I Medici per l’Ambiente: “Basta allevamenti intensivi, senza biologico non c’è futuro”

È necessaria una rivoluzione del sistema di produzione alimentare che preveda l’abbandono dei modelli intensivi di allevamento e che ricorra al biologico non come tentativo di greenwashing ma come reale pratica per un’alimentazione sana e sostenibile. Sono queste le conclusioni a cui giunge un position paper pubblicato dall’ISDE – Associazione Medici per l’Ambiente. Gli allevamenti intensivi inquinano terra, acqua e aria e generano innumerevoli altri danni: deforestazione, promozione dello sviluppo di prodotti OGM in agricoltura, perdita di biodiversità, sviluppo di zoonosi, concorso all’antibiotico resistenza. Oggi una nuova consapevolezza globale pone alla coscienza del consumatore anche la “questione animale”, in merito al benessere di tutti esseri viventi e alla copertura dei fabbisogni alimentari nel mondo.

La nostra dieta deve cambiare per diventare più sana, per mettere fine alla fame nel mondo, per salvare il Pianeta e per dare dignità e benessere al mondo animale. In questo panorama, la scelta produttiva del biologico anche in zootecnia, è un grande progetto sostenuto e voluto dalla maggioranza dei cittadini europei, che vogliono un futuro sostenibile e più giusto.

ISDE – l’associazione dei medici per l’ambiente – ha voluto dare il suo contributo al dibattito sul Green Deal Europeo con una ricerca che, nel confrontare l’allevamento intensivo con quello biologico, interroga il mondo produttivo, quello dei consumatori e quello politico\istituzionale e chiede, documentandone l’urgenza, che il progetto europeo di trasformazione del modello di sviluppo agricolo sia effettivamente realizzato. Il biologico non deve essere greenwashing, ma deve diventare un cambio di paradigma affinché niente sia più come prima.

Foto di Essere Animali

Gli allevamenti intensivi

Il lavoro dell’ISDE si concentra sull’analisi delle conseguenze di un sistema alimentare fondato sugli allevamenti intensivi, che hanno rappresentato un radicale cambiamento anche in termini culturali. “L’allevamento intensivo – scrive l’associazione definendo il concetto – si caratterizza nel non essere più produzione agricola, perché non più legato alla terra. Questo significa che chi alleva animali, non necessariamente deve disporre della terra per alimentarli, con la conseguenza che meno è lo spazio utilizzato maggiore è la massimizzazione delle operazioni di nutrimento e cura con conseguente maggiore rendimento e profitto”.

In questo modo si pone l’accento a su diverse tipologie di effetti negativi generati: la perdita del legame con la terra, l’isolamento delle piccole economie di sussistenza, l’assenza quasi totale di tutela per il benessere animale, i danni all’ambiente e quelli all’organismo di chi consuma prodotti di origine animale. Nel tempo infatti gli allevamenti intensivi hanno visto affermarsi pratiche allevatoriali dannose non solo per il benessere animale, ma anche per la salute dell’uomo e per la tutela ambientale. L’ISDE riporta alcuni esempi: macinazione carne di pecore morte per scrapie (morbo analogo a quello della “mucca pazza”); allevamento di polli, tacchini, faraone, in capannoni industriali con concentrazioni a rotazione anche di mezzo milione di capi; costrizione delle scrofe in gabbia al fine di non avere mortalità tra i suinetti, costringendole a potersi solo alzare e coricare e senza mai poter camminare o girarsi; allontanamento dei vitelli dalle madri dal primo giorno per metterli in gabbia e mungere la madre sfruttandone tutta la duratura della montata lattea.

Queste sono solo alcune delle modalità messe in atto negli allevamenti intensivi italiani. Il report ne descrive molte altre, fornendo riferimenti documentali in merito e riportando i testi di legge che disciplinano il settore. Vengono riprese anche alcune dichiarazioni e prese di posizione ufficiali da parte di organi istituzionali anche di primaria importanza – come la FAO, la Corte dei Conti Europea e l’ISPRA – che si esprimono contro queste pratiche.

Foto di Animal Equality

I falsi miti

Nel suo position paper, l’ISDE smentisce anche il fabbisogno alimentare globale come giustificazione al sistema degli allevamenti intensivi e lo fa citando alcuni autorevoli fonti, come la stessa FAO: “Le diete sostenibili sono diete a basso impatto ambientale che contribuiscono alla sicurezza alimentare e nutrizionale nonché a una vita sana per le generazioni presenti e future. Le diete sostenibili concorrono alla protezione e al rispetto della biodiversità e degli ecosistemi, sono accettabili culturalmente, economicamente eque e accessibili, adeguate, sicure e sane sotto il profilo nutrizionale e, contemporaneamente, ottimizzano le risorse naturali e umane”.

Per rafforzare la testi, vengono citate anche ricerche compiute da National Center for Scientific Research e The Lancet Commission. Il primo studio conclude che nel 2050 il biologico potrebbe riuscire a sfamare tutta la popolazione europea, mentre il secondo sostiene che “l’attuale produzione di cibo rappresenta un rischio globale per le persone e il pianeta ed è la più grande pressione causata dagli esseri umani sulla Terra, minaccia gli ecosistemi e la stabilità del sistema terrestre. Le attuali diete, combinate alla crescita della popolazione (10 miliardi entro il 2050), esacerberanno rischi per le persone e il pianeta. Il peso globale delle malattie non trasmissibili peggiorerà e gli effetti della produzione di cibo sulle emissioni di gas serra, sull’inquinamento da azoto e fosforo, sulla perdita di biodiversità e sull’uso di acqua e terra ridurranno la stabilità del Pianeta. S’impone la riduzione di oltre il 50% del consumo di cibi come carne rossa e zucchero e, viceversa, l’aumento di oltre il 100% di consumo di cibi sani, come noci, frutta, verdura e legumi. Con diete sane sarebbero evitabili dai 10,8 agli 11,6 milioni di morti all’anno”.

I danni ad ambiente e organismo

Inevitabile sottolineare ancora una volta, punto per punto, i danni che i prodotti e i metodi produttivi degli allevamenti intensivi provocano all’ecosistema e alla salute di chi li consuma. Dall’aumento dei rischi di zoonosi – e la situazione sanitaria globale dovrebbe avercelo insegnato – alla perdita della biodiversità, dall’impatto sulle risorse alimentari alla deforestazione. La necessità dell’esistenza degli allevamenti intensivi è legata alla richiesta di proteine animali per il consumo umano, che però l’ISDE ritiene un fabbisogno indotto e non aderente agli apporti necessari a una sana alimentazione. Al contrario, vengono citati diversi di studi che hanno dimostrato la dannosità delle carni rosse e di quelle processate per l’essere umano, tanto che nel 2015 la IARC, dopo aver passato in rassegna 800 studi epidemiologici condotti in ogni continente, ha inserito le carni processate tra i cancerogeni certi e le carni rosse tra le sostanze probabilmente cancerogene per l’uomo.

