Legambiente: «Sul referendum trivelle allarmismo strumentale»

Referendum 17 aprile. Legambiente: «Allarmismo strumentale, l’alternativa al gas delle trivelle esiste già, con il biometano si può produrre una quantità di gas quattro volte superiore a quella che si estrae dalla piattaforme entro le 12 miglia. Ma il governo blocca gli investimenti nel biometano».

trivelle_rischio_sismico

L’alternativa alle trivellazioni di gas in Italia esiste già: con il biometano si può produrre una quantità di gas quattro volte superiore a quella che si estrae dalla piattaforme entro le 12 miglia, creando più lavoro e opportunità per i territori. “Il vero grande giacimento italiano da sfruttare – dichiara Edoardo Zanchini, vicepresidente di Legambiente – non è sotto i nostri mari ma nei territori, e nella valorizzazione del biogas e del biometano prodotti da discariche e scarti agricoli”.

All’allarme, sollevato sul referendum del 17 aprile sulle trivellazioni in mare entro le 12 miglia, su un’Italia messa in ginocchio senza il gas estratto da quelle trivelle e costretta ad aumentare le importazioni dall’estero via nave, Legambiente risponde che sono tutte bugie, citando numeri e studi. Il gas estratto nelle piattaforme oggetto del referendum non arriva al 3% dei consumi nazionali. E, com’è noto, il gas nel nostro Paese arriva attraverso i gasdotti.

“I numeri sono chiarissimi – prosegue Zanchini – già oggi si produce elettricità in Italia con impianti a biogas che garantiscono il 7% dei consumi. Ma il potenziale per il biometano, ottenuto come upgrading del biogas e che può essere immesso nella rete Snam per sostituire nei diversi usi il gas tradizionale, è in Italia di oltre 8miliardi di metri cubi. Ossia il 13% del fabbisogno nazionale e oltre quattro volte la quantità di gas estratta nelle piattaforme entro le 12 miglia oggetto del referendum. Il problema è che questi interventi sono bloccati proprio dalle scelte del Governo”.

Legambiente ha messo a confronto i dati sulle estrazioni di gas nei mari italiani con il potenziale di sviluppo del biometano in Italia, calcolato dal Cib (Consorzio italiano biogas), e i risultati fanno comprendere il grande vantaggio che l’Italia trarrebbe da questa scelta. Si potrebbero, infatti, realizzare impianti distribuiti in tutto il Paese per produrre biogas e biometano, dalla digestione anaerobica dei rifiuti o di biomasse e scarti agricoli, con vantaggi rilevanti nei territori, sia in termini economici che occupazionali, che di risoluzione dei problemi di smaltimento dei rifiuti. Secondo i dati dell’Isfol (Istituto per lo Sviluppo della Formazione Professionale dei Lavoratori) gli occupati nelle piattaforme oggetto del referendum sono 3mila, ossia già oggi meno dei 5mila occupati nel biogas, con la differenza che questi ultimi possono arrivare a superare i 12mila occupati stabili e con potenzialità maggiori proprio al Sud‎ e nelle aree agricole. Ma il problema, denuncia Legambiente, è che questi investimenti sono bloccati da barriere assurde. In primis il fatto, incredibile, che il biometano non possa essere immesso nella rete Snam. Da anni viene, infatti, ritardata l’approvazione di un decreto che dovrebbe permettere qualcosa di assolutamente scontato e nell’interesse generale. Uno stop che ha come unica motivazione quella di non aprire alla concorrenza nei confronti di quei gruppi che distribuiscono gas, come Eni, che sono proprio coloro che possiedono larga parte delle concessioni di gas nei nostri mari. Non si comprende la ragione dei rinvii da parte del Governo Renzi, come dei provvedimenti che hanno tagliato gli incentivi alle rinnovabili, se non con una politica che ha guardato solo a favorire le fossili come quella che, a partire dal decreto Sblocca Italia, ha caratterizzato l’azione del Governo. Del resto, a dimostrare i privilegi di cui godono le estrazioni di idrocarburi è un dato che ha dell’incredibile: 20 delle 26 concessioni che estraggono gas entro le 12 miglia dalla costa non pagano le royalties. La ragione sta nel fatto che sotto una certa quantità l’estrazione è “gratis”, come se quelle risorse non appartenessero agli italiani ma fossero proprietà privata dei gruppi energetici. “Altro che referendum inutile – aggiunge Edoardo Zanchini -. In Italia è in corso un vero e proprio conflitto tra interessi. Fino ad oggi il Governo Renzi, con lo Sblocca Italia e le scelte contro le rinnovabili, è stato dalla parte dei grandi gruppi energetici che controllano petrolio e gas. Il 17 aprile si vota anche per dare un segnale chiaro al Governo, perché l’interesse dei cittadini italiani è quello di cambiare questa realtà fatta di rendite e privilegi e di puntare sulle fonti rinnovabili per creare lavoro in Italia, opportunità per i territori e fermare davvero i cambiamenti climatici”.

