Emilia Romagna prima regione italiana a bandire le gabbie dagli allevamenti

Prima in Italia, la Regione Emilia Romagna ha approvato una risoluzione per vietare le gabbie negli allevamenti. Si tratta di un primo passo che, unendosi a una mobilitazione massiva generata grazie a una campagna a livello europeo, pone le basi per l’abbandono dell’insostenibile modello degli allevamenti intensivi.

«Buone notizie e non solo per animalisti ed ambientalisti! Oggi l’Emilia Romagna fa un primo importante passo verso la transizione graduale a modalità di allevamento senza gabbie. Grazie all’approvazione della risoluzione per abbandonare l’uso delle gabbie negli allevamenti, di cui sono prima firmataria, l’Emilia Romagna, prima in Italia, intraprende un percorso istituzionale per la tutela sia del benessere e della salute degli animali, e quindi anche dei consumatori, sia della reputazione delle nostre eccellenze alimentari sui mercati internazionali».

La consigliera regionale Silvia Zamboni comunica così l’approvazione della “Risoluzione per impegnare la Giunta regionale a promuovere politiche e strumenti a supporto della transizione del settore zootecnico ad allevamenti che non fanno uso delle gabbie e sono improntati al benessere animale”, un atto che darà il via all’iter per varare la prima legge in Italia che vieterà le gabbie negli allevamenti. Ad approvarla è la Commissione Permanente per le Politiche Economiche della Regione Emilia Romagna.

Si tratta di un primo, piccolo, ma importante passo per allontanarsi da un modello alimentare insostenibile per il Pianeta e per l’essere umano. Lungi dall’essere sufficiente, la rinuncia alle gabbie è comunque un passaggio necessario per ridiscutere il sistema degli allevamenti intensivi, che – specialmente nella pianura padana – provoca danni ambientali enormi, oltre all’incalcolabile sofferenza che causa agli animali prigionieri di queste strutture.

«È ormai riconosciuto che l’industrializzazione dei sistemi di allevamento intensivi costringe un alto numero di animali a vivere in spazi ristretti con ripercussioni negative sul loro benessere e la loro salute», prosegue la consigliera. «Oltre a comportare l’impiego massiccio di antibiotici, col rischio che poi si ritrovino nella carne destinata al consumo, queste condizioni di allevamento favoriscono la diffusione di virus e batteri che possono essere potenzialmente trasmissibili all’uomo (zoonosi) e all’origine di epidemie, come l’aviaria anni fa».

Questo provvedimento rappresenta un segnale incoraggiante che dà seguito a un’altra grande vittoria dei movimenti che si battono per il benessere degli animali, ovvero la consegna, lo scorso ottobre, delle firme raccolte grazie alla petizione End of the cage age, che in Italia è sostenuta da una ventina di associazioni e che ha raccolto nel giro di pochi mesi 1,4 milioni di firme di cittadini europei contrari agli allevamenti intensivi. La Commissione Europea è ora vincolata a pronunciarsi in merito alla richiesta e i prossimi mesi saranno cruciali per garantire che la domanda posta dall’iniziativa si trasformi in azione.


Un riferimento a questa mobilitazione su scala continentale compare anche nel testo della risoluzione regionale, che impegna la giunta “a proseguire le iniziative a supporto del benessere animale già intraprese e a promuovere azioni di sensibilizzazione ed educazione dei consumatori, favorendo quindi comportamenti consapevoli e sostenendo anche l’adesione degli allevatori agli obiettivi dell’Iniziativa dei cittadini europei”.

«Rendere più sostenibili ambientalmente e più etici i metodi di allevamento premia inoltre quegli allevatori che già oggi rispettano il benessere degli animali», conclude Silvia Zamboni. L’auspicio è che la transizione verso un modello alimentare in cui i cibi di origine animale diventino sempre meno diffusi prosegua senza sosta: è necessario che ciò avvenga perché il modo in cui mangiamo oggi è insostenibile non solo per il nostro organismo, ma anche per il Pianeta che ci ospita.

