazione post-lauream: master, corsi di specializzazione e di aggiornamento su comunicazione ecologica, ecoalfabetizzazione, sicurezza, qualità e certificazione alimentare ed ambientale, risorse marine, biostatistica e bioinformatica, gestione e legislazione ambientale, valorizzazione del territorio rurale ed urbano, biocosmesi e benessere naturale, pet therapy e nutrizione umana. «Numerosi sono i benefici aggiuntivi di applicare la norma UNI ISO 29990 rispetto alla sola ISO 9001 – ha spiegato Elvira Tarsitano presidente e direttore dell’Abap – in virtù della sua specificità per il settore della formazione. La ISO 9001 è uno standard di base, strategico per entrare nell’ottica dell’operatività per processi. La ISO 29990, proprio per l’attenzione al ‘cliente’ e ai suoi bisogni, per la spinta al continuo monitoraggio del mercato, formativo e lavorativo, ci ha permesso di ottimizzare i processi formativi e dare un’ulteriore svolta nella direzione del miglioramento dell’efficacia e della qualità della formazione che eroghiamo, già testimoniata da un placement in media dell’80%, e garantita da uno staff qualificato, in grado di recepire e soddisfare le esigenze dei singoli corsisti». «In altri termini – ha proseguito il direttore dell’A.B.A.P. – la UNI ISO 29990 completa il percorso di certificazione della qualità avviato con la ISO 9001 e soddisfa le necessità specifiche di un settore così mutevole e fluttuante come quello formativo, che soggiace a innumerevoli variabili e bisogni più o meno espliciti. Questo standard ci permette di certificare il nostro modello organizzativo che ha come focus il ‘cliente’, a partire dalla definizione dei suoi bisogni sino alla valutazione del raggiungimento degli obiettivi concordati. Rende tale processo ‘verificabile’, migliorando la trasparenza dei servizi offerti e la comparabilità con le altre realtà formative». Una necessità sempre più stringente quella della qualità in un panorama formativo in evoluzione, che deve sapersi confrontare con le esigenze reali del mercato del lavoro, recependone i segnali e, a volte, anticipandone i bisogni. «La norma ISO 29990 – ha aggiunto Tarsitano – prevede una puntuale determinazione dei bisogni, da effettuarsi in relazione con tutte le parti interessate, dalle attese dei corsisti ai fabbisogni del mercato occupazionale. E’ proprio sul corretto sviluppo di questa analisi, sull’opportunità di valutare il maggior numero di informazioni in ingresso che si basa il successo dei nostri percorsi formativi nei quali particolare cura è data alla fase di pianificazione dello stage e, al termine del percorso formativo, all’orientamento finalizzato all’inserimento lavorativo in azienda, all’avvio di un’attività in proprio o alla realizzazione di progetti cooperativi». L’ampia offerta formativa 2013-2014 dell’A.B.A.P. (candidabile anche per le borse di studio regionali di Ritorno al Futuro) è consultabile on-line nella sezione Formazione sul sito www.infoabap.it.
Note tecniche
L’A.B.A.P. nasce a Bari nel 1995 come associazione scientifico-culturale senza fini di lucro e uno spiccato orientamento verso aree di intervento di pubblica utilità: Alta Formazione, gruppi di studio, divulgazione scientifica, campagne di alfabetizzazione e sensibilizzazione sulle questioni ambientali. La sua mission è nella diffusione delle conoscenze tecnico-scientifiche e psicologiche relative alla sostenibilità, all’educazione alimentare, alla medicina complementare, alla tutela della salute pubblica, alla dinamica dei gruppi, alla consapevolezza e all’autonomia della persona, secondo un approccio olistico e multidisciplinare, anche in collaborazione con prestigiosi Enti, pubblici e privati. A questo scopo, sin dalla sua nascita, l’A.B.A.P. ha collaborato con Associazioni ambientaliste locali e nazionali, Enti e Istituzioni quali l’Istituto Superiore di Sanità, Regioni, Comuni, numerosi Ordini Professionali ed Università italiane ed estere. L’offerta formativa si rivolge, dunque, a diverse professionalità con percorsi didattici e seminari per biologi, biotecnologi, tecnologi alimentari, veterinari, agronomi, medici omeopatici ed olistici, psicologi, counselor e tutti i laureati che intendano dare una svolta sostenibile alla propria professione. L’ente offre inoltre il proprio know-how per la progettazione e realizzazione di percorsi formativi e di aggiornamento su commissione, per la consulenza in fase di progettazione e realizzazione di eventi e convegni, per i servizi di segreteria tecnica e scientifica.