 

Fonte: ilcambiamento.it

Food Forest Un’alternativa all’orto tradizionale

Lavora con la natura e non contro, ti fa ottenere più di un raccolto, imita l’ecosistema foresta, è energeticamente efficiente, aumenta la biodiversità: perché non convertire il tuo giardino in un forest garden?

Elena Parmiggianiforest orto

I nomi per questa tecnica in Italia sono molti: foresta giardino, foresta commestibile, orto-bosco. La food forest/forest garden è un tipo di coltivazione multifunzionale a bassa manutenzione che prende a modello l’ecosistema foresta (da qui

il nome) e nel quale si coltivano piante da frutto e noci, piante da legno, ortaggi, aromi, fiori, erbe medicinali, fibre tessili, piante mellifere e tanto altro, in armonia con le necessità umane e della natura. Può essere realizzata in giardini e appezzamenti di qualsiasi grandezza, anche molto piccoli. È una tecnica che in sé non è permacultura, ma viene utilizzata molto spesso perché imita l’ecosistema foresta, svolge molteplici funzioni e, se rivisitata e inserita correttamente, facilmente rispetta molti dei princìpi di progettazione in permacultura.

Un po’ di storia

Grazie al lavoro di Robert A. de J. Hart, un pioniere della food forest, oggi si sente spesso parlare di foresta commestibile. Hart ha iniziato il suo lavoro negli anni Sessanta e, fino alla sua morte nel 2000, ha continuato a coltivare

la sua food forest di 500 m2 in Inghilterra, creando l’opportunità per molti di conoscere questa metodologia e di diffonderla ad altri. Dagli studi e dagli esperimenti di Hart sulle food forest tropicali è stato tratto un primo testo1 che ha influenzato, e influenza tutt’ora, un pubblico sensibile all’ambiente e molti permacultori2, e a circa 35 anni dalla sua pubblicazione si sono moltiplicate le esperienze e le conoscenze.

I 7 livelli:

Hart ha schematizzato la food forest in 7 livelli, dopo aver studiato gli ecosistemi foresta in Paesi tropicali. In sostanza Hart ha proposto di copiare la natura e di lavorare a strati, proponendo un modello utilizzabile anche nei climi temperati:

1) alberi di alto fusto (Chioma primaria)

2) alberi di media altezza (Chioma

secondaria)

3) arbusti

4) erbacee

5) rizomatose

6) tappezzanti

7) rampicanti

Il minimo di strati richiesti per una food forest è tre, incluso almeno un tipo di albero, il minimo spazio richiesto è idealmente quello della dimensione della chioma dell’albero a crescita completa e senza potature. I funghi sono un ulteriore strato molto interessante da aggiungere a questa lista.food forest

La food forest in Fattoria dell’Autosufficienza

Il 13 settembre 2013, grazie alla partecipazione di una ventina di studenti, abbiamo realizzato la FF in Fattoria dell’Autosufficienza. Dove c’è ora la food forest prima c’era un orto per noi difficile da gestire e raggiungere, specialmente in inverno. La food forest che abbiamo realizzato si basa sull’architettura a 7 livelli di Hart e include il livello delle micorrize/funghi, che forniscono minerali e acqua alle piante e le difendono da malattie. Molti alberi introdotti sono adatti alla micorizzazione col tartufo (Bagno di Romagna è una zona famosa per i suoi tartufi bianchi e neri). In 1200 m2 di area abbiamo messo a dimora:

  • alberi: ontani (5), pero, melo, prugno, nespolo germanico, fico, mandorlo, ciliegio (2), asimina (3), ginkgo (3), tiglio (4)
  • arbusti: eleagnus x ebbingei (30), ginestra (30), noccioli (5), goji (12)
  • perenni e/o Erbacee: asparagi (240), salvia (50), salvia ananas (35), origano (50), consolida (250), bamboo, dragoncello (5)
  • radici: aglio, cipolle, porri (350)
  • tappezzanti: fragole (70)
  • rampicanti: kiwi (3), viti (10), luppolo (1).

Nella seconda fase metteremo a dimora anche altre piante tra cui varie ombrellifere, melissa, rafano, topinambur, altre

aromatiche, more, ribes e, nella zona più umida ma soleggiata, i lamponi.

Perché trasformare il proprio giardino in una food forest

La food forest, con i suoi numerosi aspetti vantaggiosi (accelera le successioni, lavora con la natura e non contro, ti fa ottenere più di un raccolto, imita l’ecosistema foresta, è energeticamente efficiente, aumenta la biodiversità, ecc) ci offre la possibilità di convertire un orto (annuale, intensivo e ad alta manutenzione) in qualcosa di perenne, stabile, autofertile,

dove possiamo coltivare alberi da frutto tradizionali ma anche sperimentare una serie di abbinamenti con piante inconsuete (asimina, goji). È un’alternativa valida al frutteto familiare, poiché ottimizza una serie di risorse, quali materiale organico, acqua, minerali, e offre una molteplicità di piante e di raccolti nell’arco dell’anno da giugno a novembre.

Note

1 Forest Farming: Towards a Solution to Problems of World Hunger and Conservation, ROBERT A de J HART co-authored with James Sholto Douglas, Rodale Press (1976). Il testo offre indicazioni pratiche su come realizzare un forest garden.

2 AlcuniAlcuni dei permacultori che hanno introdotto e utilizzato il concetto di food forest: Bill Mollison (Permaculture, A Designer’s Manual) David Holmgren (Permaculture, : Principles and Pathways beyond Sustainability) Patrick Whitefield (The Earth Care Manual e How to Make a Forest Garden) Martin Crawford (Creating a Forest Garden: Working with Nature to Grow Edible Crops) Dave Jacke, Eric Toensmeier (Edible Forest Gardens Vol. 1 e Vol. 2) Toby Hemenway (Gaia’s Garden: A Guide to Home- Scale Permaculture)

Geoff Lawton, DVD Establishing a food forest P. A. Yeomans, The Keyline Plan (1954)

Scritto da Elena Parmiggiani

Originaria di Reggio Emilia e da sempre amante della natura, Elena Parmiggiani si occupa di Permacultura, di Agricoltura Sinergica e di Città in Transizione. Collabora con la rivista «ViviConsapevole» e con la Fattoria dell’Autosufficienza sull’Appennino Romagnolo. Ha frequentato il corso di 72 h di Permacultura con Saviana Parodi, Stefano Soldati e Angelo Tornato nel 2009. Si è diplomata presso l’Accademia Italiana di Permacultura nell’aprile 2012. Per approfondire le sue conoscenze di Forest Gardening/Food Forest ha frequentato nell’agosto 2009 e nel maggio 2012 i corsi di Forest Gardening di Martin Crawford, esperto internazionale di foresta commestibile in clima temperato.