Foto di IAPL Italia

Il biologico

In questo fosco scenario assume una vitale importanza la valorizzazione dei metodi biologici. L’ISDE ritiene però opportuno chiarire un equivoco ricorrente: “La confusione, creata dal proliferare di terminologie coniate per smarcarsi dall’identità dell’intensivo quali ‘biologico’, ‘etico’, ‘naturale’, ‘biodinamico’ e altre, denota che siamo in presenza, con l’allevamento intensivo, di una violazione non solo dei parametri ambientali, ma anche di quelli morali e non solo per la questione del benessere animale. Il fine è il conseguimento di un profitto di scala, al quale si vuole porre un limite in quanto ormai questo rappresenta un mondo svelato e conosciuto, tenuto all’oscuro per oltre 50 anni dai media”.

Dopo una puntuale analisi dei dati del biologico in Italia e della legislazione, il report prende le distanze dalle etichette istituzionali, sottolineando che “il primo passaggio necessario sarebbe dunque quello di eliminare le terminologie di intensivo e biologico e legiferare in merito all’allevamento in senso lato, che dovrebbe rispondere a dei requisiti massimi e rigorosi, in base alle caratteristiche oggi definite per il biologico e legiferate dalla UE, escludendo tutti gli altri appellativi e realtà in essere. Solo in questo modo si elimineranno terminologie commerciali più o meno attrattive e si eviterebbe di legalizzare la sofferenza animale, il rischio ambientale e di salute, adducendo l’appartenenza
all’intensivo piuttosto che al biologico”.

Al termine dell’analisi appare dunque chiaro che il settore abbisogna di una profonda ristrutturazione, accompagnata da una rivoluzione verde senza precedenti che metta al centro il benessere degli animali e includa negli obiettivi del biologico non solo la tutela ambientale, ma anche la salute umana. “Senza questa rivoluzione dell’Europa – conclude il report – che elimini le sofferenze degli animali, che riduca la trasformazione cerealicola in proteine della carne, che produca ciò che è il vero fabbisogno proteico della Nazione o dell’Europa, che si faccia carico di eliminare gli sprechi alimentari e l’utilizzo di pesticidi, senza tutto questo, appare difficile intravedere un futuro”.

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Fonte: https://www.italiachecambia.org/2021/10/basta-allevamenti-intensivi/?utm_source=newsletter&utm_medium=email

L’Oasi di Camilla, dove gli animali possono trovare nuova vitaanimali

L’Oasi di Camilla è un luogo dove animali fuggiti da allevamenti intensivi o animali domestici abbandonati possono trovare una seconda casa in cui poter vivere, fuggendo ad un destino beffardo. La sua fondatrice Orietta ci ha raccontato com’è nata questa realtà e quali progetti ha in serbo per il futuro. Animali fuggiti da allevamenti intensivi, adottati seguendo mode temporanee che poi passano o ancora tenuti in famiglia ma poi, a causa di cambiamenti, abbandonati alla prima occasione. Sono tanti i bipedi e i quadrupedi in cerca di una casa sicura dove poter vivere e fuggire a un destino beffardo. Era il 2011 quando Orietta Fraguglia fondò L’Oasi di Camilla, con l’obiettivo di salvare questi animali e dare una casa e amore a tutti coloro che ne avevano bisogno.

LA STORIA DI ORIETTA

L’associazione prende il nome proprio dalla cagnolina di Orietta, Camilla, la prima di molti altri che sono poi seguiti. Come lei stessa mi racconta, sin da piccola nutriva grande amore ed empatia per ogni forma di vita: «Credo che la mia prima parola sia stata “animali”, invece che mamma. Da quando ho ricordi, infatti, sono sempre stata bene in compagnia di ogni forma di vita che incontrassi. Passavo il mio tempo libero da piccola a salvare formiche e insetti in generale». 

Orietta mi spiega che i suoi genitori non hanno mai voluto animali in casa, ma fortunatamente i nonni avevano una abitazione in campagna, sul lago del Brugneto, dove da bambina passava molto tempo. Lì Orietta ha potuto conoscere da vicino molti animali diversi, anche se la maggior parte era poi destinata a essere mangiata e questo era motivo di sofferenza per lei. Crescendo poi, grazie ad alcuni cani, e in particolare a Romeo, ha conosciuto il mondo del randagismo e dell’abbandono. Successivamente, anche quello dei macelli, degli allevamenti intensivi e del mercato degli animali di piccola taglia, come conigli e tartarughe. Pensando che, essendo piccoli, siano meno impegnativi rispetto a un cane o un gatto, spesso vengono abbandonati poco dopo. «In quel periodo iniziavo a entrare in contatto con animali che avevano bisogno di un luogo dove stare – ricorda –, per poi trovare una nuova famiglia». Orietta inizia così a cercare una sede dove poter realizzare il suo progetto, chiedendo aiuto ai comuni vicino a Genova, dove viveva. 

LA CASA NEL BOSCO

L’unica amministrazione pubblica ad avere risposto al suo appello è stata quella di Voltri, che ha messo a disposizione un terreno inutilizzato. Dopo una pulizia dello spazio, però, Orietta si è presto resa conto che al suo interno vi era un edificio a rischio crollo. Nel frattempo gli animali salvati da abbandono o da macelli aumentavano sempre più. E dopo altri terreni e capannoni di passaggio, finalmente la nostra intervistata incontra una signora anziana che possedeva una casa in mezzo a un bosco all’interno del parco del Belbo, a Millesimo (SV), con un grande terreno intorno. La proprietaria era alla ricerca di qualcuno che affittase la sua casa e si prendesse cura dei trenta gatti che vivevano con lei prima che si spostasse, a causa dell’età, in una situazione più congeniale. «Mi è sembrava la soluzione ideale! Ora vivo in questa cascina insieme a mio figlio venticinquenne, che mi aiuta a prendermi cura degli animali salvati, i quali, in attesa di essere adottati, vivono tutti insieme, seppur ognuno con il suo spazio. Abbiamo cani, gatti, capre, oche, galline». 

In alcuni casi sono stati abbandonati, in altri rischiavano di esserlo (come animali di signore anziane che non potevano più prendersi cura di loro) o ancora sono stati recuperati perché a “rischio pentola”. Nel progetto della proprietaria della cascina c’era anche l’idea di creare un piccolo B&B e Orietta ha intenzione, dopo la ristrutturazione, di provare a realizzare questo sogno per poter avere entrate aggiuntive che aiutino a sostenere tutti gli animali in attesa di adozione.