Fonte: https://www.italiachecambia.org/2021/05/emilia-romagna-bandire-gabbie-allevamenti/?utm_source=newsletter&utm_medium=email

Pollo, sei “verità” sugli allevamenti italiani

pollo

Non ha ormoni, è allevato a terra, non va lavato prima della cottura, non cresce ad antibiotici, contiene ferro come la carne rossa, è solo made in Italy, sono queste le 6 verità sul pollo (che gli italiani ancora non sanno) che Unaitalia, l’Unione delle filiere agroalimentari delle carni e delle uova, ha presentato alla Triennale di Milano. Gli italiani sono grandi amanti del pollo, lo consumano, ma permangono alcune ombre. Oggi con questo evento abbiamo voluto parlare in maniera trasparente, coinvolgendo tra l’altro autorevoli esperti, su alcune caratteristiche del pollo, che non sono ancora conosciute. Una di queste per esempio è che il pollo è allevato a terra: la maggior parte degli italiani pensa ancora che il pollo sia allevato in batteria, perché fa una gran confusione tra pollo e gallina, ma parliamo di cose completamente diverse, ha spiegato Lara Sanfrancesco è il direttore di Unaitalia. Altri pregiudizi sfatati nel corso dell’incontro riguardano l’utilizzo degli antibiotici negli allevamenti, il poco apporto di ferro, la produzione non italiana e la necessità di lavare il pollo prima di cuocerlo. E anche per quanto riguarda la presenza di ormoni, il professor Andrea Vania del Centro di dietologia e nutrizione pediatrica del Policlinico Umberto I di Roma frena sugli allarmismi più diffusi:

È antieconomico metterceli, il pollo vive un periodo talmente breve, che metterci gli ormoni è controproducente, non serve a niente.

Fonte:  Seiverità

Desirée e David hanno vinto contro gli allevamenti intensivi: «E ora vogliamo essere custodi della terra»

Un’energia che nemmeno ci si immagina se non li si vede all’opera. Ragazzi entusiasti, determinati, che hanno messo a frutto il loro patrimonio di valori e sono riusciti ad ottenere la loro vittoria: accelerare la chiusura di un lager dove erano allevati 30.000 tacchini in condizioni pesantissime.desiree_ambra

Ora vogliono acquistare il terreno dove si trovano i capannoni ormai vuoti per assicurarsi che nessun altro allevamento intensivo possa riaprire proprio lì. Ma il costo è alto; si stanno rimboccando le maniche e… chissà che non ci sia qualcuno pronto a dar loro una mano! Si chiamano Desirée Manzato e David Panchetti.

«David abitava già ad Ambra, una frazione del Comune di Bucine in provincia di Arezzo, nel podere di un amico, in affitto in una delle varie abitazioni presenti e gestiva un negozio di riparazione computer – spiega Desirée – Diviso da una rete, c’è sempre stato questo un allevamento intensivo di tacchini dato in affitto a varie aziende che via via col tempo cambiavano. Io a quel tempo abitavo in Veneto, facevo la restauratrice ed era attivista nell’associazione per i diritti animali Venus in fur. Ci siamo conosciuti e dopo pochi mesi mi sono trasferita anche io ad Ambra».

Poi Desirée e David si erano prefissati di far chiudere l’allevamento.

«Ma come fare?» si sono domandati.

«Per un anno abbiamo chiesto aiuto a chiunque, istituzioni, politici, associazioni, per trovare un modo. Le ragioni della chiusura c’erano tutte: luci accese 24 ore su 24, sovraffollamento, sporcizia, incuria, medicinali ed antibiotici nell’acqua e ogm nei mangimi. Trentamila tacchini erano stipati in 7 capannoni; dopo appena 3 mesi di ingrasso venivano caricati di notte, praticamente sotto la finestra della nostra camera da letto, per essere trasportati al macello. Il dottor Massimo Tettamanti ad un corso per attivisti accolse la mia proposta di fare una causa per danno ambientale. Poco tempo dopo, l’allevatore stesso ci confessava che era parecchio in crisi ed acconsentì a lasciarci liberare due tacchine che prendemmo subito prima che finissero nel dannato camion. Una di loro purtroppo dopo 5 mesi ci ha lasciati, Giorgina invece l’1 febbraio compie un anno».