Le rinnovabili cresceranno del 40% nell’arco di quattro anni, fornendo un quarto dell’energia elettrica del pianeta. Per questo secondo l’IEA i governi devono definire politiche di lungo termine che favoriscano gli investimenti in un quadro di regolamentazioni nell’interesse della collettività
Secondo l’International Energy Agency,le rinnovabili cresceranno del 40%nell’arco dei prossimi cinque anni arrivando a coprire il 25% del fabbisogno. Come si vede dal grafico(1), le aree più dinamiche saranno la Cina e le Americhe. Nel2016la generazione elettrica da innovabili raggiungerà i6000 TWh, un valore maggiore del gas e oltre il doppio del nucleare(stabile intorno ai 2500 TWh). Detto altrimenti,le rinnovabili stanno diventando adulteed iniziano a guadagnarsi il rispetto di un’istituzione piuttosto tradizionale qual è l’IEA.
«A mano a mano che i costi scendono, le fonti rinnovabili si reggono sempre di più sui propri meriti rispetto alle fonti fossili» arriva adichiararela direttrice esecutiva dell’EIA Maria van der Hoeven, aggiungendo un monito che sembra particolarmente rivolto al governo italiano: «L’incertezza politica è il nemico pubblico numero uno per gli investitori. Molte rinnovabili non necessitano più di incentivi economici, ma hanno semprebisogno di politiche di lungo termineche forniscano un mercato prevedibile ed affidabile e un quadro di regolamenti compatibile con gli obiettivi pubblici».
«I sussidi ai combustibili fossili» conclude in modo sorprendente la van der Hoeven, «rimangono sei volte più alti degli incentivi per le rinnovabili». Quando i manager dell’IEA cominciano adire le stesse cose degli ambientalistisignifica forse che il mondo sta davvero cambiando.
(1) Ilgraficoè una delle poche informazioni accessibili del nuovoMedium Trend Renewable Energy Market Report 2013, disponibile solo a pagamento.
La Germania fa saltare l’accordo durante il tavolo dei negoziati per la ratifica del limite delle emissioni di CO2 delle auto a 95 g/km.
Sarà la Lituania nella prossima presidenza semestrale a dover riprendere i negoziati che porteranno al tavolo delle trattative i costruttori di automobili con l’obiettivo di far abbassare il limite delle emissioni per le autovetture a 95 g/Km.
La Germania a questa tornata ha imposto la propria linea in maniera decisamente insolita e come riporta Euractiv:
La scelta della presidenza irlandese è stata dettata dai tedeschi: il cancelliere Merkel la telefonato al Taoiseach Enda Kenny sulla questione la sera prima del vertice dei leader dell’Unione europea. Sono stati trovati gli argomenti giusti” per ottenere questa flessibilità da parte della presidenza e l’Irlanda si è inchinata alla pressione.
In pratica le case di lusso Daimler e BMW si sono lamentate del fatto che gli obiettivi proposti sono ingiusti. Ma secondo l’ International Council on Clean Transportation le emissioni medie della Germania sono attestate a 147 g/Km ossia di circa 15g/km al di sopra della media Ue. Perché? Come ha detto a EurActiv, Ivan Hodac, il segretario generale della European Automobile Manufacturers Association (ACEA), ha detto che i crediti sarebbero serviti a:
Le vetture a basse emissioni sono estremamente costose da sviluppare e non ci sono incentivi finanziari da parte dei governi dell’Unione europea.