Quando le chiedo se il figlio Fabio possiede il suo stesso amore per gli animali, Orietta mi risponde: «Li adora! Vive in simbiosi con uno dei cani che abbiamo salvato. Ha ereditato la stessa empatia che ho da sempre io. Ognuno ha un proprio percorso da fare verso la propria evoluzione interiore, che porta ad accettare e amare (quindi proteggere e prendersi cura) delle forme di vita intorno a noi, indipendentemente dalla loro natura e forma».

IL FUTURO DELL’OASI

Quando chiedo, poi, a Oretta come vede il futuro per lei e il suo progetto, non esita: «In questi anni la mia visione di ciò che volevo realizzare si è evoluta sempre di più: ho iniziato da piccoli animali e ho ampliato, sino a non darmi limiti. Spero che questo luogo diventi presto un bellissimo villaggio solidale ed ecosostenibile, abitato da tanti abitanti di specie diverse, ognuno con la propria storia e le proprie specificità. Voglio che quest’oasi diventi strumento per tante persone di cambiare in meglio questo mondo e il nostro modo di porci verso esso. Sono convinta che ognuno di noi può essere una goccia di un oceano portatore di un cambiamento».

COME AIUTARE L’OASI DI CAMILLA

I costi per mantenere gli animali e continuare ad ampliare l’oasi sono significativi: per questo Orietta ha aperto a tutti la possibilità di contribuire al progetto. Chi volesse sostenerlo può partecipare alle raccolte di cibo che spesso vengono organizzate o con donazioni di cibo dirette o supporti economici oppure con il 5×1000. Ma non solo. I volontari sono alla ricerca di famiglie che temporaneamente si prendano cura di animali che per diversi motivi hanno problemi a vivere con altri, o perché non sono mai stati abituati o perché non ancora operati e quindi a rischio riproduzione.

Fonte: https://www.italiachecambia.org/2021/06/oasi-di-camilla-animali-nuova-vita/?utm_source=newsletter&utm_medium=email

L’agricoltura chimica e gli allevamenti intensivi hanno spazzato via 4 milioni di aziende agricole in Europa

L’uso massiccio della chimica di sintesi e di premi alle tecniche intensive di produzione agricola e di allevamento hanno ottenuto non solo il risultato di inquinare l’ambiente, ma anche quello di spazzare via 4 milioni di aziende agricole in Europa.

L’approvazione definitiva della legge sul bio diventa ogni giorno più urgente. Perché ogni giorno arriva una conferma dei guasti prodotti da una lunga stagione di uso massiccio della chimica di sintesi e di premi alle tecniche intensive di produzione agricola e di allevamento. I danni prodotti da queste scelte sono stati profondi. Spaziano dall’impatto sulla biodiversità a quello sulle falde idriche, dalla salute del suolo a quella dei consumatori. Passando per il contributo importante all’aggravarsi della crisi climatica. Ma c’è un altro danno, economico, che ora viene evidenziato: la conseguenza di decenni di queste politiche è stata l’emorragia delle piccole aziende, spazzate via dall’industrializzazione del settore agricolo. Il problema emerge da un’inchiesta del Guardian: il numero di allevamenti di pollame e bestiame nell’Ue, esclusa la Croazia, è diminuito di 3,4 milioni tra il 2005 e il 2016, attestandosi a 5,6 milioni. Il numero totale di tutti i tipi di aziende agricole nell’Ue è sceso nello stesso periodo da 14,5 milioni a 10,3 milioni”.

Una moria di imprese determinata dal meccanismo della Pac, la politica agricola europea che ha finito per premiare l’intensificazione dei processi agricoli, cioè i sistemi a maggior impatto ambientale: l’80% dei finanziamenti continua ad andare al 20% delle aziende, le più grosse. In particolare l’impatto sulla biodiversità è stato impressionante. Come ricorda il Guardian, il numero di uccelli dei terreni agricoli nell’Ue si è dimezzato in tre decenni, secondo l’European Bird Census Council. Nel territorio dell’Unione europea solo un quarto delle specie gode di un buono stato di conservazione e l’80% degli habitat chiave è in modeste o cattive condizioni. Per questo l’Europa ha scelto di puntare con decisione sul biologico, cioè sulle tecniche di coltivazione che permettono di ridurre sensibilmente l’impatto ambientale della produzione, di tutelare il suolo e di proteggere la biodiversità. Il target europeo al 2030 è 25% di campi bio e 10% di aree destinate alla protezione della biodiversità all’interno dei terreni agricoli.

Fonte: ilcambiamento.it

Emilia Romagna prima regione italiana a bandire le gabbie dagli allevamenti

Prima in Italia, la Regione Emilia Romagna ha approvato una risoluzione per vietare le gabbie negli allevamenti. Si tratta di un primo passo che, unendosi a una mobilitazione massiva generata grazie a una campagna a livello europeo, pone le basi per l’abbandono dell’insostenibile modello degli allevamenti intensivi.

«Buone notizie e non solo per animalisti ed ambientalisti! Oggi l’Emilia Romagna fa un primo importante passo verso la transizione graduale a modalità di allevamento senza gabbie. Grazie all’approvazione della risoluzione per abbandonare l’uso delle gabbie negli allevamenti, di cui sono prima firmataria, l’Emilia Romagna, prima in Italia, intraprende un percorso istituzionale per la tutela sia del benessere e della salute degli animali, e quindi anche dei consumatori, sia della reputazione delle nostre eccellenze alimentari sui mercati internazionali».

La consigliera regionale Silvia Zamboni comunica così l’approvazione della “Risoluzione per impegnare la Giunta regionale a promuovere politiche e strumenti a supporto della transizione del settore zootecnico ad allevamenti che non fanno uso delle gabbie e sono improntati al benessere animale”, un atto che darà il via all’iter per varare la prima legge in Italia che vieterà le gabbie negli allevamenti. Ad approvarla è la Commissione Permanente per le Politiche Economiche della Regione Emilia Romagna.

Si tratta di un primo, piccolo, ma importante passo per allontanarsi da un modello alimentare insostenibile per il Pianeta e per l’essere umano. Lungi dall’essere sufficiente, la rinuncia alle gabbie è comunque un passaggio necessario per ridiscutere il sistema degli allevamenti intensivi, che – specialmente nella pianura padana – provoca danni ambientali enormi, oltre all’incalcolabile sofferenza che causa agli animali prigionieri di queste strutture.

«È ormai riconosciuto che l’industrializzazione dei sistemi di allevamento intensivi costringe un alto numero di animali a vivere in spazi ristretti con ripercussioni negative sul loro benessere e la loro salute», prosegue la consigliera. «Oltre a comportare l’impiego massiccio di antibiotici, col rischio che poi si ritrovino nella carne destinata al consumo, queste condizioni di allevamento favoriscono la diffusione di virus e batteri che possono essere potenzialmente trasmissibili all’uomo (zoonosi) e all’origine di epidemie, come l’aviaria anni fa».