Fonte: viviconsapevole.it

L’Istituto Prout: “Ecco la nostra alternativa al capitalismo”

Equità, sostenibilità, solidarietà. Scelte ovvie? Nient’affatto. Basta guardare in che direzione sta andando il mondo. Eppure c’è un sistema, che si propone come alternativo al capitalismo dominante, fondato proprio con l’obiettivo di «garantire a tutti le minime necessità per l’esistenza e favorire lo sviluppo equilibrato di ogni essere umano, dal punto di vista fisico, mentale e spirituale, in armonia con la natura» dicono dall’Istituto italiano di Ricerca Prout.capitalismoprout

Il Movimento

Il movimento Proutist Universal, registrato in Italia nel 1979, ha condotto opera di formazione e divulgazione della teoria Prout in molte città con seminari e conferenze, dibattiti pubblici e l’Associazione di promozione sociale ” IRP  Istituto di Ricerca Prout”, registrata nel 1999, è stata fondata con lo scopo primario di aiutare le persone a implementare le idee sulle quali si fonda questo sistema economico. A spiegare il razionale di questo sistema è Tarcisio Bonotto, presidente dell’IRP. «La teoria economica PROUT (Teoria della Utilizzazione PROgressiva – PROgressive Utilisation Theory) proposta dal filosofo e neo-umanista indiano Sarkar a partire dal 1967, si è rivelata a pieno titolo un sistema socio-economico alternativo al capitalismo e al defunto socialismo sovietico» dice Bonotto. «Sarkar ha fondato nel 1969 l’associazione socio-culturale PROUTIST UNIVERSAL, un movimento globale con il compito di divulgare i valori, le soluzioni della teoria PROUT, nei campi della società, economia, cultura, educazione, politica, istituzioni, che possa portare ad una nuova visione mondiale basata sulla necessità di garantire a tutti le minime necessità per l’esistenza e favorire lo sviluppo equilibrato di ogni essere umano, dal punto di vista fisico, mentale e spirituale, in armonia con la natura».  «Sarkar afferma che lo sviluppo economico non è in contraddizione con lo sviluppo delle potenzialità umane e la salvaguardia dell’ambiente. Per raggiungere questi obiettivi propone la suddivisione del territorio in aree socio-economiche autosufficienti, contrariamente a quanto sostengono i fautori della globalizzazione economica attuale. La teoria economica PROUT, dalla vasta portata sia filosofica che tecnica, propone una nuova visione dell’evoluzione della storia. Famoso il Ciclo Sociale proposto da Sarkar, applicato in modo eccellente dall’economista Ravi Batra per le sue 20 previsioni azzeccate, sugli eventi del secolo scorso». «Sarkar propone poi una ristrutturazione della teoria economica stessa trasformando la macro economia in economia generale, (per lo studio delle teorie economiche) la micro economia in economia commerciale e aggiungendo due nuove branche di studi e applicazioni: l’economia popolare, che dovrebbe proprio interessarsi della garanzia delle minime necessità (alimenti, vestiario, abitazione, cure mediche, educazione) e la psico-economia che affronta il problema dello sfruttamento nei luoghi di lavoro e la massima utilizzazione delle capacità individuali e collettive per la trasformazione scientifica ed economica». «Il PROUT è una teoria economica dinamica, può essere applicata in qualsiasi circostanza e paese e in qualsiasi condizione, da qui la definizione di progressiva. Prevede la massima utilizzazione delle potenzialità materiali, fisiche, mentali e spirituali, dell’individuo e della società, da qui il termine utilizzazione. Fonda le sue radici sul neo-umanesimo, che insegna il rispetto dell’ambiente nel suo insieme, quindi non solo esseri umani, ma anche animali, piante e oggetti inanimati, come espressioni tutte dell’armonia dell’Universo. Per questo viene definita socialismo umanistico, proposto, nelle parole di Sarkar, per il benessere e la felicità di tutti».