«Nel frattempo, grazie alle nostre investigazioni e al dialogo con le persone del paese e con il proprietario del podere, si iniziò a diffondere la verità. L’allevatore fu messo alle strette e se ne andò. Quindi, onde evitare che facesse gola a nuovi allevatori, abbiamo valutato l’idea di acquistare il podere intero, compreso l’allevamento ormai vuoto, per trasformare il tutto in rifugio per animali da reddito e piccola azienda agricola che lavori in funzione del mantenimento degli animali stessi, come obbiettivo primario. L’acquisto è ancora in fase di trattativa; siamo alle battute finali con banche, associazioni coinvolte nel progetto e siamo alla ricerca di eventuali altri finanziatori. Il costo è alto, però comunque è nemmeno la metà di quello che chiedevano all’inizio. Noi ad Ambra siamo ancora in affitto, però abbiamo il benestare del proprietario per iniziare tranquillamente a coltivare e a fare il lavori necessari. Il posto era in stato di abbandono; piano piano stiamo ridando dignità alla valle, respiro al bosco e stiamo liberando il letto dei torrenti e le sponde del lago. Abbiamo già alcuni animali, provenienti da varie situazioni, che vivono con noi e impegnano le nostre giornate. Ci sono una serie di appartamenti al grezzo da ammobiliare per ospitare in un futuro prossimo persone che volessero venire a trascorrere qualche giorno, mese o anno di pausa dalla vita moderna, sapendo che l’affitto che pagheranno andrà interamente a mantenere gli animali ospiti del rifugio, idem per i pasti che offriremo loro. Per ora in maniera informale ospitiamo in casa nostra solo piccoli gruppi di persone che vengono per conoscere il progetto e farne parte. Oppure ospitiamo chi partecipa ai nostri eventi, perché venendo da lontano preferisce fermarsi a dormire per ripartire il giorno dopo con calma. Organizziamo eventi, appunto, finalizzati al mantenimento del rifugio e per diffondere varie tematiche, dall’informazione sul nostro progetto, alla diffusione del veganesimo e dei diritti animali, incontri con ospiti di altre realtà collegati al mondo dell’attivismo animalista e ambientalista, contro le multinazionali e per il ritorno ad una vita più semplice e contadina, accompagnati sempre da pasti vegan autoprodotti».

Il prossimo appuntamento in calendario sarà il più speciale: l’1 febbraio Giorgina, la tacchina del capannone 7, compie un anno di vita.

«Quindi faremo una grande festa per festeggiare Giorgina e per ricordare gli animali che non ce l’hanno fatta; per ribadire anche che qui, all’ex allevamento di Ambra, nessuno mai più verrà recluso per essere condannato a morte. Festeggeremo dalle ore 14 fino al sopraggiungere del buio, dopo di che lasceremo alle bestiole il giusto silenzio necessario. Speriamo per quella data di avere le ultime risposte sulle trattative così ci sarà un ulteriore motivo in più per festeggiare. Fino a quel momento incrociamo le dita».

Chi vuole fare visita a Desirée e David può farlo nei fine settimana, telefonando prima al numero 055-996946.

E’ stata aperta anche una raccolta fondi su BuonaCausa

Fonte: ilcambiamento.it

Allevamenti killer: moria di pesci in laguna a Venezia

Migliaia di pesci galleggiano senza vita nella laguna di Venezia. All’origine della moria di pesci vi sarebbe il maggior rilascio di azoto e fosforo, che proviene dagli allevamenti. “La scelta per l’ambiente è incompatibile con l’alimentazione carnivora”.laguna_venezia