Questo provvedimento rappresenta un segnale incoraggiante che dà seguito a un’altra grande vittoria dei movimenti che si battono per il benessere degli animali, ovvero la consegna, lo scorso ottobre, delle firme raccolte grazie alla petizione End of the cage age, che in Italia è sostenuta da una ventina di associazioni e che ha raccolto nel giro di pochi mesi 1,4 milioni di firme di cittadini europei contrari agli allevamenti intensivi. La Commissione Europea è ora vincolata a pronunciarsi in merito alla richiesta e i prossimi mesi saranno cruciali per garantire che la domanda posta dall’iniziativa si trasformi in azione.


Un riferimento a questa mobilitazione su scala continentale compare anche nel testo della risoluzione regionale, che impegna la giunta “a proseguire le iniziative a supporto del benessere animale già intraprese e a promuovere azioni di sensibilizzazione ed educazione dei consumatori, favorendo quindi comportamenti consapevoli e sostenendo anche l’adesione degli allevatori agli obiettivi dell’Iniziativa dei cittadini europei”.

«Rendere più sostenibili ambientalmente e più etici i metodi di allevamento premia inoltre quegli allevatori che già oggi rispettano il benessere degli animali», conclude Silvia Zamboni. L’auspicio è che la transizione verso un modello alimentare in cui i cibi di origine animale diventino sempre meno diffusi prosegua senza sosta: è necessario che ciò avvenga perché il modo in cui mangiamo oggi è insostenibile non solo per il nostro organismo, ma anche per il Pianeta che ci ospita.

Fonte: https://www.italiachecambia.org/2021/05/emilia-romagna-bandire-gabbie-allevamenti/?utm_source=newsletter&utm_medium=email

Il coronavirus esiste, ma anche l’ipocrisia e grandi interessi

Ve lo immaginate se all’uscita di un supermercato vi fermasse una guardia privata e vi intimasse: “Alt! Cosa ha comprato?”. E alla vista di cibi spazzatura vi comminasse multe salate? Non lo accettereste. Ma vediamo quale parallelo si può trarre…

Ve lo immaginate se all’uscita di un supermercato vi fermasse una guardia privata e vi intimasse: “Alt! Cosa ha comprato?”. E alla vista di cibi e bevande frutto di lavorazione con pesticidi, concimi chimici, erbicidi, funghicidi, zuccheri e grassi a non finire, cibi ricavati da animali costretti in allevamenti intensivi quindi inquinati e inquinanti, e poi coloranti, conservanti artificiali e schifezze di ogni tipo, vi comminasse delle multe salate? E alle vostre rimostranze la guardia vi dicesse che lo fa per la vostra salute? In caso le vostre proteste continuassero, vi citerebbe il DPCM ad hoc, redatto dal governo proprio in tema di salvaguardia della salute. E se continuaste a protestare invocando la vostra libertà, vi direbbe che la vostra e altrui salute è più importante della vostra libertà. Quindi conseguentemente chiamerebbe le forze dell’ordine e vi farebbe arrestare. E agire in questo modo non significherebbe impedire una libera scelta di farsi del male, per la quale ognuno potrebbe scegliere liberamente di rovinare la propria salute, perché comprare cibi e bevande avvelenate avvelena anche la terra, l’aria e l’acqua di tutti, quindi di conseguenza la salute di tutti. Sareste d’accordo che ci fosse una guardia che facesse questo? Ovviamente no; eppure è quello che si sta facendo per il coronavirus. Ci dicono che se ci privano della libertà, se ci fanno le multe, lo fanno per la nostra salute, per il nostro bene. Ma come mai la nostra salute e il nostro bene vengono considerati solo per questo caso? La salute si preserva solo quando si presenta un coronavirus? Per caso il coronavirus detiene il copyright della salvaguardia della salute? Tutti gli altri pericoli e attentati per la nostra salute non contano?

Qui non si tratta di essere pro o contro i vaccini, pro o contro la scienza, pro o contro la medicina o il progresso; qui si tratta (se ancora ci si può permettere di esprimere un pensiero critico…) di ipocrisia e interessi che fanno agire in un senso piuttosto che in un altro. Non è per niente credibile che la salute sia da preservare “a seconda dei casi”. La salute è una sola e la si preserva e difende sempre; se non si agisce così è evidente che c’è qualcosa che non torna. Ma parliamoci chiaro: chi decide politicamente le nostre sorti si è sempre interessato poco o niente della nostra salute, altrimenti saremmo in un società dove l’inquinamento di ogni tipo non esisterebbe. Della salute propria e altrui interessa poco o niente anche a coloro che oggi si sentono investiti del ruolo di fustigatori di chiunque si chieda il perché la salute abbia importanza solo in alcuni casi e in altri no. Infatti capita che gli stessi fustigatori possano essere persone che inquinano a più non posso, mangiano male, bevono, fumano, vivono in modo impattante e così facendo devastano la propria e altrui salute. Ma improvvisamente hanno trovato il modo per raccontarci che ora “fanno del bene”. E non c’è nemmeno bisogno di fare la lunghissima e tristissima conta delle centinaia di migliaia di morti che ci sono in Italia per tante altre cause oltre i virus. Ci stiamo suicidando, ce lo certifica pure l’ONU (e in questo caso non fa nessun riferimento al coronavirus, bensì all’inquinamento, alla distruzione ambientale e ai cambiamenti climatici). E stiamo parlando dell’ONU, non di qualche “estremista”. Ma in questo caso, anche se lo dice l’ONU, stranamente è scienza che non conta, non ha il bollino blu del corona virus, quindi la notizia non la passano nemmeno in quarta serata, non ha appeal, non produce audience e interessi, quindi è scienza e salute che non esiste. Il problema non è se il coronavirus esista o meno, e su questo portale di informazione mai nessuno lo ha messo in dubbio; il coronavirus esiste ma gli effetti che produce sono molto minori rispetto al vero flagello che è quello di una totale, vergognosa, tragica ipocrisia che ci sta portando all’autodistruzione e per la quale esiste la salute di serie A, che tanti soldi fa fare a certe aziende, e la salute di serie Z, che tanto male fa alla gente ma di cui non interessa niente a (quasi) nessuno. La credibilità di coloro che per la salute hanno fatto poco o niente e hanno pure distrutto la sanità pubblica è zero. Ma ora si scagliano contro gli “assembramenti” e le “festicciole” per sviare l’attenzione sulle loro gravissime responsabilità. E sono gli stessi che parlano di salute ma buttano soldi pubblici, in primis per comprare armamenti costosissimi; con quei soldi la sanità la si risanava tutta e ora non ci sarebbero stati alibi con cui tentare di giustificare la privazione della libertà per gli italiani. Si continuano a buttare soldi per fare il TAV, il TAP, per tenere aperto il mostro dell’Ilva di Taranto, per costruire ancora autostrade in un paese già asfissiato da ogni tipo di inquinamento. Si continua a cementificare ovunque, costruendo opere faraoniche che diventeranno le solite cattedrali nel deserto. Si sprecano miliardi di euro da anni nel tenere in vita la compagnia di bandiera del mezzo di trasporto più inquinante che esista, cioè l’aereo. Si sovvenzionano e agevolano in tutti i modi i combustibili fossili, autentici e assoluti protagonisti della catastrofe sanitaria. E con tutto questo, e purtroppo tanto altro ancora, ci vogliono far credere che qualcuno si preoccupa della nostra salute? La situazione descritta è sotto gli occhi di tutti quotidianamente ed è un dato oggettivo incontrovertibile, a prescindere da qualsiasi altra considerazione su medicina e scienza. Quando chi parla della salute salvaguarderà veramente la salute, quindi innanzitutto l’ambiente, allora sarà credibile. Fino a quel momento non avrà alcuna credibilità, solo molti scheletri nell’armadio.