L’analisi

Franco Bressanin, cofondatore di IRP, mette poi in evidenza gli evidenti fallimenti del sistema capitalistico.
«Dal punto di vista  dell’uguaglianza sociale, dei diritti umani e dello sviluppo materiale, intellettuale e culturale-spirituale, negli ultimi decenni si è avuto un peggioramento. Il sistema capitalista attuale sovverte i valori umani, ponendo il denaro e l’accumulo di ricchezze al vertice dei valori, mentre solidarietà, arte, cultura, spiritualità, desiderio e sforzo di migliorarsi sono denigrati e spogliati della loro importanza. Il capitalismo impedisce la crescita e lo sviluppo interiore dell’essere umano, snaturandolo, e questo è  un primo fallimento. Il secondo fallimento è che rende le persone egocentriche, accresce le disparità economiche e  favorisce un pensiero puramente materialistico. Trasforma le persone in animali feroci attraverso una forma di competizione che calpesta tutti i diritti umani. Favorisce l’uso della forza, non solo fisica, al puro scopo di impadronirsi anche delle ricchezze degli altri, creando povertà e indigenza. Un terzo fallimento: la globalizzazione, che avrebbe dovuto propagare il benessere e l’affluenza in tutto il mondo, invece ha propagato e diffuso povertà e diseguaglianze. E ancora, un quarto fallimento: ci siamo dimenticati la funzione stessa del denaro come mezzo per lo scambio di beni e servizi. Aristotele stesso proclamava la natura di mezzo di scambio del denaro, arrivando a condannare il profitto. Oggi il denaro è tolto dalla circolazione nelle attività produttive ed inserito nelle attività finanziarie, massacrando la produzione di beni e servizi e di fatto impoverendo l’economia. Il quinto fallimento: il neoliberismo, nel contesto attuale di amoralità, sfociando spesso nella illegalità o peggio nella criminalità, non può che essere distruttivo e degenerante». Quindi, secondo Bressanin, «il sistema capitalista fondato sul profitto indiscriminato ha portato la società alla disintegrazione sociale ed economica. E la globalizzazione, come massima espressione del capitalismo a livello planetario, ha distrutto in ogni paese il tessuto produttivo, la coesione sociale e prodotto un oceano di debiti, sotto il cui peso la società stenta a riprendere il suo normale corso. Ha favorito l’indiscriminato accumulo di ricchezza in mano a poche persone, aumentando il divario tra ricchi e poveri. Allo stesso tempo è diminuita la circolazione del denaro, creando recessione e alla fine depressione economica». «Inoltre attraverso i media si nascondono i problemi veri, si devia l’attenzione pubblica su cose non importanti, o la si anestetizza con telenovela,  giochini a premio, o con il gioco d’azzardo di Stato. In questo modo la gente sciupa il suo tempo in inutili attività invece di dedicarlo al proprio sviluppo interiore. Ovviamente tutto ciò non può durare all’infinito, così si arriverà al punto di rottura, quando l’ignoranza pubblica, considerata un mezzo per tenere sotto controllo le masse, emergerà con tutta la sua forza dirompente e farà grippare la macchina economica e sociale. Se ci sono diseguaglianze sociali, nessuno vi pone rimedio, tanto la gente si arrangia in un modo o nell’altro. Si inquina l’ambiente, scaricando i rifiuti in mare, bruciandoli, seppellendoli,  tanto  i tumori compaiono dopo decine di anni, così si può continuare ad inquinare, tanto al momento la gente non muore. Ma alla fine la natura chiede il conto e la gente comincia a stare sempre peggio. La miopia mentale, la mancanza di pianificazione, la visione sfruttatrice dell’ambiente, delle persone e delle conoscenze miete le sue vittime. Il sistema socio-economico grippa e si ferma, per poi distruggersi, con dolore e sofferenza per i più. Nessuno può più venderlo come un successo».