Gli attivisti ambientalisti che si battono per le auto pulite dicono che Berlino sta giocando a rimandare fino all’adesione della Croazia che gli garantirebbe ancora un sostenitore. Infatti, paesi come la Polonia e il Regno Unito hanno ampiamente sostenuto la domanda tedesca per il rinvio della votazione. Peraltro EurActiv riferisce che proprio all’ultimo momento anche la Francia si allineata a questa posizione promettendo però di usare questo ritardo per spiegare ai produttori questa posizione e non per costituire quel gruppo che punto al blocco della normativa.
Lo scetticismo degli ambientalisti circa queste motivazioni è palese e Greg Archer di Transport & Environment dice:
E’ un tentativo di capovolgere un accordo equo, negoziato tra il Parlamento europeo, la Commissione e il Consiglio stesso. E’ ridicolo per la Germania rivendicare il bisogno di più tempo, in quanto il target 95g è stato concordato cinque anni fa e la Germania ha già presentato cinque diverse proposte che sono state respinte dalla maggior parte dei paesi dell’Unione europea.
Membri dell’Unione Europea la scorsa settimana hanno respinto gli sforzi tedeschi per approvare i “super-crediti” per le auto a basse emissioni per altri tre anni dopo il 2020. In pratica, gli ambientalisti dicono che questo avrebbe semplicemente prorogato il termine per la conformità fino al 2023.E il meccanismo messo a punto per fornire l’appoggio economico consisteva negli incentivi dei super-crediti, e secondo il rapporto Ricardo-AEA pubblicato la scorsa settimana l’obiettivo dei 95g con i super-crediti avrebbe creato circa 500.000 posti di lavoro entro il 2030.
La costruzione di dieci miniere nella regione di Tarkine, l’unica immune dal tumore facciale che ha decimato gli animali, potrebbe mettere a repentaglio la sopravvivenza della specie
Gli ambientalisti australiani sono sul piede di guerra e hanno recentemente depositato una seconda azione legale contro la proposta di accelerare la costruzione di una nuova miniera aRiley Creek. La località si trova nella regione di Tarkine, nella Tasmania nord-occidentale, in un territorio dove nei prossimi cinque anni dovrebbero nascere ben dieci miniere e, secondo i movimenti che contestano la costruzione della nuova miniera, il processo di approvazione è stato “falsificato” dal governo locale per favorirne l’apertura. La tensione è forte: se da una parte ci sono le proteste degli ambientalisti, dall’altra proliferano i raduni che pro-miniere che vedono nei siti estrattivi una soluzione contro la crisi economica, anche perché la Tasmania è la regione con il più alto tasso di disoccupazione di tutta l’Australia. Il Tarkine è l’ultima zona nella quale non si è ancora diffuso il tumore facciale che ha ucciso più dell’80% della popolazione mondiale del diavolo della Tasmania: secondo gli ecologisti la costruzione delle miniere e l’attività estrattiva potrebbero avere un impatto devastante su questi animali, mettendone a rischio la sopravvivenza. L’Autorità di Protezione Ambientale della Tasmania abbia detto che il progetto di Riley Creek è
in grado di essere gestito in maniera ecologicamente accettabile, a condizione che le autorizzazioni ambientali imposte vengano accettate.
Il che include anche l’impatto che la costruzione e le attività della miniera avranno sui diavoli della Tasmania. Tre delle dieci miniere saranno in un’area di 15 chilometri ed è dunque opportuno che le valutazioni di impatto vengano fatte in maniera cumulativa. Il Tarkine – in cui ha sede la seconda foresta pluviale temperata più grande del mondo – rischia di diventare il prossimo campo di battaglia fra due fazioni fortemente polarizzate, pro o contro l’attività estrattiva. Non è una novità. Proprio in Tasmania è nato il primo partito politico verde del mondo, la tradizione di difesa del patrimonio naturale fa parte del Dna del territorio. I diavoli della Tasmania, insomma, sono in ottime mani.