Fonte: ilcambiamento.it

Riscaldamento e allevamenti intensivi: in pianura padana causa del 54% delle polveri fini

Un rapporto di Greenpeace e ISPRA evidenzia le ingenti responsabilità degli allevamenti intensivi nel generare emissioni di polveri sottili in Nord Italia, secondi solo al riscaldamento per quanto riguarda la produzione di PM 2,5. Mentre diverse analisi mostrano come chi vive in aree con alti livelli di inquinamento dell’aria sia più incline a sviluppare problemi respiratori cronici, che sono terreno fertile per agenti infettivi come il Covid19, uno studio dell’Unità investigativa di Greenpeace Italia, in collaborazione con ISPRA, indaga i settori maggiormente responsabili del particolato in Italia.

A formare lo smog della Pianura Padana, oltre a ossidi di azoto e di zolfo, concorre in maniera importante l’ammoniaca che, liberata in atmosfera, si combina con questi componenti generando le polveri fini. Cruciale il ruolo degli allevamenti, responsabili di circa l’85% delle emissioni di ammoniaca in Lombardia. Secondo l’Arpa regionale, l’ammoniaca che fuoriesce dagli allevamenti “concorre mediamente a un terzo del PM della Lombardia, ma durante gli episodi acuti tale contributo aumenta superando il 50 per cento del totale”.

“I Comuni dovrebbero stabilire qual è il numero massimo di allevamenti e capi allevati che è possibile avere sul loro territorio, perché altrimenti i danni si ripercuotono sui cittadini” afferma Riccardo De Lauretis, responsabile dell’area emissioni e prevenzione dell’inquinamento atmosferico di ISPRA. Lombardia ed Emilia-Romagna risultano, infatti le aree più inquinate d’Italia – sicuramente dal punto di vista del particolato – e tra le più inquinate d’Europa. Arpa Lombardia conferma poi il rapporto di causa-effetto tra le attività zootecniche e l’aumento di PM, con picchi registrati durante lo spandimento di liquami sui campi. Mentre in Lombardia è chiaro il peso del settore allevamenti per l’inquinamento da PM, a livello nazionale la ricerca dell’Unità investigativa di Greenpeace Italia in collaborazione con ISPRA mostra per la prima volta, dal 1990 al 2018, una media di quali settori abbiano maggiormente contribuito alla formazione del particolato PM2,5. Nell’analisi viene scattata anche una fotografia del 2018, anno in cui i settori più inquinanti si confermano essere il riscaldamento residenziale e commerciale (37 per cento) e gli allevamenti (17 per cento). Questi due settori insieme sono la causa del 54 per cento del PM2,5 nazionale. La percentuale del contributo degli allevamenti non è mai diminuita, anzi è passata dal 7 per cento nel 1990 al 17 per cento nel 2018.

“Gli allevamenti intensivi non solo si confermano la seconda causa di polveri sottili, ma si può osservare come dal 1990 al 2018, il loro contributo sia andato crescendo. Paradossalmente, però, una gran quantità di soldi pubblici continua a foraggiare questo sistema, a cominciare dai sussidi della PAC” commenta Federica Ferrario, responsabile Campagna Agricoltura di Greenpeace Italia. “Per ridurre le emissioni di ammoniaca e quindi le concentrazioni di particolato il settore allevamenti potrebbe fare molto. Puntare sulla qualità invece che sulla quantità è una priorità: attraverso produzioni che rispettino alti standard anche dal punto di vista ambientale, possiamo rilanciare il nostro Made in Italy dopo questa difficile fase emergenziale, per questo le strategie future, come il Green Deal europeo e Farm to Fork, e strumenti come la PAC devono prevedere risorse adeguate per aiutare le aziende agricole a ridurre il numero degli animali allevati e nel passaggio a metodi di produzione ecologici”.

Il rischio, altrimenti, avverte ISPRA, è che “mentre abbiamo centrato i limiti emissivi per tutte le sostanze per il 2020, se la situazione attuale non cambierà per l’Italia sarà molto sfidante, per non dire difficile, stare entro i limiti fissati per il 2030”.

Leggi la ricerca “Covid, esposizione al particolato e allevamenti intensivi”. Fonte: https://www.italiachecambia.org/2020/05/riscaldamento-allevamenti-intensivi-pianura-padana-polveri-fini/?utm_source=newsletter&utm_medium=email

Giornata della Terra: “Chiediamo stop a deforestazioni e sostegno all’agroecologia”

In occasione della Giornata Internazionale della Terra una coalizione planetaria di oltre 500 organizzazioni chiede lo stop alle deforestazioni e alla perdita di biodiversità e il sostegno alle piccole e medie produzioni agroecologiche. Riconoscere lo stato di crisi in cui si trova il pianeta Terra, identificare le reali cause che hanno condotto all’emergenza sanitaria Covid 19 e approfittare del lockdown per ripartire con un vero cambio di paradigma produttivo, economico, sociale e culturale che tenga conto di quanto la salute della Terra e di tutte le specie che la abitano, animali e vegetali, siano profondamente interconnesse. È questa la richiesta di oltre 500 organizzazioni della società civile internazionale, appartenenti a oltre 50 paesi, che hanno aderito all’appello lanciato da Navdanya International, Naturaleza de derechos e Health of Mother Earth foundation in occasione della Giornata Internazionale della Terra. Il documento, a cui hanno aderito le maggiori organizzazioni ecologiste di tutto il mondo fra cui Ifoam, Third World Network, International Forum on Globalization, Organic Consumers Association, Acción Ecológica, Isde-Medici per l’ambiente, Pesticide Action Network – Italia e Associazione per l’Agricoltura Biodinamica, e sottoscritto da centinaia di ambientalisti fra cui Vandana Shiva, Adolfo Perez Esquivel, Maude Barlow, Maria Grazia Mammuccini, Carlo Triarico, Patrizia Gentilini e Lucio Cavazzoni, denuncia lo stato di degrado del pianeta dovuto a un sistema economico estrattivista e irresponsabile, sotto il controllo di un pugno di multinazionali, interessato solo a ottenere il massimo dei profitti senza curarsi dei danni provocati a livello sociale e ambientale.