La proposta Prout

«La teoria economica PROUT, propone un sistema economico collettivo, dove la proprietà dei mezzi di produzione sia collettiva, in mano alle persone che lavorano e il potere politico in mano a persone morali e capaci» prosegue Bressanin. In sostanza un’economia a responsabilità collettiva, con un sistema di cooperazione coordinata, non subordinata. La finalità è garantire le necessità basilari per l’esistenza a tutti,  l’aumento in modo progressivo del potere di acquisto, per il benessere di tutti, nessuno escluso. Dobbiamo ripristinare il circolo virtuoso PRODUZIONE- LAVORO-REDDITO-CONSUMI necessario a produrre un reddito utile a soddisfare i bisogni primari, per la sopravvivenza e lo sviluppo, diritto di nascita di ogni essere vivente». Rivoluzione Industriale  «La teoria economica PROUT propone un cambiamento strutturale del sistema produttivo, una rivoluzione industriale» continua Bonotto. Per le industrie prevede un sistema tripolare:
1. Aziende Pubbliche deputate alla produzione di materie prime a livello nazionale, regionale o locale. Saranno di loro competenza luce, acqua, gas, rifiuti, estrazione e  produzione di metalli ferrosi, filati, materiali edili con il criterio ‘né perdita, né profitto’ per regolare il mercato e non creare inflazione.
2. Aziende Cooperative, spina dorsale dell’economia, attraverso le quali la popolazione può controllare il potere economico. Alle cooperative sarà affidata la produzione e distribuzione dei beni essenziali all’esistenza per la popolazione. Come passo immediato chiediamo che il 51% delle azioni delle grandi imprese siano nelle mani dei lavoratori, i quali controlleranno gli amministratori e manager.
3. Aziende private che producono beni e servizi non essenziali o di lusso, piccole e micro imprese. Le aziende devono essere create nelle zone in cui sono presenti materie prime e decentrate sul territorio in ragione di esse, in modo tale da sviluppare ogni singola area socio-economica di ogni regione».

Riforma Agraria

«Il PROUT propone una gestione COOPERATIVA dell’agricoltura, in 3 fasi progressive che potranno durare circa 5 anni, sempre se gli agricoltori, attraverso la formazione, ne comprenderanno la necessità. L’Italia oggi non è più autosufficiente nella produzione agricola. Importiamo frutta e verdura dalla Cina. Attualmente circa il 95% delle proprietà agricole ha un’estensione media  di 5-10 ettari, risultando poco sostenibili e produttive. Si propone perciò la creazione di aree economicamente sostenibili unendo terreni anche non adiacenti, mantenendone la proprietà, da condividere in cooperazione. La gestione individuale/familiare della terra, la mezzadria, l’affitto delle terre non utilizzano appieno le potenzialità produttive della terra. Nel sistema agricolo cooperativo ciò può invece avvenire e si può applicare anche la cosiddetta agricoltura integrata: produzione non solo estensiva, ma integrata con orticoltura, floricoltura, allevamento, piscicultura, erbe officinali, sistemi di irrigazione, progetti di ricerca su fertilizzanti e sementi, utilizzando al meglio le potenzialità della terra e producendo un reddito più sicuro per gli agricoltori. Le cooperative avranno la capacità di fare ricerca affrancandosi dai privati». Pianificazione economica decentralizzta  «Il PROUT adotta il sistema di pianificazione decentralizzata. Vale a dire programmazione in funzione dello sviluppo per aree che vanno dai 5.000 ai 100.000 abitanti. “Conosci il territorio e pianifica” questo è il motto della pianificazione decentrata. La popolazione locale ha diritto di pianificare ogni aspetto del proprio territorio, inclusa certo l’amministrazione eletta».

Decentralizzazione Economica

«Per rendere possibili questi programmi il PROUT adotta la decentralizzazione economica (Economia nelle mani dei lavoratori e decentrata sul territorio)

• Obiettivo fondamentale: devono essere garantite a tutti le necessità basilari per l’esistenza

• Le persone non locali, esterne all’area socio-economica in questione, non devono interferire nell’economia locale. Occupazione prima alla popolazione locale.

• Le materie prime non devono essere esportate, solo i prodotti finiti per generare reddito locale

• Tutti i beni non prodotti in loco devono essere eliminati  dal mercato.

In poche parole siamo agli antipodi rispetto alle regole della globalizzazione, adottate per l’Italia dall’Europa, che impediscono lo sviluppo di ogni singolo paese.

• L’Italia deve diventare autosufficiente nella produzione dei beni essenziali.

• Deve avviare la manifattura per soddisfare il mercato interno e un 10-15% di esportazioni.

• Per questo deve salvaguardare le produzioni, disconoscendo i trattati WTO di globalizzazione.

• L’economia in mano alla popolazione (democrazia economica) eliminerà la corruzione prodotta dall’inciucio tra élite politiche ed economiche. Questa in sintesi la nostra visione socio-economica, un cambiamento di paradigma nello sviluppo socio-economico del nostro paese.