Di che cosa sono morti le migliaia di pesci che galleggiano senza vita nella laguna di Venezia, dopo una lunga e penosa agonia? Secondo quanto riportato dai giornali, la proliferazione e successiva decomposizione delle alghe ha provocato la carenza di ossigeno nelle acque e il conseguente“soffocamento” dei pesci; questo fenomeno ha visto sì come causa scatenante le intense precipitazioni prima e l’aumento di temperatura poi, ma il problema di base, come ribadito dalle fonti citate dai vari quotidiani, rimane il livello troppo alto di composti a base di azoto e fosforo, che da decenni le imprese e le aziende agricole sversano in laguna e che funzionano da fertilizzante per le alghe. Il Centro Internazionale di Ecologia della Nutrizione intende proporre una riflessione proprio su questo aspetto, facendo notare come, in ogni parte del mondo, sia l’industria dell’allevamento di animali per la produzione di carne, latticini e uova ad avere la maggior responsabilità relativamente all’inquinamento delle acque. Ciò è confermato anche dal dossier della FAO del 2006 “Allevamenti, una grande minaccia per l’ambiente” in cui si afferma che, per quanto riguarda le acque, i maggiori agenti inquinanti sono proprio le deiezioni degli animali, ricche di antibiotici e altre sostanze chimiche usate nell’allevamento nonché i fertilizzanti e pesticidi usati nella coltivazione dei mangimi per gli animali. Infatti, i raccolti assorbono solo da un terzo alla metà dell’azoto applicato al terreno come fertilizzante: le sostanze chimiche rimaste inutilizzate inquinano il suolo e l’acqua. Dato che, secondo le statistiche della FAO, metà dei cereali e il 90% della soia prodotti nel mondo sono usati come mangimi per animali, e che queste sostanze chimiche sono per la maggior parte usate nelle monocolture per la produzione di mangimi animali, è chiaro che la maggior responsabilità per questo enorme uso di sostanze chimiche sta proprio nella pratica dell’allevamento.pesticidi8__

Un ulteriore problema sono le deiezioni degli animali allevati: le deiezioni liquide e semi-liquide contengono livelli di fosforo e azoto al di sopra della norma, perché gli animali possono assorbire solo una piccola parte della quantità di queste sostanze presenti nei loro mangimi. Quando gli escrementi animali filtrano nei corsi d’acqua, l’azoto e fosforo in eccesso rovina la qualità dell’acqua e danneggia gli ecosistemi acquatici e le zone umide. Circa il 70-80% dell’azoto fornito ai bovini, suini e alle galline ovaiole mediante l’alimentazione, e il 60% di quello dato ai polli “da carne” viene eliminato nelle feci e nell’urina e finisce nei corsi d’acqua. Oggi, le deiezioni in eccesso vengono sparse sul terreno e nelle acque, mettendo in pericolo la salubrità delle acque e i pesci che ci vivono. Questo accade in ogni zona del mondo, perché ormai la pratica dell’allevamento intensivo è diffusa ovunque. Per esempio, lo spandimento delle deiezioni animali è strettamente collegato alla “zona morta” di 7.000 miglia quadrate nel Golfo del Messico, che non contiene più vita acquatica. Nel giugno 2010 il Programma per l’Ambiente delle Nazioni Unite ha pubblicato un report intitolato “Calcolo degli impatti ambientali dei consumi e della produzione” le cui conclusioni affermano: “Si prevede che gli impatti dell’agricoltura aumentino in modo sostanziale a causa dell’aumento di popolazione e del conseguente aumento del consumo di alimenti animali. Una riduzione sostanziale di questo impatto sarà possibile solamente attraverso un drastico cambiamento dell’alimentazione globale, scegliendo di non usare prodotti animali”. Lo stesso report specifica: “La produzione di cibo è quella che più influenza l’utilizzo del terreno, e quindi il cambiamento di habitat, il consumo di acqua, il sovrasfruttamento delle zone di pesca e l’inquinamento da azoto e fosforo”.allevamento__vacche_2