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La pandemia in atto, si denuncia nell’appello, è l’ennesimo esempio di una cattiva gestione delle risorse naturali ma è anche un ulteriore grido di allarme che deve necessariamente essere ascoltato prima della prossima inevitabile calamità. Le organizzazioni internazionali chiedono di non tornare al “business as usual” ma piuttosto di supportare le iniziative “bottom up”, già attive su moltissimi territori e basate sul rispetto dell’ambiente e del lavoro, per promuovere una fase di transizione verso sistemi economici democratici, equi ed ecologici. In particolare, è il sistema di produzione agricola industriale a confermare, anche in questa occasione, la sua insostenibilità. La corsa alla deforestazione, per ottenere nuove terre da sfruttare per piantagioni e allevamenti, crea le condizioni ideali per la diffusione di nuove epidemie: «Invadendo gli ecosistemi forestali, distruggendo gli habitat delle specie selvatiche e manipolando piante e animali a scopo di lucro, creiamo le condizioni per nuove epidemie. Negli ultimi 50 anni sono emersi fino a 300 nuovi agenti patogeni. È ben documentato che circa il 70% degli agenti patogeni umani, tra cui HIV, Ebola, Influenza, MERS e SARS, sono emersi quando gli ecosistemi forestali sono stati invasi e i virus sono passati dagli animali all’uomo (salto di specie). Quando gli animali sono costretti a vivere in allevamenti industriali per massimizzare i profitti, nascono e si diffondono nuove malattie come l’influenza suina e l’influenza aviaria».
Agricoltura industriale e allevamenti intensivi contribuiscono alla crisi sanitaria e a debilitare i nostri sistemi immunitari rendendoci ancora più esposti a nuove malattie: «L’agricoltura industriale ad alta intensità chimica e i sistemi alimentari industriali danno origine a malattie croniche non trasmissibili come difetti congeniti, cancro, disturbi endocrini, diabete, problemi neurologici e infertilità. In presenza di queste condizioni preesistenti, che sono alla base della compromissione del nostro sistema immunitario, la morbosità del Coronavirus aumenta drammaticamente».

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È allora necessario ripartire favorendo processi di localizzazione e di economia circolare: «Durante la crisi del Covid-19 e nella fase di ripresa post-coronavirus dobbiamo imparare a proteggere la Terra, i suoi sistemi climatici, i diritti e gli spazi ecologici delle diverse specie e dei diversi popoli – indigeni, giovani, donne, contadini e lavoratori. Per la Terra non ci sono specie sacrificabili e non ci sono popoli sacrificabili. Tutti noi apparteniamo alla Terra. Per evitare future pandemie, carestie e un possibile scenario in cui le persone vengano considerate sacrificabili, dobbiamo andare oltre il sistema economico globalizzato, industrializzato e competitivo. La localizzazione lascia spazio alla prosperità delle diverse specie, delle diverse culture e delle diverse economie locali. Dobbiamo abbandonare l’economia dell’avidità e della crescita illimitata, basate sulla concorrenza e sulla violenza, che ci hanno spinto a una crisi esistenziale e passare a una “Economia della cura” – per la Terra, per le persone e per tutte le specie viventi».
I membri della coalizione planetaria firmatari dell’appello si impegnano infine a sollecitare ed esortare le autorità e i rappresentanti dei governi dei rispettivi paesi, città e comunità, a favorire il passaggio a un paradigma in cui la responsabilità ecologica e la giustizia economica siano il fondamento per la creazione di un futuro sano e prospero per l’umanità. A questo scopo, le organizzazioni indicano una serie di azioni per favorire la transizione fra cui la protezione della biodiversità, l’impulso al biologico, la sospensione dei sussidi pubblici all’agricoltura industriale con la contestuale promozione dell’agroecologia e delle produzioni locali, la fine del sistema delle monocolture, delle manipolazioni genetiche e degli allevamenti intensivi di animali, il contrasto ai cambiamenti climatici e la tutela della sanità pubblica.

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Foto tratta dalla pagina Facebook di Navdanya International

Dichiarazioni:

Vandana Shiva, Navdanya International: «Un approccio sistemico all’assistenza sanitaria in tempi di crisi del Coronavirus non si occuperebbe solo del virus, ma anche di come le nuove epidemie si stanno diffondendo mentre invadiamo le case di altri esseri. È necessario affrontare il sistema alimentare industriale non sostenibile, antinaturale e malsano alla base dell’epidemia di malattie croniche non trasmissibili. I sistemi alimentari globalizzati e industrializzati diffondono le malattie. Le monocolture diffondono le malattie. La deforestazione diffonde malattie. L’emergenza sanitaria ci costringe a deglobalizzare e dimostra che, se c’è la volontà politica, possiamo farlo. Rendiamo permanente questa deglobalizzazione e la transizione verso la localizzazione».
Fernando Cabaleiro, Naturaleza de Derechos – Argentina: «Questa pandemia ci dice che il sistema di accaparramentoaccumulazione che governa le economie mondiali, e con esse la vita, la salute della terra e delle persone e della biodiversità, ha raggiunto il suo punto di svolta: la sua elevata vulnerabilità è stata esposta dimostrando che è giunto il momento che la politica ascolti tutte le organizzazioni, le assemblee, le persone, i contadini e le popolazioni indigene che da ogni angolo del pianeta già denunciavano e mettevano in guardia da disastri di questo tipo. In questa Giornata della Terra, la società civile globale si unisce in un unico grido di speranza».
Nnimmo Bassey, Health of Mother Earth Foundation (Homef) – Nigeria: «Il mondo è a un bivio. Questo è il momento di smettere di bruciare il Pianeta, dobbiamo lasciarci alle spalle l’era dei combustibili fossili, riconoscere i diritti della Madre Terra e punire l’ecocidio in tutte le sue forme».
Patrizia Gentilini, Isde – Italia: «Non possiamo continuare ad illuderci di essere sani in un mondo malato: la pandemia ha mostrato tutta la fragilità di un sistema predatorio, iniquo e violento nei confronti delle persone e del Pianeta. Tanto meno possiamo pensare di uscire dalla crisi sanitaria, economica e sociale rimanendo ancorati o addirittura prigionieri dello stesso modello di sviluppo e di consumo che ci ha portato ad essa e dobbiamo capire che neppure la tecnologia ci salverà, perché sarà utilizzata non per renderci più liberi, ma piuttosto sempre più schiavi, controllati e succubi. Da questa crisi possiamo uscirne più consapevoli e solidali, imboccando finalmente la strada giusta, ma anche purtroppo, peggiorando ulteriormente le cose e questo purtroppo vediamo profilarsi all’orizzonte».