Per saperne di più: www.irprout.it

Fonte: il cambiamento

 

Piante che curano e piante proibite, la “Dulce Revolución” di Josep Pàmies

Dario Lo Scalzo ci presenta la storia dell’agricoltore e studioso spagnolo Josep Pàmies, ideatore della “Dulce Revolución” e coltivatore di piante medicinali usate da secoli nelle varie medicine tradizionali di tutto il mondo.josep_pamies

Ci sono fatti e storie che occorre conoscere non fosse altro perchè, nella nostra insensata società degli interessi e dell’affarismo distruttivo, vengono troppo spesso celate, taciute, tenute ai margini o perché troppo frequentemente rimangono di dominio di pochi, magari i più curiosi, i più vogliosi di fermarsi a riflettere ed investigare. Nella giostra della società in cui viviamo, bisognerebbe abbracciare di più la curiosità e armarsi di volontà per non subire, per non abbassare continuamente il capo a ciò che dolcemente e lentamente ci viene propinato come “così è e non può essere differentemente”. Ci si dimentica così, per esempio, che il genere umano è natura e fa parte di essa, alla stessa stregua di ogni altro animale del pianeta e che ciò comporta inevitabilmente di integrare un equilibrio naturale armonico che invece in tutte le maniere stiamo cercando di falsare, anziché salvaguardarlo, e nel quale, come avviene per tutti gli altri esseri viventi del globo, andare a ricercare e trovare delle linee direttrici sia per il mantenimento di uno stato di salute soddisfacente, sia per una più corretta alimentazione che per contrastare le malattie che ci colpiscono. Oggi riportiamo la storia di Josep Pàmies, agricoltore e studioso spagnolo che con la sua ricerca, il suo infaticabile investigare e con la sua Dulce Revolución comincia a sgomitare all’interno dei campi sensibili e pericolosi della scienza, della medicina, dell’industria farmaceutica e, più in generale, di un sistema globale che sembra per assurdo remare contro il benessere dell’umanità e di quello sociale.una_dolce_rivoluzione_josep_pamies

Noi non siamo di certo degli studiosi, non siamo degli scienziati e neppure pretendiamo di essere considerati degli specialisti della materia, ma, sebbene riconosciamo il valore e l’impatto positivo generato nei millenni dalla scienza, dalla medicina e dal settore farmaceutico sul progresso umano, non vogliamo e non possiamo sottrarci dal fare conoscere dell’altro, ciò che oggi alcuni definiscono l’alternativa. Da giornalisti non abbiamo alcuna pretesa se non quella di riportare una notizia, senza necessariamente una presa di posizione su tematiche tanto sensibili e delicate ma lasciando al lettore la possibilità di sapere, di essere informato per permettergli di informarsi maggiormente e costruirsi una propria opinione. Togliendo il cappello di giornalista e come uomo di questo pianeta posso solamente riportare in poche righe la mia testimonianza personale avendo avuto, per un tempo della mia vita, la possibilità di vivere in seno a delle comunità indigene nel Sudamerica che di ricette mediche, di trattamenti con macchinari e di medicine chimiche sconoscevano persino l’esistenza e che trovavano in natura ogni forma, modalità e maniera di prendere cura di se stessi. La natura va decodificata, va decifrata mi dicevano continuamente. Nella natura viva vengono indicate le risoluzioni ai problemi dell’uomo, animale tra gli animali. Ciò avviene in maniera semplice ed evidente, ma occorre imparare e sapere ascoltare, fare attenzione e connettersi con le vibrazioni dell’ambiente naturale circostante. Queste erano le parole e una parte degli insegnamenti che ho tratto convivendo con gli indigeni. Ma ritornando a noi, per oggi, l’ultima parola di questo articolo va a Josep Pàmies mentre al lettore rimarrà la possibilità di trarne una propria interpretazione.

Sintonizzatevi con le piante.

Si ringrazia Byo logik per avere provveduto a diffondere il video ed averne curato la traduzione in italiano.

Fonte: il cambiamento

Le Piante che Fanno Bene alla Salute - Libro

Voto medio su 1 recensioni: Buono

€ 15.5