Gli animali d’allevamento, oggi considerati come “macchine” che producono “proteine animali”, hanno bisogno di una grande quantità di mangime per “produrre” una quantità di carne, latte, uova molto più bassa. Si possono definire in questo senso “fabbriche di proteine alla rovescia”, perché per ottenere un kg di carne sono necessari mediamente 15 kg di vegetali coltivati appositamente. Ernst von Weizsaecker, uno scienziato ambientale dell’IPCC (il Panel di scienziati dell’ONU sui cambiamenti climatici), ha dichiarato nel 2010: “Il bestiame oggi consuma la maggior parte dei raccolti mondiali, e di conseguenza la gran parte dell’acqua potabile, di fertilizzanti e di pesticidi”. Se le persone, anziché basare la propria alimentazione sui cibi animali, si nutrissero di cibi vegetali, come accadeva fino a pochi decenni fa, il risparmio, in termini di risorse e di inquinanti emessi, sarebbe enorme. Nello studio “Alimentazione e ambiente: quel che mangiamo è importante?” pubblicato nel 2009 dalla rivista scientifica “American Journal of Clinical Nutrition”, i risultati mostrano che la dieta non vegetariana richiede 13 volte più fertilizzanti rispetto a una dieta vegetariana. Dal punto di vista dell’ambiente, concludono gli scienziati, quello che ciascuno sceglie di mangiare fa la differenza. Se la terra fosse usata per produrre cibo per il consumo umano diretto, infatti, da un lato servirebbero molti meno terreni, dato che la quantità di vegetali da produrre sarebbe molto minore (perché viene eliminato lo spreco della trasformazione da prodotti vegetali a prodotti animali, che da 15 kg di vegetali fa ottenere 1 solo kg di carne), dall’altro la produzione potrebbe avvenire in maniera sostenibile, con la tradizionale coltivazione a rotazione, che non richiederebbe l’attuale uso massiccio di sostanze chimiche. E i pesci non morirebbero soffocati. Prima scegliamo di spostare i nostri consumi verso i cibi vegetali anziché quelli animali, prima potremo contrastare i danni enormi che il pianeta e tutti gli esseri che ci vivono (noi inclusi) è costretto a subire. E potremo così evitare che la meravigliosa laguna di Venezia rischi di diventare una delle “zone morte” del pianeta.

Fonte: il cambiamento

Estinzione del tonno rosso, nati i primi tonnetti di allevamento

Con l’iniziativa SELFDOTT (Autosostegno per Acquacoltura e addomesticamento del tonno rosso), si è riusciti a allevare il tonno rosso dell’Atlantico in gabbie galleggianti, senza l’uso di ormoni.selfdott-620x350

Dopo quattro anni di ricerca che coinvolge 13 istituti di tutta Europa si è avuta la prima deposizione di uova di tonno rosso in cattività. L’allevamento è a cura dell’Istituto Spagnolo di Oceanografia (IEO) – che coordina SEFLDOTT – e i tonnetti pesano ora circa 1 kg e sono cresciuti in poco più di tre mesi. Aiutato da una sovvenzione di 3.000.000 € dalla Commissione europea, il progetto prevede il raggiungimento dell’età adulta entro quattro anni e in seguito la loro riproduzione, completando così il ciclo biologico di vita di questa specie in cattività. Il progetto potrebbe avere implicazioni enormi per il tonno rosso poiché il mercato del sushi ha spinto il consumo eccessivo e globale del tonno. Anche gli europei hanno iniziato a consumarne tanto e i pescherecci europei sono stati tra i più attivi cacciatori di tonno. Le recenti moratorie potrebbero contribuire a ricostituire gli stock anche se l’allevamento mira a facilitare il recupero. Fernando de la Gandara è il coordinatore del progetto SELFDOTT coinvolto nel tentativo di addomesticare il tonno rosso per oltre un decennio e spiega che le difficoltà maggiori si sono avute sia per le notevoli dimensioni di questo pesce e sia per la sua pratica di roaming, ossia di nuoto libero nell’oceano. Spiega de la Gandara:

La parola ostacolo non esiste nel vocabolario del tonno rosso. Abbiamo dovuto fare i conti con un alto tasso di mortalità a causa di collisioni contro le pareti delle vasche e gabbie.

Ma la costanza ha dato i suoi frutti, e due anni fa il progetto ha celebrato la prima spontanea deposizione di uova. Ha detto de la Gandara:

E ’stata una felice sorpresa e abbiamo imparato che allevare il tonno rosso è possibile allo stesso modo in cui si allevano altre specie come il branzino, rombo o salmone.

Ci vorrà ancora del tempo per sviluppare un vero allevamento di tonno rosso: il pesce ha bisogno di un decennio o più per maturare. Ma de La Gandara sostiene che in caso di successo, si potrebbe pensare a un passo importante negli sforzi globali per la ricostituzione degli stock :

Il tonno rosso è una specie emblematica che è stata nell’alimentazione delle popolazioni mediterranee per migliaia di anni. Questo progetto potrebbe contribuire a continuare la tradizione.

Fonte: Europa