Leggi e firma il Comunicato per la Giornata della Terra

Visualizza i firmatari

Fonte: https://www.italiachecambia.org/2020/04/giornata-della-terra-chiediamo-stop-deforestazioni-sostegno-agroecologia/

Il consumo di carne da allevamenti intensivi è insostenibile per il pianeta

Dal 1961 al 2010 la popolazione globale di animali macellati è passata da circa 8 a 64 miliardi, cifra che raddoppierà a 120 miliardi entro il 2050 se prosegue l’attuale ritmo di crescita. Il consumo di carne a questi livelli NON è sostenibile.

Nel 1961, poco più di tre miliardi di persone mangiavano una media di 23 kg di carne all’anno. Nel 2011, sette miliardi di persone mangiavano 43 kg di carne. Dal 1961 al 2010 la popolazione globale di animali macellati è passata da circa 8 a 64 miliardi, cifra che raddoppierà a 120 miliardi entro il 2050 se prosegue l’attuale ritmo di crescita.

Tony Weis  – The ecological Hoofprint

Basterebbero questi pochi  dati per capire che il consumo di carne è insostenibile. Ci sono ormai letterature sterminate, studi di ogni tipo che lo dimostrano. Insostenibile dal punto di vista ambientale, energetico, agricolo, sanitario e per chi ha a cuore la questione, anche dal punto di vista della sofferenza degli animali. Ma parlare di alimentazione è sempre difficile perché è un aspetto molto personale. Si creano fazioni irriducibili fra onnivori, vegetariani, vegani con lotte di religione dalle varie parti. Ci sono però alcuni fatti innegabili a prescindere dalla propria convinzione, cultura o usanza alimentare. E’ infatti impensabile che la produzione e consumo di carne possa continuare a livelli esponenziali. Già ora l’impronta ecologica degli allevamenti è pesantissima e per il futuro non ci sono semplicemente abbastanza terre e cibo per sfamare gli eserciti di miliardi di animali che verranno e i danni all’ambiente derivanti, se si pensa anche solo alle emissioni climalteranti dei bovini derivanti dalla loro digestione. Il saldo dal punto di vista energetico è sempre negativo per quello che riguarda la carne. Il cibo che alimenta gli animali con cui si alimentano le persone, infatti potrebbe essere direttamente dato alle persone e saltare un passaggio. Già solo agendo in questo modo si risolverebbero tutti i problemi di fame nel mondo all’istante e si smetterebbero di sentire queste assurde teorie che dicono che la gente muore di fame perché siamo troppi. Non siamo troppi, bensì siamo in pochi ad avere troppo e tanti ad avere poco o niente.  Si potrebbe fare un esempio emblematico su tutti: le piantagioni di soia del Brasile, che vanno in gran parte ad alimentare gli animali degli allevamenti intensivi, si creano continuando a distruggere la foresta amazzonica e facendo danni incalcolabili, sia perché si distrugge per sempre una preziosa e inestimabile biodiversità, sia perché si diminuisce la capacità di assorbimento di CO2.  E quella soia è destinata anche al consumo di carne di maiale in Cina che ne mangia la metà a livello mondiale, con un aumento vertiginoso. Già ora siamo al collasso, cosa potrà succedere se anche i paesi cosiddetti emergenti volessero mangiare carne al nostro ritmo e quantità? Considerando che stiamo parlando di miliardi di persone.  Migliaia di animali stipati in lager producono un inquinamento da deiezioni pesantissimo e poi hanno bisogno di vari trattamenti medicinali, con conseguente ulteriore grave inquinamento delle falde.  Questi animali, che vivono in maniera aberrante, sono in condizioni igieniche pessime e ad ogni momento è in agguato qualche epidemia che può trasmettersi alle persone come purtroppo già verificatosi. Torturare e uccidere milioni di animali non è qualcosa di cui andare fieri, per non parlare poi dell’aspetto della salute dove la carne non è certo un toccasana per il nostro organismo e molte malattie dipendono proprio da un consumo eccessivo. Non si tratta quindi di lotte di religione o simili; il consumo di carne, soprattutto da allevamenti intensivi, è insostenibile da ogni lato lo si guardi. Volenti o nolenti, non per motivazioni spirituali o etiche ma per la mera sopravvivenza delle persone e del pianeta stesso, si dovrà arrestare e invertire la rotta su di una produzione e consumo di carne che già ora è un problema drammatico.

Fonte:ilcambiamento.it

Desirée e David hanno vinto contro gli allevamenti intensivi: «E ora vogliamo essere custodi della terra»

Un’energia che nemmeno ci si immagina se non li si vede all’opera. Ragazzi entusiasti, determinati, che hanno messo a frutto il loro patrimonio di valori e sono riusciti ad ottenere la loro vittoria: accelerare la chiusura di un lager dove erano allevati 30.000 tacchini in condizioni pesantissime.desiree_ambra

Ora vogliono acquistare il terreno dove si trovano i capannoni ormai vuoti per assicurarsi che nessun altro allevamento intensivo possa riaprire proprio lì. Ma il costo è alto; si stanno rimboccando le maniche e… chissà che non ci sia qualcuno pronto a dar loro una mano! Si chiamano Desirée Manzato e David Panchetti.

«David abitava già ad Ambra, una frazione del Comune di Bucine in provincia di Arezzo, nel podere di un amico, in affitto in una delle varie abitazioni presenti e gestiva un negozio di riparazione computer – spiega Desirée – Diviso da una rete, c’è sempre stato questo un allevamento intensivo di tacchini dato in affitto a varie aziende che via via col tempo cambiavano. Io a quel tempo abitavo in Veneto, facevo la restauratrice ed era attivista nell’associazione per i diritti animali Venus in fur. Ci siamo conosciuti e dopo pochi mesi mi sono trasferita anche io ad Ambra».

Poi Desirée e David si erano prefissati di far chiudere l’allevamento.

«Ma come fare?» si sono domandati.

«Per un anno abbiamo chiesto aiuto a chiunque, istituzioni, politici, associazioni, per trovare un modo. Le ragioni della chiusura c’erano tutte: luci accese 24 ore su 24, sovraffollamento, sporcizia, incuria, medicinali ed antibiotici nell’acqua e ogm nei mangimi. Trentamila tacchini erano stipati in 7 capannoni; dopo appena 3 mesi di ingrasso venivano caricati di notte, praticamente sotto la finestra della nostra camera da letto, per essere trasportati al macello. Il dottor Massimo Tettamanti ad un corso per attivisti accolse la mia proposta di fare una causa per danno ambientale. Poco tempo dopo, l’allevatore stesso ci confessava che era parecchio in crisi ed acconsentì a lasciarci liberare due tacchine che prendemmo subito prima che finissero nel dannato camion. Una di loro purtroppo dopo 5 mesi ci ha lasciati, Giorgina invece l’1 febbraio compie un anno».

«Nel frattempo, grazie alle nostre investigazioni e al dialogo con le persone del paese e con il proprietario del podere, si iniziò a diffondere la verità. L’allevatore fu messo alle strette e se ne andò. Quindi, onde evitare che facesse gola a nuovi allevatori, abbiamo valutato l’idea di acquistare il podere intero, compreso l’allevamento ormai vuoto, per trasformare il tutto in rifugio per animali da reddito e piccola azienda agricola che lavori in funzione del mantenimento degli animali stessi, come obbiettivo primario. L’acquisto è ancora in fase di trattativa; siamo alle battute finali con banche, associazioni coinvolte nel progetto e siamo alla ricerca di eventuali altri finanziatori. Il costo è alto, però comunque è nemmeno la metà di quello che chiedevano all’inizio. Noi ad Ambra siamo ancora in affitto, però abbiamo il benestare del proprietario per iniziare tranquillamente a coltivare e a fare il lavori necessari. Il posto era in stato di abbandono; piano piano stiamo ridando dignità alla valle, respiro al bosco e stiamo liberando il letto dei torrenti e le sponde del lago. Abbiamo già alcuni animali, provenienti da varie situazioni, che vivono con noi e impegnano le nostre giornate. Ci sono una serie di appartamenti al grezzo da ammobiliare per ospitare in un futuro prossimo persone che volessero venire a trascorrere qualche giorno, mese o anno di pausa dalla vita moderna, sapendo che l’affitto che pagheranno andrà interamente a mantenere gli animali ospiti del rifugio, idem per i pasti che offriremo loro. Per ora in maniera informale ospitiamo in casa nostra solo piccoli gruppi di persone che vengono per conoscere il progetto e farne parte. Oppure ospitiamo chi partecipa ai nostri eventi, perché venendo da lontano preferisce fermarsi a dormire per ripartire il giorno dopo con calma. Organizziamo eventi, appunto, finalizzati al mantenimento del rifugio e per diffondere varie tematiche, dall’informazione sul nostro progetto, alla diffusione del veganesimo e dei diritti animali, incontri con ospiti di altre realtà collegati al mondo dell’attivismo animalista e ambientalista, contro le multinazionali e per il ritorno ad una vita più semplice e contadina, accompagnati sempre da pasti vegan autoprodotti».

Il prossimo appuntamento in calendario sarà il più speciale: l’1 febbraio Giorgina, la tacchina del capannone 7, compie un anno di vita.

«Quindi faremo una grande festa per festeggiare Giorgina e per ricordare gli animali che non ce l’hanno fatta; per ribadire anche che qui, all’ex allevamento di Ambra, nessuno mai più verrà recluso per essere condannato a morte. Festeggeremo dalle ore 14 fino al sopraggiungere del buio, dopo di che lasceremo alle bestiole il giusto silenzio necessario. Speriamo per quella data di avere le ultime risposte sulle trattative così ci sarà un ulteriore motivo in più per festeggiare. Fino a quel momento incrociamo le dita».

Chi vuole fare visita a Desirée e David può farlo nei fine settimana, telefonando prima al numero 055-996946.

E’ stata aperta anche una raccolta fondi su BuonaCausa

Fonte: ilcambiamento.it

In 30 mila a Berlino manifestano contro allevamenti intensivi, OGM e agricoltura industriale: c’era anche Carlin Petrini

Da Potsdamer Platz fino alla Cancelleria una lunga fila di manifestanti, circa 30 mila, ha chiesto al governo tedesco che l’agricoltura torni a essere più naturale tenendo fuori i prodotti industriali proprio mentre si tiene la Fiera agricola Grüne Woche. Per l’Italia c’era Carlo Petrini il fondatore di SlowFoodmacellazione-nel-mondo

In 30 mila a Berlino hanno manifestato oggi contro gli allevamenti intensivi, gli OGM e l’agricoltura industriale chiedendo al governo tedesco un maggiore impegno per avere cibo e prodotti agricoli sani. La manifestazione è stata organizzata come risposta alla Internationale Grüne Woche Berlin 2014, la Settimana Verde internazionale, ovvero la Fiera dedicata all’agricoltura più importante a livello mondiale e che si chiude il prossimo 26 gennaio. Ha partecipato alla manifestazione anche Carlo Petrini che al termine del corteo ha preso la parola sul palco dicendo:

Il nostro messaggio oggi è chiaro: se l’Europa perde i piccoli agricoltori e le sue famiglie di agricoltori perde la sua storia, la sua cultura e la sua identità e nulla esisterà più.

In 30 mila a Berlino contro l’agrobusiness

Alla manifestazione vi hanno preso parte assieme alle associazioni ambientaliste anche gli agricoltori che hanno portato 70 trattori spiegando che sono i primi a essere stanti dell’agrobusiness. Tra le richieste anche l’accordo di libero scambio tra UE e USA conosciuto anche come TTIP ovvero Transatlantic Trade and Investment Partnership. Praticamente gli Usa piuttosto che combattere le esportazioni provenienti dall’Europa hanno pensato di inglobarle rendendo più conveniente delocalizzare le produzioni negli Stati Uniti. La porta del libero accesso porterebbe dai noi anche una serie di prodotti fino a oggi rimasti fuori come il pollo al cloro o gli OGM. Ovviamente anche l’Italia è molto coinvolta in questa trattativa che però si sta svolgendo sotto silenzio sebbene molto sostenuta dal nostro Paese e gestita dal ministero per lo Sviluppo economico. In Germania l’associazione BUND ha pubblicato il dossier FleishAtlas 2014 in cui analizza la produzione e il consumo di carne. I numeri sono impressionanti: nella sola Germania si macellano ogni anni 58 milioni di suini, 630 milioni di polli e 3,2 milioni di bovini numeri che li portano a conquistare il triste primato di “campioni europei”. Globalmente, però, i tedeschi non sono i primi: negli Stati Uniti la società “Tyson Foods” macella più di 42 milioni di animali in una sola settimana, in Cina sono macellati più di 660 milioni di suini all’anno. Il prezzo per la crescente domanda di carne include tutti gli effetti collaterali indesiderati, quali scandali alimentari, abuso di antibiotici o residui di ormoni nella carne.

Fonte:  Attac,Greenpeace De, Süddeutsche, BUND